Indice degli scritti di Lenin


Lenin, Opere - Editori Riuniti vol. 29 - pagg. 309-342 - Scaricate il testo in versione Open Office o Word

 

COME SI INGANNA IL POPOLO CON LE PAROLE D’ORDINE DI LIBERTÀ E DI EGUAGLIANZA

 

Questo è il secondo dei due discorsi pubblicati nel 1919 nell’opuscolo: N. Lenin, Due discorsi al I Congresso di tutta la Russia per l’istruzione extrascolastica, Mosca. Il primo era un discorso di saluto (vol. 29 pagg. 305-308).

 

19 maggio 1919

Compagni, permettetemi, invece di analizzare la situazione attuale, come, a quanto sembra, alcuni di voi oggi si aspettavano, di rispondere alle questioni politiche essenziali non solo teoriche, naturalmente, ma anche pratiche, che ora ci si pongono e che caratterizzano tutta questa fase della rivoluzione sovietica. Esse suscitano il maggior numero di discussioni, di attacchi da parte di uomini che si ritengono socialisti e le maggiori perplessità da parte di persone che si ritengono democratiche e che ci accusano assai volentieri di violare la democrazia. Mi sembra che queste questioni politiche generali si incontrino troppo spesso, e persino costantemente, in tutta l’attuale propaganda e agitazione, in tutte le pubblicazioni ostili al bolscevismo, quando queste pubblicazioni, naturalmente, si innalzano almeno un po’ al di sopra del livello della menzogna, della calunnia e dell’ingiuria pura e semplice, che caratterizzano tutti gli organi di stampa della borghesia. Se prendiamo le pubblicazioni che si sollevano almeno un poco al di sopra di questo livello, penso che le questioni fondamentali concernenti il rapporto fra democrazia e dittatura, i compiti della classe rivoluzionaria in un periodo rivoluzionario, i problemi del passaggio al socialismo in generale, i rapporti fra classe operaia e contadini, siano la base essenziale di tutti i dibattiti politici attuali e che il loro chiarimento, quantunque talvolta vi possa sembrare un po’ lontano dalla attualità immediata, deve essere tuttavia a parer mio il nostro fondamentale compito comune. Certo, in una breve relazione non posso assolutamente pretendere di abbracciare tutti questi problemi. Ne ho scelti alcuni e su questi vorrei intrattenermi.

 

I

La prima delle questioni che vi propongo è quella delle difficoltà di ogni rivoluzione, di ogni passaggio a un nuovo regime. Se esaminate gli attacchi che piovono sui bolscevichi da parte di uomini che si ritengono socialisti e democratici (come esempio di questa gente posso citarvi i gruppi di letterati del Vsiegdà Vperiod! e del Dielo Naroda, giornali soppressi, secondo me, assai giustamente e nell’interesse della rivoluzione, giornali i cui rappresentanti ricorrono il più delle volte alla critica teorica nei loro attacchi, più che naturali da parte di giornali che il nostro potere considera controrivoluzionari), se esaminate gli attacchi lanciati contro i bolscevichi da questo campo, vedrete che fra le accuse figura continuamente la seguente: “Lavoratori, i bolscevichi vi hanno promesso pane, pace e libertà; non vi hanno dato né pane, né pace, né libertà, vi hanno ingannati e vi hanno ingannati perché hanno rinnegato la democrazia”.

Parlerò a parte del ripudio della democrazia. Adesso prenderò l’altro aspetto di questa accusa: “I bolscevichi hanno promesso pane, pace e libertà, i bolscevichi hanno apportato in realtà la continuazione della guerra, una lotta particolarmente crudele e accanita, una guerra di tutti gli imperialisti, dei capitalisti di tutti i paesi dell’Intesa, dunque di tutti i paesi più civili e avanzati contro la Russia estenuata, lacerata, arretrata, stanca”.

Queste accuse, lo ripeto, le troverete in ciascuno dei giornali citati, le sentirete in tutte le conversazioni di ogni intellettuale borghese il quale, naturalmente, non si considera borghese, le sentirete costantemente in ogni discorso piccolo-borghese. Perciò vi invito a riflettere sulle accuse di questo genere.

Sì, i bolscevichi hanno fatto una rivoluzione contro la borghesia, hanno rovesciato con la violenza il governo borghese, hanno rotto con tutte le abitudini, le promesse, i precetti tradizionali della democrazia borghese, hanno condotto la lotta e la guerra più aspra e violenta per schiacciare le classi abbienti; hanno fatto tutto questo per strappare la Russia e poi tutta l’umanità, al massacro imperialista e per mettere fine a tutte le guerre. Sì, i bolscevichi hanno fatto la rivoluzione per questo e, certamente, non hanno mai pensato di rinnegare questo loro compito fondamentale, essenziale. Ed è  altrettanto indubbio che i tentativi di uscire dal massacro imperialista, di spezzare il dominio della borghesia, hanno attirato sulla Russia la crociata di tutti gli Stati civili.

Perché questo è il programma politico della Francia, dell’Inghilterra e dell’America, per quanto affermino di non volere l’intervento. Per quanto i Lloyd George, i Wilson, i Clemenceau affermino di non volere l’intervento, noi tutti sappiamo che si tratta di una menzogna. Sappiamo che le navi da guerra degli alleati, che hanno lasciato, che sono state costrette a lasciare Odessa e Sebastopoli, bloccano il litorale del mar Nero e cannoneggiano persino quella parte della penisola di Crimea, vicino a Kerc, dove si sono acquartierati i volontari [unità di guardie bianche composte di ufficiali volontari]. Costoro dicono: “Non possiamo lasciarla nelle vostre mani. Forse i volontari non ce la faranno contro di voi e noi non possiamo cedervi questa parte della penisola di Crimea, perché in questo caso voi dominerete il mar d’Azov, ci taglierete la strada verso Denikin, non ci permetterete di rifornire i nostri amici”. Oppure si prepara l’attacco a Pietrogrado: ieri vi è stata battaglia fra una nostra torpediniera e quattro torpediniere nemiche. Non è forse chiaro che si tratta di un intervento, non è forse la flotta inglese che vi partecipa? Non avviene forse la stessa cosa ad Arcangelo, in Siberia? Il fatto è che tutto il mondo civile marcia adesso contro la Russia.

Ci si domanda: siamo caduti in contraddizione con noi stessi quando abbiamo chiamato i lavoratori alla rivoluzione promettendo loro la pace e siamo giunti a una crociata di tutto il mondo civile contro la Russia debole, stanca, arretrata, schiacciata, oppure sono caduti in contraddizione con le nozioni elementari di democrazia e di socialismo coloro che hanno l’impudenza di farci questo rimprovero? Ecco la questione.

Per impostarla in forma teorica, generale, vi farò un paragone. Noi parliamo di classe rivoluzionaria, di politica rivoluzionaria del popolo; prendiamo invece un singolo rivoluzionario. Prendiamo per esempio Cernyscevski [e giudichiamo la sua attività. Come potrà giudicarla una persona completamente incolta e ignorante? Dirà probabilmente: “Ebbene, ecco un uomo che si è rovinato la vita, è finito in Siberia e non ha ottenuto niente”. Ecco un esempio tipico.

Se sentiamo questo giudizio da uno sconosciuto, diremo: “Nel migliore dei casi proviene da una persona disperatamente ignorante, che forse non ha colpa di essere abbruttita a tal punto da non comprendere il valore dell’attività di un singolo rivoluzionario nella concatenazione complessiva degli avvenimenti rivoluzionari; oppure proviene da un mascalzone, da un fautore della reazione che vuole consapevolmente allontanare con la paura i lavoratori dalla rivoluzione”. Ho preso l’esempio di Cernyscevski, perché, a qualunque corrente appartengano coloro che si dicono socialisti, nella valutazione di questo particolare rivoluzionario non possono esserci divergenze sostanziali. Tutti converranno che se si giudica un singolo rivoluzionario dal punto di vista dei sacrifici, apparentemente inutili, spesso infruttuosi, che egli ha sopportato, trascurando il contenuto della sua attività in rapporto all’attività dei rivoluzionari che lo hanno preceduto o seguito, se si giudica così il valore della sua opera, si dà prova o di un’infinita ignoranza o di una difesa astiosa, ipocrita, degli interessi della reazione, dell’oppressione, dello sfruttamento e del giogo di classe. A questo proposito non possono esservi divergenze.

Vi invito adesso a passare dal singolo rivoluzionario alla rivoluzione di un intero popolo, di un intero paese. Qualche bolscevico ha forse negato che la rivoluzione potrà vincere definitivamente solo quando si sarà estesa a tutti i paesi avanzati, o almeno ad alcuni dei più importanti? Lo abbiamo sempre detto.

