La Voce 24

Sulla clandestinità

giovedì 29 marzo 2007.
 

La redazione ha ricevuto la lettera di un compagno:
la pubblica inserendo dopo ogni domanda la risposta redazionale.

Cari compagni della CP,

sono un componente della “carovana del (n)PCI” e da anni contribuisco alla lotta per la sovversione del sistema capitalista e l’instaurazione del socialismo nel nostro paese. Da ormai molto tempo condivido la 7° discriminante (la natura clandestina del partito), per tre motivi principali:

1- penso che non si possa accordare nessuna fiducia alla borghesia imperialista (in particolare a quella italiana, che con il Fascismo, l’utilizzo della Mafia in campo contro-rivoluzionario, il regime DC, la strategia della tensione, Gladio ha fatto scuola alla borghesia di tutto il mondo);

2- penso che la clandestinità non sia una cosa che si riesce a improvvisare nel momento in cui il comunismo sarà messo fuori legge (lo sbandamento vissuto dal vecchio PCI insegna: e, soprattutto, oggi dobbiamo tener conto di questo principio poiché non abbiamo alle nostre spalle né l’URSS né l’Internazionale Comunista, le quali diedero un sostegno importantissimo al vecchio PCI nella sua riorganizzazione nella clandestinità);

3- la clandestinità fornisce la possibilità di dibattere a fondo tutte le questioni, fornisce la libertà di analisi perché libera dai vincoli imposti dalla classe dominate per l’elaborazione, il dibattito e la diffusione delle idee: in sintesi, l’autonomia organizzativa fornisce gli strumenti per sviluppare al meglio l’autonomia ideologica dalla classe dominante.

Studiando i bilanci realizzati dalla CP in seguito agli arresti dei compagni Maj e Czeppel nel 2003 e nel 2005, emerge in maniera chiara che, in questa fase della costruzione del partito, l’aspetto principale per continuare ad avanzare è: rafforzare la composizione numerica del centro del partito (il nucleo di rivoluzionari di professione operanti in clandestinità). La qualità è legata alla quantità. Mi sono quindi sentito chiamato in causa, come penso buona parte dei componenti della “carovana”. Mi sono detto che non è un atteggiamento degno di un comunista, di un’avanguardia continuare a schivare l’assunzione dei nuovi e importanti compiti imposti dalla situazione. Allo stesso tempo però non nego che nutro ancora delle resistenze “a fare il salto”. Mi sono auto-analizzato, per cercare di capire l’origine di queste mie resistenze e superarle una volta per tutte. E alla fine sono giunto a questa conclusione: le mie resistenze sono il prodotto della contraddizione tra il vecchio e il nuovo, tra il vecchio (attuale) sistema di vita e il nuovo (futuro) sistema di vita -il rivoluzionario di professione operante in clandestinità. Il vecchio prevale sul nuovo perché del nuovo non so molto. E questo alimenta i dubbi, le incertezze. In sintesi: le resistenze.

Mi permetto quindi di dar voce ai miei dubbi e alle mie incertezze, sperando di poter ricevere delle risposte e di poter cosi superare -attraverso la conoscenza -le mie resistenze. Vi prego di scusarmi se alcune delle domande avanzate risulteranno essere indiscrete, oppure sembreranno banali. Penso però di sollevare attraverso i seguenti interrogativi delle domande che, in maniera aperta o meno, buona parte dei componenti della “carovana” si pone. Ritengo quindi un impegno politico
-  ossia un contributo alla crescita collettiva -porli senza vergogna. Le mie domande sono un contributo a far chiarezza e a spazzare via le incertezze, per avanzare nel consolidamento e rafforzamento del partito che ci guiderà vittoriosamente verso il socialismo.

1- Quando penso alla vita nella clandestinità, sono portato ad immaginare una vita condotta schivando, per motivi di sicurezza, il contatto con tutte le persone, una vita caratterizzata insomma da una quasi totale solitudine. Ma è effettivamente così?

