La Voce 18

05 - Lo stile di partito

venerdì 2 febbraio 2007.
 

Lo stile di partito

1.  Sulla disciplina di partito

2.  L’avversione istintiva nei confronti del partito

3.  La scienza del partito e l’empirismo


 

 

 

Sulla disciplina di partito

 

La forza del nostro partito comunista si basa in primo luogo sulla giustezza della linea, in secondo luogo sulla disciplina nella sua attuazione. La disciplina di partito riguarda sia i rapporti tra i collettivi (le organizzazioni) del partito e la sua direzione, sia i rapporti tra gli indivdui e il collettivo a cui ogni membro del partito appartiene. Vi è una disciplina generale di partito e una disciplina di ogni singolo collettivo. Lo spirito e la concezione piccolo-borghese rendono gli individui particolarmente restii alla disciplina di partito. In ogni campo di lavoro, in ogni collettivo, ogni membro del partito deve contribuire con consapevole disciplina alla realizzazione della linea che in ogni collettivo è impersonata dalla direzione. Linea giusta e consapevole disciplina formano una unità di opposti. A lungo andare l’uno non può esistere senza l’altro. Tuttavia si tratta di due elementi distinti della vita del partito. In generale la linea giusta è l’elemento principale e la consapevole disciplina il secondario. Ma in situazioni concrete il ruolo può invertirsi.

Quando si tratta di decidere la linea da seguire, ogni compagno ha il diritto ma anche il dovere di esprimere la sua opinine e di conferire al collettivo la sua esperienza. Il collettivo nella sua elaborazione deve tenere conto dell’esperienza di ogni suo membro. Una volta decisa a maggioranza la linea da seguire, tutto il collettivo e ogni suo singolo membro devono responsabilizzarsi perché la linea sia attuata. La disciplina del partito comunista è adesione volontaria, attiva, creativa dell’individuo all’attuazione della linea dell’organizzazione. La disciplina di partito comporta che ogni suo membro lavori con creatività e iniziativa all’attuazione della linea, che impegni nell’attuazione tutte le sue doti e le sue risorse, fatta salva la divisione dei compiti.

Ad esempio, se la linea decisa è che un locale deve essere mantenuto pulito, la direzione dispone e deve disporre che (nell’ambito della divisione del lavoro) qualcuno si occupi della pulizia espressamente, con metodo e con gli strumenti professionalmente idonei della pulizia. Ma ogni compagno che frequenta il locale deve individualmente e spontaneamente non solo evitare di sporcare, ma anche provvedere a rimuovere lo sporco che può essere rimosso alla buona, individualmente e far notare a chi di dovere (all’incaricato della pulizia o al suo dirigente) le lacune nella pulizia e nell’organizzazione della pulizia o nel comportamento collettivo o individuale rispetto alla pulizia del locale che è obiettivo e linea di comportamento comune.

Per questo la direzione deve far conoscere a ogni compagano coinvolto nella questione la linea di comportamento, le motivazioni per cui quella linea è adottata e gli obiettivi che attraverso quel comportamento del collettivo la direzione si proprone di raggiungere. In questo modo si fa anche formazione di ogni compagno a dirigere gli affari pubblici e si stimola ogni compagno a partecipare alla gestione della cosa pubblica. Nella valutazione di ogni singolo compagno non bisogna mai omettere la valutazione del suo comportamento rispetto a compiti e linee comuni, della cui attuazione non è espressamente e individualmente incaricato, ma alla cui realizzazione inevitabilmente partecipa semplicemente perché membro del collettivo.

Finché il singolo compagno o collettivo deve ricorrere al dirigente o all’organismo superiore per decidere come comportarsi nella situazione concreta, ciò significa che c’è la buona volontà di marciare uniti (per questo si chiedono istruzioni e direttive), ma non c’è ancora la capacità di orientarsi da soli, di decidere autonomamente. Ciò significa che non c’è ancora una unità profonda, una comune concezione del mondo, un metodo di conoscenza e analisi comune, per cui autonomamente si decide la linea da seguire nel caso concreto e si trova che è la linea che anche l’organismo dirigente avrebbe indicato.

