Martin Lutero - Supplemento al n. 3 de La Voce

Presentazione

mercoledì 15 gennaio 2003.
 
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·  Un’illusione o una diversione?

·  La ricostruzione del partito comunista

·  Materialismo dialettico, materialismo storico e analisi della realtà

·  Dallo Stato Imperialista delle Multinazionali allo Stato Imperialista Corporativo? / Dal SIM al SIC?

·  Il governo dell’economia e il governo del conflitto di classe

·  Contraddizioni tra gruppi e tra Stati imperialisti

·  Teoria marxista dello Stato

·  Crisi e crisi generale

·  Attacco e difesa

·  Qual è il compito principale che i rivoluzionari devono svolgere in questa fase per far avanzare la rivoluzione socialista?

·  Perché una parafrasi?

 

 

Ogni cosa è infinitamente conoscibile (Lenin)

La verità ha sempre due lati: la realtà che essa disvela e la realtà che lascia ancora sconosciuta (Lao)

 

 

I Nuclei Comunisti Combattenti hanno annunciato che l’attentato compiuto a Roma il 20 maggio segna la ripresa dell’attività combattente e il rilancio dell’offensiva rivoluzionaria. Il governo D’Alema e molti portavoce qualificati della borghesia imperialista hanno immediatamente ripreso, avvalorato e amplificato l’affermazione degli NCC. "La rinascita delle BR" è diventata un luogo comune. Eppure nessuno ha indicato (e non esiste) alcun elemento concreto che induca a pensare che l’attentato del maggio ‘99 contro il prof. D’Antona implichi un’organizzazione o che avrà un futuro superiori a quelli dell’attentato compiuto nell’aprile ‘88 contro il prof. Ruffilli. Anche nel 1988 le BR-PCC proclamarono che l’attentato a Ruffilli era il segnale della ripresa dell’attività combattente e della fine della Ritirata Strategica proclamata dalle BR-PCC nel 1982. E la volontà non mancava. La borghesia dice che "la rinascita" del 1999 sarebbe dovuta alla "caduta di vigilanza", alla "sottovalutazione del pericolo". Il Comunicato che pubblichiamo spiega che la ripresa annunciata nel 1988 non ebbe seguito a causa della repressione messa in atto allora dalla borghesia imperialista. Se così fosse (ma non è), c’è forse motivo di ritenere che ora la borghesia imperialista non cercherà in ogni modo di reprimere e soffocare?

Una importante differenza con la situazione attuale è che allora, nel 1988, il governo De Mita e i portavoce qualificati della borghesia imperialista non avallarono il proclama della "rinascita delle BR". Ma questa differenza non basta a far diventare reale l’evento annunciato. Una condizione necessaria per condurre la nostra attività di comunisti e di ricostruttori del partito comunista è non confondere i desideri e le illusioni con la realtà, distinguere le parole dai fatti e non cadere vittime delle suggestioni e delle manovre degli amici e dei nemici. A questo fine occorre rifiutare le analisi diffuse dall’apparato di disinformazione della borghesia imperialista e analizzare i fatti alla luce della concezione materialista dialettica del mondo e col metodo materialista dialettico.

Le BR sono sorte negli anni ‘70 (e non a caso allora molte altre OCC sorsero) nel contesto delle grandi lotte rivendicative condotte dalla classe operaia e dal resto delle masse popolari ("autunno caldo" del ‘69, ecc.) e grazie alla grande fiducia che la classe operaia e le masse popolari nutrivano ancora nel socialismo (Rivoluzione Culturale Proletaria nella Repubblica Popolare Cinese, offensiva contro il revisionismo moderno lanciata dal Partito Comunista Cinese, resistenza vittoriosa del popolo vietnamita guidato dal partito comunista all’aggressione dell’imperialismo USA spalleggiato dagli altri Stati imperialisti; il crollo dei regimi revisionisti installati in gran parte del campo socialista sembrava una previsione fantasiosa, il sistema coloniale era crollato, le conquiste strappate dalle masse operaie dei paesi imperialisti erano enormi). Le Brigate Rosse sintetizzavano ed esprimevano, con i limiti del contesto politico e culturale dell’epoca (cioè con le idee e con le parole correnti all’epoca), la necessità di andare oltre le lotte rivendicative e le conquiste che allora ne derivavano, di lanciarsi all’attacco, di superare il sistema borghese, di conquistare il potere e di instaurare il socialismo: necessità inderogabile perché le conquiste allora strappate potessero consolidarsi ed espandersi. Questo e non la volontà o l’abilità dei loro promotori fu la causa principale dell’affermazione, della durata e del successo delle BR. E ciò avvenne nonostante la concezione ideologica e politica che le guidava, che restò nei limiti del contesto culturale all’epoca predominante nel nostro paese. Le BR criticarono la linea politica dei revisionisti moderni ("via pacifica e democratica al socialismo") che sostenevano che si poteva procedere di conquista in conquista fino al socialismo senza bisogno di rivoluzione e di conquista del potere ("le riforme di struttura" di Togliatti e di Berlinguer), ma non criticarono la concezione del mondo dei revisionisti moderni (non necessità della direzione della classe operaia tramite il suo partito comunista sulla forze rivoluzionarie, fine delle contraddizioni e delle guerre tra gruppi e Stati imperialisti) e restarono nell’ambito della concezione del mondo propria della cultura borghese di sinistra (Scuola di Francoforte). Esse giustamente misero in luce che per far uscire il movimento comunista dal revisionismo moderno in cui si era impantanato, non bastava ristabilire la continuità con il patrimonio e l’esperienza rivoluzionaria che lo aveva portato ai grandi successi raggiunti (ciò che cercavano di fare le organizzazioni marxiste-leniniste). Occorreva dare una risposta giusta ai nuovi problemi emersi nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria: fare riguardo alla rivoluzione socialista nei paesi imperialisti quello che la Rivoluzione Culturale Proletaria condotta nella Repubblica Popolare Cinese cercò di fare riguardo alla transizione verso il comunismo nei paesi socialisti. Non la campagna militare e politica della borghesia imperialista e l’efferatezza della repressione che essa mise in opera, ma proprio i limiti, non superati, della concezione del mondo che le guidava sono stati la causa principale della sconfitta delle BR (della "discontinuità nell’iniziativa combattente" dice il Comunicato) nei primi anni ‘80 quando, per precisi motivi su cui non ci soffermiamo in questa sede, vennero meno quelle condizioni che ne avevano permesso e determinato la nascita (e che, quindi, avevano determinato o sostenuto la volontà dei promotori e avevano alimentato un ambiente sociale ad essa corrispondente) e il successo politico raggiunto imponeva, pena la regressione, di compiere il salto in avanti della costituzione del partito comunista.

Sulla base di questa concezione materialista dialettica della società, non soggiacciamo né alle illusioni soggettiviste e volontariste degli autori dell’attentato di Roma né alle manovre diversive della borghesia imperialista. Siamo sicuri che qualche attentato contro esponenti importanti del governo, dello Stato, della NATO, della UE o in generale della borghesia imperialista (specialmente contro esponenti non particolarmente protetti: e solo in Italia sono decine di migliaia!) può essere compiuto nei prossimi mesi e anni dagli NCC, dalle BR-PCC e da qualunque altro gruppo e persino da singoli individui. È anzi probabile che simili attentati diventino più frequenti. Le nefandezze compiute dalla borghesia imperialista e dai suoi servi sono tante, cresce l’indignazione (e spesso anche la disperazione) che tutto ciò suscita tra le masse. In Italia i membri delle classi oppresse che la borghesia imperialista riduce alla disperazione del suicidio (circa 3.000 ogni anno) sono ancora molti di più di quelli che essa induce a rivolgere le armi contro esponenti della classe dominante. Singoli esponenti della classe dominante sono stati uccisi anche in precedenti periodi storici di incubazione della rivoluzione proletaria (basti ricordare gli attentati compiuti da anarchici all’inizio del secolo).

Confondere questi attentati contro singoli esponenti della borghesia imperialista, per quanto importanti essi siano, con l’attività politica svolta dalle BR negli anni ‘70 costituirebbe però una denigrazione del ruolo storico svolto dalle BR e un ulteriore tentativo di mascherare o seppellire i risultati da esse raggiunti. Denigrazione e tentativo frutti o di consapevoli manovre diversive o della rivisitazione della storia di quegli anni con gli occhiali deformanti del militarismo. Le BR non possono rinascere come OCC perché non esistono più le condizioni che determinarono la nascita delle OCC e ne permisero l’esistenza per un certo periodo (grandi lotte rivendicative e fiducia della classe operaia in se stessa), perché i risultati politici che potevano essere realizzati da una Organizzazione Comunista Combattente sono già stati raggiunti (dimostrazione che anche nei paesi imperialisti anche in una situazione non rivoluzionaria può operare una organizzazione comunista autonoma dalla classe dominante, critica della linea politica dei revisionisti moderni), perché la sconfitta delle BR ha messo in luce i limiti ideologici e culturali dell’epoca. In Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana (1984) le stesse BR-PCC hanno riconosciuto che dopo la Campagna di Primavera (1978) la lotta armata condotta da una OCC aveva dato tutto quello che poteva dare e che il salto che si poneva era la costituzione del partito comunista. Oggi le BR possono rinascere solo nella veste del nuovo partito comunista italiano, quel partito la cui costituzione era l’unica via di sviluppo e di vita che gli eventi indicavano alle BR all’inizio degli anni ‘80 e a cui tutta la loro stessa attività le aveva preparate, ma che richiedeva anche un’autocritica (un effettivo "riadeguamento" della concezione del mondo al patrimonio del movimento comunista e al materialismo dialettico) che le BR allora non seppero fare e da cui il Comunicato è ancora lontano, come cercherò di dimostrare.

