Indice degli scritti di Lenin

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Presentazione

Presentiamo qui di seguito, come testo a se stante, il capitolo 1 dell’opera di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in Russia, prima edizione 1899 - seconda edizione 1907. Il testo è tratto dal vol. 3 delle Opere complete, Editori Riuniti 1956, ma è stato ritoccato per aggiornare e uniformare il linguaggio.

A nostro parere questo testo è attuale per tre motivi. Per questi tre motivi lo pubblichiamo e ne consigliamo lo studio.

In primo luogo esso mostra in che senso noi comunisti trattiamo l’economia capitalista e più in generale la società umana come oggetto di conoscenza scientifica. Fenomeni complessi, vengono scomposti nelle loro parti elementari costitutive che non sono percepite direttamente con i sensi ma vengono scoperte, come nello studio chimico della materia si sono scoperte le molecole e gli atomi. Queste vengono studiate assieme alle relazioni che le legano tra loro, allo stato attuale e nel percorso storico che hanno alle spalle e quindi assieme alle leggi in conformità alle quali si sviluppano. Il tutto viene poi ricomposto nella nostra mente come una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni. Il mondo che all’osservatore superficiale e frettoloso, che con i metodi e strumenti del primo pilastro del regime di controrivoluzione preventiva la borghesia imperialista e il clero distolgono dallo studio della lotta di classe, appare come un insieme caotico e complesso, è così ricostruito nella nostra mente come un sistema di cose e di relazioni. Abbiamo così di che guidarci nella nostra attività per trasformarlo. Questo è il metodo dell’economia politica, descritto da Marx in uno dei pezzi celebri dei Grundrisse (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, pagg. 24-34 della edizione Einaudi 1976) reperibile anche sul sito www.nuovopci.it. Questa ricca totalità di cose e relazioni noi opponiamo a quei compagni che l’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria e il predominio della sinistra borghese hanno distolto dallo studio della concezione comunista del mondo. Come pensatori, essi sono di conseguenza eclettici, pragmatici, empiristi e comunque impediti dal conoscere scientificamente la realtà che vogliono trasformare e dall’operarvi efficacemente. Si agitano a vuoto quasi come in un incubo, cercando di districarsi dagli effetti molteplici della crisi generale del capitalismo. Rimproverano noi comunisti di essere schematici e dogmatici, incoraggiati nelle loro ingiurie dall’appoggio della borghesia imperialista e del clero, ma soprattutto dalle difficoltà che noi comunisti incontriamo nella nostra opera e dalle nostre sconfitte. Conoscere scientificamente il mondo attuale non significa infatti conoscerlo in misura definitiva né esauriente. Non salva quindi da insuccessi e sconfitte, analogamente a come neanche ai migliori chimici riescono tutti gli esperimenti.

In secondo luogo questo testo è una buona introduzione all’analisi della classi in cui è divisa la nostra società. La storia che stiamo vivendo è in ultima istanza, nonostante le forme variopinte che assume in ogni singolo paese e a livello internazionale, storia di lotta tra classi di oppressi e oppressori, di sfruttati e sfruttatori. È così sarà finché non avremo instaurato il socialismo e nel corso della transizione al comunismo la divisione dell’umanità in classi sociali sarà scomparsa. Rifiutare di riconoscere la divisione in classi e il ruolo fondamentale della lotta tra esse è una delle  caratteristiche della sinistra borghese e dei compagni ideologicamente influenzati dalla borghesia imperialista e dal clero tramite la sinistra borghese. Solo riconoscendo la lotta tra le classi che sta a fondamento delle mille lotte che l’umanità conduce, è possibile capire il significato reale delle forme variopinte delle lotte e delle svariate contrapposte bandiere sotto cui le lotte vengono combattute e quindi condurle secondo una linea e con un metodo efficaci.

La composizione di classe del nostro paese necessita di uno studio apposito. Non a caso nel nostro paese settanta anni fa si è imposta la Repubblica Pontificia, un fenomeno unico al mondo. Lo sviluppo del capitalismo nelle campagne 1860-1900 di Emilio Sereni (1907-1977) è uno studio che raccomandiamo, dopo la lettura del testo di Lenin che qui pubblichiamo e dei cinque testi dedicati all’analisi di classe pubblicati nei volumi 1 e 2 delle Opere di Mao Tse-tung (Edizioni Rapporti Sociali): Analisi della varie classi rurali della Cina e loro atteggiamento nei confronti della rivoluzione (gennaio 1926), Analisi delle classi della società cinese (febbraio 1926), Analisi delle classi della società cinese (marzo 1926), I contadini dello Hunan (novembre 1926), Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan (marzo 1927).

In terzo luogo questo testo è una buona dimostrazione pratica di dialettica. Dopo aver lungo varie pagine dimostrato l’inconsistenza del mercato estero come spiegazione della realizzazione del prodotto dell’attività economica della società capitalista, Lenin conclude spiegando perché per ogni paese capitalista il mercato estero è indispensabile e spiegando quindi perché non esiste alcun paese capitalista senza mercato estero. Per districarci nelle lotte di oggi e por fine alla crisi economica, ecologica e politica che sconvolge il mondo, noi abbiamo bisogno di capire che la crisi finanziaria esplosa nel 2007 non è che la manifestazione superficiale e fenomenica della crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale in corso dagli anni ’70 del secolo scorso e in che senso ne è la manifestazione; nello stesso tempo abbiamo a che fare immediatamente e direttamente con gli effetti della crisi finanziaria a cui però è impossibile dare diretta soluzione. In queste circostanze la logica dialettica, che accetta nel pensiero l’unità degli opposti, è strumento indispensabile per capire e per agire. Chi vi si rifiuta, è ridotto a balbettare: c’è la crisi, non c’è più la crisi; c’è questo, ma c’è anche quello e pure quell’altro. Fino a presentare la crescita di una escrescenza tumorale (il settore finanziario) come il recupero della salute (dell’economia capitalista).

 

 

Gli errori degli economisti populisti

 

(corrente sorta in Russia nella seconda metà del secolo XIX - per maggiori informazioni vedere lo scritto di Lenin Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i comunisti, 1894 in Opere complete vol. 1)

 

Il mercato è una categoria dell’economia basata sulla produzione di merci (mercantile). Questa nel corso del suo sviluppo si trasforma in economia capitalista e solo quando esiste quest’ultima, l’economia mercantile acquista pieno dominio ed universale diffusione. Per esaminare le tesi teoriche fondamentali relative al mercato interno dobbiamo perciò prendere le mosse dall’economia mercantile semplice (cioè non capitalista) e seguirne la graduale trasformazione in economia capitalista.

 

1. La divisione del lavoro nella società

Base dell’economia mercantile è la divisione del lavoro all’interno della società. L’industria di trasformazione si distacca dall’industria di estrazione e ciascuna delle due si suddivide in settori e sottosettori e ognuno di essi crea i suoi prodotti specifici sotto forma di merci e li scambia con tutti gli altri prodotti. Lo sviluppo dell’economia mercantile porta così ad aumentare il numero dei rami d’industria separati ed indipendenti. Una tendenza di questo sviluppo consiste nel trasformare in ramo d’industria a sé non solo la produzione di ogni singolo articolo, ma perfino di ogni singola parte di un articolo; e non solo la produzione di un articolo, ma perfino le singole operazioni che lo preparano per il consumo (confezionamento, trasporto, vendita, ecc.).

In regime di economia naturale la società era composta di un gran numero di unità economiche simili (omogenee) indipendenti l’una dall’altra e autosufficienti (famiglie contadine patriarcali, comunità rurali primitive, benefici feudali dei nobili e del clero). Ciascuna di esse svolgeva attività economiche d’ogni sorta: dalla produzione delle varie specie di materie prime alla loro preparazione definitiva per il consumo. Con l’economia mercantile si costituiscono unità economiche diverse l’una dall’altra (eterogenee), aumenta il numero dei rami economici separati, diminuisce quello delle aziende che hanno la stessa funzione economica. Questo aumento progressivo della divisione sociale del lavoro è appunto il momento decisivo nel processo di creazione del mercato interno per il capitalismo.

“... Nella produzione di merci e nella produzione capitalista, che ne è la forma finale, il suo coronamento... - dice Marx - i prodotti sono merci, valori d’uso che possiedono un valore di scambio, e precisamente un valore di scambio realizzabile, convertibile in denaro, unicamente nella misura in cui altre merci costituiscono per essi un equivalente, altri prodotti si trovano di fronte ad essi in quanto merci e in quanto valori; nella misura quindi in cui essi non vengono prodotti come mezzi diretti di sussistenza per i loro produttori stessi, ma come merci, come prodotti che diventano valori d’uso unicamente tramite la loro conversione in valore di scambio (denaro), tramite la loro alienazione. Il mercato di queste merci si sviluppa con la divisione sociale del lavoro; la separazione dei lavori produttivi l’uno dall’altro trasforma i loro prodotti rispettivi reciprocamente in merci, in equivalenti reciproci, fa sì che essi servano l’un l’altro da mercato” (Il capitale, vol. 3. Qui come in tutte le altre citazioni, salvo avviso contrario, il corsivo è di Lenin).

È ovvio che questo distacco dell’industria di trasformazione da quella d’estrazione, della manifattura dall’agricoltura, trasforma anche la stessa agricoltura in industria, cioè in una ramo dell’economia che produce merci. Il processo di specializzazione, che separa l’una dall’altra le diverse specie di lavorazione dei prodotti, creando un numero crescente di rami d’industria, si manifesta anche nell’agricoltura, creando zone agricole (e sistemi di conduzione agricola)* che si specializzano sempre più, suscitando lo scambio non solo fra i prodotti dell’agricoltura equelli dell’industria, ma anche

 

* Così, per esempio, I. A. Stebut, nelle sue Basi della coltura dei campi, distingue nell’agricoltura diversi sistemi di conduzione, secondo il principale prodotto destinato al mercato. I principali sistemi di conduzione sono tre: 1) agricolo (cerealicolo, secondo l’espressione del signor A. Skvortsov); 2) allevamento: il principale prodotto portato sul mercato è costituito dai prodotti dell’allevamento) e 3) industriale (tecnico, secondo l’espressione del signor A. Skvortsov): principale prodotto portato sul mercato è costituito dai prodotti agricoli sottoposti a trattamento industriale. Cfr. A. Skvortsov, L’influenza dei trasporti a vapore sull’agricoltura, Varsavia, 1890, p. 68 e sgg.