Abbiamo forse affermato che si poteva uscire dalla guerra imperialista piantando semplicemente le baionette in terra? Prendo volutamente proprio l’espressione che adoperavamo costantemente all’epoca di Kerenski (io personalmente e tutti i nostri compagni) nelle risoluzioni, nei discorsi, e nei giornali. Dicevamo: non si può metter fine alla guerra piantando le baionette in terra; se vi sono dei tolstoiani che lo pensano, bisogna compiangere questa gente insensata: da loro non si caverà nulla.

Dicevamo che uscire da questa guerra poteva significare l’inizio di una guerra rivoluzionaria. L’abbiamo detto dal 1915 e poi all’epoca di Kerenski. E, naturalmente, anche una guerra rivoluzionaria è una guerra, è una cosa altrettanto  penosa, sanguinosa e dolorosa. E quando diventa una rivoluzione su scala mondiale, suscita inevitabilmente una risposta su scala mondiale. Perciò, adesso che ci troviamo in una situazione in cui tutti i paesi civili del mondo marciano contro la Russia, non possiamo sorprenderci se dei contadini ignoranti ci accusano di non mantenere le nostre promesse: diremo che da loro non c’è niente da aspettarsi. La loro completa ignoranza, il loro estremo abbrutimento non permettono di fargliene una colpa. Come pretendere, infatti, che un contadino completamente ignorante comprenda che c’è guerra e guerra, che esistono guerre giuste e ingiuste, guerre progressive e reazionarie, guerre delle classi avanzate e guerre delle classi arretrate, guerre che servono a rafforzare il giogo di classe e guerre che servono a rovesciarlo?

Per capire questo bisogna conoscere la lotta di classe, i principi del socialismo e, almeno un po’, la storia della rivoluzione. Non possiamo pretenderlo da un contadino ignorante.

Ma se un uomo che si dice democratico, socialista, che sale alla tribuna per parlare in pubblico, indipendentemente dall’appellativo che si dà - menscevico, socialdemocratico, socialista-rivoluzionario, vero socialista, fautore dell’internazionale di Berna; di nomi ce ne sono molti, e non costano caro - se un simile individuo ci accusa: “Avete promesso la pace e avete provocato, la guerra!”, che cosa rispondergli? Si può forse supporre che, come un contadino incolto, egli sia giunto a un tale grado d’ignoranza da non poter far distinzione fra guerra e guerra? Si può forse ammettere che egli non comprenda la differenza fra la guerra imperialista, che era una guerra di rapina e che ora è stata completamente smascherata (dopo la pace di Versailles, solo persone completamente incapaci di ragionare e di pensare o completamente cieche possono non vedere che si trattava di una guerra di rapina da entrambe le parti); si può forse ammettere che vi sia anche una sola persona appena istruita che non capisca la differenza tra quella guerra, guerra di rapina, e la nostra guerra che acquista un’ampiezza mondiale perché la borghesia di tutto il mondo ha capito che si sta combattendo l’ultima battaglia contro di essa?

Non possiamo ammetterlo. Perciò diciamo: chiunque pretende di essere un democratico o un socialista di qualunque sfumatura e diffonde fra il popolo, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, l’accusa che i bolscevichi prolungano la guerra civile, guerra dura, guerra dolorosa, mentre avevano promesso la pace, è un fautore della borghesia e noi gli risponderemo e ci leveremo contro di lui, come contro Kolciak: ecco la nostra risposta. Ecco di che si tratta.

I signori del Dielo Naroda si sorprendono: “Ma non siamo forse anche noi contro Kolciak? È una scandalosa ingiustizia perseguitarci”.

È un vero peccato, signori, che non vogliate essere coerenti con voi stessi e comprendere il semplice abbiccì della politica dal quale derivano determinate conclusioni. Affermate che siete contro Kolciak. Prendo i giornali Vsiegdà Vperiod! e Dielo Naroda, prendo tutti i ragionamenti benpensanti di questo tipo, questi stati d’animo che sono assai diffusi, che predominano fra gli intellettuali e dico: ciascuno di voi, che diffonde tra il popolo accuse di questo genere, è un fautore di Kolciak, perché nasconde la differenza elementare, fondamentale, comprensibile a ogni persona istruita, fra la guerra imperialista, alla quale abbiamo messo fine e la guerra civile che ci siamo tirati addosso. Noi non abbiamo mai nascosto al popolo che correvamo questo rischio. Noi stiamo tendendo tutte le forze per battere la borghesia in questa guerra civile e per scalzare alla radice ogni possibilità d’oppressione di classe. No, non ci sono state né possono esservi rivoluzioni garantite contro una lotta lunga, dura e forse piena dei più disperati sacrifici. Chi non sa distinguere i sacrifici sopportati nel corso di una lotta rivoluzionaria, per la sua vittoria, quando tutte le classi abbienti e controrivoluzionarie lottano contro la rivoluzione, chi non sa distinguere questi sacrifici dai sacrifici di una guerra di sfruttamento e di rapina, dimostra la più assoluta ignoranza e si deve dire di lui che bisogna fargli studiare l’alfabeto, e, prima dell’istruzione extrascolastica, dargli l’istruzione elementare; oppure ch’egli incarna la più astiosa ipocrisia di Kolciak, comunque egli si chiami, sotto qualunque appellativo si nasconda.

Queste accuse contro i bolscevichi sono le più comuni, le più “correnti”. Esse possono effettivamente trovare un’eco fra  le larghe masse lavoratrici, perché per il contadino ignorante è difficile capire. Egli soffre allo stesso modo di ogni guerra, qualunque sia il suo scopo. Non mi sorprendo se sento fra i contadini ignoranti giudizi di questo genere: “Abbiamo fatto la guerra per lo zar, abbiamo fatto la guerra per i menscevichi e adesso dovremmo fare la guerra per i bolscevichi”. Questo non mi sorprende; effettivamente, la guerra è guerra e porta con sé pesanti sacrifici senza fine.

“Lo zar diceva che era per la libertà e per liberarci dall’oppressione; i menscevichi dicevano che era per la libertà e per liberarci dall’oppressione; adesso i bolscevichi dicono la stessa cosa. Tutti dicono così, come fare a capirci qualcosa?”

In effetti, come può capire un contadino ignorante? Egli deve ancora imparare i primi elementi della politica.

Ma che dire di un uomo che si serve delle parole “rivoluzione”, “democrazia ”, “socialismo”, che pretende di servirsene sapendo che cosa significano? Egli non può fare giuochi di prestigio con questi concetti se non vuol diventare un truffatore politico, perché la differenza fra la guerra di due gruppi di rapinatori e la guerra fatta da una classe oppressa, insorta contro ogni rapina, è una differenza elementare, radicale e fondamentale. Non si tratta di sapere se questo o quel partito, questa o quella classe, questo o quel governo hanno giustificato la guerra; si tratta di sapere qual è il contenuto di questa guerra, qual è il suo contenuto di classe, quale classe fa la guerra, quale politica s’incarna nella guerra.

 

II

Dalla valutazione del periodo penoso e difficile che stiamo attraversando, e che è un inevitabile fenomeno connesso con la rivoluzione, passerò a un’altra questione politica che affiora anch’essa continuamente in tutti i dibattiti e in tutte le perplessità: la questione del blocco con gli imperialisti, dell’alleanza, dell’accordo con gli imperialisti.

Avete probabilmente incontrato nei giornali il nome del socialista-rivoluzionario Volski e di un altro, Sviatitski mi sembra, che hanno scritto negli ultimi tempi anche sulle Izvestia, che hanno pubblicato un loro manifesto e si considerano proprio dei socialisti-rivoluzionari che non possono essere accusati di parteggiare per Kolciak: hanno abbandonato Kolciak, hanno sofferto per opera di Kolciak e quando sono venuti da noi ci hanno reso dei servizi contro Kolciak. È vero. Ma esaminate più da vicino i ragionamenti di questi cittadini, guardate come essi valutano la questione del blocco con gli imperialisti, dell’alleanza o dell’accordo con gli imperialisti. Ho avuto modo di conoscere le loro argomentazioni quando i loro scritti sono stati sequestrati dai nostri organi di Stato che lottano contro la controrivoluzione e io ho dovuto leggere i loro documenti per poter giudicare in modo giusto i loro rapporti con Kolciak. Indubbiamente sono i migliori fra i socialisti-rivoluzionari. Nei loro scritti ho trovato ragionamenti di questo genere: “Vedete, da noi ci si aspetta il pentimento, ci si aspetta che ci pentiamo. Mai e di niente! Non abbiamo di che pentirci! Ci accusano di aver fatto un blocco, un accordo con l’Intesa, con gli imperialisti. Ma voi bolscevichi non avete forse stretto un accordo con gli imperialisti tedeschi? E che cos’è Brest? Non è forse un accordo con l’imperialismo? Voi vi siete messi d’accordo con l’imperialismo tedesco a Brest, noi ci siamo messi d’accordo con l’imperialismo francese: siamo pari e non abbiamo di che pentirci!”.