Numerosi esponenti delle BR-PCC prigionieri dopo l’attacco alla Base USA di Aviano (settembre ‘93) hanno denunciato con forza il tentativo di far passare come linea delle BR-PCC la conduzione di qualsiasi attività combattente contro la borghesia. Essi hanno quindi molta cura (e il Comunicato segue la stessa linea) di proclamare che gli esponenti della borghesia imperialista colpiti dalle BR-PCC sono promotori determinanti della elaborazione o della realizzazione di progetti di stabilizzazione o di rafforzamento del potere della borghesia imperialista. L’attacco delle BR-PCC "manterrebbe aperti spazi alla iniziativa di classe" o addirittura concorrerebbe a determinare il nuovo assetto di potere della borghesia imperialista in senso meno sfavorevole al proletariato. I progetti di stabilizzazione o di rafforzamento del suo dominio messi in cantiere dalla borghesia imperialista in Italia e negli altri paesi imperialisti negli anni ‘80 e ‘90 sono stati progetti di rattoppo del vecchio regime per conservarlo, progetti di conservazione del regime esistente. In nessun paese imperialista la borghesia ha ancora imboccato su vasta scala e con decisione la via della mobilitazione reazionaria delle masse, che è la via della mobilitazione delle masse per sovvertire il regime esistente in nome della propria sopravvivenza, per la guerra in nome della propria sopravvivenza (per intenderci: il fascismo, il nazismo, il New Deal sono esempi di mobilitazione reazionaria delle masse). Quindi nessuno dei progetti di stabilizzazione o di rafforzamento del potere della borghesia imperialista messi in campo negli anni ‘80 e ‘90 ha raggiunto l’obiettivo dichiarato per motivi d’altro genere che l’attacco delle BR-PCC: precisamente per il procedere della nuova crisi generale del capitalismo che è anche ciò che ha reso instabili e sempre più deboli regimi che avevano retto bene la situazione negli anni ‘50, ‘60 e ‘70. Ne segue che vi sono tutte le condizioni perché gli esponenti delle BR-PCC dichiarino che il fallimento di quei progetti è dovuto alla loro attività combattente. È fuor di discussione che il progetto perseguito da De Mita alla fine degli anni ‘80 è caduto nel dimenticatoio e le BR-PCC affermano che vi è caduto grazie all’esecuzione di Ruffilli (aprile 1988). Ma una analisi complessiva del movimento politico dell’Italia, la constatazione che anche il progetto Craxi (o CAF) ha fatto la stessa fine del progetto De Mita senza intervento combattente delle BR-PCC, la constatazione che la svolta del ‘92 (Tangentopoli e dissoluzione della DC e del PSI) è sopravvenuta senza intervento combattente delle BR-PCC, la constatazione della crisi politica che avanza anche nei paesi imperialisti dove non operano organismi analoghi alle BR-PCC confermano che gli attuali regimi politici della borghesia imperialista non possono né consolidarsi né stabilizzarsi per cause diverse dall’intervento combattente delle BR-PCC. Resta inoltre il fatto, con cui ogni comunista deve fare i conti, che nel nostro paese, benché i progetti di stabilizzazione o di rafforzamento del potere della borghesia imperialista non siano andati in porto, l’accumulazione delle forze rivoluzionarie non ha fatto sostanziali passi avanti. E l’indebolimento e l’instabilità dei vecchi regimi borghesi senza accumulazione delle forze rivoluzionarie apre la strada alla mobilitazione reazionaria delle masse.

Il Comunicato che pubblichiamo ha il merito di indicare chiaramente che la "ricostruzione delle forze rivoluzionarie" è l’obiettivo del logoramento dello Stato che verrebbe conseguito dalle BR-PCC con le loro "iniziative combattenti". A differenza del fallimento dei progetti di stabilizzazione o di rafforzamento dei regimi attuali della borghesia imperialista, la ricostruzione delle forze rivoluzionarie non è una conseguenza inevitabile del procedere della crisi generale del capitalismo. Questa, proprio perché comporta la crisi degli esistenti regimi politici della borghesia imperialista e del sistema delle loro relazioni internazionali, costringe la società o sulla strada della mobilitazione rivoluzionaria delle masse o sulla strada della mobilitazione reazionaria delle masse. Ma quale delle due strade la società imbocca, ciò dipende proprio dalla giustezza o meno della linea politica seguita dai comunisti, dal successo o meno del processo di accumulazione e formazione delle forze rivoluzionarie e in definitiva dalla lotta politica tra le forze rivoluzionarie e le forze politiche della borghesia. La ricostruzione delle forze rivoluzionarie (e non il logoramento o l’indebolimento dell’esistente regime della borghesia imperialista) è quindi in definitiva l’obiettivo che verifica la bontà o meno delle linee politiche seguite dai comunisti e che decide dell’esito dello scontro tra classe operaia e borghesia imperialista, tra rivoluzione e controrivoluzione nella attuale crisi generale del capitalismo. L’esperienza del movimento comunista (e in particolare della prima ondata della rivoluzione proletaria), il patrimonio teorico del movimento comunista e l’analisi del concreto rapporto tra le classi e delle leggi che governano il movimento politico della nostra società indicano senza possibilità di dubbio che le forze rivoluzionarie possono accumularsi e formarsi solo attorno al partito comunista, strumento della direzione della classe operaia su di esse. Quindi indicano senza possibilità di dubbio che la ricostruzione del partito comunista è l’aspetto centrale di ogni realistico progetto di ricostruzione delle forze rivoluzionarie, così come indicano senza possibilità di dubbio che le forze rivoluzionarie possono prevalere sulle forze della controrivoluzione, ma solo se sono dirette da un partito comunista e secondo una linea giusta, cioè corrispondente alle leggi oggettive del movimento della società: scoprirle e applicarle è uno dei compiti che solo il partito può svolgere.

Per condurre le masse popolari fuori dalla attuale crisi generale, per condurre alla vittoria lo scontro tra classe operaia e borghesia imperialista, tra rivoluzione e controrivoluzione il primo compito che ci sta di fronte è quindi la ricostruzione del partito comunista. La costruzione delle forze armate rivoluzionarie e del fronte di tutte le classi e forze rivoluzionarie, quindi la costruzione del complesso delle forze rivoluzionarie, può essere solo il risultato della costituzione e dell’azione del partito comunista: può avvenire solo sotto la direzione della classe operaia e questa può esercitarsi solo attraverso il partito comunista.

Nelle righe che seguono cerco di mostrare i principali errori contenuti nell’analisi economica e politica del mondo, e della società italiana in particolare, e nella proposta politica avanzate nel Comunicato e di spiegare perché, proprio perché non pone come compito prioritario la ricostruzione del partito comunista, tale proposta non può neanche portare alla ricostruzione delle forze rivoluzionarie, nonostante gli elementi positivi che essa presenta.

 

 

Scopo di questo fascicolo è l’esame dell’analisi economica e politica del mondo, e della società italiana in particolare, e della proposta politica esposte nel Comunicato emesso a nome delle nuove BR-PCC, già NCC, come rivendicazione dell’attentato compiuto il 20 maggio ‘99 a Roma contro il prof. Massimo D’Antona.

In questa sede non mi soffermo invece ad illustrare la natura del "lavoro" che D’Antona svolgeva per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di alcuni ministeri. È già stato illustrato sui quotidiani borghesi, è illustrato nel Comunicato stesso, ne ha parlato anche il n. 2 di La Voce .

Gran parte del fascicolo è costituita dalla parafrasi del Comunicato, per dar modo a ogni lettore di farsi una sua opinione sia sulla concezione e sulla linea che esso propone sia sulle critiche esposte qui e nelle note.

Nella presentazione che segue cerco di dimostrare (e leggendo la parafrasi il lettore potrà constatare)

1. che l’autore prende una posizione giusta su due questioni discriminanti nella lotta attualmente in corso per la ricostruzione del partito comunista (forma della rivoluzione socialista e natura clandestina e non segreta del partito comunista);

2. che la concezione del mondo e la proposta politica esposte dall’autore del Comunicato sono sostanzialmente sbagliate: esse contengono elementi decisivi che sono in contrasto sia con la realtà nella quale conduciamo la nostra lotta sia con l’esperienza e il patrimonio teorico del movimento comunista.

Il nuovo partito comunista sarà (e non potrà non essere) una unità organizzativa basata sull’unità ideologica, cioè sull’unità nella concezione del mondo e nella linea politica. Noi lottiamo per condurre le FSRS e i lavoratori avanzati a costruire il partito. Quindi è un aspetto essenziale della nostra lotta regolare i conti con le concezioni ideologiche correnti nelle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in particolare nelle più importanti. In questo quadro le BR-PCC hanno un’importanza particolare e per ogni compagno impegnato nella preparazione del Manifesto-Programma del nuovo partito comunista è, direi quasi indispensabile esaminare con cura la concezione del mondo e la proposta politica avanzate nel Comunicato a nome delle BR-PCC. Ciò per almeno due motivi.

1. Per il ruolo storico svolto dalle BR dei cui risultati godiamo gli aspetti positivi e paghiamo gli aspetti negativi e per il ruolo politico che esse, e in particolare le BR-PCC (denominazione assunta dalle BR nel dicembre 1981 per decisione del loro Comitato Esecutivo), ancora esercitano.