R. È utile una premessa. Qui e di seguito parleremo dei “rivoluzionari di professione operanti in clandestinità”, cioè compagni che si dedicano completamente all’attività del Partito e non svolgono altro lavoro (oppure, se ne svolgono uno, lo svolgono solo a fini di copertura o per necessità transitorie e accidentali) e che vivono con generalità diverse da quelle dell’Anagrafe. In realtà la struttura centrale del Partito è formata anche da compagni non schedati dalla polizia (con questo termine indico genericamente ogni forza della controrivoluzione preventiva: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, servizi segreti, polizie private, ecc.) perché non hanno mai svolto alcuna attività politica palese (“alla luce del sole”) -i cosiddetti insospettabili. Bisogna infatti partire dal criterio che tutte le persone che hanno svolto attività politica o sindacale palese, oppure che ricoprono ruoli rilevanti dal punto di vista della “sicurezza nazionale”, sono schedati e controllati (le notizie sulle schedature SISMI emerse questa estate in relazione al rapimento di Abu Omar e di altri esponenti (veri o supposti tali) della rivoluzione democratica dei popoli arabi e musulmani e all’eliminazione di Adamo Bove hanno solo dato l’ennesima conferma). I due tipi di compagni che ho indicato, invece, sono persone libere dal controllo della polizia (anzi alcuni di essi su incarico del Partito creano le condizioni per controllare essi gli esponenti della controrivoluzione preventiva). Vivono però in un territorio controllato dalla polizia, quindi devono stare attenti a non destare sospetti, a non richiamare su di loro l’attenzione, a non far trapelare la loro vera unica o principale attività. Quindi devono “confondersi tra le masse”, vivere il più possibile “come tutti”, essere il più possibile “anonimi”.

Venendo ai “rivoluzionari di professione operanti nella clandestinità”, essi, nei limiti anzidetti, non solo possono, ma di regola devono stabilire relazioni personali, evitando solo di incappare in persone che a loro volta siano schedate o comunque sotto controllo e in particolare evitando di frequentare compagni (i contatti con compagni del Partito sono solo “incontri organizzati”: motivati, previsti e fatti con le precauzioni di sicurezza del caso). Devono essere relazioni personali stabilite a partire dalla nuova identità e dalla nuova personalità (biografia, professione e status familiare) che il compagno ha assunto. Più un compagno è capace di stabilire larghe relazioni personali, meglio è. Ovviamente la necessità di stabilire relazioni dipende molto dal contesto in cui uno abita: in alcune città e quartieri i vicini di pianerottolo che non si parlano sono la norma, in altri sarebbero un’anomalia che desterebbe curiosità, paure, sospetti, attenzione e magari segnalazioni e controlli. Vi sono compagni che nonostante il buon lavoro clandestino svolto, sono riusciti a stabilire anche relazioni di coppia con partner ignari della vera attività del compagno. Altri hanno stabilito solide amicizie personali. Le condizioni di vita prevalenti nelle grandi metropoli, la varietà di mestieri presente, la diffusa separazione tra casa e lavoro, tra lavoro e famiglia, l’individualismo prevalente, ecc. diventano fattori favorevoli alla clandestinità.

Ovviamente bisogna fare attenzione a che i rapporti non diventino tali da implicare comportamenti incompatibili con la condizione del compagno: il compagno, sottraendosi ad essi, diventerebbe una persona strana, sospetta, una persona che chiaramente “nasconde qualcosa”. Vaste relazioni possono essere di grande aiuto nella clandestinità: capita che servano cose e operazioni che una persona normale fa senza difficoltà e che viceversa costano tempo, lavoro e risorse a chi le deve fare senza lasciare traccia del proprio passaggio.

2- Qual è il rapporto tra individuo e collettivo nella clandestinità -il compagno opera principalmente solo?

R. Dipende. A volte capita di dover passare lunghi periodi (mesi, anche anni) senza contatti personali con membri del Partito. Altre volte capitano convivenze anche troppo strette. Bisogna adattarsi a vivere meglio possibile gli uni e le altre e a trarre quanto di positivo ogni situazione presenta. Quello di cui molti compagni sentono fortemente la mancanza sono tre cose: i rapporti che correntemente si stabiliscono nel corso della lotta di classe, la vita del collettivo di base del Partito (cellula, squadra), i rapporti familiari.

I primi non ci possono proprio essere, salvo che con i compagni del Partito con cui capita di lavorare in squadra. Ma si tratta di una rapporto diverso da quello che si ha con i compagni di lavoro, di quartiere, di scuola con cui si lotta assieme contro il padrone e le sue Autorità, facendo i conti con i diversi livelli di coscienza e di impegno e con le particolarità personali di ciascuno, nel corso del quale si combinano i diversi aspetti della vita e della personalità di ogni individuo. Nella nostra condizione incontri solo compagni che hanno già fatto la tua stessa scelta di vita: devi imparare a sviluppare un rapporto umano a partire da questa scelta comune e guardando avanti. In positivo, hai a che fare con persone che hanno già chiare una serie di cose e con cui puoi confrontarti a un livello più alto di conoscenze e di problemi: puoi discutere di quello di cui probabilmente non potresti discutere con nessuno dei tuoi compagni di lavoro, di caseggiato, di scuola, perché non sarebbero interessati e comunque per lo più non sono ancora neanche capaci di capire di cosa si tratta.