Questo ragionamento, che ho trovato negli scritti delle persone ora nominate e dei loro compagni di idee, mi viene in mente quando ricordo i giornali menzionati, quando cerco di riassumere le impressioni delle conversazioni con benpensanti. È un ragionamento che incontrate costantemente. È uno dei principali ragionamenti politici con i quali si ha a che fare. Vi invito quindi a soffermarci a esaminare, analizzare, riflettere da un punto di vista teorico su questo ragionamento. Qual è il suo significato? Hanno ragione coloro che dicono: “Noi democratici, socialisti, abbiamo fatto blocco con l’Intesa, voi avete fatto blocco con Guglielmo, avete concluso la pace di Brest; non abbiamo nulla da rimproverarci reciprocamente, siamo pari”? Oppure abbiamo ragione noi quando diciamo che coloro che hanno dimostrato non a parole, ma nei fatti, di essere d’accordo con l’Intesa contro la rivoluzione bolscevica, sono dei fautori di Kolciak? Anche se lo negano mille volte, anche se personalmente hanno abbandonato Kolciak e hanno dichiarato al popolo intero di essere contro Kolciak, sono uomini di Kolciak per le loro radici profonde, per tutto il contenuto e il  significato dei loro ragionamenti e dei loro atti. Chi ha ragione? È questo il problema fondamentale della rivoluzione e su cui bisogna riflettere.

Per chiarire la questione, mi permetterò di fare un paragone, questa volta non con un singolo rivoluzionario, ma con un singolo piccolo borghese. Immaginate che la vostra automobile sia circondata dai banditi che vi puntano la rivoltella alla tempia. Immaginate che, di conseguenza, voi cediate ai banditi il denaro e le armi, lasciandoli andar via con la vostra macchina. Di che si tratta? Avete dato ai banditi armi e denaro. È un fatto. Immaginate ora che un altro cittadino abbia dato ai banditi armi e denaro per partecipare agli attacchi di costoro contro pacifici cittadini.

In entrambi i casi c’è un accordo. Che sia scritto o no, espresso o no, non è importante. Si può immaginare che una persona ceda rivoltella, armi e denaro in silenzio. Il contenuto dell’accordo è chiaro. Egli dice ai banditi: “Io do a voi la rivoltella, le armi e il denaro, voi date a me la possibilità di allontanarmi dalla vostra gradita presenza” (ilarità); questo è un accordo. Esattamente allo stesso modo è possibile che un tacito accordo sia concluso dalla persona che dà armi e denaro ai banditi per permettere loro di rapinare gli altri e che in seguito riceve una parte del bottino. Anche questo è un tacito accordo.

Vi chiedo: esisterà un uomo sensato che non sappia vedere la differenza tra questi due accodi? Mi direte: se esiste veramente qualcuno incapace di distinguere un accordo dall’altro, qualcuno che dica: “Hai dato armi e denaro ai banditi, quindi non accusare più nessuno di banditismo; che diritto hai, dopo di ciò, di accusare altri di banditismo?”, costui sarà di certo un cretino. Se incontrerete un tipo simile, dovrete riconoscere, o in ogni caso novecentonovantanove persone su mille lo riconosceranno, che è un po’ svitato e che con una siffatta persona è impossibile discutere non soltanto su temi politici, ma neppure su temi di cronaca nera.

Ora vi invito a passare da questo esempio al confronto fra la pace di Brest e l’accordo con l’Intesa. Che cosa è stata la pace di Brest? Non è forse stata un atto di violenza di banditi che ci hanno attaccato mentre noi proponevamo onestamente la pace, suggerendo a tutti i popoli di rovesciare la loro borghesia? Se avessimo avuto intenzione di cominciare noi rovesciando la borghesia tedesca, ciò sarebbe stato ridicolo! Abbiamo denunciato di fronte al mondo intero questo trattato come il peggior trattato di rapina e di brigantaggio, l’abbiamo stigmatizzato e abbiamo perfino rifiutato di firmare subito questa pace, contando sull’aiuto degli operai tedeschi. Ma quando i briganti ci hanno puntato la rivoltella alla tempia, abbiamo detto: prendete le armi e il denaro, faremo i conti dopo, con altri mezzi. Conosciamo un altro nemico dell’imperialismo tedesco, un nemico che i ciechi non hanno notato: gli operai tedeschi. Si può forse paragonare questo accordo con l’imperialismo con l’accordo che dei democratici, dei socialisti, dei socialisti-rivoluzionari - non ridete, quanto più forte è un appellativo, tanto meglio suona - hanno concluso con l’Intesa per marciare contro gli operai del loro paese? Ed è così che stavano le cose e così stanno fino a questo momento. La parte più influente dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari di fama europea si trova ancora all’estero e ancora adesso è legata a un accordo con l’Intesa. Firmato o no, non lo so; probabilmente non firmato: le persone intelligenti fanno queste cose in silenzio. Ma è chiaro che questo accordo esiste, visto che li si porta in palmo di mano, si danno loro i passaporti, si diffonde per telegrafo in tutto il mondo la notizia che oggi ha parlato Axelrod, domani parlerà Savinkov oppure Avxentiev, dopodomani la Bresckovskaia. Non è forse un accordo, anche se tacito? È forse un accordo con gli imperialisti come il nostro? Esteriormente somiglia al nostro come l’atto dell’uomo che dà armi e denaro ai banditi somiglia ad ogni atto dello stesso genere, indipendentemente dal suo scopo e dal suo carattere, in ogni caso indipendentemente dal motivo per cui si danno armi e denaro ai banditi: sia che io lo faccia per liberarmene, quando mi attaccano e mi trovo in una situazione in cui se non do loro la rivoltella mi uccideranno; sia che io dia armi e denaro ai banditi che vanno a compiere una rapina, della quale devo essere informato e al cui bottino partecipo.

“Io chiamo questo, naturalmente, la liberazione della Russia dalla dittatura dei violenti; sono, s’intende, un democratico, perché sostengo la democrazia siberiana o di Arcangelo a tutti nota; lotto, naturalmente, per l’Assemblea Costituente.  Non azzardatevi a sospettarmi di qualcosa di male e, se rendo un servizio a dei banditi, agli imperialisti inglesi, francesi, americani, lo faccio nell’interesse della democrazia, dell’Assemblea Costituente, del potere del popolo, dell’unità delle classi lavoratrici della popolazione e per l’abbattimento dei violenti, degli usurpatori, dei bolscevichi!”

Gli scopi, certo, sono assai nobili. Ma tutti coloro che si occupano di politica non hanno sentito dire che la politica non si valuta dalle dichiarazioni, ma dal suo reale contenuto di classe? Che classe servi? Se hai un accordo con gli imperialisti, partecipi o no al banditismo imperialista?

Nella mia Lettera agli operai americani ho detto, fra l’altro, che il popolo rivoluzionario americano, quando nel XVIII secolo si stava liberando dall’Inghilterra, quando faceva una delle prime e delle più grandi guerre veramente liberatrici, una delle poche guerre veramente rivoluzionarie della storia dell’umanità, il grande popolo rivoluzionario americano, mentre si stava liberando, si era messo d’accordo coi banditi dell’imperialismo spagnolo e francese che avevano allora colonie nell’America stessa, vicino a questo popolo. Alleandosi a questi banditi esso ha battuto gli inglesi e si è liberato. C’è forse stata qualche persona al mondo capace di pensare, ci sono forse stati dei socialisti, dei socialisti-rivoluzionari, dei rappresentanti della democrazia o in qualunque altro modo essi si chiamino, compresi i menscevichi, che abbiano osato accusare pubblicamente per questo il popolo americano, dire che esso aveva violato il principio della democrazia, della libertà, ecc.? Un simile stravagante non è ancora nato. Ma oggi da noi compaiono individui che si attribuiscono questi appellativi, pretendono persino di stare con noi, nella stessa Internazionale e affermano che è soltanto per malvagità che i bolscevichi - è noto che i bolscevichi sono dei bricconi - organizzano la loro Internazionale comunista, non vogliono entrare nell’Internazionale di Berna, la buona, vecchia, comune, unica Internazionale!