Le Brigate Rosse occupano un posto importante nella storia del movimento comunista italiano e internazionale. Esiste ancora oggi in Italia un "partito dei rivoluzionari prigionieri" (vedasi Il Bollettino dell’ASP n. 57, pag. 18-20) che deriva dalla lotta condotta dalle BR negli anni ‘70 e che gode di una notevole autorità presso le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista del nostro paese e ancora più tra i giovani. La costruzione del partito comunista è una necessità della classe operaia e delle masse popolari: senza partito comunista tutti i tentativi di contrastare la rovina e la guerra in cui la borghesia imperialista sta trascinando le masse popolari sono inconcludenti. Quindi il partito comunista sarà costruito. Ma per raggiungere il successo i suoi promotori devono essere guidati da una concezione del mondo e da una linea politica giuste, cioè corrispondenti alle leggi oggettive del movimento della società in generale e in particolare della lotta tra le classi e all’esperienza del movimento comunista che in larga misura è espressa nel suo patrimonio teorico. È quindi della massima importanza esaminare con cura e onestà la concezione del mondo e la linea politica che stanno alla base di una proposta come quella avanzata nel Comunicato dalle nuove BR-PCC (costituite dai Nuclei Comunisti Combattenti) e, almeno in una certa misura, avallata da una parte del "partito dei rivoluzionari prigionieri".

Il successo di una proposta non dipende principalmente dalla buona volontà dei proponenti, dalla loro determinazione e dall’eroismo con cui si dedicano alla causa: aspetti di cui quindi in questa sede non ci occupiamo. La costruzione del partito comunista perseguita con determinazione ed eroismo, ma guidata da una concezione del mondo e da una linea politica sbagliate porta alla sconfitta e alla sconfitta segue o l’autocritica o l’abbandono della lotta. Una concezione giusta è un patrimonio prezioso. Se anche alcuni di quelli che in un certo momento l’hanno avanzata dovessero abbandonare la lotta, le condizioni oggettive delle masse popolari faranno sorgere altri che la faranno propria e grazie ad essa condurranno a compimento l’opera storicamente necessaria. Da tempo la ricostruzione del partito è un bisogno oggettivo della classe operaia e delle masse popolari italiane e l’umanità non si pone mai compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni: quindi il successo di un particolare tentativo volto alla costruzione del nuovo partito comunista dipende innanzitutto dalla concezione del mondo e dalla linea politica che guidano quelli che aspirano a costruirlo.

2. Perché l’autore del Comunicato dice alcune verità di importanza capitale nella attuale situazione, per le FSRS che vogliono ricostruire il partito comunista e che, quindi, devono innanzitutto definire il suo programma ("condividere il programma" è una condizione per fare parte del partito, che quindi deve costituirsi su un programma: è una delle leggi acquisite del movimento comunista fin dal lontano 1903). Alcune verità su cui oggi tra le FSRS italiane la confusione supera la divisione: il giorno che arriveremo a divisioni nette e argomentate, avremo già fatto un grande passo avanti. Proprio per questo è preziosa la presa di posizione dell’autore del Comunicato. Ma proprio per questo è anche importante precisare bene queste verità con i necessari distinguo, per ... non raccogliere assieme al bambino anche tanta acqua sporca da soffocare il bambino! Esse si sintetizzano in due punti.

2.1. "La rivoluzione socialista anche nei paesi imperialisti si svilupperà come guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata". Non aver posto chiaramente questa legge ai suoi partiti è uno dei limiti principali dell’Internazionale Comunista (1919-1943), che hanno impedito il suo successo nei paesi imperialisti. Lenin aveva bensì detto: "La rivoluzione verrà a prezzo di una guerra civile, ma è una cosa tanto più difficile, quanto più progredito, quanto più sviluppato è il paese; in Germania domina il capitalismo monopolistico di Stato, perciò la rivoluzione in Germania sarà cento volte più distruttrice e più rovinosa che in un paese piccolo-borghese e là ci saranno enormi difficoltà e caos e squilibri enormi" ( Rapporto sui compiti immediati del potere sovietico , 29 aprile 1918, vol. 27). Ma ciò è stato inteso, e penso che anche Lenin lo intendesse, nel senso di una guerra civile che seguisse e consolidasse la conquista del potere effettuata nel corso di un sollevamento generale. Engels nella sua Prefazione del 1895 a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 , parlando dei paesi europei, aveva espressamente escluso che ciò potesse avvenire, ma la Rivoluzione d’Ottobre sembrava dare torto a Engels. Del resto che Lenin allora sottovalutasse l’accumulazione delle forze che nei paesi imperialisti deve precedere la conquista del potere (come Engels aveva insegnato) è confermato dalla fiducia che egli ebbe nel periodo 1918-1920 che la classe operaia potesse conquistare il potere in paesi come la Germania, l’Italia, l’Inghilterra e altri in cui non esisteva ancora alcun partito comunista minimamente temprato nella lotta. Sta di fatto che l’Internazionale Comunista non raggiunse mai una linea definita e universalmente accettata sulla forma della rivoluzione socialista nei paesi imperialisti (quindi, detto per inciso, non fece mai sua neanche la caricaturale teoria dell’insurrezione che l’autore del Comunicato le attribuisce).

Per essere espliciti, l’autore è d’accordo che la lotta della classe operaia per il potere

- non va concepita e impostata come lotta che per costruire il partito della classe operaia fa leva sul pluralismo dei partiti caratteristico della società borghese e per accumulare le forze fa leva sulla partecipazione del partito della classe operaia alla lotta che si svolge tra i vari partiti borghesi nell’ambito dello Stato borghese (e quindi subordinandosi alle leggi dello Stato borghese che il partito cerca di modificare a favore della classe operaia),

- ma fin dall’inizio e durante tutto lo svolgimento fino alla conquista del potere va concepita e impostata come una guerra tra due campi antagonisti.

Una guerra che per quanto riguarda la borghesia è una guerra non dichiarata ma già in atto, condotta con tutti i mezzi materiali e spirituali più raffinati elaborati dalla civiltà umana; è la suprema ragione d’essere del suo Stato e di altre sue istituzioni di classe; è una guerra che ha l’obiettivo di cacciare le masse popolari nello stato di soggezione necessario per la massima valorizzazione del capitale e, a questo scopo, di controllare, deviare o distruggere il partito comunista (impedirne la nascita se ancora non esiste) e "prosciugare l’acqua in cui il pesce nuota"; una guerra che causa tra le masse popolari la devastazione, l’abbrutimento e le vittime che sono sotto i nostri occhi. Per quanto riguarda il proletariato questa guerra anzitutto comporta che il partito comunista si costruisca coerentemente alla reale natura dello scontro già in atto di cui la borghesia cerca con ogni mezzo di nascondere la reale natura di guerra civile; in secondo luogo comporta che il partito comunista promuova e diriga il passaggio su scala via via più vasta delle masse popolari dallo stato di una guerra subita e dalle cui operazioni ognuno si difende come può e in ordine sparso, allo stato di una guerra sempre più condotta consapevolmente e in conformità alle leggi generali e specifiche proprie della guerra stessa, per la quale si approntano via via gli strumenti necessari e in funzione della quale si definiscono via via tutte le attività delle varie classi delle masse popolari. Una guerra che in una prima fase (fase strategicamente difensiva) ha come obiettivo strategico la raccolta, l’accumulazione e la formazione delle forze rivoluzionarie (all’inizio il campo rivoluzionario è quasi privo di forze): tutte le singole operazioni devono essere selezionate e condotte prendendo e mantenendo l’iniziativa (quindi tatticamente sono operazioni offensive), ma esse devono concorrere tutte, ivi compresi gli attacchi che eliminano forze nemiche, al raggiungimento dell’obiettivo strategico della fase difensiva (accumulazione delle forze) fino al completamento della fase stessa (equilibrio strategico); solo in una seconda fase (fase offensiva o fase dell’attacco strategico) l’obiettivo strategico della guerra diventa l’eliminazione delle forze avversarie fino alla conquista del potere, all’assoggettamento della borghesia imperialista e all’instaurazione della dittatura del proletariato in vista della definitiva eliminazione della borghesia stessa come classe, eliminazione che avverrà nel corso della successiva fase (socialismo o fase inferiore del comunismo) di passaggio al comunismo.

A scanso di equivoci, occorre aggiungere che si tratta di una guerra "rivoluzionaria". Questo sta a dire che ha poco in comune con le guerre condotte nella storia dell’umanità tra classi sfruttatrici e tra i loro Stati. È infatti la guerra con cui la classe operaia toglie alla borghesia imperialista e assume essa stessa la direzione delle masse popolari, facendo già svolgere ad esse un ruolo che ne avvia l’emancipazione dallo sfruttamento e dalla soggezione. È una guerra diversa anche dalle guerre rivoluzionarie del passato, che furono condotte per instaurare il potere di una classe sfruttatrice più progressista rispetto a quella che sostituiva. Se lo Stato proletario è già un non-Stato, la guerra popolare rivoluzionaria diretta dalla classe operaia è già una non-guerra nel senso tradizionale del termine. Anche se le sue leggi, per quanto riguarda i paesi imperialisti, sono in gran parte da scoprire o almeno da verificare, di certo, contrariamente a quanto pensano i militaristi, ciò che da parte del proletariato caratterizza questa guerra non è l’uso delle armi, né la messa a punto di organizzazioni militari né la conduzione di azioni militari (anche se tutte queste cose hanno un loro ruolo che cambia da una fase all’altra e da una certa fase in poi avranno un ruolo chiave): proprio perciò essa volgerà a favore della classe operaia nonostante lo smisurato squilibrio di forze a favore della borghesia che all’inizio esiste nel campo militare (il Vietnam al riguardo ha dato una lezione che la borghesia cerca di far dimenticare, ma che noi dobbiamo invece sempre ricordare e usare). Ciò che la caratterizza è la concezione che deve guidare tutte le attività del partito e con cui il partito deve orientare, promuovere e dirigere tutte le attività delle masse popolari, anche le più normali, le più semplici e le più pacifiche. Esso deve vedere e fare tutto prima in funzione dell’accumulazione delle forze necessarie per il passaggio alla fase decisiva dell’attacco e poi in funzione dell’eliminazione delle forze nemiche e dell’instaurazione della dittatura del proletariato.