I secondi sono un capitolo a sé. Si dice comunemente che la clandestinità implica una parziale rinuncia alla democrazia nel Partito e favorisce l’autoritarismo, uno stile di lavoro di tipo militare. In parte è così. La condizione tipica di lavoro non è un collettivo riunito che fa un bilancio delle esperienze, discute un’analisi della situazione e prende a maggioranza una decisione. Il dibattito si svolge principalmente attraverso lettere e comunicazioni interne, senza poter guardare i compagni in faccia e senza il confronto che il contatto diretto permette. Le decisioni, salvo nei casi in cui sono espressamente previste commissioni e gruppi di lavoro, sono prese dal responsabile e arrivano come direttive. Ognuno le applica lealmente, attivamente e scrupolosamente, salvo far presente, nelle forme e nei tempi previsti, le proprie eventuali obiezioni e fare poi il bilancio sui risultati, mettendo in chiaro meglio che sa positivo e negativo, condizioni favorevoli e condizioni sfavorevoli. Insomma, un rapporto che ha poco in comune con quello che oggi è il rapporto spontaneo, corrente tra compagni di lotta delle classi oppresse. Risente molto della condizione particolare in cui vive il clandestino, della compartimentazione e dei “rapporti organizzati” che sono regola della sua vita. Obbliga a un livello superiore di rapporto: più astratto, più schematico, ma anche più netto, intellettualmente più elevato, con una maggiore assunzione di responsabilità.

Nelle nostre condizioni, cioè nell’ambito di un partito clandestino, il lavoro collettivo spesso non è fatto di un lavoro spalla a spalla, ma di coordinamento a distanza, di sintonia, di rispetto di direttive, tempi e modi per raggiungere con un lavoro comune ma differenziato, un obiettivo comune. Per questa ragione la cosa più importante che i compagni devono imparare in proposito, anche per diventare bravi a vivere in collettivo, è concepire ed eseguire ogni aspetto del loro lavoro come un pezzo di una grande macchina che funziona con l’intervento simultaneo di diversi compagni non necessariamente (anzi raramente) operanti fianco a fianco, come operai che lavorano fianco a fianco in un reparto. Nel nostro caso, l’ambito collettivo in senso fisico è secondario e praticamente è raro.

Il nostro lavoro mette i compagni di fronte a difficoltà alcune delle quali possono essere superate solo provando direttamente sul campo a superarle. Ma prima di tutto questi compagni devono avere assimilato profondamente il significato ideologico e politico del loro ruolo. Solo così avranno i mezzi per superare qualsiasi altro aspetto contingente che riguarda anche (ma non solo) la vita collettiva. La mancata

o non sufficiente assimilazione di questa concezione, normalmente non impedisce o non comporta nulla di “fatale”: nel nostro caso invece sì. Da questo punto di vista dobbiamo imparare dai nostri errori e non contare troppo, come a volte abbiamo fatto, sulla disponibilità come elemento fondante rispetto alla capacità. La buona volontà è un’ottima base, indispensabile. Ma da sola non basta.

I terzi sono una privazione di cui il clandestino sente la mancanza, come l’emigrante, il prigioniero, il soldato. Per alcuni versi anche peggio, perché anche la corrispondenza è sottoposta a molte limitazioni e di fatto è quasi impossibile un rapporto epistolare bilaterale, a meno che tra i familiari ci sia qualcuno politicamente molto impegnato e del tutto affidabile. Il nostro ideale è grande e merita ben dei sacrifici. Senza questi sacrifici è impossibile realizzarlo.

Detto questo, occorre anche dire che il Partito (come teoria, criteri, regole, ecc.) e in concreto chi dirige, si preoccupa di dare ad ogni compagno condizioni di vita e formazione nella misura necessaria a resistere alle difficoltà, svolgere il proprio lavoro e progredire. Vero è anche che “si impara a fare facendo”. Il declino del movimento comunista, il lungo periodo di predominio dei revisionisti moderni e il crollo finale ci impediscono di usufruire del patrimonio di esperienze accumulato in questo campo dal movimento comunista e ci obbligano a imparare dalla nostra stessa esperienza, facendo errori dai quali impariamo come non fare. Quindi sono inevitabili errori e a ogni compagno si chiede di partecipare alla costruzione del Partito anche da questo lato, facendo presente al suo dirigente i problemi che incontra, le difficoltà che supera e come le supera: insomma discutendo in modo che la sua esperienza serva a chi segue. Un rapporto franco e leale, che combina disciplina nell’esecuzione delle direttive e nell’attuazione della linea con l’autonomia nel vedere e riflettere e con la lealtà nel conferire le proprie vedute al centro, normalmente tramite il proprio dirigente.