E si trova gente che dice: “Non abbiamo di che pentirci; voi vi siete messi d’accordo con Guglielmo, noi ci siamo messi d’accordo con l’Intesa, siamo pari!”.

Affermo che costoro, dato che possiedono le nozioni politiche elementari, sono sostenitori di Kolciak, per quanto personalmente lo neghino, per quanto le gesta di Kolciak personalmente li disgustino, per quanto, abbiano sofferto personalmente ad opera di Kolciak e benché siano passati dalla nostra parte. Sono dei fautori di Kolciak perché non si può immaginare che essi non capiscano la differenza esistente fra un accordo forzato nella lotta contro gli sfruttatori, che le classi oppresse sono continuamente state costrette a concludere in tutta la storia della rivoluzione, e l’accordo che hanno concluso e concludono i più influenti rappresentanti degli intellettuali pseudo “socialisti”; una parte di costoro ha stretto ieri e una parte stringe oggi un accordo coi banditi e i briganti dell’imperialismo internazionale contro una parte - così essi dicono - contro una parte delle classi lavoratrici del loro paese. Questi uomini sono dei sostenitori di Kolciak e nei loro confronti non è ammissibile nessun altro atteggiamento fuorché quello che i rivoluzionari coscienti devono avere verso i sostenitori di Kolciak.

 

III

Passerò ora alla questione successiva. È la questione dell’atteggiamento verso la democrazia in generale.

Ho già avuto occasione di osservare che la giustificazione più corrente, la difesa più corrente delle posizioni politiche che i democratici e i socialisti assumono contro di noi, è il richiamo alla democrazia. Il rappresentante più deciso di questo punto di vista nella pubblicistica europea è, come voi certo sapete, Kautsky, capo ideologico della II Internazionale e finora membro dell’Internazionale di Berna. “I bolscevichi hanno scelto il metodo della dittatura, perciò la loro è una causa ingiusta”, così egli dice. Questo argomento è apparso migliaia e milioni di volte, sempre e dappertutto, su tutta la stampa e sui giornali che ho menzionato. Lo ripetono continuamente anche tutti gli intellettuali e talvolta lo ripetono, semicoscientemente, nelle loro argomentazioni anche dei semplici cittadini. “La democrazia è la libertà, l’eguaglianza, la decisione della maggioranza; che cosa può esserci di superiore alla libertà, all’eguaglianza, alla decisione della maggioranza? Se voi bolscevichi ve ne siete allontanati e avete persino avuto l’impudenza di dire  apertamente che siete al di sopra della libertà e dell’uguaglianza e delle decisioni della maggioranza, allora non sorprendetevi e non lamentatevi se vi chiamiamo usurpatori e violenti!”

Non ce ne sorprendiamo affatto, perché vogliamo soprattutto chiarezza e contiamo solo sul fatto che la parte avanzata dei lavoratori abbia una coscienza veramente chiara della sua situazione. Sì, abbiamo sempre detto e diciamo nel nostro programma, nel programma del partito, che non ci lasceremo ingannare dalle belle parole d’ordine di libertà, eguaglianza e volontà della maggioranza e che consideriamo complici di Kolciak coloro che si definiscono democratici, sostenitori della democrazia pura, sostenitori di una democrazia conseguente che essi contrappongono direttamente o indirettamente alla dittatura del proletariato.

Riflettete, bisogna riflettere. I democratici puri in realtà sono colpevoli perché predicano la democrazia pura, la difendono contro gli usurpatori, oppure sono colpevoli perché si trovano dalla parte delle classi abbienti, dalla parte di Kolciak?

Incominciamo dalla libertà. La libertà, ovviamente, è una parola d’ordine molto, molto importante per ogni rivoluzione, socialista o democratica che sia. Ma il nostro programma spiega: la libertà se è in contrasto con l’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale, è un inganno: E chiunque di voi abbia letto Marx - penso anche chiunque abbia letto solo una divulgazione popolare del suo pensiero - sa che Marx ha dedicato la maggior parte della sua vita e dei suoi scritti e la maggior parte dei suoi studi scientifici proprio a deridere la libertà, l’eguaglianza, la volontà della maggioranza e tutti i Bentham che andavano scrivendo queste cose e a dimostrare che sotto queste frasi vi erano gli interessi della libertà del proprietario di merci, della libertà del capitale, il quale usa questa libertà per opprimere le masse lavoratrici.

Noi diciamo: tutti coloro che, nel momento in cui si è giunti all’abbattimento del potere del capitale in tutto il mondo o almeno in un paese, tutti coloro che in un momento storico in cui si pone in primo piano la lotta delle classi lavoratrici oppresse per l’abbattimento completo del capitale, per la completa soppressione della produzione mercantile; tutti coloro che in questo momento politico si servono della parola “libertà” in generale e che, in nome di questa libertà, si oppongono alla dittatura del proletariato, non fanno altro che aiutare gli sfruttatori, sono fautori degli sfruttatori, perché la libertà, se non è subordinata agli interessi dell’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale, è un inganno, come abbiamo spiegato chiaramente nel nostro programma di partito. Questo forse occupa un piccolo spazio dal punto di vista della struttura esterna del programma, ma è la cosa essenziale dal punto di vista della nostra propaganda e della nostra agitazione, dal punto di vista delle basi della lotta proletaria e del potere proletario. Sappiamo benissimo che dobbiamo lottare contro il capitale mondiale, sappiamo benissimo che il capitale mondiale ha avuto a suo tempo l’obiettivo di istituire la libertà, ha scosso la schiavitù feudale, ha creato la libertà borghese sappiamo benissimo che questa è un progresso di portata storica universale. Dichiariamo che marciamo contro il capitalismo in generale, contro il capitalismo repubblicano, contro il capitalismo democratico, contro il capitalismo libero e sappiamo, naturalmente, che esso impugnerà contro di noi il vessillo della libertà. E noi gli rispondiamo. Abbiamo ritenuto necessario dare questa risposta nel nostro programma: ogni libertà è un inganno se è in contrasto con gli interessi dell’emancipazione del lavoro, dal giogo del capitale.

Ma che forse simile contrasto è impossibile? Forse non c’è affatto contraddizione fra la libertà e la liberazione del lavoro dal giogo del capitale? Guardate tutti i paesi dell’Europa occidentale nei quali siete stati o sui quali, in ogni caso, avete letto qualcosa. In ogni libro il loro regime è stato descritto come il regime più liberale e adesso i paesi civili dell’Europa occidentale, la Francia, l’Inghilterra e l’America, hanno levato questo vessillo e marciano contro i bolscevichi “in nome della libertà”. Solo pochi giorni fa (adesso i giornali francesi giungono raramente da noi perché siamo interamente accerchiati, ma le notizie arrivano per radio, perché non ci si può impadronire dell’aria e noi captiamo le radio straniere) ho avuto occasione di leggere un radiomessaggio del governo rapinatore francese: la Francia, che marcia contro i bolscevichi e appoggia i loro avversari, la Francia tiene alto, ora come sempre, “il nobile  ideale della libertà” che le è proprio. Ci imbattiamo in cose del genere ad ogni piè sospinto, è il tono fondamentale della loro polemica contro di noi.

Ma che cos’è che essi chiamano libertà? Questi francesi, inglesi, americani civili chiamano libertà, per esempio, la libertà di riunione. Nella Costituzione deve essere scritto: “Libertà di riunione per tutti i cittadini”. “Ecco - dicono - questo è il contenuto, questa è la forma d’espressione più importante della libertà. Invece voi bolscevichi avete violato la libertà di riunione”.

Sì, rispondiamo, la vostra libertà, signori inglesi, francesi, americani, è un inganno se è in contrasto con l’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale. Avete dimenticato un piccolo particolare, signori civili. Avete dimenticato che la vostra libertà è scritta in una Costituzione che legalizza la proprietà privata. Ecco il punto.

Accanto alla libertà, la proprietà, così sta scritto nella vostra Costituzione. Che voi riconosciate la libertà di riunione, è nettamente un immenso progresso in confronto al regime feudale, medievale, alla servitù della gleba. Tutti i socialisti lo hanno riconosciuto quando hanno utilizzato questa libertà della società borghese per insegnare al proletariato come rovesciare il giogo del capitalismo.