 

fra i diversi prodotti dell’economia agricola. Questa specializzazione dell’agricoltura mercantile (e capitalista) si manifesta in tutti i paesi capitalisti: si manifesta nella divisione internazionale del lavoro e si manifesta anche, come mostreremo particolareggiatamente più avanti, nella Russia posteriore alla riforma (abolizione della servitù della gleba, 1861).

Sicché la divisione sociale del lavoro è la base i tutto il processo di sviluppo dell’economia mercantile e del capitalismo. È quindi più che naturale che i nostri teorici del populismo, dichiarando quest’ultimo processo un risultato di misure artificiose, un risultato della “deviazione dalla retta via”, ecc. ecc., si siano ingegnati di occultare il fatto della divisione sociale del lavoro in Russia o di diminuirne l’importanza. Nel suo articolo La divisione del lavoro agricolo e industriale in Russia (Viestnik Ievropye, 1884, n. 7), il signor V. V. (V.P. Vorontsov) “nega” “il dominio in Russia del principio della divisione sociale del lavoro” (p. 347) e afferma che da noi questa divisione sociale del lavoro “non è germogliata dal profondo della vita del popolo, ma ha cercato di insinuarvisi dall’esterno” (p. 338). A proposito dell’aumento della quantità di cereali messi in vendita, il signor N.-on (N.F. Danielson) nel suo Profilo ragiona come segue: “Questo fenomeno potrebbe far credere che il grano prodotto si distribuisca nel nostro paese in maniera più uniforme, che il pescatore di Arcangelo mangi oggi il pane di Samara e che l’agricoltore di Samara renda più gradevole il suo pranzo con il pesce di Arcangelo. In realtà, però, non avviene nulla di simile” (Profilo della nostra economia sociale dopo la riforma, Pietroburgo, 1893, p. 37). Senza dati di sorta e a dispetto di fatti universalmente noti, qui si decreta addirittura l’inesistenza della divisione sociale del lavoro in Russia! La teoria populista del “carattere artificioso” del capitalismo in Russia non poteva essere costruita altrimenti che negando o dichiarando “artificiosa” la base stessa di ogni economia mercantile, la divisione sociale del lavoro.

 

2. L’aumento della popolazione industriale a spese di quella agricola

Dato che nell’epoca che precede l’economia mercantile l’industria di trasformazione è unita a quella d’estrazione e che alla base di quest’ultima sta l’agricoltura, lo sviluppo dell’economia mercantile si presenta come distacco dall’agricoltura di un ramo d’industria dopo l’altro. La popolazione di un paese in cui l’economia mercantile è ancora debolmente sviluppata (o non lo è affatto), è quasi esclusivamente agricola. Ciò non va inteso, tuttavia, nel senso che la popolazione si dedica esclusivamente all’agricoltura. Significa semplicemente che la popolazione occupata nell’agricoltura lavora essa stessa i prodotti dell’agricoltura, che lo scambio e la divisione del lavoro sono pressoché inesistenti. Sviluppo dell’economia mercantile significa, quindi, di per se stesso, distacco dall’agricoltura di una parte crescente della popolazione, cioè aumento della popolazione industriale a spese di quella agricola. “Fa parte della natura del modo di produzione capitalista di diminuire continuamente la popolazione agricola in rapporto a quella non agricola, per il fatto che nell’industria (intesa in senso stretto) l’accrescersi del capitale costante rispetto al capitale variabile è collegato con l’accrescersi assoluto, nonostante la sua diminuzione relativa, del capitale variabile; mentre nell’agricoltura il capitale variabile richiesto per lo sfruttamento di un determinato pezzo di terreno diminuisce in termini assoluti, quindi può accrescersi solo in quanto viene coltivato nuovo terreno, il che presuppone a sua volta un accrescimento ancora maggiore della popolazione non agricola” (Il capitale, vol. 3).

Non ci si può dunque rappresentare il capitalismo senza un incremento della popolazione industriale e commerciale a spese di quella agricola. Tutti sanno che questo fenomeno si manifesta in forma molto accentuata in tutti i paesi capitalisti. È senza dubbio superfluo dimostrare che nella questione del mercato interno questa circostanza è straordinariamente importante, giacché è inseparabile sia dall’evoluzione dell’industria che da quella dell’agricoltura. Il sorgere di centri industriali, l’aumento del loro numero e l’attrazione che essi esercitano sulla popolazione non possono non avere la più profonda influenza su tutto il regime esistente nelle campagne, non possono non determinare lo  sviluppo dell’agricoltura mercantile e capitalista. È perciò tanto più significativo il fatto che gli esponenti dell’economia populista ignorino completamente questa legge sia nei loro ragionamenti puramente teorici che nei loro ragionamenti sul capitalismo in Russia (delle particolari manifestazioni di questa legge in Russia ci occuperemo diffusamente più avanti, nell’ottavo capitolo). Nelle teorie dei signori V. V. e N.-on sul mercato interno per il capitalismo si trascura un’inezia: lo spostarsi della popolazione dall’agricoltura verso l’industria e l’influenza di questo fatto sull’agricoltura.*

 

* Che i romantici dell’Europa occidentale e i populisti russi assumano nei confronti del problema dell’aumento della popolazione industriale un atteggiamento identico è stato da noi rilevato nell’articolo Caratteristiche del romanticismo economico. Sismondi e i nostri sismondisti russi (vedere Lenin, Opere complete vol. 2).

 

3. Rovina dei piccoli produttori

Abbiamo finora trattato della produzione mercantile semplice. Passiamo adesso alla produzione mercantile capitalista, cioè supponiamo di avere davanti a noi, invece di semplici produttori di merci, da una parte il possessore dei mezzi di produzione e dall’altra l’operaio salariato, colui che vende la sua forza-lavoro. Il piccolo produttore si trasforma in operaio salariato quando perde i mezzi di produzione - terra, strumenti di lavoro, officina, ecc. - ossia è “impoverito “, “rovinato”. Si obietta che questa rovina “contrae la capacità di acquisto della popolazione”, “contrae il mercato interno” per il capitalismo (così il signor N.-on, l. c., p. 185. Vedere anche pp. 203, 275, 287, 339-340 ed altre. Lo stesso punto di vista vien fatto proprio anche dal signor V. V. nella maggior parte delle sue opere). Non ci occupiamo per ora dei dati concernenti il ritmo di questo processo in Russia: esamineremo questi dati particolareggiatamente nei capitoli seguenti. Per il momento la questione viene posta in modo puramente teorico: si tratta cioè della produzione mercantile in generale durante il suo processo di trasformazione in produzione capitalista. Gli scrittori menzionati pongono anch’essi la questione in modo teorico, e cioè traggono la conclusione che il mercato interno si contrae dal solo fatto della rovina dei piccoli produttori.

Questa concezione è completamente sbagliata. Il fatto che essa sopravviva ostinatamente nella nostra letteratura economica si può spiegare soltanto coi pregiudizi romantici del populismo (Vedere l’articolo Caratteristiche del romanticismo economico. Sismondi e i nostri sismondisti russi - Lenin, Opere complete vol. 2). Si dimentica che la “liberazione” di una parte dei produttori dai mezzi di produzione presuppone necessariamente il passaggio di questi ultimi in altre mani, la loro trasformazione in capitale; presuppone, quindi, che i nuovi possessori di questi mezzi di produzione producano sotto forma di merci i prodotti che prima servivano al consumo del produttore stesso, che cioè estendano il mercato interno; che, allargando la loro produzione, questi nuovi possessori avanzino sul mercato la domanda di nuovi strumenti, di materie prime, di mezzi di trasporto, ecc., nonché di beni di consumo (l’arricchimento di questi nuovi possessori presuppone naturalmente anche un aumento del loro consumo). Si dimentica che ciò che importa per il mercato non è affatto il benessere del produttore, ma che questi disponga di mezzi monetari; la diminuzione del benessere del contadino patriarcale, la cui economia era in passato un’economia naturale, è pienamente conciliabile con l’aumento dei suoi mezzi monetari, giacché quanto più questo contadino si rovina, tanto più è costretto a ricorrere alla vendita della sua forza-lavoro e tanto maggiore è la parte dei mezzi di sostentamento (anche se più esigui) ch’egli deve acquistare sul mercato. “Dunque, mentre una parte della popolazione rurale è resa disponibile [liberata dalla terra], vengono resi disponibili anche i suoi antichi mezzi di sostentamento, i quali si trasformano ora in elemento materiale del capitale variabile” (del capitale speso per l’acquisto della forza-lavoro) (Il capitale,vol. 1). “L’espropriazione e la cacciata d’una parte della popolazione rurale non solo mette a libera disposizione del capitale industriale, assieme agli operai, i loro mezzi di sussistenza e la loro materia da lavoro, ma crea anche il mercato interno” (Il capitale,vol. 1). Perciò, dal punto di vista teorico astratto, in una società in cui si sviluppano l’economia mercantile e il capitalismo, la rovina dei piccoli produttori indica esattamente l’opposto di quel che vogliono dedurne i  signori N.-on e V. V.: indica il costituirsi, non il contrarsi del mercato interno. Se poi lo stesso signor N.-on, che dichiara a priori che la rovina dei piccoli produttori russi indica che il mercato interno si contrae, cita nondimeno le affermazioni opposte di Marx ora riportate (Profilo, pp. 71 e 114), ciò prova soltanto che questo scrittore possiede la notevole facoltà di darsi la zappa sui piedi con citazioni di Il capitale.