Dato atto all’autore del Comunicato di aver fatto suo questo grande insegnamento della prima ondata della rivoluzione proletaria, va parimenti messo in chiaro che non si tratta di una guerra "di classe", ma di una guerra "popolare". Che la classe operaia non faccia la rivoluzione (cioè la guerra civile) da sola, ma diriga tutte le masse popolari a fare la rivoluzione è un verità acquisita dal movimento comunista (basta vedere Engels, nella prefazione a La guerra dei contadini in Germania ), ribadita con forza da Lenin e confermata dalla prima ondata della rivoluzione proletaria (Stalin e Mao Tse-tung): non si ritorna indietro!

Che non sia una normale guerra e che sia una lotta politica che fa uso anche delle armi è un’altra verità acquisita e confermata dall’esperienza del movimento comunista. Essa ha confermato (e lo confermano anche gli insuccessi delle OCC che si ostinano a mantenersi sul terreno della "iniziativa combattente" anziché dedicarsi alla ricostruzione del partito comunista) che la forza principale di questa guerra e quindi della "politica rivoluzionaria" (di cui la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è la strategia) sono le masse popolari e non gruppi clandestini di rivoluzionari (che beninteso vi hanno un loro ruolo). Che le operazioni di questa guerra (quindi la tattica) sono del genere più vario, conformemente a quello che mostra la resistenza che le masse popolari oppongono al procedere della crisi generale del capitalismo. Ridurre queste operazioni unicamente alle "iniziative combattenti" (o concepire le "iniziative combattenti" come le operazioni principali in ogni fase della guerra) è, lo si capisca o meno, assumere la lotta armata non come strategia ma come unica forma della tattica o unico schema tattico (come un principio di tattica). Quindi vuol dire anche assumere una tattica fallimentare, perché la varietà delle forme (o schemi) è una delle poche regole generali della tattica.

2.2. "Il partito comunista deve essere clandestino, ma non segreto". Non aver posto chiaramente questa legge ai suoi partiti è un altro dei limiti principali dell’Internazionale Comunista (1919-1943), che hanno impedito il suo successo nei paesi imperialisti. Lenin e i bolscevichi fino al 1914 avevano pensato e presentato la natura clandestina (e ovviamente non segreta) del loro partito come una particolarità della Russia, dovuta alle sue caratteristiche. Dopo il 1914, dopo il tradimento di quasi tutti i capi di quasi tutti i partiti della II Internazionale, Lenin aveva sì concluso che "il lato più debole della situazione del movimento rivoluzionario in Germania era la mancanza di una salda e sperimentata organizzazione clandestina e di una provata tradizione di lavoro clandestino". Ma la clandestinità non diventò mai un principio strategico per i partiti dell’Internazionale Comunista.

Anche su questo terreno tra le FSRS italiane c’è ancora più confusione che divisione, per quanto nessuno osi sostenere, alla luce dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e del periodo del "capitalismo dal volto umano" e alla luce del decorso della seconda crisi generale del capitalismo, che è possibile accumulare e formare forze rivoluzionarie attorno e sotto la direzione di un partito legale o semilegale (semiclandestino). Sta del resto alle organizzazioni clandestine e non alle organizzazioni legali sostenere con la propaganda la battaglia su questo punto, nel mentre che con la loro pratica confermano che la cosa è possibile e ne definiscono e verificano le forme e gli strumenti di attuazione. La sua possibilità però, per quanto riguarda il nostro paese, è dimostrata non solo dalla storia recente ("gli anni ‘70" e successivi), ma anche dalla ventennale lotta contro il fascismo condotta nella clandestinità (subita, anziché scelta: e questo fu un limite ideologico con grandi conseguenze politiche) dal primo partito comunista (1926-1945).

Sottolineata la convergenza dell’autore del Comunicato su questo insegnamento della prima ondata della rivoluzione proletaria, confermato dall’analisi delle forme assunte dal dominio borghese da quando è incominciata l’epoca imperialista, anche su questo punto è necessario porre alcuni importanti distinguo.

Al campo dell’immaginazione (e della tradizione operaista degli anni ‘60) appartiene l’onnipotenza della borghesia che sarebbe capace di soffocare o integrare ogni forma di lotta e ogni organizzazione delle masse che appartenga al campo della politica rivoluzionaria. Si tratta di una concezione che arriva all’autore del Comunicato come eredità lasciata congiuntamente dalle BR-PCC e dal Partito Guerriglia (vi ricordate Gocce di sole nella città degli spettri e la "sussunzione reale totale" di Curcio?). L’autore è convinto che la controrivoluzione preventiva (l’azione preventiva e repressiva della borghesia imperialista contro la classe operaia e il resto delle masse popolari) sia onnipotente nei confronti di qualsiasi organizzazione e iniziativa, salvo che nei confronti delle OCC, cioè dei gruppi clandestini di rivoluzionari che compiono "inizative combattenti". Ora, per quanto riguarda le OCC, lo stesso autore travisando la realtà attribuisce proprio alla repressione scatenata dalla borghesia imperialista sia il tracollo delle OCC nei primi anni ‘80 sia la "nuova discontinuità" nell’attività delle BR-PCC successiva all’attentato contro Ruffilli (1988). Se una cosa la realtà degli anni ‘70 e ‘80 ha dimostrato è che le OCC sono in grado di conservarsi e di operare solo in condizioni particolari di durata relativamente breve (sono cioè in determinate circostanze una forma transitoria del movimento rivoluzionario). Di contro la realtà della rivoluzione russa, della rivoluzione cinese, vietnamita, jugoslava, albanese, ecc. e, in Italia, la realtà della lotta contro il fascismo del primo partito comunista hanno dimostrato che alcuni partiti comunisti sono riusciti (e quindi a certe condizioni tutti i partiti comunisti possono riuscire) a nascere e a portare a compimento il loro compito (la mobilitazione rivoluzionaria delle masse) quali che siano gli sforzi fatti dalla borghesia imperialista per controllarli, deviarli e soffocarli. La realtà ha parimenti dimostrato che le masse hanno preso parte alla "politica rivoluzionaria" (certo, nelle varie forme tattiche - anche militari - che essa ha in relazione alle circostanze concrete e non in quella sola forma ammmessa dall’autore: gruppi clandestini di rivoluzionari che compiono "iniziative combattenti"), quali che fossero le armi e i mezzi a cui la borghesia ha fatto ricorso per impedirlo. Il vero guaio non sta quindi nella realtà, ma sta nelle concezioni dell’autore. Egli riduce tutte le forme della politica rivoluzionaria alle "iniziative combattenti" dei gruppi clandestini di rivoluzionari e riduce l’attività del proletariato (la "lotta di classe") al solo ambito degli interessi particolari e immediati, al solo ambito delle lotte per le condizioni di lavoro e per il salario: nega cioè che le masse possano partecipare a quello che Lenin e tutti i comunisti considerano politica rivoluzionaria.

L’autore combina insomma una concezione blanquista della "politica rivoluzionaria" con una concezione anarco-sindacalista della lotta del proletariato (la "lotta di classe"). Salvo che, a differenza di A. Blanqui (1805-1881), assegna ai gruppi clandestini di rivoluzionari non il compito del colpo di mano per conquistare il potere, ma quello dei colpi di mano per condizionare l’ordinamento e l’indirizzo politici della borghesia imperialista (la "mediazione politica") in senso meno sfavorevole al proletariato e per dimostrare la "possibilità e praticabilità di un progetto rivoluzionario" che dovrebbe realizzarsi tramite il moltiplicarsi dei gruppi clandestini di rivoluzionari. E salvo che, a differenza degli anarco-sindacalisti di G. Sorel (1847-1922), non assegna alle lotte che il proletariato conduce nell’ambito sindacale e rivendicativo, inquadrato dai sindacati di regime, il compito di direttamente rinnovare la società, ma quello di generare e alimentare i gruppi clandestini con nuove reclute e di in qualche modo sostenerli.

Parimenti smentite dall’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria (che si è sviluppata interamente nell’epoca imperialista) sono le tesi che sarebbe l’organizzazione combattente ("la Guerriglia" o le OCC) a creare il partito (l’esperienza ha dimostrato il contrario e l’analisi lo conferma), che l’uso delle armi garantirebbe militanti e organizzazioni dall’opportunismo, che a 150 anni dal Manifesto del partito comunista (1848), anni densi di rivoluzioni, non vi sarebbe un patrimonio teorico e d’esperienza che ogni partito deve preoccuparsi di assimilare per non inventare l’acqua calda o addirittura ripetere errori già centinaia di volte superati teoricamente e verificati nella pratica. L’autore presenta e applica quest’ultima tesi agghindandola con il giusto e universale principio della storia umana "pratica-teoria-pratica" (la teoria viene dalla pratica e serve alla pratica) che egli però trasforma da principio universale in regola che deve applicarsi a ogni passaggio particolare della vita e della storia e rifuta di considerare i realissimi e quotidiani passaggi "teoria-pratica-teoria" (assimilare una teoria, applicarla e attraverso ciò arrivare a una teoria superiore).

Proprio alla limitata assimilazione del patrimonio e dell’esperienza del movimento comunista vanno ascritte anche varie altre arretratezze di questo genere che nell’autore del Comunicato accompagnano il riconoscimento del carattere clandestino del partito (non insistiamo qui sul "carattere non segreto" del partito, cioè sul fatto che l’esistenza, il programma e la linea del partito devono essere fatti conoscere più diffusamente possibile). Resta però l’importanza che questo riconoscimento ha per il tormentoso corso che sta seguendo il processo della ricostruzione del partito comunista nel nostro paese.

Lo schieramento dell’autore del Comunicato sulle due importanti questioni programmatiche sopra ricordate e l’importanza che nella politica attuale hanno le BR-PCC rendono necessario analizzare con cura il Comunicato e prendere posizione sulle numerose questioni che esso pone. A ciò sono destinate le note che accompagnano la parafrasi del Comunicato. Alcune questioni ritengo però utile richiamarle qui in questa presentazione.