Ma la vostra libertà esiste sulla carta, non nella realtà. Cioè: se nelle grandi città vi sono grandi sale, come questa, esse appartengono ai capitalisti e ai grandi proprietari fondiari, si chiamano, per esempio, sala dell’“Assemblea della nobiltà”. Voi potete riunirvi liberamente, cittadini della repubblica democratica russa, ma questa è proprietà privata, scusate, prego, bisogna rispettare la proprietà privata, altrimenti siete dei bolscevichi, dei criminali, dei briganti, dei rapinatori, dei bricconi. E noi diciamo: “Noi capovolgeremo la situazione. Questo edificio dell’“Assemblea della nobiltà”, prima lo trasformeremo in edificio delle organizzazioni operaie e poi parleremo della libertà di riunione”. Ci accusate di violare la libertà. Ma noi riconosciamo che ogni libertà, se non è subordinata agli interessi dell’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale, è un inganno. La libertà di riunione, inserita nelle Costituzioni di tutte le repubbliche borghesi, è un inganno, perché per riunirsi in un paese civile - che non abbia comunque abolito l’inverno e trasformato le stagioni - bisogna avere dei locali di riunione e i migliori edifici sono proprietà privata. Prima sequestriamo i migliori edifici e poi parleremo di libertà.

Noi diciamo che la libertà di riunione per i capitalisti è il più grande delitto contro i lavoratori, è la libertà di riunione per i controrivoluzionari. Diciamo ai signori intellettuali borghesi, ai signori fautori della democrazia: mentite quando ci buttate in faccia l’accusa di violare la libertà! Quando i vostri grandi rivoluzionari borghesi facevano la rivoluzione, nel 1649 in Inghilterra, nel 1792-1793 in Francia, essi non concedevano la libertà di riunione ai monarchici. La Rivoluzione francese è detta la grande rivoluzione proprio perché si è distinta non per la fiacchezza, per l’equivoco, per le chiacchiere di molte rivoluzioni del 1848, ma perché era una rivoluzione conseguente, che dopo aver abbattuto i monarchici li ha completamente schiacciati. Anche noi sapremo agire così con i signori capitalisti, perché sappiamo che per liberare i lavoratori dal giogo del capitale bisogna togliere la libertà di riunione ai capitalisti, bisogna abolire o limitare la loro “libertà”. Ciò serve alla liberazione del lavoro dal giogo del capitale, serve a quella vera libertà, nella quale non vi saranno più edifici in cui abita una sola famiglia e che appartengono a un qualsiasi privato, un grande proprietario fondiario, un capitalista o a qualche società per azioni. Quando questo accadrà, quando gli uomini dimenticheranno che vi possono essere edifici pubblici di proprietà privata, allora saremo per la piena “libertà”. Quando al mondo resteranno soltanto i lavoratori e gli uomini dimenticheranno di pensare che si può essere un membro della società senza essere un lavoratore - ciò non accadrà tanto presto e ne sono colpevoli i signori borghesie i signori intellettuali borghesi - allora saremo per la libertà di riunione per tutti; ma adesso la libertà di riunione è la libertà di riunione per i capitalisti e i controrivoluzionari. Noi lottiamo contro di loro, ci opponiamo a loro e dichiariamo che aboliamo questa libertà.

Noi andiamo alla battaglia: questo è il contenuto della dittatura del proletariato. Sono passati i tempi del socialismo  ingenuo, utopistico, fantastico, meccanico, intellettualistico, quando si presentavano le cose in questo modo: convinceremo la maggior parte degli uomini, disegneremo un bel quadro della società socialista e la maggioranza accetterà il punto di vista del socialismo. Sono passati i tempi in cui ci si divertiva e si divertivano gli altri con queste storielle per bambini. Il marxismo che riconosce la necessità della lotta di classe, dice: l’umanità non giungerà al socialismo se non attraverso la dittatura del proletariato. Dittatura è una parola crudele, dura, sanguinosa, atroce e parole simili non si gettano al vento. Se i socialisti hanno lanciato questa parola d’ordine è perché sanno che la classe degli sfruttatori non si arrenderà se non dopo una lotta disperata e implacabile e sanno che cercherà di mascherare il suo dominio con ogni sorta di belle parole.

Libertà di riunione: che cosa può essere più elevato, che cosa può essere migliore di questa parola! È forse pensabile lo sviluppo dei lavoratori e della loro coscienza senza la libertà di riunione? Ma noi diciamo che la libertà di riunione secondo le Costituzioni dell’Inghilterra e degli Stati Uniti d’America è un inganno, perché lega le mani alle masse lavoratrici per tutto il periodo del passaggio al socialismo; è un inganno perché sappiamo benissimo che la borghesia farà di tutto per rovesciare questo potere, da principio tanto insolito, tanto “mostruoso”. Non potrebbe essere diversamente agli occhi di chi ha riflettuto sulla lotta di classe, di chi ha una idea in una certa misura concreta e chiara sull’atteggiamento degli operai insorti verso la borghesia, la quale è stata rovesciata in un paese, ma non in tutti e che, proprio perché non è completamente abbattuta, si getta nella lotta con maggiore accanimento.

Proprio dopo il rovesciamento della borghesia la lotta di classe prende le forme più aspre. E non valgono nulla quei democratici e quei socialisti che ingannano se stessi e quindi anche gli altri, dicendo: una volta abbattuta la borghesia, tutto è finito. Tutto è appena incominciato e non finito, perché fino a oggi la borghesia non si è rassegnata all’idea di essere stata rovesciata. Alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre scherzava ancora assai graziosamente e gentilmente; scherzavano Miliukov, Cernov e gli uomini della Novaia Gizn. Ridevano: “Ma prego, signori bolscevichi, formate un gabinetto, prendete voi stessi il potere per un paio di settimane, ci aiuterete in un modo eccellente!”. Lo ha scritto Cernov a nome dei socialisti-rivoluzionari, lo ha scritto Miliukov nella Riec, lo ha scritto la Novaia Gizn semimenscevica. Scherzavano, perché non prendevano la cosa sul serio. Ma ora hanno visto che la cosa è diventata seria e i signori borghesi inglesi, francesi e svizzeri, i quali pensavano che le loro “repubbliche democratiche” fossero solide corazze, hanno visto e capito che la cosa è diventata seria e adesso si armano tutti. Se poteste vedere che cosa accade nella libera Svizzera, come i borghesi si armano, formano una guardia bianca, perché sanno che è in giuoco la conservazione dei loro privilegi che permettono loro di mantenere milioni di uomini nella schiavitù salariata. Adesso la lotta ha assunto una estensione mondiale, perciò chiunque si levi ora contro di noi con le parole di “democrazia” e “libertà”, si mette dalla parte delle classi abbienti, inganna il popolo, perché non capisce che la libertà e la democrazia sono state finora libertà e democrazia per i possidenti e solo le briciole erano per i non abbienti.

Che cos’è la libertà di riunione quando i lavoratori sono sotto il giogo della schiavitù capitalista e del lavoro per il capitale? È un inganno e per raggiungere la libertà i lavoratori devono prima vincere la resistenza degli sfruttatori. Se devo far fronte alla resistenza di un’intera classe, è chiaro che a questa classe non posso promettere né libertà, né eguaglianza, né decisione della maggioranza.

 

IV

Passerò ora dalla libertà all’eguaglianza. Qui la faccenda è ancora più complicata. Tocchiamo una questione ancora più seria, che suscita dissensi ancora maggiori ed è anche più scottante.

La rivoluzione abbatte nella sua marcia una classe sfruttatrice dopo l’altra. Ha abbattuto dapprima la monarchia e per eguaglianza intendeva soltanto che vi fosse un governo elettivo, che vi fosse la repubblica. Avanzando ancora, essa ha abbattuto i grandi proprietari fondiari e voi sapete che tutta la lotta contro le condizioni medievali, contro il  feudalesimo, si è svolta sotto la parola d’ordine di “eguaglianza”. Tutti sono eguali indipendentemente dai ceti, tutti sono eguali, il milionario e lo straccione: così parlavano, così pensavano, così credevano sinceramente i più grandi rivoluzionari del periodo che è entrato nella storia come il periodo della grande Rivoluzione francese. La rivoluzione marciava contro i grandi proprietari fondiari sotto la parola d’ordine dell’eguaglianza ed eguaglianza significava che il milionario e l’operaio dovevano avere eguali diritti. La rivoluzione è andata oltre. Essa dice che l’“eguaglianza” - non lo abbiamo detto specificamente nel nostro programma, ma non ci si può ripetere all’infinito; è tanto chiaro quanto ciò che abbiamo detto sulla libertà - è un inganno se è in contrasto con l’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale. Lo diciamo ed è assolutamente giusto. Diciamo che la repubblica democratica, con l’attuale eguaglianza, è una menzogna, un inganno; che l’eguaglianza non vi è rispettata e non vi può esistere e ciò che impedisce di goderne in pratica è la proprietà dei mezzi di produzione, del denaro, del capitale. Si può abolire immediatamente la proprietà degli edifici di lusso, si possono requisire con relativa rapidità il capitale e gli strumenti di produzione, ma tentate di abolire la proprietà del denaro!