 

4. La teoria populista dell’impossibilità di realizzare il plusvalore

Un’altra questione relativa alla teoria del mercato interno è la seguente. È noto che nella produzione capitalista il valore del prodotto si scompone in tre parti, delle quali 1. la prima sostituisce il capitale costante, cioè quel valore che esisteva anche prima sotto forma di materie prime e ausiliarie, macchine e strumenti di produzione, ecc., e che si riproduce semplicemente in una certa parte del prodotto finito, 2. la seconda sostituisce il capitale variabile, cioè copre le spese per il sostentamento dell’operaio, e, infine, 3. la terza costituisce il plusvalore che appartiene al capitalista. Si ammette generalmente (esponiamo la questione dal punto di vista dei signori N.-on e V. V.) che la realizzazione (cioè la possibilità di trovare l’equivalente adeguato, la vendita sul mercato) delle due prime parti non presenta difficoltà, giacché la prima viene assorbita dalla produzione e la seconda dal consumo della classe operaia. Ma come si realizza la terza parte, il plusvalore? Essa non può mai venire consumata interamente dai capitalisti! E i nostri economisti giungono alla conclusione che la “via d’uscita dalla “difficoltà” inerente alla realizzazione del plusvalore sta nella conquista di un mercato estero” (N.-on, Profilo, sez. Il, § 15 in generale, e p. 205 in particolare; V. V., L’eccedenza nell’approvvigionamento del mercato, in Otiecestvennye Zapiski, 1883, e Lineamenti di economia teorica, Pietroburgo, 1895, p. 79 e sgg.). Questi autori spiegano la necessità del mercato estero per un paese capitalista con l’impossibilità in cui i capitalisti si trovano di realizzare in altro modo i loro prodotti. In Russia il mercato interno si contrae perché i contadini vanno in rovina, ed è impossibile realizzare il plusvalore senza un mercato estero, che d’altronde è inaccessibile ad un paese giovane che ha imboccato troppo tardi la via dello sviluppo capitalista: ecco come con ragionamenti aprioristici (e per giunta teoricamente errati) si dà come dimostrato che il capitalismo russo è senza radici ed è nato morto!

Dissertando sulla realizzazione, il signor N.-on aveva probabilmente la mente rivolta alla dottrina di Marx sull’argomento (sebbene in questa parte del suo Profilo non faccia parola di Marx); egli però non l’ha assolutamente compresa e, come ora vedremo, l’ha deformata al punto da renderla irriconoscibile. Perciò accade il fatto curioso che le sue opinioni coincidano, nella parte essenziale, con quelle del signor V. V., che non si può in nessun modo accusare di “non aver compreso” la teoria, poiché sarebbe sommamente ingiusto sospettarlo di averne la benché minima conoscenza. I due autori espongono le loro teorie come se fossero i primi ad affrontare quest’argomento e fossero giunti a certe soluzioni “col loro proprio cervello”; entrambi ignorano con sublime disinvoltura i ragionamenti dei vecchi economisti sulla questione, ripetendo vecchi errori già confutati nel modo più circostanziato nel secondo volume di Il capitale *. I due autori riducono tutta la questione della realizzazione del prodotto alla realizzazione del plusvalore, immaginando evidentemente che la realizzazione del capitale costante non presenti difficoltà. Questa concezione ingenua contiene l’errore più profondo, dal quale sono scaturiti tutti gli altri errori della teoria populista della realizzazione. In realtà la difficoltà nella spiegazione della realizzazione sta tutta precisamente nella spiegazione della realizzazione del capitale costante.

 

* Colpisce soprattutto, qui, l’audacia del signor V. V., che supera tutti i limiti di ciò che è lecito ad uno scrittore. Dopo aver esposto la sua dottrina e dato prova di ignorare completamente il secondo volume di Il capitale, in cui si tratta precisamente della realizzazione, il signor V. V. dichiara subito e senza il minimo scrupolo di “essersi servito per le sue costruzioni” proprio della teoria li Marx!! (Lineamenti di economia teorica, Saggio III, La legge capitalista [sic!?] della produzione, della distribuzione e del consumo, p. 162).

  

Per essere realizzato, il capitale costante deve essere nuovamente impiegato nella produzione, cosa che però è direttamente fattibile solo per il capitale il cui prodotto consiste in mezzi di produzione. Se invece il prodotto che sostituisce la parte costante del capitale consiste in beni di consumo, il suo diretto impiego nella produzione è impossibile ed è necessario uno scambio fra il ramo della produzione sociale che fabbrica i mezzi di produzione e quello che fabbrica i beni di consumo. In questo sta precisamente tutta la difficoltà della questione, difficoltà che sfugge ai nostri economisti.

In generale il signor V. V. ci presenta le cose come se lo scopo della produzione capitalista non fosse l’accumulazione, ma il consumo, affermando gravemente che “una massa di beni materiali che supera le capacità di consumo dell’organismo [sic!] si viene a trovare, ad un determinato momento del loro sviluppo, nelle mani di una minoranza” (l. c., p. 149), che “la causa dell’eccedenza dei prodotti non sta nella modestia e nella moderatezza dei fabbricanti, ma nel fatto che l’organismo umano è limitato e insufficientemente elastico [!!] e non riesce a sviluppare le sue capacità di consumo con la stessa celerità con cui cresce il plusvalore” (ivi, p. 161).

Il signor N.-on cerca di presentare le cose come se non considerasse il consumo come lo scopo della produzione capitalista, come se tenesse conto della funzione e dell’importanza dei mezzi di produzione nella questione della realizzazione. Ma in realtà egli non si è fatto assolutamente un’idea chiara del processo di circolazione e di riproduzione del capitale sociale complessivo e si smarrisce in un dedalo di contraddizioni. Non ci attarderemo ad analizzare particolareggiatamente tutte queste contraddizioni (pp. 203-205 del Profilo del signor N.-on): sarebbe un compito troppo ingrato (in parte già assolto dal signor Bulgakov * nel suo libro Sui mercati in regime di produzione capitalista, Mosca, 1897, pp. 237-245), tanto più che per giustificare il nostro giudizio sui ragionamenti del signor N.-on basterà analizzare la conclusione finale, secondo la quale il mercato estero rappresenta la via d’uscita dalle difficoltà inerenti alla realizzazione del plusvalore. Questa sua conclusione (che, in fondo, non è che la semplice ripetizione di quella del signor V. V.) dimostra nel modo più evidente che il signor N.-on non ha affatto compreso né la realizzazione del prodotto nella società capitalista (cioè la teoria del mercato interno), né la funzione del mercato estero. E, in realtà, si può forse credere che vi sia un grano di buon senso nel chiamare in causa il mercato estero nella questione della “realizzazione”?

 

* Non sarà superfluo ricordare al lettore odierno che il signor Bulgakov, e con lui i signori Struve e Tugan-Baranovski, che noi citiamo frequentemente più avanti, nel 1899 si sforzavano di essere marxisti. Attualmente [nel 1907] essi hanno felicemente operato la loro metamorfosi da “critici di Marx” in volgari economisti borghesi (Nota alla II edizione).

 

Il problema della realizzazione è il seguente: come trovare per ogni parte del prodotto capitalista, sia dal punto di vista del valore (capitale costante, capitale variabile e plusvalore), che da quello della sua forma materiale (mezzi di produzione, beni di consumo, e, in particolare, generi di prima necessità e articoli di lusso) un’altra parte del prodotto che la sostituisca sul mercato?

È chiaro che qui si deve fare astrazione dal mercato estero, giacché chiamando in causa quest’ultimo non si fa progredire di un millimetro la soluzione del problema: ci se ne allontana anzi, trasferendo il problema da uno a più paesi.

Quello stesso signor N.-on che ha trovato nel commercio estero la “via d’uscita dalle difficoltà” inerenti alla realizzazione del plusvalore ragiona, per esempio, sul salario nel modo seguente: con la parte del prodotto annuo che i produttori diretti, gli operai, ricevono sotto forma di salario “si può sottrarre alla circolazione soltanto una parte dei mezzi di sussistenza, il cui valore equivale al salario sociale complessivo lordo” (p. 203). Ci si domanda: chi ha detto al nostro economista che i capitalisti di un dato paese produrranno mezzi di sussistenza esattamente in tale quantità e di  tale qualità da potersi realizzare col salario? Chi gli ha detto che qui si può fare a meno del mercato estero? È evidente che nessuno può averglielo detto e che egli ha lasciato semplicemente in disparte la questione del mercato estero, poiché, quando si ragiona della realizzazione del capitale variabile, quel che importa è che una parte del prodotto ne sostituisce un’altra e non che la sostituzione si attui all’interno di un solo paese o di due paesi. Ciò nonostante, per quel che riguarda il plusvalore egli abbandona questa premessa necessaria, e, invece di risolvere il problema, lo elude, parlando del mercato estero.

Ma anche lo smercio del prodotto sul mercato estero richiede di essere spiegato. Bisogna cioè trovare un equivalente per la parte della produzione messa in vendita, bisogna trovare un’altra parte della produzione capitalista capace di sostituire la prima. Ecco perché Marx dice appunto che nell’esame del problema della realizzazione “si deve fare completa astrazione” dal mercato estero, dal commercio estero, giacché “l’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto, può creare soltanto della confusione, senza fornire alcun elemento nuovo né del problema né della sua soluzione” (Il capitale, vol. 2). I signori V. V. e N.-on pensavano di esprimere un giudizio profondo sulle contraddizioni del capitalismo indicando le difficoltà inerenti alla realizzazione del plusvalore. In realtà, invece, ne hanno dato un giudizio superficialissimo, giacché, se si vuole parlare delle “difficoltà” della realizzazione, delle crisi che ne derivano, ecc., bisogna riconoscere che queste “difficoltà” sono non solo possibili, ma inevitabili per tutte le parti del prodotto capitalista, e non soltanto per il plusvalore.

Le difficoltà di questo genere, che dipendono dalla sproporzione nella distribuzione dei diversi rami della produzione, sorgono incessantemente non solo nella realizzazione del plusvalore, ma anche in quella del capitale variabile e costante; non solo nella realizzazione del prodotto sotto forma di beni di consumo, ma anche in quella del prodotto sotto forma di mezzi di produzione. Senza queste “difficoltà” e senza crisi in generale non può esserci produzione capitalista, produzione ad opera di produttori isolati per un mercato mondiale che essi non conoscono.

