La Voce 2

Dobbiamo avere un “programma minimo”?

lunedì 12 luglio 1999.
 

Un’obiezione seria che è stata fatta al Progetto di Manifesto Programma è che manca un “programma minimo”. Credo che chi ha fatto l’obiezione intenda per “programma minimo” un insieme di obiettivi la cui realizzazione non presuppone la conquista del potere da parte della classe operaia, che la classe operaia può strappare alla borghesia nell’ambito della società borghese con lotte e pressioni adeguate.

Che senso avrebbe un “programma minimo” nel programma del nuovo partito?

L’Italia non è un paese semifeudale, che deve compiere o completare una rivoluzione democratico-borghese. Nel secolo scorso per i partiti socialdemocratici (non a caso si chiamavano socialdemocratici) dei paesi capitalisti restava il compito di completare la rivoluzione democratico-borghese. In nessun paese era riconosciuto il diritto di voto delle donne. In molti paesi anche il diritto di voto per gli uomini era ancora limitato a quelli che avevano almeno un dato livello di patrimonio o di reddito o di istruzione. Sussistevano altre limitazioni legali che escludevano completamente o parzialmente alcune categorie, nazionalità o le donne da diritti politici o civili. In alcuni di essi, e l’Italia era tra questi, nell’agricoltura restavano vaste tracce dell’economia feudale e addirittura dell’“economia naturale”, di autosussistenza e nell’agricoltura lavorava ancora una grande parte della popolazione. Il “programma minimo” sintetizzava le trasformazioni relative a questi aspetti della società e le rivendicazioni relative al miglioramento delle condizioni degli operai. Nei paesi feudali o semifeudali il “programma minimo” era il programma della rivoluzione democratico-borghese e ora è il programma della rivoluzione di nuova democrazia.

Nel nostro paese attualmente le limitazioni per legge dei diritti civili e politici sono poca cosa: alcuni privilegi legalmente riservati al clero, alla chiesa cattolica e al Vaticano (il caso del cardinale Giordano insegna). L’unica grande limitazione legale dei diritti politici e civili è quella che colpisce i lavoratori qualificati come stranieri, soggetti alle leggi dell’immigrazione che in ogni paese imperialista legalizzano l’oppressione degli stranieri poveri. Questa questione riguarda da noi più di un milione di lavoratori e merita effettivamente una riflessione a sé. Il problema dei residui feudali è stato nella sostanza risolto dalla prima ondata della rivoluzione proletaria.

Le limitazioni pratiche dei diritti civili e politici sono grandissime e universali: alcune riguardano la massa dei lavoratori, altre colpiscono alcune categorie nazionali e razziali, le donne, i bambini, gli anziani, ecc. Ma esse non si basano sulle leggi: queste anzi proclamano l’eguaglianza e a volte addirittura l’azione positiva a favore degli esclusi (riservano un certo numero minimo di posti alle donne, alle minoranze, ecc., limitano orari e lavori nocivi per le donne e i ragazzi, stabiliscono tariffe ridotte per gli anziani, ecc.). Le limitazioni pratiche si basano sulla proprietà capitalista dei mezzi di produzione. Quindi l’eliminazione di queste limitazioni è oggetto solo della rivoluzione socialista e può essere fatta solo dalla dittatura del proletariato. Porre le cose diversamente, introdurre nel programma l’eliminazione delle limitazioni pratiche come “conquiste realizzabili nell’ambito della società borghese” è una deviazione, si rifà a una concezione non comunista. O sarebbe accettare la concezione degli “obiettivi mobilitanti”: porre in una lotta rivendicativa obiettivi “economicamente impossibili” (1), irrealizzabili nell’ambito del capitalismo, ma che dovrebbero adescare le masse alla lotta rivoluzionaria, secondo la concezione alla Lotta Continua delle ciliege che “una tira l’altra”. Una concezione del programma che al più può allignare tra i membri delle società segrete: un programma “comunista” per i membri della società segreta e un insieme di “obiettivi mobilitanti” da propagandare tra le masse. O introdurrebbe di soppiatto nel programma del partito una concezione da “via graduale al socialismo”: direbbe implicitamente che è possibile eliminare quelle limitazioni pratiche senza eliminare il potere della borghesia e instaurare la dittatura del proletariato. Né l’una né l’altra concezione sono accettabili nel programma del futuro partito comunista.