Il denaro è un condensato della ricchezza sociale, un condensato del lavoro sociale, è un titolo per ricevere un tributo da tutti i lavoratori, è un residuo del passato sfruttamento. Ecco che cosa è il denaro. Lo si può forse, in qualche modo, sopprimere immediatamente? No. Già prima della rivoluzione socialista, i socialisti scrivevano che è impossibile sopprimere immediatamente il denaro e noi lo possiamo confermare con la nostra esperienza. Ci vogliono molte conquiste tecniche e, cosa assai più difficile e più importante, molte conquiste organizzative per sopprimere il denaro; fino a quel momento bisognerà limitarsi all’eguaglianza a parole, nella Costituzione, restare in una situazione in cui chiunque abbia denaro ha di fatto il diritto allo sfruttamento. Anche noi non abbiamo potuto abolire subito il denaro. Noi diciamo: per il momento il denaro rimane e rimarrà abbastanza a lungo nel periodo di transizione dalla vecchia società capitalista alla nuova società socialista. L’eguaglianza è un inganno se è in contrasto con gli interessi dell’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale.

Engels aveva mille volte ragione quando scriveva [nell’AntiDühring] che senza l’abolizione delle classi il concetto di eguaglianza è il pregiudizio più sciocco e più assurdo. A proposito del concetto di eguaglianza, i professori borghesi hanno cercato di accusarci di voler rendere ogni uomo eguale agli altri. Hanno cercato di accusare i socialisti di questa assurdità, che loro stessi hanno inventato. Ma a causa della loro ignoranza essi non sapevano che i socialisti, e precisamente i fondatori del socialismo scientifico moderno, Marx ed Engels, dicevano: l’eguaglianza è una frase vuota se per eguaglianza non si intende l’abolizione delle classi. Noi vogliamo abolire le classi, in questo senso siamo per l’eguaglianza. Ma pretendere di rendere tutti gli uomini eguali gli uni agli altri, è una frase completamente vuota ed una sciocca invenzione dell’intellettuale che, talvolta in buona fede, fa smorfie, gioca con parole senza contenuto, anche se si definisce scrittore e talvolta perfino scienziato o in qualunque altro modo.

Noi diciamo: noi ci poniamo l’obiettivo dell’eguaglianza, cioè dell’abolizione delle classi. Bisogna quindi sopprimere anche la differenza di classe fra gli operai e i contadini. Proprio questo è il nostro scopo. La società nella quale esiste ancora una differenza di classe fra l’operaio e il contadino non è né comunista né socialista. Certo, se s’interpreta la parola socialismo in un certo modo, la si può chiamare società socialista, ma allora si tratta di casistica, di discussione sui termini. Il socialismo è il primo stadio del comunismo ... ma non vale la pena di discutere sulle parole. Una cosa è chiara: finché vi sarà una differenza di classe fra l’operaio e il contadino, non potremo parlare di eguaglianza senza portare acqua al mulino della borghesia. I contadini sono una classe dell’epoca patriarcale, una classe educata da decenni e da secoli di schiavitù. In tutti questi decenni il contadino è esistito come piccolo proprietario, dapprima sottomesso alle altre classi, poi formalmente libero ed eguale, ma come proprietario e possessore di derrate alimentari.

Proprio qui affrontiamo la questione che suscita il più grande scandalo nei nostri nemici, che genera il maggior numero di dubbi fra gli inesperti e i superficiali e che più ci divide da coloro che vogliono essere considerati democratici,  socialisti e si arrabbiano con noi perché non li consideriamo né democratici né socialisti, ma li chiamiamo sostenitori dei capitalisti, forse per ignoranza, ma tuttavia sostenitori dei capitalisti.

La situazione del contadino, per i costumi, le condizioni di produzione, le condizioni di vita, il tipo di azienda è tale che il contadino è per metà lavoratore e per meta speculatore.

È un fatto. A questo fatto non si sfuggirà finché non si sarà abolito il denaro, non si sarà eliminato lo scambio. Ma per farlo occorrono anni ed anni di saldo dominio del proletariato, perché soltanto il proletariato è capace di battere la borghesia.

Quando ci si dice:“Voi avete violato l’eguaglianza; avete violato l’eguaglianza non soltanto nei confronti degli sfruttatori, cosa che potrei anche accettare - così dichiara un qualsiasi socialista-rivoluzionario o menscevico, senza capire quello che dice - ma avete violato anche l’eguaglianza della ‘democrazia del lavoro’, siete dei criminali!”, noi rispondiamo: “Sì, abbiamo violato l’eguaglianza degli operai con i contadini e affermiamo che voi, i quali siete per questa eguaglianza, siete dei sostenitori di Kolciak”.

Ho letto recentemente sulla Pravda un bellissimo articolo del compagno Ghermanov, nel quale erano esposte le tesi del cittadino Scer, uno dei più “socialisti” fra i socialdemocratici menscevichi. Queste tesi sono state proposte in una nostra istituzione cooperativa. Sono tali che bisognerebbe inciderle su una lapide e esporle in ogni comitato esecutivo di volost, con la didascalia: “Questo è un fautore di Kolciak”.

So benissimo che il cittadino Scer e coloro che condividono le sue idee mi chiameranno per questo calunniatore o peggio ancora. Tuttavia invito coloro che hanno studiato l’abbiccì dell’economia politica e della scienza politica a esaminare attentamente chi ha ragione e chi ha torto. Il cittadino Scer dice: la politica degli approvvigionamenti, e in generale la politica economica del potere sovietico, non vale niente; bisogna passare, prima gradualmente ma poi su più larga scala, al libero commercio dei prodotti alimentari e alla garanzia della proprietà privata.

Io dico che questo è il programma economico, la base economica di Kolciak. Affermo che chi ha letto Marx, soprattutto il primo capitolo di Il capitale, chi ha letto per lo meno l’opera divulgativa La dottrina economica di Karl Marx di Kautsky, deve giungere alla conclusione che, nel momento in cui si compie la rivoluzione del proletariato contro la borghesia, quando si abbatte la grande proprietà fondiaria e la proprietà capitalista, quando il paese è affamato, rovinato da quattro anni di guerra imperialista, la libertà di commercio del grano è in realtà la libertà del capitalista, è la libertà di restaurare il potere del capitale. È questo il programma economico di Kolciak, perché Kolciak non si regge sull’aria.

È abbastanza sciocco rimproverare Kolciak soltanto perché ha maltrattato gli operai e ha perfino fatto frustare alcune maestre che simpatizzavano per i bolscevichi. Questa è una difesa volgare della democrazia, sono accuse sciocche. Kolciak usa i metodi che per lui sono normali. Ma qual è la sua base economica? La sua base è la libertà di commercio; egli la difende: perciò tutti i capitalisti lo appoggiano. Voi dite: “Ho lasciato Kolciak, non sono un suo sostenitore”. Certo, questo vi fa onore, ma non dimostra ancora che sulle spalle abbiate una testa capace di ragionare. Così rispondiamo a questa gente, senza attentare minimamente all’onore dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi che hanno lasciato Kolciak quando hanno visto che egli faceva uso della violenza. Ma se, in un paese che lotta a morte contro Kolciak, qualcuno continua a combattere per “l’eguaglianza della democrazia del lavoro”, per la libertà del commercio del grano, egli è un fautore di Kolciak; però non comprende le cose, non sa collegarle.

Kolciak si regge perché (che si chiami Kolciak o Denikin, la sostanza è la stessa, cambiano solo le uniformi), dopo aver occupato una zona ricca di grano, ne autorizza il libero commercio e concede la libertà d’instaurare il capitalismo. Così è stato in tutte le rivoluzioni, così sarà da noi se passeremo dalla dittatura del proletariato a questa “libertà” ed “eguaglianza” dei signori democratici, dei socialisti-rivoluzionari, dei menscevichi di sinistra, ecc., talvolta anche degli anarchici: le denominazioni sono molte. Adesso in Ucraina ogni banda di anarchici si sceglie un nome, uno più libero dell’altro, uno più democratico dell’altro e in ogni distretto c’è una banda.