 

5. Le idee di A. Smith sulla produzione e circolazione del prodotto sociale complessivo nella società capitalista e la critica di questa concezione in Marx

Per veder chiaro nella teoria della realizzazione, dobbiamo cominciare da A. Smith. È questi che ha posto le basi della teoria erronea che ha regnato indisturbata nell’economia politica fino a Marx. A. Smith divideva il prezzo della merce in due sole parti: capitale variabile (salario, secondo la sua terminologia) e plusvalore (“profitto” e “rendita” non vengono da lui riuniti assieme, sicché, a voler essere precisi, egli contava tre parti) *. Allo stesso modo egli divideva anche tutto l’insieme delle merci, il prodotto annuo complessivo della società, in due parti, che considerava come il “reddito” di due classi della società: operai e capitalisti (in Smith imprenditori e proprietari fondiari) **.

 

* Adam Smith, An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, IV ediz., 1801, vol. I, p. 75. Libro I: Le cause dell’aumento della produttività del lavoro e l’ordine naturale della ripartizione del prodotto fra i diversi strati della popolazione, cap. 6: Delle parti che compongono il prezzo delle merci Trad. russa di Bibikov (Pietroburgo, 1866), vol. I, p. 171.

 

** Opera citata, I, p. 78. Trad. russa, I, p. 174.

 

Su che cosa si basa dunque A. Smith per omettere la terza parte costitutiva del valore, il capitale costante? Egli non poteva non vederla, ma supponeva che anch’essa si risolvesse in salario e plusvalore. Ecco come ragionava su questo argomento: “Nel prezzo del grano, per esempio, una parte paga la rendita del proprietario fondiario, un’altra paga il salario o il sostentamento degli operai e del bestiame da lavoro che furono occupati nella sua produzione e la terza parte paga il profitto del fittavolo. Queste tre parti sembrano o direttamente o in ultima istanza costituire il prezzo totale del grano. Una quarta parte può sembrare necessaria per sostituire il capitale del fittavolo, ovvero per sostituire il logorio  del suo bestiame da lavoro e degli altri attrezzi agricoli. Ma si deve tener presente che il prezzo di qualunque attrezzo agricolo, per esempio di un cavallo da tiro, si compone a sua volta delle tre parti suaccennate” (ossia di rendita, profitto e salario). “Perciò, sebbene il prezzo del grano possa sostituire tanto il prezzo quanto i costi di mantenimento del cavallo, tuttavia il prezzo totale si risolve sempre, direttamente o in ultima istanza, nelle stesse tre parti: rendita, salario, profitto”.* Marx definisce questa teoria di Smith “stupefacente” (Il capitale, vol. 2). “La sua dimostrazione consiste nella pura e semplice ripetizione della stessa affermazione”. Smith “ci manda da Ponzio a Pilato” (Il capitale, vol. 1).

Affermando che il prezzo degli attrezzi agricoli si divide a sua volta nelle stesse tre parti, Smith dimentica di aggiungere: e nel prezzo dei mezzi di produzione impiegati per la produzione di questi attrezzi.

 

* Opera citata, I, pp. 75-76. Trad. russa, I, p. 171.

 

L’erronea esclusione della parte costante del capitale dal prezzo del prodotto si spiega in A. Smith (come negli economisti successivi) con l’idea errata che essi si fanno dell’accumulazione dell’economia capitalista, cioè dell’ampliamento della produzione, della trasformazione del plusvalore in (nuovo) capitale. Anche qui A. Smith ometteva il capitale costante, ritenendo che la parte di plusvalore accumulata, trasformata in (nuovo) capitale, fosse interamente consumata dai (nuovi) operai produttori, ossia fosse interamente impiegata in salari: in realtà la parte di plusvalore accumulata viene invece spesa in capitale costante (strumenti di produzione, materie prime e ausiliarie) e in salari.

Criticando questa concezione di Smith (nonché di Ricardo, Mill ed altri) nel primo volume di Il capitale (settima sezione: Il processo di accumulazione, cap. 22: Trasformazione del plusvalore in capitale, § 2: Erronea concezione della riproduzione su scala allargata da parte dell’economia politica), Marx osservava: nel secondo volume verrà dimostrato che il dogma di A. Smith, ereditato da tutti i suoi successori, ha impedito all’economia politica di capire perfino il più elementare meccanismo del processo della riproduzione sociale (Il capitale, vol. 1).

A. Smith è caduto in questo errore perché ha confuso il valore del prodotto con il valore creato ex novo: quest’ultimo si divide effettivamente in capitale variabile e plusvalore, mentre il primo (il complessivo valore del prodotto) racchiude in più il capitale costante. La confutazione di questo errore ci è stata già data nell’analisi del valore ad opera di Marx, il quale ha stabilito una distinzione fra il lavoro astratto, che crea un nuovo valore, e il lavoro concreto, utile, che riproduce un valore preesistente sotto una nuova forma di prodotto utile.

La spiegazione del processo di riproduzione e di circolazione del capitale sociale complessivo è soprattutto necessaria per risolvere il problema del reddito nazionale nella società capitalista. È estremamente interessante il fatto che A. Smith, parlando di quest’ultima questione, non abbia potuto attenersi alla sua erronea teoria che escludeva il capitale costante dal prodotto totale del paese. “Il reddito lordo [gross revenue] di tutti gli abitanti di un grande paese comprende il prodotto totale annuo del loro suolo e del loro lavoro; il reddito netto [neat revenue] comprende la parte che rimane a loro disposizione una volta sottratti i costi di conservazione, primo, del loro capitale fisso, e, secondo, del loro capitale circolante; ossia la parte che essi, senza intaccare il loro capitale, possono includere nella loro scorta [stock] di consumo o spendere per il loro sostentamento, per le loro comodità e i loro divertimenti” (A. Smith, libro II: Natura, accumulazione ed impiego delle scorte, cap. II, vol. II, p. 18. Trad. russa, II, p. 21). Così dal prodotto totale del paese A. Smith escludeva il capitale, affermando che quest’ultimo si sarebbe ripartito in salario, profitto e rendita, ossia in redditi (netti); ma nel reddito lordo della società egli include il capitale, separandolo dai beni di consumo (= reddito netto).

Marx coglie appunto A. Smith in questa contraddizione: ma come può esservi capitale nel reddito se non c’è stato capitale nel prodotto? (Il capitale, vol. 2). Senza neppure accorgersene, A. Smith ammette qui che le parti costitutive del valore del prodotto totale sono tre: non solo il capitale variabile e il plusvalore, ma anche il capitale costante.

 Proseguendo nel suo ragionamento A. Smith è costretto a fare ancora un’altra importantissima distinzione, che ha un valore enorme nella teoria della realizzazione. “Tutto l’esborso per la conservazione del capitale fisso - egli dice - deve essere manifestamente escluso dal reddito netto della società. Né le materie prime, con le quali devono essere mantenute in efficienza le macchine e gli strumenti industriali utili, gli edifici, ecc., né il prodotto del lavoro necessario per trasformare queste materie prime nella forma voluta, possono mai costituire una parte di questo reddito. È vero che il prezzo di questo lavoro può sostituire una parte di quel reddito, poiché gli operai così occupati possono investire l’intero valore del loro salario nella scorta di consumo immediato”. Ma in altre forme di lavoro tanto “il prezzo” (del lavoro) quanto il prodotto” (del lavoro) “entrano in questa scorta: il prezzo in quella degli operai, il prodotto in quella di altre persone” (A. Smith, ivi). Qui si manifesta la coscienza della necessità di distinguere due generi di lavoro: uno è quello che fornisce i beni di consumo che possono rientrare nel “reddito netto”, l’altro quello che dà “le macchine e gli strumenti industriali utili, gli edifici, ecc.”, cioè quegli oggetti che non possono in alcun caso rientrare nel consumo individuale.

Ormai non resta più che un passo da fare per riconoscere che, per spiegare la realizzazione, è assolutamente necessario distinguere due generi di consumo: quello individuale e quello produttivo (= impiego nella produzione). La correzione di questi due errori di Smith (esclusione del capitale costante dal valore del prodotto e confusione tra consumo individuale e consumo produttivo) ha appunto permesso a Marx di costruire la sua importante teoria della realizzazione del prodotto sociale nella società capitalista.

Quanto agli altri economisti che stanno fra A. Smith e Marx, essi hanno ripetuto l’errore del primo,* e questo ha loro impedito di fare un passo avanti. Ritorneremo più oltre sulla confusione che per questa ragione regna nelle teorie del reddito. Nella disputa sorta tra Ricardo, Say, Mill, ecc., da una parte, e Malthus, Sismondi, Chalmers, Kirchmann, ecc., dall’altra, sulla possibilità di una sovrapproduzione generale di merci, i due campi sono rimasti sulla posizione della erronea teoria di Smith. Di conseguenza, come fa giustamente osservare il signor S. Bulgakov, “data l’erroneità dei punti di vista iniziali e l’erronea formulazione del problema stesso, queste dispute non potevano portare ad altro che a vuote logomachie scolastiche” (Opera citata, p. 21. Vedere l’esposizione di queste logomachie in Tugan-Baranovski, Le crisi industriali ecc., Pietroburgo, 1894, pp. 377-404).

 

* Per esempio, Ricardo affermava: “Il prodotto totale del suolo e del lavoro in ogni paese si divide in tre parti: l’una è consacrata al salario, l’altra al profitto e la terza alla rendita” (Opere, traduzione di Sieber, Pietroburgo, 1882, p. 221).

 

6. La teoria della realizzazione di Marx

Da quanto si è detto risulta già di per sé che le premesse fondamentali su cui si fonda la teoria di Marx sono date dalle due tesi seguenti.

La prima afferma che tutto il prodotto di un paese capitalista è formato, come il prodotto individuale, delle tre parti seguenti: 1. capitale costante, 2. capitale variabile, 3. plusvalore. Per chi conosca l’analisi del processo di produzione del capitale contenuta nel primo volume di Il capitale di Marx, questa tesi non ha bisogno di dimostrazione.

La seconda tesi afferma che nella produzione capitalista è indispensabile distinguere due grandi sezioni, e cioè (I sezione) produzione dei mezzi di produzione, degli oggetti che servono al consumo produttivo, che sono cioè impiegati nella produzione, che vengono consumati non dagli uomini, ma dal capitale, e (II sezione) produzione dei beni di consumo, cioè degli oggetti che servono al consumo individuale. “Vi è più senso teorico in questa sola divisione che non in tutte le precedenti logomachie sulla teoria dei mercati” (Bulgakov, Opera citata, p. 27).