3- Quali sono le caratteristiche psicologiche che un rivoluzionario di professione operante in clandestinità deve avere?

R. A parte una forte dedizione alla causa, una buona capacità di autocontrollo e di disciplina e la disponibilità a vivere il fatto di essere diretto e di dover obbedire come una necessità funzionale allo sviluppo del Partito e al successo della nostra causa e non come una menomazione personale (“non sono mica un idiota!”) e una messa in discussione delle proprie capacità, direi che tutti caratteri vanno bene. Si tratta di assumere una personalità e un ruolo di copertura, una “faccia” da presentare al pubblico che sia conforme al carattere di uno. Se uno tende ad essere un musone, non può dire che fa il comico nel teatro del suo paese o l’animatore in un centro sociale!

4- Per un rivoluzionario di professione operante in clandestinità è possibile avere rapporti di coppia e “mettere su famiglia”? E se un compagno decide di diventare un rivoluzionario di professione ma ha già moglie e figli?

R. Avere rapporti di coppia certamente sì. Anzi sono un elemento di forza per la vita clandestina. Una coppia crea condizioni di maggiore sicurezza e ispira maggiore fiducia nei contatti. In generale è la condizione ideale, se entrambi i compagni sono d’accordo. Una coppia si può creare nella clandestinità. Una coppia può passare per intero nella clandestinità. Tenere con sé bambini nella clandestinità è piuttosto difficile. In generale lo si evita.

Se un compagno (una compagna) che ha già moglie (marito) e figli è disponibile a passare nella clandestinità, salvo casi particolari bisogna che lasci la famiglia, come se emigrasse, andasse in prigione o fosse chiamato sotto le armi.

5-Con quali criteri si gestiscono i rapporti con i genitori, i parenti, ecc. una volta che si è nella clandestinità?

R. Bisogna gestirli a distanza, sotto la direzione del proprio responsabile e difficilmente sono bilaterali, come abbiamo già detto. Vero è che tramite l’indirizzo email del Partito, la famiglia se ne è capace può fare arrivare notizie e saluti e inviare messaggi ai compagni in clandestinità. In generale si tiene conto della classe di appartenenza del compagno. Il compagno non deve mai subordinare la propria scelta di passare alla clandestinità al consenso della famiglia. Sarebbe un’inversione dei livelli. Uno scaricare sulla famiglia le proprie responsabilità. Vale per la clandestinità quello che vale per altre scelte che un rivoluzionario deve fare: è lui che deve decidere, poi, una volta presa la decisione, sta a lui e al Partito spiegare meglio possibile ai familiari la scelta e aiutarli ad accettarla. Più la famiglia è vicina alla nostra classe di riferimento, la classe operaia, più a passaggio fatto si cerca di far capire le ragioni della nostra scelta. Spesso le famiglie delle classi popolari, pur avendo paura e provando dispiacere, sono solidali con il comunista che passa nella clandestinità. I compagni che si dicono disponibili a questo e a quello, salvo che ... hanno famiglia, in realtà peccano ancora di opportunismo. Se per qualche motivo vengono a mancare (gli capita un incidente, sono chiamati sotto le armi, devono emigrare, sono arrestati, ecc.), la famiglia trova un nuovo assetto. Nel caso concreto, il Partito fa il possibile per aiutarla.

6-Dal punto di vista economico, fare il rivoluzionario di professione operante in clandestinità, significa che è il partito che stipendia il compagno, oppure il compagno deve fare anche altri lavori, oltre a quello politico, per vivere?

R. Normalmente si lavora a tempo pieno per il Partito. A volte però occorre fare lavori di copertura. Inoltre bisogna essere disponibili ad arrangiarsi con qualunque mestiere, se sopravvengono momenti difficili per il Partito o se si perdono i contatti.

7-Nel caso in cui si riscontra che un compagno non è idoneo per fare il rivoluzionario di professione operante in clandestinità, è possibile uscire dalla clandestinità?

R. Certamente sì. Anzi il Partito cerca di evitare che restino inseriti nella struttura centrale del Partito compagni che non si trovano più a loro agio, non lavorano più con slancio ed entusiasmo. Quando occorre, il Partito fissa un percorso di rientro che tiene conto, per i modi e i tempi, della sicurezza del lavoro del Partito e delle probabili o comunque possibili azioni della polizia. Ma il rientro è comunque possibile.