 L’eguaglianza fra gli operai e i contadini ci è proposta dai “difensori degli interessi del contadino lavoratore”, per la maggior parte socialisti-rivoluzionari. Altri, come il cittadino Scer, hanno studiato il marxismo e tuttavia non comprendono che l’eguaglianza fra l’operaio e il contadino per il periodo di transizione fra il capitalismo e il socialismo non può esistere e che bisogna riconoscere che coloro che la promettono sviluppano il programma di Kolciak, anche se non se ne rendono conto. Io dico che chiunque rifletta alle condizioni concrete del paese, soprattutto di un paese completamente devastato, lo capirà.

I nostri “socialisti”, i quali affermano che noi saremmo ora nel periodo della rivoluzione borghese, ci accusano continuamente di applicare il comunismo nel campo del consumo. Alcuni aggiungono: comunismo da soldati, e immaginano di essere superiori, immaginano di essersi elevati al di sopra di questa “bassa” forma di comunismo. È semplicemente gente che gioca con le parole. Hanno visto dei libri, li hanno imparati a memoria, li hanno ripetuti, ma non ne hanno capito assolutamente niente. Ce ne sono di questi uomini eruditi e perfino eruditissimi. Hanno letto nei libri che il socialismo è il massimo sviluppo della produzione. Anche Kautsky adesso non fa altro che ripeterlo. Giorni fa ho visto un giornale tedesco capitato per caso da noi e vi ho letto un resoconto dell’ultimo congresso dei Consigli in Germania. Kautsky è stato il relatore e nel suo rapporto sottolineava - non lui personalmente, ma sua moglie; siccome lui era malato sua moglie ha letto il rapporto - che il socialismo è il massimo sviluppo della produzione e che senza produzione, né il capitalismo né il socialismo possono reggersi, ma gli operai tedeschi non lo capiscono.

Poveri operai tedeschi. Lottano contro Scheidemann e Noske, lottano contro i carnefici, cercano di abbattere il potere di carnefici che continuano a ritenersi socialdemocratici, di Scheidemann e Noske, credono che sia in corso la guerra civile. Liebknecht è stato assassinato. Rosa Luxemburg è stata assassinata. Tutti i borghesi russi dicono (è stato stampato in un giornale di Iekaterinodar): “Ecco come bisogna fare con i nostri bolscevichi!”. Così, nero su bianco. Chi comprende le cose sa benissimo che tutta la borghesia internazionale condivide questa idea. Bisogna difendersi. Scheidemann e Noske fanno la guerra civile contro il proletariato. La guerra è la guerra. Gli operai tedeschi pensano che ci sia la guerra civile e che tutte le altre questioni abbiano un’importanza secondaria. Bisogna prima di tutto dar da mangiare agli operai. Ma Kautsky ritiene che questo sia comunismo da soldati o di consumo. Bisogna sviluppare la produzione!...

Oh, sapienti signori! Ma come potete sviluppare la produzione in un paese spogliato e devastato dagli imperialisti, nel quale non c’è carbone, non ci sono materie prime, non ci sono utensili? “Sviluppo della produzione”! Ma da noi non c’è seduta del Consiglio dei commissari del popolo o del Consiglio della difesa nella quale non si distribuiscano gli ultimi milioni di pud di carbone o di petrolio e ci troviamo in una situazione penosissima quando tutti i commissari tentano di acchiappare gli ultimi resti e ciascuno non ne ha abbastanza e bisogna decidere: chiudere le fabbriche qui o lì, lasciare gli operai senza lavoro qui o lì: un problema penoso, ma bisogna fare così perché non c’è carbone. Il carbone si trova nel bacino del Donez, il carbone è stato distrutto dall’invasione tedesca. Prendete il Belgio, la Polonia: è un fenomeno tipico, dappertutto avviene la stessa cosa come conseguenza della guerra imperialista. Questo significa che la disoccupazione e la fame dureranno molti anni, perché ci sono pozzi che, una volta allagati, non si possono rimettere in funzione per molti anni. E ci vengono a dire: “Il socialismo è l’aumento della produttività”. Di libri ne avete letti, cari signori, di libri ne avete scritti, ma non ci avete capito niente. (Applausi.)

Certo, dal punto di vista di una società capitalista che è passata al socialismo pacificamente e in tempi pacifici, non avremmo compito più urgente dell’aumento della produttività. Bisogna soltanto dire una parolina: “Se”. Se il socialismo venisse al mondo in quel modo pacifico che i signori capitalisti non gli hanno voluto permettere. È mancata una piccola cosa. Se anche non ci fosse stata la guerra, i signori capitalisti avrebbero egualmente fatto di tutto per impedire questa evoluzione pacifica. Le grandi rivoluzioni, anche quando sono incominciate pacificamente, come la grande Rivoluzione francese, sono finite con delle guerre accanite, scatenate dalla borghesia controrivoluzionaria. Non può essere altrimenti  se si considera la questione dal punto di vista della lotta di classe e non delle chiacchiere piccolo-borghesi sulla libertà, l’eguaglianza, la democrazia del lavoro, la volontà della maggioranza, di queste chiacchiere ottuse e piccolo-borghesi che ci offrono i menscevichi, i socialisti-rivoluzionari, tutti questi “democratici”. Non può esserci evoluzione pacifica verso il socialismo. Nel periodo attuale, dopo una guerra imperialista, è addirittura ridicolo dire che l’evoluzione deve svolgersi pacificamente, soprattutto in un paese devastato. Prendete la Francia. La Francia ha vinto la guerra, eppure la produzione del grano è diminuita della metà. In Inghilterra - l’ho letto nei giornali borghesi - si dice: “Adesso siamo in miseria”. E in un paese devastato si rimproverano i comunisti per l’arresto della produzione! Chi dice questo, o è un idiota integrale, anche se si chiama tre volte capo dell’Internazionale di Berna, o è un traditore degli operai.

In un paese devastato, il primo compito è salvare i lavoratori. La prima forza produttiva di tutta l’umanità è l’operaio, il lavoratore. Se egli sopravvive, salveremo e ristabiliremo tutto.

Sopporteremo i molti anni di miseria, di ritorno alle barbarie. È la guerra imperialista che ci ha rigettato indietro verso la barbarie, ma se salveremo il lavoratore, se salveremo la principale forza produttiva dell’umanità, l’operaio, ritroveremo tutto; ma se non lo sapremo salvare, periremo. Perciò chi grida in questo momento contro il comunismo di consumo, il comunismo da soldati, guardando gli altri dall’alto in basso, immaginando di essere superiore a questi comunisti bolscevichi, costui, lo ripeto, non capisce assolutamente niente di economia politica e si aggrappa alle citazioni dei libri, come un erudito che ha nella testa una nuova combinazione, non descritta dai libri, egli si confonde e tira fuori dal cassetto proprio la citazione che non ci voleva.

Nel momento in cui il paese è devastato, il nostro compito principale e fondamentale è di difendere la vita dell’operaio, di salvare l’operaio; ma gli operai vanno in rovina perché le fabbriche si fermano e le fabbriche si fermano perché non c’è combustibile, perché la nostra produzione è completamente artificiale: l’industria è staccata dalle fonti di materie prime. Così è in tutto il mondo. Il cotone per i cotonifici russi si deve trasportare dall’Egitto, dall’America, almeno dal Turkestan, ma provate a portarlo qui quando laggiù vi sono le bande controrivoluzionarie e le truppe inglesi hanno occupato Ashkhabad e Krasnovodsk, provate a portarlo dall’Egitto, dall’America quando le ferrovie non funzionano, quando sono state distrutte, quando sono ferme, quando non c’è carbone.

Bisogna salvare l’operaio, anche sé non può lavorare. Se lo salviamo per questi pochi anni, salveremo il paese, la società e il socialismo. Se non lo salveremo, ricadremo indietro, nella schiavitù salariata. Così si pone il problema del socialismo, che non nasce dalla fantasia di un pacifico sempliciotto che si definisce socialdemocratico, ma dalla realtà concreta, da una furiosa lotta di classe accanita ed esasperata. È un fatto. Bisogna sacrificare tutto per salvare l’esistenza dell’operaio. E da questo punto di vista, quando vengono a dirci: “Noi siamo per l’eguaglianza della democrazia del lavoro, invece voi comunisti non date neppure l’eguaglianza agli operai e ai contadini”, rispondiamo: l’operaio e il contadino sono eguali in quanto lavoratori, ma il sazio speculatore di grano non è eguale al lavoratore affamato. Soltanto per questo nella nostra Costituzione è scritto che l’operaio e il contadino non sono eguali.