Ci si chiede perché questa divisione dei prodotti in base alla loro forma naturale sia necessaria proprio ora nell’analisi della riproduzione del capitale sociale, mentre nell’analisi della produzione e della riproduzione del capitale individuale  non era necessaria e si trascurava completamente la questione della forma naturale del prodotto. Con quale fondamento possiamo introdurre la questione della forma naturale del prodotto in un’analisi teorica dell’economia capitalista interamente costruita sul valore di scambio del prodotto?

Sta di fatto che nell’analisi della produzione del capitale individuale si lasciava da parte la questione del dove e del come il prodotto sarebbe stato venduto, del dove e del come sarebbero stati acquistati i beni di consumo dagli operai e i mezzi di produzione dai capitalisti, questione che non avrebbe portato alcun contributo a tale analisi e che le era estranea. La questione esaminata concerneva solamente il valore dei diversi elementi della produzione e il risultato della produzione.

Ora invece si tratta di sapere proprio questo: dove prendono i beni per il loro consumo gli operai e i capitalisti? dove prendono questi ultimi i mezzi di produzione? in che modo il prodotto fabbricato soddisferà tutte queste richieste e darà la possibilità di allargare la produzione? Quindi qui abbiamo non solo “sostituzione di valore, ma sostituzione di materia” (Stoffersatz - Il capitale, vol. 2) e perciò è assolutamente necessario fare una distinzione tra prodotti che hanno funzioni completamente diverse nel processo dell’economia sociale.

Prese in considerazione queste premesse fondamentali, la questione della realizzazione del prodotto sociale nella società capitalista non presenta più difficoltà.

Facciamo dapprima l’ipotesi di una riproduzione semplice, cioè della ripetizione del processo di produzione nelle proporzioni preesistenti, senza accumulazione.

È evidente che il capitale variabile e il plusvalore della II sezione (esistenti sotto forma di beni di consumo) vengono realizzati attraverso il consumo individuale degli operai e dei capitalisti di questa sezione (giacché la riproduzione semplice presuppone che tutto il plusvalore venga consumato e che nessuna parte di esso si trasformi in capitale). Inoltre il capitale variabile e il plusvalore esistenti sotto forma di mezzi di produzione (I sezione) per essere realizzati devono essere scambiati con beni di consumo per i capitalisti e per gli operai occupati nella fabbricazione dei mezzi di produzione.

D’altra parte, nemmeno il capitale costante esistente sotto forma di beni di consumo (II sezione) può essere realizzato se non attraverso uno scambio con mezzi di produzione, al fine di essere nuovamente impiegato nella produzione nell’anno seguente.

Abbiamo così uno scambio di capitale variabile e di plusvalore sotto forma di mezzi di produzione, con capitale costante sotto forma di beni di consumo: gli operai e i capitalisti (della sezione dei mezzi di produzione) ottengono così mezzi di sussistenza, mentre i capitalisti (della sezione dei beni di consumo) smerciano il loro prodotto e ricevono capitale costante per una nuova produzione.

Nel caso della riproduzione semplice, queste parti scambiate devono essere eguali fra loro: la somma del capitale variabile e del plusvalore sotto forma di mezzi di produzione deve essere eguale al capitale costante sotto forma di beni di consumo.

Se, al contrario, si presuppone una riproduzione su scala allargata, cioè l’accumulazione, la prima grandezza deve essere superiore alla seconda, perché deve esservi un’eccedenza di mezzi di produzione per intraprendere una produzione nuova.

Ma ritorniamo alla riproduzione semplice. Ci è rimasta non ancora realizzata una parte del prodotto sociale, e precisamente il capitale costante sotto forma di mezzi di produzione. Esso viene realizzato in parte con lo scambio tra i capitalisti di questa stessa sezione (per esempio, il carbone viene scambiato con il ferro, giacché ciascuno di questi prodotti è necessario come materia prima o come strumento nella produzione dell’altro), in parte col suo impiego diretto nella produzione (per esempio il carbone estratto può essere impiegato nella stessa azienda per l’estrazione di nuovo carbone, il grano nell’azienda agricola, ecc.).

 Quanto all’accumulazione, essa trae origine, come abbiamo visto, dall’eccedenza dei mezzi di produzione (derivante dal plusvalore dei capitalisti di questa sezione), eccedenza che esige a sua volta la trasformazione in capitale di una parte del plusvalore sotto forma di beni di consumo. Studiare nei particolari come questa produzione supplementare si unirà alla riproduzione semplice ci pare superfluo. Noi non ci proponiamo un’analisi specifica della teoria della realizzazione. D’altra parte per chiarire gli errori commessi dagli economisti populisti e per consentire certe conclusioni teoriche sul mercato interno può anche bastare quel che abbiamo detto fin qui.*

 

* Vedere Il capitale, vol. 2, dove si analizzano in maniera particolareggiata l’accumulazione, la ripartizione dei beni di consumo in generi di prima necessità e articoli di lusso, la circolazione monetaria, il logorio del capitale fisso, ecc. Ai lettori che non hanno la possibilità di leggere il secondo volume di Il capitale si può raccomandare l’esposizione della teoria marxista della realizzazione contenuta nel succitato libro del signor S. Bulgakov. L’esposizione del signor Bulgakov è migliore di quella del signor Tugan-Baranovski (Le crisi industriali, pp. 407-438). Questi nella costruzione dei suoi schemi si è talora molto infelicemente scostato da Marx e non ha sufficientemente spiegato la teoria di Marx. È migliore anche di quella del signor A. Skvortsov (Fondamenti dell’economia politica, Pietroburgo, 1898, pp. 281-295). Questi nelle questioni molto importanti del profitto e della rendita sostiene concezioni sbagliate.

 

Sulla questione che ci interessa, quella del mercato interno, la principale conclusione della teoria della realizzazione di Marx è la seguente: lo sviluppo della produzione capitalista, e quindi del mercato interno, avviene non tanto nel campo dei beni di consumo quanto in quello dei mezzi di produzione. In altre parole: l’incremento dei mezzi di produzione è più rapido di quello dei beni di consumo. Abbiamo visto infatti che il capitale costante sotto forma di beni di consumo (II sezione) viene scambiato con il capitale variabile + il plusvalore sotto forma di mezzi di produzione (I sezione). Ma in base alla legge generale della produzione capitalista, il capitale costante aumenta più rapidamente del capitale variabile. Il capitale costante sotto forma di beni di consumo deve quindi crescere più rapidamente del capitale variabile e del plusvalore sotto forma di beni di consumo, e il capitale costante sotto forma di mezzi di produzione deve crescere più rapidamente di tutto, superando l’incremento del capitale variabile (+ il plusvalore) sotto forma di mezzi di produzione e quello del capitale costante sotto forma di beni di consumo. La sezione della produzione sociale che fabbrica i mezzi di produzione deve quindi progredire più rapidamente di quella che fabbrica i beni di consumo. Perciò lo sviluppo del mercato interno del capitalismo è, fino a un certo punto, “indipendente” dall’aumento del consumo individuale dato che è dovuto più che altro al consumo produttivo.

Sarebbe tuttavia un errore intendere questa “indipendenza” nel senso che il consumo produttivo è completamente staccato dal consumo individuale: il primo può e deve crescere più rapidamente del secondo (la sua “indipendenza” si limita precisamente a questo), ma è evidente che, in fin dei conti, il consumo produttivo è sempre legato al consumo individuale. A questo proposito Marx dice: “Come si è visto (libro II, sezione III), ha luogo un’ininterrotta circolazione fra capitale costante e capitale costante...” (Marx si riferisce al capitale costante sotto forma di mezzi di produzione che si realizza attraverso lo scambio fra i capitalisti di questa medesima sezione) “...che per quanto sia indipendente dal consumo individuale nel senso che non vi entra mai, è in ultima analisi limitata da esso. La produzione del capitale costante, infatti, non ha mai luogo per se stessa, ma unicamente perché in quelle sfere della produzione i cui prodotti entrano nel consumo individuale se ne richiede un quantitativo maggiore” (Il capitale, vol. 2).

Questo maggior impiego di capitale costante non è altro che l’espressione in termini di valore di scambio di un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, giacché la maggior parte dei “mezzi di produzione” in via di rapido sviluppo consiste in materie prime, macchine, strumenti, edifici e installazioni di ogni altro genere, occorrenti per la grande produzione e particolarmente per la produzione a macchina. È quindi del tutto naturale che la produzione capitalista, sviluppando le forze produttive della società, creando la grande produzione e l’industria meccanica, si distingua appunto per un particolare ampliamento della parte di ricchezza sociale che consiste in mezzi di produzione... “Ciò che distingue qui [ossia nella fabbricazione dei mezzi di produzione] la società capitalista dal selvaggio non è, come ritiene Senior, il  fatto che il selvaggio abbia il privilegio e la peculiarità di spendere il suo lavoro in un certo tempo che non gli procura frutti risolvibili (convertibili) in reddito, cioè in mezzi di consumo. La differenza è invece la seguente:

a) La società capitalista impiega una parte maggiore del suo lavoro annuo disponibile nella produzione di mezzi di produzione (ergo di capitale costante), che non possono risolversi in reddito né nella forma di salario né di plusvalore, ma possono operare soltanto come capitale.

b) Quando il selvaggio costruisce archi, frecce, martelli di pietra, asce, ceste, ecc., sa perfettamente che non ha impiegato questo tempo nella fabbricazione di mezzi di consumo, che quindi ha coperto il suo fabbisogno di mezzi di produzione e non altro” (Il capitale, vol. 2)

Questa “perfetta conoscenza” del proprio rapporto con la produzione si è perduta nella società capitalista a causa del feticismo che le è proprio. Esso presenta i rapporti sociali fra gli uomini sotto forma di rapporti fra prodotti, a causa della trasformazione di ogni prodotto in merce prodotta per un consumatore sconosciuto e destinata ad essere realizzata su un mercato sconosciuto. E poiché ogni imprenditore isolato non si preoccupa affatto del genere di prodotto da lui creato - ogni prodotto dà un “reddito” - questo punto di vista superficiale, individuale, è stato adottato dagli economisti teorici per quel che riguarda la società nel suo complesso e ha impedito di comprendere il processo di riproduzione del prodotto sociale complessivo nell’economia capitalista.