 

Dallo Stato Imperialista delle Multinazionali allo Stato Imperialista Corporativo?

La prima cosa che balza all’occhio studiando il Comunicato è che la mediazione neocorporativa è un abbaglio smentito dallo stesso autore.

In cosa consisterebbe la mediazione neocorporativa secondo l’autore? Si tratterebbe di un progetto portato avanti dai governi della borghesia imperialista dal 1992 (e in particolare dal governo D’Alema) che userebbero, soddisferebbero gli interessi particolari e immediati (transitori) del proletariato per impedire che esso si occupi dei suoi interessi generali e storici (cioè della conquista del potere, del socialismo e del comunismo).

Non c’è chi non veda che in realtà il programma dei governi succedutisi dal ‘92 a oggi (e del governo D’Alema in particolare) è la eliminazione rapida delle conquiste strappate dalle masse popolari nel periodo 1945-1975 e non ancora eliminate o stravolte dai governi precedenti (della Solidarietà Nazionale, del Preambolo e del CAF). Cosa significhi eliminazione non occorre chiarirlo. Con "stravolte" voglio dire che hanno trasformato i diritti riconosciuti a tutti (benché ovviamente applicati al modo borghese), in elemosine che le autorità borghesi fanno a loro discrezione per mettere riparo ai casi più fastidiosi e in servizi di quart’ordine dove tali servizi universali sono indispensabili al funzionamento della vita sociale.

Anche l’autore del Comunicato è costretto dai fatti a riconoscere che la borghesia imperialista, lungi dal dare soddisfazione agli interessi particolari e immediati del proletariato, sta ledendo addirittura anche quelli dell’aristocrazia operaia e della piccola borghesia.

Cosa resta quindi del "piano centrale" con cui la borghesia affronterebbe i suoi rapporti col proletariato e cercherebbe di distoglierlo dai suoi interessi generali e storici? Resta la "concertazione", ossia la corresponsabilizzazione dei sindacati di regime nella eliminazione delle conquiste. Cosa farebbero i sindacati di regime se non fossero corresponsabilizzati? Lo si è visto col governo Berlusconi. Farebbero leva sul malcontento delle masse (e sul ruolo di centro di mobilitazione di massa che hanno ereditato dalla storia e di cui ancora usufruiscono anche se in maniera via via minore e più contrastata perché il loro seguito e la loro autorevolezza tra le masse diminuiscono) per far valere gli interessi dei gruppi dirigenti sindacali (anche l’autore riconosce la sorte infelice della aristocrazia operaia cui appartiene la massa degli uomini che traggono vantaggio dal ruolo che svolgono nei carrozzoni dei sindacati di regime). Lo scopo principale della corresponsabilizzazione (nei patti sociali) dei sindacati (e delle altre "parti sociali" e dei partiti e forze politiche del regime) è infatti proprio accordarsi che nessuno approfitti della eliminazione delle conquiste attuata dal governo per accrescere i propri voti e il proprio seguito a danno degli altri. Si tratta di accordi di "non belligeranza", di accordi per escludere "le riforme" dal contenzioso su cui i partiti, altre forze politiche e gruppi imperialisti in genere si affrontano tra loro e cercano di trarre profitto dalla "democrazia".

È in contrasto con la realtà sia pensare che la mobilitazione delle masse sotto la direzione dei sindacati di regime possa portare a una difesa efficace delle conquiste (o addirittura ampliarle), sia pensare che la collaborazione dei sindacati di regime assicuri l’adesione o la collaborazione o anche solo la neutralizzazione delle masse. La collaborazione dei sindacati di regime col governo non paralizza le masse, ma indebolisce e logora i sindacati confederali e apre anche al loro interno contraddizioni importanti tra i ristretti gruppi dirigenti integrati nel personale politico borghese e l’aristocrazia operaia che subisce la riduzione dell’apparato sindacale, la privatizzazione del settore pubblico dell’economia, l’eliminazione dei carrozzoni di Stato che gestivano le conquiste (INPS, INAIL, Servizio Sanitario Nazionale, patronati, ecc.), la scomparsa delle strutture del movimento operaio del vecchio regime, l’ostilità crescente dei lavoratori.

La reale difficoltà che le masse incontrano nella difesa delle loro conquiste, la "paralisi" delle masse di fronte all’attacco alle loro conquiste, non sono determinate dalla collaborazione dei sindacati di regime con il governo, ma dalla mancanza di un partito comunista e, conseguentemente, di una "politica rivoluzionaria".

La tesi che con la collaborazione dei sindacati di regime la borghesia riesce a governare l’economia e a governare il conflitto di classe è una fantasia che fa il paio con l’altra: che "non si può governare l’Italia senza la collaborazione dei sindacati confederali" (come proclamano Veltroni, D’Antoni & C).

Solo anarco-sindacalisti, movimentisti e affini possono infatti pensare che l’opposizione delle masse guidata dai sindacati di regime potrebbe portare a sommovimenti tali da mettere in pericolo il dominio della borghesia imperialista. Le grandi mobilitazioni di massa dirette da sindacati (o partiti) del regime o si sono concluse con la sconfitta (come in Inghilterra sotto il governo Thatcher e negli USA sotto il governo Reagan) o, come in Francia nel ‘95 e nel ‘96 contro il governo Juppé e nel ‘94 in Italia contro il governo Berlusconi, si sono concluse con la sostituzione del governo esistente con un altro (governo Dini) che ha attuato lo stesso programma di eliminazione delle conquiste, ma con la concertazione: cioè dando le necessarie soddisfazioni ai gruppi dirigenti dei sindacati di regime che avevano con (loro) successo mobilitato le masse. Risultati che confermano che nell’ambito della crisi generale in corso stante il contesto generale da essa creato, una mobilitazione di massa o è diretta dal partito comunista come parte della lotta della classe operaia per il potere o può solo essere utilizzata dai gruppi e dalle forze della borghesia imperialista nelle loro lotte intestine. È escluso che nell’ambito del regime borghese possa dar luogo a conquiste su vasta scala, stante la crisi generale in corso.

Quanto ai gruppi dirigenti dei sindacati di regime, il loro successo nella lotta tra le forze politiche imperialiste deve trovare qualche adeguato compenso, visto che tra i gruppi politici borghesi sono quelli che perdono di più del loro patrimonio attuale (di essere "padroni dei lavoratori") con l’eliminazione "concertata" delle conquiste (e ancora di più perdono se le lasciano eliminare senza concertazione o senza lotta).

L’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria ha dimostrato le stessa cosa (classici sono i casi dell’Italia 1918-1922 e della Germania 1918-1933). Non avendo alla sua testa partiti comunisti all’altezza della situazione, la classe operaia non è riuscita a trarre profitto dalla situazione rivoluzionaria, ma sindacati e partiti collaborazionisti per quanto collaborassero non sono riusciti a stabilizzare il dominio della borghesia imperialista. In definitiva questa ha dovuto ricorrere alla mobilitazione reazionaria (il fascismo e il nazismo rispettivamente) che ha spazzato via anche i sindacati e i partiti collaborazionisti.

Il proclamato neocorporativismo si riduce quindi in realtà alla collaborazione dei sindacati con il governo e la borghesia imperialista e a imbrogli delle masse da parte dei sindacati che così via via dilapidano il loro ... capitale. Chiamare ciò corporativismo ha l’unico effetto di avvallare la tesi corrente (e cara ai sindacalisti) che senza di loro non si può governare l’Italia ed è un riflesso nella testa dell’autore di questa tesi corrente. Ogni mercante esalta la sua merce! In realtà i sindacati di regime stanno scavando un solco via via più profondo tra se stessi e le masse, come la pratica che abbiamo sotto il naso mostra a chiunque vuole vedere.

Resta ovviamente la domanda: perché il proletariato di cui la borghesia lede gli interessi particolari e immediati (transitori) che non riesce a difendere su vasta scala sotto la direzione dei sindacati di regime, non si occupa dei suoi interessi particolari e immediati direttamente? Perché il proletariato è una classe seria e la dura esperienza dell’oppressione di classe gli ha inse-gnato quello che molti "rivoluzionari" non capiscono. Per occuparsi effica-cemente dei propri interessi particolari e immediati nel corso di una crisi generale è necessario occuparsi dei propri interessi generali e storici. Occuparsi veramente di questi vuol dire percorrere quella via tormentosa che il proletariato non può percorrere in massa, ma può percorrere solo nelle persone delle sue avanguardie: la ricostruzione del partito che è in corso.

In conclusione: il centro dello scontro tra classe operaia e borghesia imperialista in questo periodo non è né la mediazione corporativa (che non esiste) né la concertazione (che è di secondaria importanza), ma è la ricostruzione del partito comunista.

L’evidente errore dell’autore del Comunicato è il risultato di concezioni e tesi più generali in contrasto con la realtà. Alcune di esse sono regressioni dai risultati raggiunti dal movimento comunista a tesi premarxiste o revisioniste. Altre sono risposte sbagliate a limiti reali del movimento comunista.

Ne illustro qui di seguito alcune.

 

 

 

 

L’autore sostiene che se non intervenisse di quando in quando l’attività combattente delle BR-PCC a impedirlo eliminando qualcuno degli individui che meglio impersonano la politica della borghesia imperialista, questa riuscirebbe e "governare l’economia’ e a "governare il conflitto di classe". In particolare il governo D’Alema e la borghesia imperialista italiana ci riuscirebbe grazie all’appoggio dei sindacati confederali: una volta acquisito l’appoggio dei sindacati confederali ed eventualmente anche dei sindacati minori, sarebbe annullata o comunque neutralizzata la resistenza del proletariato e di conseguenza la borghesia imperialista potrebbe governare sia l’economia sia il conflitto di classe.