La minoranza deve attuare la linea della maggioranza, come se fosse convinta che la maggioranza ha ragione e che la divergenza verrà risolta (chiarita nei suoi vari aspetti, ogni particolare assumerà i suoi connotati reali, superata) nel corso dell’azione. Così si risponde alla questione: ma la minoranza può mantenere e continuare a difendere la sua opinione? In sostanza no. La minoranza deve accettare che si è sbagliata o che il collettivo non aveva elementi sufficienti per decidere una linea diversa da quella che ha deciso. Solo una accresciuta esperienza comune eventualmente li fornirà. Solo in sede di bilancio dell’esperienza è possibile e doveroso riprendere in esame la questione, ricchi dell’esperienza compiuta e dei suoi risultati e verificare se la divergenza è superata. A quel punto l’intero collettivo ha più elementi per raggiungere una comprensione superiore della questione, per decidere una linea più giusta e raggiungere un’unità superiore alla semplice sottomissione per disciplina della minoranza alla maggioranza. 

Questo obbliga ogni compagno e tutto il collettivo a impegnarsi nella formazione ideologica e politica di ogni membro del collettivo. Il buon livello ideologico e politico di ogni membro del collettivo è la condizione perché le decisioni del collettivo siano il meglio che esso può decidere. I membri di un collettivo non devono avere livelli troppo diversi di adesione ideologica e politica al partito. Se ci sono nello stesso collettivo compagni di livelli troppo diversi, non ci può essere una effettiva democrazia e una effettiva disciplina comuniste. Compagni di livelli molto diversi devono far parte di collettivi diversi, di distinte organizzazioni del partito.

Di fatto il rapporto minoranza-maggioranza che vige nel partito e in ogni suo collettivo, diventa difficile fino a diventare impossibile più la divergenza coinvolge non diversi risultati dell’inchiesta sulla situazione concreta, ma divergenze di concezione del mondo, di punti di vista. Ma proprio il vincolo disciplinare (e la sua rottura che di fatto si avrà) serve a distinguere le divergenze che si riassorbono (dovute al contrasto tra il vecchio e il nuovo, tra il vero e il falso) da quelle inconciliabili, perché facenti capo a due concezioni del mondo opposte (dovute al contrasto di classe). A sua volta una direzione e una maggioranza avveduta deve fare attenzione alle ragioni della minoranza: non per concedere e conciliare, ma come allarme e indizio della parzialità delle proprie posizioni, di errori (eventualmente secondari), di limiti delle proprie vedute e inchieste o dell’inizio di una lotta tra due linee. Insomma non deve trascurare le divergenze né accontentarsi di aver vinto nello scontro.

Uno degli aspetti della disciplina di partito è la divisione del lavoro tra i collettivi e, in ogni collettivo, tra i suoi membri. Il lavoro particolare di cui ogni compagno è incaricato è un apporto particolare ma determinante al lavoro generale. Lo scritto di Mao Tse-tung Al servizio del popolo (vol. 9 di Opere di Mao Tse-tung) illustra lo spirito della divisione del lavoro tra i membri del partito.



 

L’avversione istintiva nei confronti del partito comunista

 