Che lo sviluppo della produzione (e quindi anche del mercato interno) riguardi soprattutto i mezzi di produzione può sembrare paradossale e si presenta indubbiamente come qualcosa di contraddittorio. È autentica “produzione per la produzione”, ampliamento della produzione senza un corrispondente ampliamento del consumo. Ma si tratta di una contraddizione non nella dottrina, ma nella vita reale: si tratta appunto di una contraddizione che corrisponde alla natura stessa del capitalismo e alle altre contraddizioni di questo sistema di economia sociale.

Quest’ampliamento della produzione senza un corrispondente ampliamento del consumo si accorda appunto con la missione storica del capitalismo e con la sua specifica struttura sociale. La prima consiste nello sviluppo nelle forze produttive della società. La seconda esclude l’utilizzazione di queste conquiste tecniche da parte della massa della popolazione.

Fra la tendenza all’ampliamento illimitato della produzione, propria del capitalismo, e il consumo limitato delle masse popolari (limitato in conseguenza della loro condizione proletaria), esiste indubbiamente una contraddizione. È appunto questa contraddizione che Marx costata nelle tesi che i populisti citano a sostegno - nella loro intenzione - delle loro idee sulla contrazione del mercato interno, sul carattere non progressista del capitalismo, ecc. ecc.

Ecco alcune di queste tesi.

“Contraddizione nel modo capitalista di produzione: gli operai in quanto compratori della merce sono importanti per il mercato. Ma in quanto sono venditori della loro merce - la forza-lavoro - la società capitalista ha la tendenza a costringerli al minimo del prezzo” (Il capitale, vol. 2).

“Le condizioni... della... realizzazione... sono limitate... dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società... Quanto più la forza produttiva si sviluppa, tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo” (ivi, vol. 3).

“I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sull’espropriazione e l’impoverimento della massa dei produttori, questi limiti si trovano continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali... Se il modo di produzione capitalista è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e per la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono” (ivi, vol. 3).

  “La causa ultima di tutte le crisi. effettive è pur sempre la povertà e la limitatezza di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalista a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluta della società”* (ivi, vol. 3).

In tutte queste tesi si constata l’indicata contraddizione fra la tendenza all’ampliamento illimitato della produzione e il consumo limitato, e niente più.** Non c’è nulla di più assurdo del dedurre da questi passi di Il capitale che Marx non ammettesse la possibilità di realizzare il plusvalore nella società capitalista, che egli spiegasse le crisi col sottoconsumo, ecc. L’analisi marxista della realizzazione ha mostrato che “in ultima analisi la circolazione fra capitale costante e capitale costante è limitata dal consumo individuale”, ma la stessa analisi ha mostrato anche il reale carattere di questa “limitatezza”. Ha mostrato che i beni di consumo hanno, nella formazione del mercato interno, una funzione meno importante dei mezzi di produzione.

Non c’è inoltre nulla di più insensato del dedurre dalle contraddizioni del capitalismo la sua impossibilità, il suo carattere non progressista, ecc. Ciò significa cercare la salvezza da una realtà indubitabile, anche se sgradevole, nell’empireo dei sogni romantici.

La contraddizione fra la tendenza all’illimitato ampliamento della produzione e la limitatezza del consumo non è la sola contraddizione del capitalismo, che in generale non può esistere e svilupparsi senza contraddizioni. Le contraddizioni del capitalismo attestano il suo carattere storicamente transitorio e spiegano le condizioni e le cause della sua dissoluzione e della sua trasformazione in una forma superiore. Esse però non escludono affatto né la sua possibilità, né il suo carattere progressivo nei confronti dei precedenti sistemi dell’economia sociale. ***

 

* Questo brano è stato appunto citato dal famoso (famoso alla maniera di Erostrato) E. Bernstein nelle sue Premesse del socialismo (Die Voraussetzungen etc., Stoccarda, 1899, p. 67). Si capisce che il nostro opportunista, che si scosta dal marxismo per ritornare alla vecchia economia borghese, si è affrettato a dichiarare che questa è una contraddizione interna della teoria delle crisi di Marx, che una simile concezione di Marx “non si distingue gran che dalla teoria delle crisi di Rodbertus”. In realtà, esiste invece una “contraddizione” solamente fra le pretese di Bernstein, da una parte, e il suo eclettismo assurdo, il suo rifiuto di riflettere sulla teoria di Marx, dall’altra. Fino a che punto Bernstein abbia frainteso la teoria della realizzazione lo si può vedere dal suo ragionamento veramente curioso secondo il quale l’enorme aumento della massa del plusprodotto significherebbe necessariamente l’aumento del numero degli abbienti (o un incremento del benessere degli operai), poiché gli stessi capitalisti, vedete, e la loro “servitù” (sic!; pp. 51-52) non possono “consumare” tutto il plusprodotto!! (Nota alla Il edizione).

 

** Il signor Tugan-Baranovski sbaglia quando’ pensa che Marx, enunciando queste tesi, cada in contraddizione con la sua stessa analisi della realizzazione (Mir Bogi, 1898, n. 6, p. 123: articolo Capitalismo e mercato). In Marx non c’è nessuna contraddizione, poiché appunto nell’analisi della realizzazione viene indicato il nesso fra consumo produttivo e consumo individuale.

 

*** Vedere Caratteristiche del romanticismo economico. Sismondi e i nostri sismondisti russi - Lenin, Opere complete, vol. 2).

 

7. La teoria del reddito nazionale

Esposte le tesi fondamentali della teoria di Marx sulla realizzazione, dobbiamo ancora segnalare brevemente la parte enorme che essa ha nella teoria del “consumo”, della “ripartizione” e del “reddito” di un paese. Tutte queste questioni, specialmente l’ultima, sono state finora lo scoglio in cui si sono incagliati gli economisti. Più se ne parlava e scriveva, e più aumentava la confusione originata dall’errore fondamentale di A. Smith. Citiamo qualche esempio di questa confusione.

È interessante notare, per esempio, che Proudhon non ha fatto in fondo che ripetere lo stesso errore, dando soltanto una formulazione un po’ differente alla vecchia teoria. Egli diceva:

A [con questa lettera si indica l’insieme dei proprietari, degli imprenditori e dei capitalisti] avvia un’impresa con 10.000 franchi. Paga anticipatamente questa somma agli operai, che, in cambio, devono fabbricare dei prodotti. Dopo aver così convertito il suo denaro in merce, allorché la produzione è terminata - in capo ad un anno, p. es., - A deve convertire nuovamente le merci in denaro. A chi venderà la sua merce? Naturalmente agli operai, giacché nella società non vi sono che due classi: gli imprenditori da un lato, gli operai dall’altro. Questi operai, che hanno ricevuto per i  prodotti del loro lavoro 10.000 franchi sotto forma di un salario che soddisfa i loro bisogni vitali minimi, devono tuttavia pagare ora più di 10.000 franchi, e precisamente anche per il soprappiù che A riceve a titolo di interesse e di altri profitti, sui quali contava al principio dell’anno: l’operaio non può coprire questi 10.000 franchi se non ricorrendo a prestiti, il che l’affoga nei debiti sempre crescenti e nella miseria. Delle due l’una: o l’operaio può consumare 9 mentre ha prodotto 10, o egli non rimborsa all’imprenditore che il suo salario, ma in questo caso l’imprenditore stesso fa fallimento e cade nella miseria, giacché non riscuote l’interesse del capitale, interesse che però egli è costretto, per quel che lo riguarda, a pagare” (Diehl, Proudhon, II, p. 200, citato dalla raccolta L’industria. Articoli tratti dallo Handwörterbuch der Staatswissenschaften, Mosca, 1896, p. 101).

Come il lettore vede, si tratta sempre della stessa difficoltà entro la quale si dibattono i signori V. V. e N.-on: come realizzare il plusvalore? Proudhon l’ha soltanto espressa in una forma un po’ originale. E questa originalità della sua formulazione avvicina ancora di più a lui i nostri populisti: anch’essi, proprio come Proudhon, scorgono la “difficoltà” appunto nella realizzazione del plusvalore (dell’interesse o del profitto, secondo la terminologia di Proudhon) e non comprendono che la confusione ereditata dai vecchi economisti impedisce loro di spiegare la realizzazione non solo del plusvalore, ma anche del capitale costante, ossia che la loro “difficoltà” si riduce al fatto di non capire tutto il processo di realizzazione del prodotto nella società capitalista.

A proposito di questa “teoria” di Proudhon Marx osserva sarcasticamente:

“Proudhon esprime la sua incapacità a comprendere ciò” (ossia, precisamente, la realizzazione del prodotto nella società capitalista) “nella formula semplicistica: louvrier ne peut pas racheter son propre produit [l’operaio non può ricomperare il proprio prodotto], perché in esso si trova contenuto l’interesse, che è aggiunto al costo di produzione (prix-de-revient)(Il capitale, vol. 3).

E Marx cita un appunto fatto a Proudhon da un economista volgare, un certo Forcade, che, “giustamente, generalizza la difficoltà che Proudhon ha espresso soltanto sotto un punto di vista limitato”. Forcade diceva precisamente che il prezzo della merce comprende non solo un’eccedenza sul salario, il profitto, ma anche una parte che sostituisce il capitale costante. Dunque - concludeva Forcade contro Proudhon - nemmeno il capitalista può, col suo profitto, ricomprare le merci (lungi dal risolvere il problema Forcade non l’aveva nemmeno compreso).

Neanche Rodbertus ha minimamente contribuito alla soluzione di questo problema. Pur mettendo in particolare rilievo la tesi secondo cui “la rendita fondiaria, il profitto del capitale e il salario costituiscono il reddito”,* Rodbertus tuttavia non si è affatto formato un’idea chiara di quel che sia il

 

* Dr. Rodbertus-Jagetzow, Zur Beleuchtung der sozialen Frage, Berlino, 1875, p. 72 e sgg.