Quindi la questione del “programma minimo” diventa per l’essenziale la questione delle FAUS (Forme Antitetiche dell’Unità Sociale), la questione della difesa delle conquiste strappate dalle masse durante il periodo del capitalismo dal volto umano e la questione delle rivendicazioni economico-pratiche e sindacali.

- Le FAUS costituiscono di per se stesse un combinazione del carattere oramai collettivo dell’attività economica con la sopravvivenza dei rapporti di produzione capitalisti e del resto dei rapporti sociali borghesi, una mediazione tra i due termini. Esse sono fatte dalla borghesia al potere. Ponendo la questione del “programma minimo” i compagni quindi hanno innanzitutto posto la questione di una maggiore comprensione delle FAUS e dell’utilizzo politico di essa.

- Quanto alla difesa delle conquiste, credo che il programma dovrebbe semplicemente contenere la tesi che il partito comunista deve appoggiare, organizzare e dirigere ogni gruppo di lavoratori, piccolo o grande, che difende qualche sua conquista, qualunque essa sia, dalla rapina della borghesia imperialista.

- Per quanto riguarda le rivendicazioni economico-pratiche e sindacali, il “programma minimo” vorrebbe dire un elenco di rivendicazioni economico-pratiche, di obiettivi sindacali, che il partito si impegna a sostenere, tipo riduzione dell’orario di lavoro (ma bisognerebbe precisare a quanto), salario minimo garantito o salario sociale (ma bisognerebbe indicare quanto) e così via in ogni campo. Io credo che un simile elenco avrebbe due inconvenienti gravi. 1. Legherebbe le mani al partito, che invece deve essere libero di sostenere ogni gruppo di lavoratori per piccolo esso sia che si trova in condizione di poter rivendicare dalla borghesia imperialista dei miglioramenti. Quindi libero anche di sostenere richieste contrastanti dirigendo i rispettivi sostenitori contro la borghesia imperialista. Mi pare che ciò rispecchi meglio il carattere collettivo oramai raggiunto dall’attività economica. Hanno ragione i lavoratori delle ferrovie a scioperare e hanno ragione le masse popolari che devono viaggiare e protestano perché le ferrovie sono ferme. Il partito deve sostenere entrambe le rivendicazioni, organizzarle, promuoverle e dirigerle entrambe contro la borghesia imperialista. La borghesia imperialista usa le rivendicazioni di un gruppo di lavoratori per contrapporlo a un altro gruppo, per dividere i lavoratori. Noi dobbiamo usarle per unirli contro il nemico comune. Il carattere collettivo dell’attività economica nell’attuale società fa sì che le singole parti delle masse popolari o lottano unite contro la borghesia imperialista o si battono l’una contro l’altra in definitiva a beneficio esclusivo della borghesia imperialista. 2. Il “programma minimo” come elenco di rivendicazioni diventerebbe ciò su cui si butterebbero tutti i movimentisti ed economicisti a scapito del programma per la rivoluzione socialista e faciliterebbe nelle file del partito le tendenze economiciste e movimentiste.

In conclusione ritengo che la questione del “programma minimo” diventerebbe più chiara e quindi diventerebbe più facile trovare la soluzione giusta se i sostenitori dell’inserimento di un “programma minimo” provassero loro stessi a stendere una proposta di “programma minimo”. Ovviamente il problema non è solo loro, è di noi tutti e quindi anche la soluzione del problema è compito di tutti noi.

Nicola P.

20 giugno ‘99

 


NOTE

 

1. Per economicamente impossibili intendiamo obiettivi logicamente incompatibili con il modo di produzione capitalista come il denaro-lavoro lo è con la produzione di merci (vedasi Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo (1916), in Opere vol. 23).