Da decenni senza partito e abituati quindi ad arrangiarsi individualmente, la maggior parte degli esponenti delle FSRS, in particolare i capi, spontaneamente riflettono nel loro modo di essere e di pensare la natura della piccola borghesia. Non uso il termine come un insulto, ma nel senso sociologico che vado subito a specificare. Il piccolo-borghese e chi è impregnato della sua mentalità per sua natura rifugge dal partito, si sente respinto dal partito, lo trova un impedimento per la sua individualità e la sua libertà, vi si sente a disagio, cerca di sfuggire alla sua disciplina, cerca di servirsene. Oggettivamente il piccolo-borghese oggi va dal lavoratore autonomo proprietario al lavoratore anche dipendente ma abbastanza specializzato da essere più vicino (per le relazioni sociali in cui è inserito nella pratica, anche rispetto al padrone da cui riceve un salario) alla condizione di chi vende il prodotto del proprio lavoro che alla condizione di chi vende la sua forza lavoro. Il lavoratore di questo tipo è per sua natura una persona che crede di essere indipendente, autonomo dalla borghesia vera e propria (che oggi è, tipicamente, la borghesia imperialista). La mentalità, il carattere e il comportamento piccolo-borghesi sono quelli che corrispondono alla natura piccolo-borghese, alla posizione del piccolo-borghese nella società borghese. Consistono nel ritenere di essere individualmente autonomo, indipendente; di potersi muovere in questa società individualmente per conto proprio; di potersi fare individualmente la propria vita come gli piace. In realtà il piccolo-borghese nella vita sociale e quindi anche individuale ha una limitata autonomia dalla borghesia imperialista. Non è proprietario di mezzi propri in quantità sufficiente per essere autonomo. Come classe, i piccolo-borghesi dipendono strettamente dalla borghesia imperialista. Individualmente quindi il piccolo-borghese è poco autonomo sia economicamente sia intellettualmente e moralmente. A differenza del borghese che invece dispone dei mezzi necessari alla propria attività individuale autonoma in misura superiore a quella minima che le concrete relazioni sociali - storicamente determinate per ogni concreta società - definiscono per consentire a un individuo un’attività individuale autonoma. Chi condivide la mentalità del piccolo-borghese, trova repulsione di fronte al partito. Oppure tende ad usare il partito come strumento della propria affermazione individuale, senza immedesimarsi nel partito. Insomma il contrario della mentalità a cui l’esperienza spinge il proletario vero e proprio. Costui esiste socialmente solo se si coalizza con altri. Solo a questa condizione ha nella vita della società borghese un ruolo che va oltre quello di strumento del padrone per valorizzare il suo capitale. Non ha le doti particolari e relativamente rare del lavoratore molto specializzato (dell’intellettuale di successo, dello scienziato, del professionista affermato, ecc.) che grazie ad esse è membro apprezzato della società ed è dotato di una certa autonomia anche individualmente. Il proletario tipico è rimpiazzabile ad ogni momento con relativa facilità con altri individui relativamente abbondanti. Solo il numero organizzato fa dei proletari una potenza sociale. Uno a uno non sono nulla, ognuno è rimpiazzabile in ogni momento. La loro associazione è una potenza politica e culturale: questo è il partito. Il piccolo-borghese si sente menomato dal vincolo di partito. Il proletario grazie al vincolo del partito riesce finalmente ad esistere socialmente. Come partito può fare cose che individualmente gli sono precluse, tanto che neanche si illude (come invece succede al piccolo-borghese) di poterle esercitare individualmente. Il proletario si sente realizzare nel partito, sente di dovere tutto al partito, nel partito e grazie al partito si sente finalmene libero (capace) di fare quello che individualmente neanche sognava di fare. Il piccolo-borghese sente di aver dato molto al partito. Credo di essermi spiegato: non parlavo del piccolo-borghese in termini di insulto, ma di categoria sociale relativamente vasta. Una vasta categoria sociale che solo con difficoltà si adatta a diventare un uomo di partito, la rotella di un ingranaggio, la cellula vivente di un organismo, una parte attiva di un insieme sociale organizzato.

I comunisti che provengono da questa categoria sociale devono compiere uno specifico percorso per integrarsi completamente nel partito. I proletari che hanno appreso la lotta politica e il comunismo negli ambienti delle FSRS sono anch’essi più o meno impregnati di quella mentalità. Sono abituati a una piccola autonomia, a poco potere, a piccoli risultati e a piccoli obiettivi. A pensare in piccolo e a sbrogliarsela individualmente. La costruzione del partito comunista implica la trasformazione di questa mentalità, lo sdoppiamento dell’adesione al comunismo dalla dipendenza dalla borghesia. L’uno deve dividersi in due. Tramite la critica, autocritica, trasformazione. È un processo che richiede tempo e sforzi, ma è un processo liberatorio, di emancipazione dalla borghesia imperialista, bello e di grande soddisfazione, creativo.


 

La scienza del partito e l’empirismo

 

Empiria. Il fatto, l’avvenimento, la descrizione, la data e il nome non sono ancora il concreto né il vero: sono l’empirico. A secondo delle circostanze a cui sono connessi, della catena genetica di cui fanno parte, del contesto a cui appartengono e in cui avvengono, hanno un significato del tutto diverso. Un individuo dà una spinta a un altro. Se questi è in cima ad un burrone si tratta di un omicidio. Se questi è sulla traiettoria di un sasso si tratta di un salvataggio.

Gli empiristi sostengono che il fatto, l’avvenimento, la descrizione, il nome e la data sono la verità, sono il concreto. La descrizione è la loro scienza. Essi si limitano all’accostamento o alla successione dei fatti. Non cercano la catena genetica, il meccanismo che lega i fatti l’uno all’altro.

La verità è la scienza del rapporto genetico che lega una cosa all’altra o che fa dipendere una cosa dall’altra. Noi cerchiamo la scienza delle cose. Non ci accontentiamo dell’accostamento spaziale o della successione temporale, della concomitanza, del rapporto estrinseco, del rapporto che esiste dal punto di vista dell’osservatore (che è stabilito da chi osserva le due cose). Cerchiamo il legame intrinseco, che connette e unisce le due cose come parti di un unico superiore insieme spaziale o temporale, prodotti della stessa unità o parti della stessa catena genetica. Questa conoscenza permette di riprodurre gli avvenimenti, di modificarne il corso, di fare.