 

“reddito”. Esponendo quali dovrebbero essere i compiti dell’economia politica, se essa seguisse il “metodo giusto ” (Opera citata, p. 26). Egli parla anche della ripartizione del prodotto nazionale: “Essa” (cioè la vera “scienza dell’economia nazionale” - il corsivo è di Rodbertus) “dovrebbe mostrare come una parte del prodotto nazionale sia sempre destinata a sostituire il capitale impiegato o consumato nella produzione, e l’altra, in qualità di reddito nazionale, a soddisfare i bisogni immediati della società e dei suoi membri” (ivi, p. 27). Ma, benché la vera scienza debba dimostrare questo, la “scienza” di Rodbertus non ha dimostrato nulla di simile. Il lettore vede che Rodbertus non ha fatto altro che ripetere parola per parola A. Smith, senza neppure accorgersi, a quanto pare, che il problema comincia precisamente qui. Quali sono gli operai che “sostituiscono” il capitale nazionale? Come viene realizzato il loro prodotto? Su questo argomento Rodbertus non dice parola. Riassumendo la sua teoria (Diese neue Theorie, die ich der bisherigen gegenüberstelle”,* p. 32) sotto forma di tesi separate, Rodbertus comincia col parlare della distribuzione del prodotto nazionale come segue: “La rendita” (è noto che Rodbertus designava con questo termine ciò che si è convenuto di chiamare plusvalore) “e il salario sono dunque le

  

* “Questa nuova teoria, che io contrappongo alle precedenti” (ndr).

  

parti costitutive del prodotto in quanto esso rappresenta il reddito” (p. 33). Questa riserva importantissima avrebbe dovuto metterlo di fronte alla questione essenziale: finora ha soltanto detto che per “reddito” si intendono gli oggetti che servono “a soddisfare i bisogni immediati”. Vi sono dunque dei prodotti che non servono al consumo individuale. Come vengono realizzati? Ma Rodbertus non s’accorge che qui c’è qualcosa che non è chiaro e dimentica subito la sua riserva, parlando senz’altro della “divisione del prodotto in tre parti (salario, profitto e rendita) (pp. 49-50 e altre). In tal modo, Rodbertus ha, in sostanza, ripetuto la teoria di A. Smith, compreso il suo errore fondamentale, e non ha spiegato assolutamente nulla della questione del reddito. La sua promessa di dare una nuova teoria, completa e migliore, della ripartizione del prodotto nazionale* non era che una vana parola. In realtà, in questa questione Rodbertus non ha fatto fare un sol passo avanti alla teoria; a dimostrare fino a che punto fossero confuse le sue idee sul “reddito” stanno le interminabili elucubrazioni contenute nella sua quarta lettera sociale a von Kirchmann (Das Kapital, Berlino, 1884), dove egli si domanda se il denaro debba essere assegnato al reddito nazionale e se il salario sia preso sul capitale oppure sul reddito, elucubrazioni delle quali Engels ha detto che “appartengono alla scolastica” (Prefazione al volume 2 di Il capitale). **

 

* Ivi, p. 32: ... bin ich genötigt, der vorstehenden Skizze einer besseren Methode auch noch enne vollständige, solcher besseren Methode entsprechende Theorie, wenigstens der Verteilung des Nationalprodukts, hinzuzufügen” [“sono stretto ad aggiungere al precedente schema di un metodo migliore una teoria completa, corrispondente a questo metodo migliore, almeno della ripartizione del prodotto nazionale” - ndr].

 

** K. Diehl ha quindi completamente torto quando afferma che Rodbertus i ha dato “una nuova teoria della ripartizione del reddito” (Handwörterbuch der staatswissenschaften, Art. Rodbertus, vol. V, p. 488).

 

Sulla questione del reddito nazionale regna tuttora fra gli economisti la più completa confusione d’idee.

Così Herkner, per esempio, nel suo articolo nello Handwörterbuch der Staatswissenschaften sulle Crisi (raccolta citata, p. 81), parlando della realizzazione del prodotto nella società capitalista (§ 5: La ripartizione) trova “felice” il ragionamento di K. D. Rau, benché questi non faccia altro che ripetere l’errore di A. Smith, scomponendo il prodotto complessivo della società in redditi.

R. Meyer, nel suo articolo sul Reddito (ivi, pp. 283 e sgg.), cita le definizioni confuse di A. Wagner (che ripete anche lui l’errore di A. Smith) e confessa francamente che “è difficile distinguere il reddito dal capitale”, ma che “è soprattutto difficile fare una distinzione fra proventi [Ertrag] e reddito [Einkommen]”.

Vediamo così che gli economisti, che molto hanno parlato e continuano a parlare di insufficiente attenzione da parte dei classici (e di Marx) per la “ripartizione” e il “consumo”, non sono stati in grado di fare la benché minima luce sulle questioni più importanti della “ripartizione” e del “consumo”. E questo è comprensibile, giacché non si può nemmeno parlare di “consumo” senza avere prima capito il processo di riproduzione del capitale complessivo sociale e di sostituzione delle diverse parti costitutive del prodotto sociale.

Questo esempio fa vedere ancora una volta quanto sia assurdo considerare la “ripartizione” e il “consumo” come una specie di settori autonomi della scienza, corrispondenti a chissà quali processi e fenomeni autonomi della vita economica. L’economia politica si occupa non della “produzione”, ma dei rapporti sociali degli uomini nel campo della produzione, del regime sociale della produzione. Una volta messi in chiaro e analizzati a fondo questi rapporti sociali, è stato con ciò stesso definito anche il posto di ciascuna classe nella produzione, nonché, di conseguenza, la parte del consumo nazionale che le tocca. La soluzione del problema dinanzi al quale si è arrestata l’economia politica classica, e che nessuno specialista in materia di “ripartizione” o di “consumo” è riuscito a far avanzare di un millimetro, è data  dalla teoria che appunto si richiama direttamente ai classici e conduce fino in fondo l’analisi della produzione del capitale, sia individuale che sociale.

Il problema del “reddito nazionale” e del “consumo nazionale”, che è assolutamente insolubile quando viene posto in modo indipendente e che ha provocato solo elucubrazioni, definizioni e classificazioni scolastiche, viene ad essere pienamente risolto non appena si è ben analizzato il processo di produzione del capitale sociale complessivo. E non basta: questo problema cessa di esistere come problema indipendente non appena si è messo in chiaro il rapporto esistente fra consumo nazionale, da una parte, e prodotto nazionale e realizzazione di ogni singola parte di questo prodotto, dall’altra. Non resta più che dare un nome a queste singole parti.

“Se si vogliono evitare inutili difficoltà, è necessario distinguere fra provento lordo [Rohertrag] e provento netto da una parte, reddito lordo e reddito netto dall’altra.”

“Il provente lordo o prodotto lordo è l’intero prodotto riprodotto...”

“Il reddito lordo è la parte di valore, e la parte di prodotto lordo [Bruttoprodukts oder Rohprodukts] da essa misurata, che rimane dopo la detrazione della parte di valore, e della parte di prodotto della produzione complessiva da essa misurata, che sostituisce il capitale costante anticipato e consumato nella produzione. Il reddito lordo è dunque uguale al salario (ossia alla parte del prodotto che è destinata a trasformarsi di nuovo in reddito dell’operaio) + il profitto + la rendita. Il reddito netto è, invece, il plusvalore, e quindi il plusprodotto, il quale rimane dopo la detrazione del salario, e che rappresenta, dunque, in realtà il plusvalore realizzato dal capitale e che deve essere ripartito con il proprietario fondiario, e il plusprodotto misurato da questo plusvalore.”

“... Considerando il reddito di tutta la società, il reddito nazionale si compone del salario più il profitto, più la rendita, quindi del reddito lordo. Ma anche ciò non è che un’astrazione, nel senso che tutta la società, sulla base della produzione capitalista, ha una concezione capitalista e considera in conseguenza come reddito netto unicamente il reddito che si risolve in profitto e rendita” (Il capitale, vol. 3).

Così, la spiegazione del processo della realizzazione ha fatto luce anche sulla questione del reddito, risolvendo la difficoltà fondamentale che impediva di vederci chiaro, e precisamente: in che modo “il reddito dell’uno diviene capitale per l’altro”? in che modo il prodotto consistente in beni di consumo individuali e scomponentesi totalmente in salario, profitto e rendita può ancora racchiudere la parte costante del capitale, che non può mai essere un reddito? L’analisi della realizzazione contenuta nella terza sezione del secondo volume del Capitale ha perfettamente risolto questi problemi, e nell’ultima sezione del terzo volume del Capitale, consacrata alla questione dei “redditi”, Marx non ha più dovuto far altro che dare un nome alle diverse parti del prodotto sociale, rimandando all’analisi contenuta nel secondo volume.*

 

* Vedere Il Capitale, vol. 3, 2, Settima sezione: 1 redditi, cap. 49: Per l’analisi del processo di produzione. - ndr. Marx indica qui anche le circostanze che hanno impedito ai precedenti economisti di comprendere questo processo.

 

8. Perché un paese capitalista ha bisogno di un mercato estero?

A proposito della suesposta teoria della realizzazione del prodotto nella società capitalista può sorgere una domanda: non sarà per caso in contraddizione con la tesi che un paese capitalista non può fare a meno di mercati esteri?

Bisogna tener presente che la suesposta analisi della realizzazione del prodotto nella società capitalista partiva dall’ipotesi dell’assenza di un commercio estero: si è già accennato a questa ipotesi, dimostrandone la necessità in un’analisi di questo genere. È evidente che l’importazione e l’esportazione dei prodotti avrebbero solo complicato le cose, senza tuttavia contribuire in alcun modo a chiarire il problema. L’errore dei signori V. V. e N.-on consiste appunto nel chiamare in causa il mercato estero per spiegare la realizzazione del plusvalore: senza spiegare assolutamente nulla,  questo rinvio al mercato estero copre soltanto i loro errori teorici; questo da una parte. Dall’altra parte, esso permette loro di sottrarsi, per mezzo di queste “teorie” erronee, alla necessità di spiegare il fatto dello sviluppo del mercato interno per il capitalismo russo.* Per loro il “mercato estero” non è che un pretesto per dissimulare lo sviluppo del capitalismo (e quindi anche del mercato) all’interno del paese, un pretesto tanto più comodo in quanto permette loro anche di fare a meno di esaminare i fatti che comprovano la conquista dei mercati esteri da parte del capitalismo russo.**

 

* Nel libro già citato il signor Bulgakov osserva molto giustamente: “Finora l’industria cotoniera, che lavora per il mercato contadino, s’è sviluppata senza soste; per cui questa diminuzione assoluta del consumo popolare...” (di cui parla il signor N.-on) “... è possibile soltanto in teoria” (pp. 214-215).