La borghesia imperialista non è in grado (né come classe né tramite il suo Stato) di governare l’economia né di governare il conflitto di classe e consolidare (stabilizzare) il suo dominio, anche se le BR-PCC o altri gruppi non intervenissero di tanto in tanto a eliminare qualcuno dei suoi servitori ed esecutori zelanti. Ogni membro della borghesia imperialista e ogni portavoce, servo e ministro della borghesia imperialista amministra, difende e impone alle masse le leggi socialmente oggettive del modo di produzione capitalista. I singoli borghesi traggono da ciò grandi vantaggi materiali, ricchezze, potere e lusso; ma proprio questa azione cui ognuno di essi è condannato dal proprio ruolo e che ognuno di essi esercita con passione e zelo determina la rovina della società cui essi presiedono, è l’attività soggettiva attraverso cui si fanno valere le leggi oggettive del sistema capitalista che portano la società borghese alla crisi economica e alle conseguenze che ne derivano. Proprio perché non governa l’economia, la borghesia imperialista non governa neanche il conflitto di classe. Essa è condannata dal suo ruolo sociale a portare la concorrenza tra gruppi imperialisti fino all’antagonismo e alla guerra interimperialista; a opprimere le classi delle masse popolari degli stessi paesi imperialisti fino al punto di sconvolgere i suoi propri ordinamenti esistenti e a promuovere la mobilitazione reazionaria delle masse e la guerra; a schiacciare i paesi socialisti e semicoloniali fino al punto che perfino i fantocci che per suo conto li governano per salvare se stessi devono e dovranno resistere in qualche misura, prima o poi, alle pretese della borghesia imperialista e trasformarsi in suoi fiacchi, indecisi e inefficaci oppositori.

Dire "governo dell’economia capitalista" è come dire essiccamento dell’acqua o immobilità del vento: è una contraddizione logica. Per sua natura i rapporti di produzione borghesi sono rapporti reificati e alienati, cioè si presentano a ogni individuo o associazione di individui in veste di cose e sono sottratti alla volontà di ogni singolo individuo o associazione di individui. Ogni capitalista deve valorizzare il suo capitale, ogni azienda deve produrre profitti, ogni prodotto deve essere venduto con profitto, ogni cosa deve "rendere": forse queste non sono regole correnti del mondo che ci circonda? Negare questo è rinnegare il marxismo, dire che esso non riflette più i rapporti economici attuali, che è superato. È una tesi in completo contrasto con gli avvenimenti storici e con i fatti che avvengono attorno a noi e teoricamente del tutto infondata. È dalla fine del secolo scorso una delle tesi tipiche dei difensori del capitalismo e dei revisionisti del marxismo (sia dei primi revisionisti, cioè di Bernstein e soci, sia dei revisionisti moderni, Krusciov, Togliatti, ecc.). I marxisti sostengono con l’analisi teorica e i fatti hanno dimostrato e dimostrano che, nonostante il capitale finanziario, i monopoli, le politiche statali, il capitalismo monopolistico di Stato, le FAUS, la moneta fiduciaria mondiale, ecc. ecc. il capitalismo non può sfuggire alle crisi economiche e che queste si trasformano, in determinate circostanze che la borghesia imperialista non può evitare, in crisi generali che a loro volta si trasformano in rivoluzioni e in guerre mondiali. Il governo dell’economia è una tesi apologetica del capitalismo e del tutto infondata (Materiale di riferimento: Don Chisciotte e i mulini a vento , n. 0 di Rapporti Sociali , 1985).

 

 

L’autore sostiene che a partire dalla seconda guerra mondiale si sono create le condizioni per cui non si creano più contraddizioni antagoniste (tali cioè che si possono risolvere solo con la forza, cioè con la guerra) tra gruppi e Stati imperialisti, tra gli anelli della catena imperialista. Egli in particolare esclude una guerra interimperialista e riconosce come antagoniste solo le contraddizioni proleta-riato/borghesia imperialista, Nord/Sud e Ovest/Est. Secondo la sua analisi l’UE sarebbe inglobata senza gravi contraddizioni nella NATO sotto la direzione dell’imperialismo USA. Nel panorama dell’autore la Cina non esiste. Presumibilmente anche il Giappone è tranquillamente al guinzaglio degli USA.

Anche questa è una tesi in contrasto con la realtà e con la teoria marxista. È una riproposizione delle teorie revisioniste di Krusciov e soci (1956), che a sua volta riproponeva le marce teorie di Kautsky che avevano come fondamento logico il superimperialismo (un unico capitale mondiale di cui tutti i capitalisti erano tranquilli azionisti ... ignorando che tranquilli non sono neanche i capitalisti azionisti delle normali società per azioni: basta seguire la cronache delle OPA e delle fusioni in genere). L’autore certo proclama di rifiutare il superimperialismo, ma cosa vuol dire se non questo la tesi che non si possono più creare contraddizioni antagoniste tra gruppi e Stati imperialisti?

Le cronache correnti forniscono già abbondante materiale per confermare che le contraddizioni tra la borghesia imperialista USA, quella tedesca e francese e quella giapponese crescono di mese in mese e non c’è nulla (anche l’autore riconosce che l’annessione economica dell’ex-campo socialista non ha risolto la crisi del capitalismo) che possa far prevedere che vengano meno nel futuro i fattori che spingono queste contraddizioni verso l’antagonismo, se non la nostra difficoltà a immaginare come esso si risolverà, l’incredulità che sempre ha paralizzato borghesi e opportunisti alla vigilia delle grandi guerre di questo secolo. Provate a pensare che i movimenti dell’economia capitalista mondiale (che sfuggono alla direzione di ogni governo e gruppo borghese) producano in paesi come la Germania, la Francia, il Giappone o gli USA una disoccupazione cronica di 10 o 20 milioni di persone rispettivamente (cioè circa il 25% della forza lavoro attuale). Nessun gruppo potrebbe mantenere il potere in questi paesi senza fare una politica attiva per modificare i rapporti di forza a livello mondiale, in modo da aprire ai capitalisti del proprio paese nuove via di traffico, di investimento e di commercio. Nessun gruppo dirigente di un paese potrebbe rifiutare di scaricare per quanto gli è possibile su altri paesi le difficoltà che incontra a mantenere l’ordine pubblico nel suo paese, aggravando così le difficoltà di altri per alleviare (temporaneamente) le proprie. Tutto questo sfocia nella guerra o può farsi solo con la guerra. Ognuno di questi paesi ha la tecnologia e le altre risorse necessarie per riarmarsi (il riarmo è già in corso) e condurre una guerra interimperialista. Un po’ alla volta essi formeranno schieramenti e coalizioni di guerra, perché una guerra per modificare i rapporti di forza a livello mondiale quasi sicuramente vorrà dire una guerra per liberarsi dalla camicia di forza che l’imperialismo USA ha imposto e impone al mondo e che diventa sempre più stretta per i gruppi imperialisti che la subiscono, mentre i bisogni degli imperialisti USA al contrario aumentano. Non a caso il focolaio del neoliberalismo (della globalizzazione e della mondializzazione) è nella borghesia imperialista USA. Spinta dal procedere della nuova crisi generale, la borghesia USA (quella inglese le fa da scudiero) si è liberata per prima dallo Stato sociale (che non era nato "nell’Europa continentale", ma proprio nei paesi anglosassoni a cavallo della Seconda guerra mondiale) approfittando della maggiore debolezza del movimento comunista e ha imposto non solo ai paesi semicoloniali e ai paesi socialisti i cui Stati (già di per sé deboli e asserviti) erano schiacciati dai debiti contratti, ma anche agli altri paesi imperialisti di aprire le porte all’acquisto (da parte di individui e di società) delle forze produttive del paese (privatizzazione, liberalizzazione) da parte dei capitalisti USA. Il libero scambio nel secolo scorso era la legge internazionale della borghesia inglese che aveva il quasi monopolio della produzione industriale; il libero movimento dei capitali è la legge internazionale della borghesia americana che, grazie alla Seconda guerra mondiale e agli Accordi di Bretton Woods (1944) che ne hanno registrato i risultati, ha il monopolio della creazione di denaro mondiale e della finanza. Non è questo un movimento in corso e non porta questo movimento alla guerra interimperialista? La borghesia imperialista USA approfitta del predominio finanziario, monetario, politico e militare per imporre la sua nuova politica della "porta aperta". Ogni resistenza al libero movimento dei capitali lede gli "interessi nazionali" della borghesia imperialista USA.

 

 

L’autore del Comunicato formula chiaramente la sua concezione dello Stato che giura essere marxista. Secondo questa teoria lo Stato sarebbe composto da due aspetti paralleli: dal monopolio della violenza (Stato soggettivo) e dalle istituzioni e leggi che regolano l’esercizio di questa violenza (Stato oggettivo). Questa concezione dello Stato serve all’autore a dare un qualche fondamento teorico alla "strategia" del colpire il cuore dello Stato: colpire qualche esponente per impedire che la borghesia imperialista emani leggi e norme peggiori per le masse e crei istituzioni più repressive per le masse. Questo impedirebbe alla borghesia di usare l’apparato dello Stato in tutta la sua forza contro il proletariato. Nelle sue fantasie legalitarie, l’autore ritiene che se le BR-PCC riescono a impedire che la borghesia imperialista approvi leggi appropriate, questo bloccherà la sua azione contro le masse popolari. Nella realtà l’azione legislativa legalizza le azioni pratiche (le rende legali, le dichiara legali, crea leggi che contemplano e regolamentano quelle azioni). Nella concezione dell’autore invece le azioni sono compiute solo se c’è una legge che le prevede, le prescrive e le regolamenta. Se la borghesia non riesce a mettere a punto le leggi e ad approvare leggi "adeguate", essa non opprimerà e non sfrutterà quanto necessario: questa è la filosofia dell’autore. Persino Gherardo Colombo va proclamando che in Italia non esiste alcun "regno della legge" e non bisognava aspettare le rivelazioni su Gladio o la fine di Tangentopoli per capirlo. Gherardo Colombo però sbaglia: non esiste neanche negli altri paesi.

