Cristoforo Colombo

Sfruttare i successi conseguiti

Capitolo 3° - I risultati
martedì 15 agosto 2006.
 

3. I RISULTATI

-  Sfruttare i successi conseguiti


Sfruttare i successi conseguiti

E’ forse «colpa» della «propaganda armata» se il terreno creato dal suo successo non viene fatto fruttare? Se le bande si attardano a fare «propaganda armata» quando essa, come contenuto principale della loro attività, ha già dato tutto quanto poteva dare e oramai può svolgere un ruolo utile solo come attività marginale?

Possiamo anche continuare a «tirar giù» un Ruffilli o un Giorgieri all’anno, magari con qualche sforzo anche uno al mese e ogni volta più che giustamente mostrare nella rivendicazione che essi avevano un ruolo importante nella ridefinizione reazionaria della società, nel traffico d’armi, nella militarizzazione della società.

Ma se la nostra attività si limita a questo, cosa otteniamo con un Ruffilli o un Giorgieri al mese? Di impedire la collaborazione diretta di professori e ricercatori universitari con i gruppi dirigenti dei partiti? Di distogliere i generali dal traffico d’armi?

La «propaganda armata» non è un talismano, un sortilegio. E’ una chiave che apre una porta. Ma una porta si apre per andare avanti e non serve continuare a girare la chiave!

La «propaganda armata» ha raggiunto pienamente il risultato che con essa ci si poteva ragionevolmente riproporre. Ha insomma sgombrato il terreno dagli equivoci che intralciavano ogni effettiva avanzata nel senso rivoluzionario.

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E’ evidente che le sconfitte subite dalle bande (lo smantellamento di larga parte delle strutture, il tradimento e la defezione di gran numero di arrestati, la messa in forse della continuità delle bande, della loro riproduzione) sono dovute ai limiti ed errori di concezione e di impostazione delle bande stesse, ai vizi d’origine conservati caparbiamente, alle malattie dovute al contesto non ancora superato, da cui hanno avuto origine. Per cui tutto oggi si riassume nel dilemma se riusciremo o no a superare i nostri limiti ed errori.

Questo mette fuori gioco chi vuole ricominciare da capo, vuole ripartire a fare come facevamo nel ’68, come individui o gruppi nel movimento di massa. Ovvio che lasciar perdere i risultati raggiunti e ritornare da capo è più semplice, si può evitare di risolvere tutti i problemi che invece si devono risolvere per passare dalle bande, che hanno fatto «propaganda armata» e che con questo hanno sgomberato il terreno per la formazione del partito rivoluzionario, al partito rivoluzionario che, libero a questo punto da ogni accordo e ogni regola del gioco con la classe dominante, dirige le masse proletarie nell’accumulazione delle forze rivoluzionarie per la conquista del potere «suonando il piano con dieci dita». Ma ciò è appunto rifuggire dai compiti posti dalla storia già percorsa, è liquidazione dell’organizzazione e dell’attività rivoluzionaria.

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Le bande hanno finalmente rotto nel movimento operaio italiano la tradizione della sinistra che promuoveva, organizzava, gestiva lotte rivendicative e di protesta, diffondeva la propria cultura (propaganda politica e iniziative culturali), creava le organizzazioni confacenti a questi compiti e supponeva che tutto ciò, giunto ad un certo (imprecisato) punto di sviluppo e in congiunzione con certe circostanze, si sarebbe non si sa come trasformato in insurrezione per la conquista del potere, senza che la borghesia movesse un dito per impedire che si arrivasse a quel punto.

Questa era stata la linea del PSI. Fu quella prevalente nel PCd’I tra le due guerre nonostante un gran numero di spunti e tentativi di rompere con questa tradizione prodotti dalla confluenza di tendenze interne con la pratica e l’esperienza della 3° Internazionale e della guerra di Spagna. Negli anni 20 e nei primi anni 30 il corpo e la direzione del PCd’I sono percorsi da tendenze e tentativi di sviluppare un’attività combattente di partito e di massa che però furono soffocate dalla confluenza dell’opposizione «di sinistra» che avversava una linea di massa su questo terreno (tipico il sabotaggio del movimento degli «Arditi del popolo») con l’opposizione di destra che avversava l’attività combattente in generale. Mentre i protagonisti dei tentativi di attività militare a loro volta non arrivano mai a dare ad essi l’organicità di una linea basata su un’analisi del movimento economico e politico della società borghese nella fase imperialista.

Durante la Resistenza la linea del PCI non fu dissimile, anche se a causa delle circostanze si pose prevalentemente sul piano militare. Il PCI non si mosse mai complessivamente ed organicamente come partito che lottava per conquistare il potere per il proletariato. Si pose sempre come partito che lottava per estendere a settori più ampi della popolazione i diritti sanciti dalla democrazia borghese, per il ristabilimento delle istituzioni della democrazia borghese, per l’uguaglianza politica ed il miglioramento delle condizioni di vita. E man mano che questa linea si rivelava impotente e questa strada impercorribile, abbandonava uno ad uno i suoi obiettivi, riduceva passo dopo passo le sue richieste.