 

** Volghin, La giustificazione del populismo negli scritti del signor Vorontsov, Pietroburgo, 1896, pp. 71-76.

 

La necessità di un mercato estero per un paese capitalista non è affatto determinata dalle leggi della realizzazione del prodotto sociale (e in particolare del plusvalore), ma, in primo luogo, dal fatto che il capitalismo altro non è se non il risultato di una circolazione di merci largamente sviluppata, che si estende oltre le frontiere di ogni paese. È quindi impossibile figurarsi un paese capitalista senza commercio estero. Un simile paese, del resto, non esiste nemmeno.

Come il lettore vede, questa causa è di natura storica. E i populisti non potranno sbarazzarsene con un paio di frasi trite e ritrite sull’“impossibilità per i capitalisti di consumare il plusvalore”. Se volessero realmente porre la questione del mercato estero, essi dovrebbero analizzare la storia dello sviluppo del commercio estero, la storia dello sviluppo della circolazione delle merci. E una volta analizzata questa storia, sarebbe impossibile naturalmente rappresentare il capitalismo come una deviazione accidentale dalla retta via.

In secondo luogo, la corrispondenza tra le diverse parti della produzione sociale (secondo il valore e secondo la forma naturale) che la teoria della riproduzione del capitale sociale presupponeva necessariamente, e che nella realtà non si stabilisce se non come media di una serie di continue oscillazioni, è costantemente turbata, nella società capitalista, a causa dell’isolamento dei singoli produttori, che lavorano per un mercato sconosciuto. I vari rami d’industria che servono da “mercato” gli uni per gli altri, non si sviluppano in modo uguale, ma l’uno supera l’altro, e l’industria più sviluppata si cerca un mercato estero. Questo non significa affatto “impossibilità per un paese capitalista di realizzare il plusvalore”, come è pronto a concludere con profondità di pensiero il populista. Questo indica soltanto una sproporzione nello sviluppo dei vari rami della produzione. Con una diversa distribuzione del capitale nazionale la stessa quantità di prodotto avrebbe potuto essere realizzata nell’interno del paese. Ma perché il capitale abbandoni un ramo d’industria e passi ad un altro, accorre che il primo subisca una crisi. E che cosa può trattenere i capitalisti minacciati da una crisi dal cercare un mercato estero, dal cercare sovvenzioni e premi tendenti a favorire l’esportazione, ecc.?

In terzo luogo. Legge dei modi di produzione precapitalisti è la ripetizione del processo di produzione nelle dimensioni preesistenti, sulla base preesistente: così è per l’azienda signorile fondata sulla corvée, per l’economia naturale dei contadini, per la produzione dell’industria artigiana. Per contro, legge della produzione capitalista è la trasformazione continua dei modi di produzione e lo sviluppo illimitato della produzione. Coi vecchi modi di produzione le unità economiche potevano esistere per secoli e secoli senza cambiare né il loro carattere né la loro estensione, senza uscire dai limiti del possesso allodiale signorile, del villaggio contadino o del piccolo mercato locale per i remeslenniki rurali e i piccoli industriali (i cosiddetti artigiani). Per contro, l’impresa capitalista supera inevitabilmente i limiti della comunità, del mercato locale, della regione e, più tardi, anche del paese. E poiché l’isolamento e il chiuso particolarismo dei singoli paesi vengono già distrutti dalla circolazione delle merci, ogni ramo capitalista dell’industria  è sospinto dalla sua tendenza naturale a “cercarsi un mercato estero”.

Perciò la necessità di cercare un mercato estero non prova affatto il fallimento del capitalismo, come amano immaginare gli economisti populisti. È vero esattamente l’opposto. Questa necessità mostra in modo evidente l’opera storicamente progressiva del capitalismo, che distrugge il vecchio isolamento e il chiuso particolarismo dei sistemi economici (e pertanto anche la ristrettezza della vita intellettuale e politica) e riunisce tutti i paesi del mondo in un tutto economico unico.

Vediamo così che le due ultime cause della necessità di un mercato estero sono anch’esse di carattere storico. Per veder chiaro nella questione bisogna analizzare separatamente ogni singolo ramo d’industria, il suo sviluppo nell’interno del paese, la sua trasformazione in un ramo capitalista - in una parola, bisogna prendere i fatti relativi allo sviluppo del capitalismo in un paese -, e non c’è da stupirsi che i populisti non si lascino sfuggire l’occasione di volgere le spalle ai fatti rifugiandosi dietro frasi senza valore (e senza significato) sull’“impossibilità” sia del mercato interno che di quello estero.

 

9. Conclusioni

Riassumiamo ora le tesi teoriche esaminate sopra, riguardanti direttamente la questione del mercato interno.

1. Il processo fondamentale della formazione di un mercato interno (cioè lo sviluppo della produzione mercantile e del capitalismo) è la divisione sociale del lavoro. Essa consiste nel fatto che le varie forme di trattamento della materia prima (e le differenti operazioni di questo trattamento) si staccano l’una dopo l’altra dall’agricoltura e diventano rami d’industria indipendenti che scambiano i loro prodotti (ora divenuti merci) con quelli dell’agricoltura. In tal modo l’agricoltura stessa diventa un’industria (cioè produzione di merci), e vi si svolge lo stesso processo di specializzazione.

2. Conseguenza immediata della tesi precedente è la legge di ogni economia mercantile in via di sviluppo, e a maggior ragione di ogni economia capitalista, in forza della quale la popolazione industriale (cioè non agricola) cresce più rapidamente della popolazione agricola, e una parte sempre crescente della popolazione viene distolta dall’agricoltura e immessa nell’industria di trasformazione.

3. La separazione del produttore diretto dai mezzi di produzione, cioè la sua espropriazione, segnando il passaggio dalla semplice produzione mercantile alla produzione capitalista (ed essendo la condizione necessaria di questo passaggio), crea il mercato interno. Questo processo di creazione del mercato interno si effettua in modo duplice: da una parte i mezzi di produzione, dai quali il piccolo produttore viene “liberato”, nelle mani del loro nuovo possessore si trasformano in capitale, servono alla produzione di merci e, per conseguenza, si trasformano essi stessi in merce. In tal modo anche la semplice riproduzione di questi mezzi di produzione richiede ormai che essi vengano acquistati (in passato, nella maggioranza dei casi, venivano riprodotti principalmente nella loro forma naturale e in parte fabbricati in casa), cioè crea un mercato per i mezzi di produzione, mentre poi il prodotto fabbricato mediante questi mezzi di produzione si trasforma in merce. Dall’altra parte i mezzi di sussistenza di questo piccolo produttore divengono gli elementi materiali del capitale variabile, cioè della somma di denaro spesa dall’imprenditore (sia che si tratti di proprietario fondiario, di appaltatore, di mercante di legname, di fabbricante, ecc.) per assumere operai. Questi mezzi di sussistenza si trasformano perciò anch’essi in merci, cioè, in altre parole, creano un mercato interno per i beni di consumo.

4. La realizzazione del prodotto nella società capitalista (e quindi anche la realizzazione del plusvalore) non può essere spiegata senza aver chiarito 1) che il prodotto sociale, al pari di quello individuale, si scompone, per quel che concerne il valore, in tre parti, e non in due (in capitale costante + capitale variabile + plusvalore, e non soltanto in capitale variabile + plusvalore, come insegnavano Adam Smith e, dopo di lui, tutta l’economia politica fino a Marx), e 2) che, per quel che concerne la sua forma naturale, esso deve essere diviso in due grandi sezioni: mezzi di produzione  (consumati produttivamente) e beni di consumo (consumati individualmente). Stabilite queste tesi teoriche fondamentali, Marx ha spiegato a fondo il processo della realizzazione del prodotto in generale e del plusvalore in particolare nella produzione capitalista, mettendo a nudo l’assoluta erroneità delle concezioni che chiamano in causa il mercato estero nella questione della realizzazione.

5. La teoria della realizzazione di Marx ha fatto luce anche sulla questione del consumo e del reddito nazionale.

Da quanto abbiamo esposto risulta automaticamente che una questione del mercato interno come questione a sé, indipendente da quella del grado di sviluppo del capitalismo, non esiste affatto. Ecco appunto perché la teoria di Marx non la pone mai e in nessun luogo come questione a sé. Il mercato interno sorge quando sorge l’economia mercantile; esso è creato dallo sviluppo di questa economia mercantile, e il grado raggiunto dalla divisione sociale del lavoro determina il livello del suo sviluppo; esso si estende con l’estendersi dell’economia mercantile dai prodotti alla forza-lavoro, e solo nella misura in cui quest’ultima si trasforma in merce il capitalismo abbraccia tutta la produzione del paese, sviluppandosi principalmente nel campo dei mezzi di produzione, che nella società capitalista occupano un posto sempre più importante. Il “mercato interno” per il capitalismo è creato dallo stesso capitalismo nel corso del suo sviluppo, che approfondisce la divisione sociale del lavoro e divide i produttori diretti in capitalisti e operai. Il grado di sviluppo del mercato interno è anche il grado di sviluppo del capitalismo nel paese. Porre la questione dei limiti del mercato interno indipendentemente da quella del grado di sviluppo del capitalismo (come fanno gli economisti populisti) è un errore.

Perciò la questione: come si forma il mercato interno per il capitalismo russo? si riduce a quest’altra: come e in qual direzione si sviluppano i diversi aspetti dell’economia nazionale russa? in che cosa consiste il nesso e l’interdipendenza di questi diversi aspetti?

I capitoli che seguono saranno appunto consacrati all’esame dei dati che contengono la risposta a queste domande.