Lenin nell’opuscolo Stato e rivoluzione (1917) ha passato in rassegna e commentato tutta la teoria marxista dello Stato. Sfido ogni lettore a trovare in Lenin qualcosa che assomigli in qualche modo alla teoria dello Stato esposta dall’autore. Al contrario Lenin dimostra che l’apparato di leggi e istituzioni che regolamentano e moderano l’esercizio della violenza da parte della classe dominante sono un aspetto secondario e transitorio dello Stato, mentre l’aspetto principale e permanente è il monopolio della violenza. Leggi e istituzioni servono principalmente a regolare i rapporti tra i gruppi della classe dominante, che soli godono delle condizioni materiali e spirituali neces-sarie per avvalersene, quando e nelle condizioni in cui ciò è possibile.

La dura esperienza quotidiana conferma ai proletari e anche alla piccola borghesia questa verità. È una manifestazione estrema e illuminante dell’asservimento culturale alla classe dominante fino all’accecamento il fatto che questa teoria per cui la borghesia sarebbe limitata nell’uso della violenza dalle leggi e dalle istituzioni pubbliche e vincolata dall’approvazione o meno di qualche legge in Parlamento, che questa paccottiglia di teoria dello Stato partorita dalle facoltà universitarie venga proclamata da un compagno italiano, di un paese che da 50 anni ha una Costituzione scritta che è rimasta sulla carta, inapplicata se non nelle parti e nei tempi che facevano comodo alla classe dominante, dove la separazione tra le leggi e la realtà è un abisso quoti-dianamente sperimentato, dove la diversità di trattamento che lo Stato riserva alle diverse classi è lampante, dove le trame occulte, i poteri non ufficiali (dalla mafia alle logge, dal Vaticano agli ordini, da Gladio alle polizie private, dalle agenzie USA a quelle israeliane) e le strategie della tensione sono diventate persino oggetto di cronaca giornalistica da quando i contrasti tra i gruppi della classe dominante sono esplosi, dove insomma l’indipendenza e la libertà dello Stato e dei singoli gruppi imperialisti dai vin-coli delle loro leggi sono note persino ai bambini.

 

L’autore cita più volte la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale, ma non solo non ne trae le conseguenze politiche, ma vari passaggi del Comunicato stanno a dimostrare che non ha alcuna comprensione della natura della crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale e che la cita quindi come una giaculatoria, una formula vuota e di rito.

La crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale è la situazione che si determina quando il capitale produttivo (cioè impegnato nel ciclo denaro-acquisto delle merci-produzione-vendita delle merci-denaro) accumulato è diventato talmente grande che se i capitalisti proseguissero a impegnare tutto il nuovo capitale nella produzione, estorcerebbero una massa di plusvalore inferiore a quella che già estorcono. L’impossibilità di proseguire la valorizzazione impegnando tutto il capitale nella produzione costringe i capitalisti, ognuno mosso dalla percezione che egli ha della difficoltà del momento e ognuno interessato al suo capitale più che al capitale complessivo, a spremere di più i suoi lavoratori, a cercare in ogni modo di fare le scarpe agli altri capitalisti, a cercare nuovi campi di valorizzazione, ecc.: le molte manifestazioni e vie della crisi-sviluppo del capitale che abbiamo sotto il naso. Ciò implica quindi che la crisi da economica diventa politica e culturale, cioè una crisi generale, che troverà soluzione solo in trasformazioni politiche radicali (cosa che anche l’autore del comunicato afferma). "O la rivoluzione previene la guerra interimperialista o la guerra interimperialista genererà la rivoluzione" questa è la tesi che i comunisti opposero a Krusciov già nella Conferenza di Mosca del 1957 ed è la concezione che deve guidare il nostro lavoro: ogni partito comunista nel suo piano strategico deve tenere presente queste due eventualità.

Ma come è allora possibile parlare di crisi cicliche, di ciclo recessivo, di stabilizzazione del dominio della borghesia da una parte? E dall’altra come è possibile non vedere il campo immenso e fecondo di lavoro e di crescita che ciò offre alle forze rivoluzionarie e in primo luogo al partito comunista? Proprio perché la crisi preclude alle masse popolari la via del soddisfacimento dei bisogni particolari e immediati nell’ambito del dominio borghese, proprio perché la privatizzazione distrugge alcune delle basi necessarie del funzionamento elementare di una società che è oramai fortemente collettiva addirittura a livello mondiale, l’andamento delle cose offre al partito della classe operaia forze che non hanno altro modo di compiere la loro strada che incanalandosi nell’alveo della rivoluzione socialista, salvo in alternativa incanalarsi nell’alveo della mobilitazione reazionaria e della guerra. Certo forze che non imboccano di per sé, spontaneamente la strada della rivoluzione socialista, che hanno bisogno dell’azione consapevole, articolata e lungimirante del partito comunista e della classe operaia per fare il loro percorso. È questo il lavoro dei rivoluzionari, non costituire conventicole per disarticolare piani già di per sé destinati al fallimento. Questa è la conclusione a cui porta la comprensione della natura della crisi generale, alla luce del marxismo e dell’esperienza della prima crisi generale.

 

 

È sotto gli occhi di tutti che in tutti i paesi imperialisti a partire dalla fine degli anni ‘70 la borghesia sta eliminando le conquiste che le masse popolari avevano strappato nei decenni precedenti, a conclusione della prima ondata della rivoluzione proletaria. È parimenti esperienza comune che le masse popolari oppongono a questo corso una resistenza fatta di azioni individuali e di azioni collettive, di azioni costruttive e di azioni distruttive, di azioni difensive e di azioni d’attacco (tra cui vi è anche quel tanto di favore e di appoggio che comunque danno alle "iniziative combattenti" dei gruppi clandestini di rivoluzionari e la produzione degli stessi rivoluzionari che costituiscono i gruppi clandestini). La resistenza che le masse popolari oppongono al procedere della crisi generale è, dal lato delle masse, la sintesi degli sconvolgimenti più vari, materiali e spirituali, in corso nella loro vita. La rivoluzione socialista non può crescere che da questo fermento, cioè dalla realtà. Piaccia o non piaccia.

A questa realtà l’autore del comunicato oppone una costruzione fantasiosa secondo cui la borghesia imperialista vorrebbe corrompere il proletariato concedendo qualcosa ai suoi interessi particolari e immediati e i rivoluzionari dovrebbero intervenire a impedire questo losco disegno ... impedendo che la borghesia faccia le sue concessioni (tirandosi addosso anche l’odio e le legnate delle masse, se queste credessero che veramente i loro guai "particolari e immediati" sono dovuti all’azione dei rivoluzionari). Già Berlusconi, Cip-polletta e vari altri proclamano che vi sarebbero milioni di posti di lavoro in più e tante inimmaginabili altre delizie se gli imprenditori (e la borghesia impe-rialista in genere) avessero mano libera!

Negli anni ‘60 in Italia e altrove i seguaci della Scuola di Francoforte, gli intellettuali operaisti, seguendo gli insegnamenti di Marcuse & C facevano un gran parlare di "integrazione della classe operaia dei paesi imperialisti nel sistema", corrotta dalla borghesia tramite il consumismo. Secondo loro le conquiste strappate dalle masse popolari nell’ambito del movimento comunista a prezzo di dure lotte erano ... astute manovre messe in atto dalla borghesia per corrompere i lavoratori (perché non continua a metterle in opera? Perché non le ha messe in opera in tutto il mondo?). Marcuse, mentre redigeva consulenze per la CIA e godeva dei privilegi della libera docenza nelle università imperialiste, scriveva che, a fronte della classe operaia corrotta dal consumismo, le forze motrici della rivoluzione erano gli intellettuali dotati di sensibilità e di cultura. Simili stupidaggini moraliste oggi non sono più proclamate apertamente da nessuno. Ma alcune concezioni del menu vengono ricucinate in altre salse e paralizzano e deviano anche dei rivoluzionari. La teoria del nostro autore somiglia da vicino a quelle teorie francofortesi e suona tanto più stravagante oggi che le masse perdono una dopo l’altra le conquiste già strappate e l’inconsistenza della teoria è doppiamente evidente.

Politicamente questa teoria vuol dire separare, nella propria concezione, nella propria linea e nel proprio piano di lavoro, le lotte di difesa e rivendicative dalla lotta per il potere, dall’attacco. Una linea che separa cose che nella realtà, oggettivamente, sono legate è ovviamente destinata a portare alla sconfitta. Al contrario tenere bene conto dell’oggettivo legame dialettico tra attacco e difesa è una delle condizioni necessarie per lo sviluppo del movimento rivoluzionario. Per mantenere le conquiste strappate la classe operaia deve conquistare il potere e cambiare così natura alle stesse conquiste già raggiunte, facendo di esse delle premesse, degli inizi, dei puntelli delle trasformazioni socialiste dell’intera società. Le lotte di difesa possono svilupparsi su larga scala solo nell’ambito di un movimento d’attacco, quindi l’attacco favorisce e genera la difesa. D’altra parte la difesa (vittoriosa o sconfitta) è una scuola di comunismo e genera forze per l’attacco (quindi la difesa a sua volta alimenta l’attacco). La classe operaia conquisterà il potere solo mettendosi alla testa delle masse popolari nella loro lotta per la difesa delle conquiste, per la difesa delle loro possibilità di vivere al livello raggiunto e di progredire, solo guidandole fuori dalla situazione tormentosa in cui la borghesia imperialista le ha cacciate e le costringe ogni giorno di più.