Dopo il 25 aprile ’45 la linea ufficiale del PCI fino all’ottavo congresso (1956) e delle sue correnti di sinistra fino a noi (meglio, fino a Cossutta) fu una versione farsesca della «linea insurrezionalista», ed è questa versione che vari compagni del movimento rivoluzionario e vari personaggi di altri movimenti criticano come «linea insurrezionalista della 3° Internazionale», in una combinazione di ignoranza e di calcolo.

Il PCI non ebbe insomma mai una linea militare, una linea che anche in campo militare raccogliesse, rendesse organico e sistematico ed elevasse al livello di strumento di lotta politica quanto spuntava tra le masse e quindi ne favorisse lo sviluppo.

La linea di tutte le opposizioni di sinistra (i gruppi) a cavallo tra gli anni 60 e gli anni 70 fu simile a quella del PCI.

I gruppi, nei casi migliori, in questo come in altri campi cercarono di rompere con gli sviluppi ultimi del revisionismo del PCI, non con l’impianto generale. Del resto questo era inevitabile dato che essi, nonostante tutti i rigori di linea organizzativa adottati, non si elevarono mai molto al di sopra della condizione di organizzazioni di massa, non riflettevano la coscienza d’avanguardia, ma riflettevano (sia pur estremizzandola) la coscienza comune, diffusa del movimento di massa ed erano guidati da questa coscienza comune che inevitabilmente era una combinazione variegata ed instabile di elementi dell’esperienza diretta e di elementi della cultura della classe dominante.

Essi furono quasi unicamente movimenti pratici e cessarono di esistere, senza bisogno di una specifica azione per eliminarli, quando rifluì il movimento di massa che li aveva prodotti. Le conquiste economico-pratiche e di costume cui essi avevano contribuito, vengono via via eliminate dall’avanzare della crisi economica e dalla conseguente ristrutturazione della società (il lamentato «imbarbarimento») e di esse non rimase nulla che passasse al futuro. Cosa è rimasto delle loro analisi? In cosa hanno portato avanti il patrimonio teorico, conoscitivo, il bagaglio d’esperienze del movimento operaio italiano? Cosa è rimasto dei loro metodi d’azione?

La scomparsa dalla scena politica e la dissociazione dalla lotta di classe degli uomini che ne fecero parte, oltre che rispondere in una certa misura alla composizione di classe dei gruppi (25), rispecchiò la loro natura di organizzazioni di massa: quando un’iniziativa di massa cessa senza aver raggiunto i suoi obiettivi, i suoi protagonisti tornano alle loro normali abitudini.

La «propaganda armata» introdusse nel movimento operaio e popolare italiano un’esperienza pratica nuova. Le lotte rivendicative, le occupazioni di fabbriche, di case e di luoghi pubblici, le dimostrazioni di piazza, i servizi d’ordine, gli scontri di piazza e tutte le altre forme assunte dal movimento di quegli anni, erano forme già note, già appartenenti all’esperienza del movimento operaio e popolare del nostro paese e molte di esse non raggiunsero in quegli anni l’ampiezza e l’intensità che avevano raggiunto in altri periodi.

Ciò che fu innovativo fu la «propaganda armata», un’organizzazione comunista che ponesse programmaticamente la lotta armata come strumento dell’azione politica propria e delle masse. Per la prima volta ciò entrò e riuscì a mettere radici nel movimento operaio e popolare italiano. Diventò una nuova realtà. Le bande quindi costituiscono il compimento finalmente raggiunto delle tendenze, dei tentativi e delle aspirazioni ad adeguare la strategia proletaria alle condizioni politiche della fase imperialista presenti nella storia della 3° Internazionale dalla sua fondazione.

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La generalizzazione del reato di «banda armata» e di «associazione sovversiva» è l’indice del nostro successo. Siamo riusciti a costituire un centro della lotta del proletariato per il potere. Ad esso vengono addebitati tutti i reati politici, tutti i tentativi (veri o presunti) di sovversione dell’ordine borghese. Tutto ciò che nel proletariato si muove in contrasto con l’ordine borghese viene fatto risalire alle bande, e ciò è un esempio di come anche i movimenti dell’avversario portino acqua al nostro mulino, quando il nostro mulino macina nel senso del movimento oggettivo.

Siamo riusciti ad agganciare il nemico e portarlo sul nostro terreno. Il proletariato ha ripreso in mano l’iniziativa in campo politico.

C’era una società in cui la lotta politica era diventata politica-spettacolo; contemporaneamente la base della società viveva un contrasto antagonista di interessi che restava fuori dalla politica e a quel livello si consumavano le peggiori nefandezze. Ebbene noi siamo riusciti a rompere quella finzione di lotta politica e a far diventare lotta politica quello scontro antagonista di interessi che si svolge alla base della società. O meglio, siamo riusciti a rompere quella finzione di lotta politica e abbiamo gettato il seme perchè lo scontro di interessi antagonisti che si svolge alla base della società diventi lotta politica, lotta per il potere. Si è creata una situazione in cui per qualunque proletario che si affaccia alla lotta e incomincia a concepire l’emancipazione della propria classe, il problema si pone nei termini: aderire alle bande o lasciar perdere e rassegnarsi?