Abbandonare la difesa delle conquiste e le lotte rivendicative alla "opposizione di classe" diretta dai sindacati di regime, vuol dire non solo condannare alla sconfitta le lotte di difesa e rivendicative, ma isolare i rivoluzionari dalle vaste masse, distoglierli da una delle loro scuole principali (appunto il movimento attuale delle masse) e condannare la rivoluzione a riposare sulle fragili spalle dei rivoluzionari (che certamente la situazione genera comunque) e quindi portarla alla sconfitta. Non c’è da meravigliarsi che, con simili premesse, l’autore possa, in contrasto con tutta l’esperienza del movimento comunista anche nelle situazioni ben più repressive di quelle che finora si sono sperimentate nel nostro paese, nel paese in cui la classe operaia ha scioperato perfino sotto l’occupazione nazista, affermare che la borghesia è in grado di stroncare "ogni convergenza tra interessi proletari e progetto rivoluzionario", "ogni tentativo proletario di trasformare l’antagonismo in movimento rivoluzionario per il potere" e così via teorizzando che i rivoluzionari comunicano con le masse solo da lontano con le loro "iniziative combattenti".

Queste tesi servono solo a indurre i rivoluzionari a non tener conto dei risultati della propria attività, li esonera dal confrontarsi con quello che l’organizzazione rivoluzionaria riesce a determinare nel movimento delle masse in termini di orientamento, organizzazione, reclutamento, direzione, coscienza, lotta. In definitiva è una manifestazione di sfiducia nelle masse, nella adesione e nel contributo che la causa della rivoluzione socialista può trovare tra le masse. "Solo le anime elette capiscono la rivoluzione e il comunismo": il ritorno al socialismo utopistico insomma!

I rivoluzionari che crescono nella paura che il successo delle lotte rivendicative e di difesa, delle lotte fatte dalle masse per difendere i propri interessi particolari e immediati, distolga le masse dalla lotta per il socialismo sono condannati a favorire i piani della borghesia che, come l’autore ammette, vuole e deve impedire che il piano della lotta di classe e il piano della lotta rivoluzionaria trovino quella congiunzione che è nella realtà e che solo il corso e la preparazione delle cose costringe i rivoluzionari a distinguere non solo idealmente, ma anche organizzativamente e politicamente. Non abbiate paura: la borghesia imperialista non solo non soddisfa, nel corso della crisi generale, gli interessi particolari e immediati delle masse, ma li lede ogni giorno più gravemente. State solo attenti che non riesca a far credere alle masse che siete voi la causa delle difficoltà in cui essa le getta!

La relazione tra difesa e attacco è un campo che il movimento comunista ha esplorato ampiamente e non intendiamo assolutamente retrocedere a posizioni semiblanquiste superate nella pratica e nella teoria dal movimento comunista.

L’apparato di leggi e di norme che la borghesia imperialista e il suo Stato possono approvare (e che approveranno) e le istituzioni che essi possono creare (e che creeranno), ma ancora prima l’esercizio nudo e crudo della repressione, con la tortura o in guanti gialli, al di fuori di ogni legge e istituzione pubblica, non impediranno alla classe operaia (e alle masse popolari sotto la sua direzione) di avanzare, di raccogliere e accumulare le proprie forze fino a raggiungere l’equilibrio delle forze e di impegnarle poi nella eliminazione delle forze borghesi e in primo luogo dello Stato della borghesia imperialista. Non l’hanno impedito neanche nel passato e in altri paesi. Sarebbe veramente la "fine della storia" se fosse diversamente. L’essenza del compito storico del partito comunista è proprio guidare e condurre le masse popolari a svolgere il ruolo di forza principale della politica rivoluzionaria: ruolo solo grazie al quale la politica rivoluzionaria vincerà.

 

 

 

 

L’autore risponde: logorare lo Stato, destabilizzare lo Stato, indebolire l’impe-rialismo con iniziative combattenti. Se così fosse, considerando il calendario delle ‘iniziative combattenti" negli ultimi quindici anni ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli né si capirebbe come abbia fatto la crisi delle istituzioni politiche della borghesia imperialista a procedere così oltre!

In realtà il regime politico del nostro paese (e del resto dei paesi imperialisti) è già in crisi e di per se stesso (cioè per contraddizioni proprie del sistema capitalista in questa fase) diventa ogni giorno più instabile. I rivoluzionari che vogliono destabilizzare gli attuali regimi borghesi sono come bambini che si danno da fare per scuotere una pianta di frutta che l’uragano squassa senza tregua.

Il compito principale che i "rivoluzionari" devono svolgere in questa fase per far avanzare le masse popolari verso la rivoluzione socialista è costruire (diventare) un centro di aggregazione, di raccolta, di direzione e di formazione delle forze rivoluzionarie, cioè ricostruire il partito comunista della classe operaia: quindi definire il suo programma e costituire le sue organizzazioni. È sciocco opporre a questo che il programma si definisce nella pratica. Tutto in definitiva viene dalla pratica e si fa nella pratica, ma se la pratica di tutti gli anni che sono passati non vi permette ancora, elaborandola col metodo materialista dialettico alla luce della concezione materialista dialettica del mondo e tenendo conto dell’esperienza del movimento comunista, di definire un programma che possa essere assimilato e usato da voi e da altri per contribuire ad estendere e incanalare il movimento delle masse in una unica e giusta direzione, è il caso che ripensiate a quale pratica state facendo. Certamente le organizzazioni del partito si educheranno e consolideranno solo nella lotta, le forze rivoluzionarie si educano facendo la rivoluzione, imparano a fare facendo. Ma se questa giusta concezione serve per aspettare a creare organizzazioni di partito quando la lotta le avrà educate, allora siamo di fronte a uno dei casi in cui grandi verità vengono proclamate non per guidare nell’azione, ma per eludere i compiti pratici del momento.

L’idea di sostituire alla costituzione delle organizzazioni di partito e alla elaborazione del suo programma attività combattenti che dovrebbero "riflettersi nella nuova mediazione politica", cioè condizionare in senso favorevole al proletariato le nuove leggi, le nuove istituzioni, la nuova combinazione dominante delle forze politiche, come nel 1946-1947 sarebbero state condizionate in senso favorevole al proletariato la vecchia Costituzione e l’ordinamento politico che ora sarebbe in via di sostituzione, vuol dire non solo seguire le poco raccomandabili orme di Togliatti e della sua banda di profittatori della Resistenza, ma confondere le epoche e ripetere come farsa e illusione quella che allora si dette come reale tragedia. Noi ora siamo nella fase ancora iniziale della seconda crisi generale, Togliatti compì il suo sporco lavoro alla conclusione della prima crisi generale e aveva un patrimonio da vendere di ben altra consistenza che l’eliminazione di qualche furfante ogni qualche anno: la Resistenza e le grandi organizzazioni politiche e militari della classe operaia, il grande prestigio e la grande forza di direzione del PCI, la forza e l’autorevolezza del movimento comunista mondiale e del campo socialista.

Per costruire il partito comunista non si parte dal "logorare lo Stato della borghesia imperialista", ma si parte dall‘unire le FSRS e i lavoratori avanzati attualmente disponibili sulla base di un programma comunista in una organiz-zazione conforme a quel programma. Non organizzare i lavoratori avanzati sulla base della loro partecipazione alla lotta armata, ma sulla base della loro adesione al programma comunista e della loro partecipazione alle organizzazioni del partito, per orientare, organizzare e dirigere la massa dei lavoratori e il resto delle masse popolari. Questa è la lezione della storia, è l’insegnamento dell’espe-rienza del movimento comunista, che ha dimostrato nella pratica di saper elevare veramente le masse popolari alla guerra civile contro la borghesia e dirigerle fino alla vittoria.

 

 

 

Pubblico una parafrasi del Comunicato anziché il Comunicato stesso, non tanto perché questo è reperibile su Internet, ma principalmente perché l’autore lo ha steso in un linguaggio che chiamare sindacalese o politichese sarebbe un chiaro eufemismo.

Nella versione originale esso è incomprensibile non solo ai lavoratori a cui, secondo i giornali borghesi, sarebbe diretto, ma anche a chiunque non abbia la cultura, il tempo e la pazienza per farne una minuto e faticoso studio. Parafrasarlo è stato come tradurre un testo da una lingua straniera. Credo di essere riuscito a comporre un testo abbastanza comprensibile a un lettore di cultura corrente, pur salvaguardando non solo il significato, ma anche le categorie con cui l’autore del Comunicato interpreta la realtà. Solo in alcuni pochi casi, non sono riuscito a ricavare con sicurezza dal contesto il significato di espressioni e frasi oscure o generiche e ho dovuto rassegnarmi a trascriverle tali quali. Dove l’ho ritenuto necessario, ho illustrato le categorie, come se compilassi un glossario. Il primo appunto da fare all’autore è: per chi ha scritto il Comunicato? Certamente non per i lavoratori. L’autore si dichiara comunista, ma certamente non ha applicato la massima del vecchio Mao: "Quando parli o scrivi, pensa sempre per chi parli o scrivi".

Ritengo comunque necessario e giusto ripetere, a conclusione di questa presentazione, che l’autore del Comunicato ha affrontato un’ampia gamma di temi e problemi, quasi tutti molto importanti ai fini della ricostruzione del partito comunista, sui quali quindi è necessario che tutte le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista escano dalla confusione e dalle vaghe allusioni e arrivino a schieramenti definiti: sarà un passo avanti sulla via per arrivare alla necessaria comprensione dei nostri compiti e della nostra linea. Su alcuni di questi temi l’autore ha indicato soluzioni giuste che faranno parte del patrimonio del futuro partito comunista.

Umberto Campi

(15 settembre 1999)