Voi dite che devono essere eguali? Ebbene, pesiamo, calcoliamo. Prendete sessanta contadini e dieci operai. I sessanta contadini hanno eccedenze di grano. Vestono di stracci, ma hanno il pane. Prendiamo i dieci operai. Dopo la guerra imperialista sono laceri, estenuati, non hanno pane, combustibile, materie prime. Le fabbriche sono ferme. E secondo voi sono tutti eguali. I sessanta contadini hanno il diritto di decidere e i dieci operai devono sottomettersi? Bel principio dell’eguaglianza, dell’unità della democrazia del lavoro, della decisione della maggioranza!

Così ci dicono. Noi rispondiamo: “Siete dei pagliacci, perché con le vostre belle parole eludete e nascondete la questione della fame”.

Vi chiediamo: gli operai affamati, in un paese devastato, nel quale le fabbriche sono ferme, hanno il dovere di sottomettersi alla decisione di una maggioranza di contadini, se questi ultimi non danno le loro eccedenze di grano? Hanno il diritto di prendere queste eccedenze anche con la violenza, se non si può fare altrimenti? Rispondete  francamente! Quando si affronta la vera sostanza della questione, incominciano a cavillare e a tergiversare.

In tutti i paesi l’industria è rovinata e lo sarà per alcuni anni, perché bruciare le fabbriche o inondare i pozzi è facile, far saltare i vagoni, demolire le locomotive è facile; qualunque stupido, che si chiami ufficiale tedesco o francese, è ben capace di farlo, soprattutto se ha una buona macchina per produrre esplosioni, per sparare, ecc., ma ricostruire è cosa assai dura, ci vogliono anni.

I contadini sono una classe particolare: come lavoratori sono nemici dello sfruttamento capitalista, ma nello stesso tempo sono proprietari. Il contadino per secoli è stato educato all’idea che il grano è suo e che egli è libero di venderlo. È un mio diritto, pensa il contadino, perché questo è il mio lavoro, il mio sudore, il mio sangue. Non si può cambiare all’improvviso la sua mentalità; è una lotta lunga e difficile. Chi pensa che il passaggio al socialismo avverrà in questo modo: uno convince un altro e il secondo un terzo, costui è, nel migliore dei casi, un bambino, oppure un ipocrita politico: la maggioranza di coloro che parlano da una tribuna politica appartiene, naturalmente, a quest’ultima categoria.

Il problema si pone così: il contadino è abituato al libero commercio del grano. Quando abbiamo abbattuto le istituzioni capitaliste, è risultato che vi era ancora una forza che manteneva il capitalismo: la forza dell’abitudine. Quanto più energicamente abbiamo abbattuto le istituzioni che sostenevano il capitalismo, tanto più chiaramente si è manifestata l’altra forza che sosteneva il capitalismo: la forza dell’abitudine. Un’istituzione si può abbattere in un sol colpo, se si ha fortuna, ma l’abitudine mai, per quanta fortuna si abbia. Dopo che abbiamo dato tutta la terra ai contadini, li abbiamo liberati dai grandi proprietari fondiari, dopo che abbiamo eliminato tutto ciò che li teneva legati, essi continuano a ritenere che la “libertà” consiste nella libera vendita del grano e che la mancanza di libertà sta nell’obbligo di consegnare le eccedenze di grano a prezzo di calmiere. Che storia è questa e perché “consegnare ”? Si arrabbia il contadino, soprattutto se l’apparato è per giunta cattivo ed è cattivo perché tutti gli intellettuali borghesi sono dalla parte della Sukharevka [un vecchio mercato di Mosca, sinonimo di luogo di traffici e speculazione]. Si capisce che questo apparato deve poggiare su uomini che stanno imparando, e nel migliore dei casi, se sono onesti e devoti alla causa, avranno imparato fra qualche anno. Fino allora l’apparato sarà cattivo e talvolta vi penetrano furfanti di ogni genere che si dicono comunisti. Questo pericolo minaccia ogni partito dirigente, ogni proletariato vittorioso, perché non si può spezzare in un sol colpo la resistenza della borghesia, né mettere in funzione un apparato perfetto. Sappiamo benissimo che l’apparato del commissariato per gli approvvigionamenti è ancora difettoso. Recentemente sono state effettuate delle indagini statistiche per sapere come si nutre l’operaio dei governatorati non agricoli. È risultato che egli riceve la metà di tutti i prodotti dal commissariato per gli approvvigionamenti e l’altra metà dagli speculatori; per la prima metà egli paga un decimo di tutte le sue spese alimentari, per l’altra metà spende i nove decimi.

La metà delle derrate raccolte e consegnate dal commissariato per gli approvvigionamenti sono, certo, mal raccolte, ma lo sono con criteri socialisti e non capitalisti. Sono raccolte con una vittoria sullo speculatore e non con un compromesso. Sono raccolte sacrificando agli interessi degli operai affamati tutti gli altri interessi, compresi quelli dell’“eguaglianza” formale di cui fanno bella mostra i signori menscevichi, socialisti-rivoluzionari e soci. Rimanete con la vostra “eguaglianza”, signori e noi rimarremo con gli operai affamati che abbiamo salvato dalla carestia. Per quanto i menscevichi ci rimproverino di aver violato l’“eguaglianza”, è un fatto che abbiamo risolto a metà il problema dell’approvvigionamento tra difficoltà inaudite, incredibili. E diciamo che se sessanta contadini hanno eccedenze di grano e dieci operai hanno fame, non si deve parlare di “eguaglianza” in generale, né dell’“eguaglianza degli uomini del lavoro”, ma dell’obbligo assoluto dei sessanta contadini di sottomettersi alla decisione dei dieci operai e di dare loro, magari a prestito, le eccedenze di grano.

Tutta l’economia politica, se qualcuno ne ha imparato qualcosa, tutta la storia della rivoluzione, tutta la storia del corso politico nel XIX secolo ci insegnano che il contadino segue o l’operaio o il borghese. Non ha altra via. A qualche democratico, certamente, questo sembrerà offensivo, qualche altro penserà che io calunnio il contadino per malignità  marxista. I contadini sono la maggioranza, sono lavoratori e non dovrebbero poter seguire la loro via! Perché?

Se non sapete perché - direi a questi cittadini - leggete i principi dell’economia politica di Marx, la loro esposizione fatta da Kautsky, riflettete allo sviluppo di una qualsiasi delle grandi rivoluzione del XVIII e del XIX secolo, alla storia politica di qualsiasi paese nel XIX secolo. Questa vi dirà il perché. L’economia della società capitalista è tale che la forza dominante può essere soltanto il capitale o il proletariato che lo abbatte.

Non ci sono altre forze nell’economia di questa società.

Il contadino è mezzo lavoratore, mezzo speculatore. Il contadino è un lavoratore perché si guadagna il pane col sudore e col sangue, perché è sfruttato dai grandi proprietari fondiari, dai capitalisti, dai mercanti. Il contadino è uno speculatore perché vende il grano, un bene di prima necessità, un bene per il quale vale la pena di dare tutto ciò che si possiede, quando non se ne ha. Con la fame non si scherza, per avere pane si danno anche mille rubli e quanto si vuole magari tutto ciò che si possiede.

La colpa non è del contadino, ma le sue condizioni economiche sono tali che egli vive in una economia mercantile, vi ha vissuto per decenni e secoli, è abituato a scambiare il suo grano contro denaro. L’abitudine non si cambia e il denaro non si può abolire di colpo. Per abolirlo bisogna organizzare la distribuzione dei prodotti per centinaia di milioni di uomini: un’opera che richiede molti anni. Finché esiste l’economia mercantile, finché vi sono operai affamati accanto a contadini sazi che nascondono le eccedenze, rimane un certo contrasto d’interessi fra gli operai e i contadini e chi cerca di eludere questo contrasto reale, creato dalla vita, con delle chiacchiere sulla “libertà”, l’“eguaglianza” e la “democrazia del lavoro”, nel migliore dei casi è un vuoto retore, nel peggiore un ipocrita difensore del capitalismo. Se il capitalismo vincerà la rivoluzione, lo farà servendosi dell’ignoranza dei contadini, perché li comprerà allettandoli col miraggio del ritorno al libero commercio. I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari stanno di fatto dalla parte del capitalismo contro il socialismo.

Il programma economico di Kolciak, di Denikin e di tutte le guardie bianche russe è il libero commercio. Essi lo capiscono e non è colpa loro se il cittadino Scer non lo capisce. I fenomeni economici della realtà non cambiano per il fatto che un certo partito non li capisce. La parola d’ordine della borghesia è il libero commercio. Si cerca d’ingannare i contadini dicendo: “Non si stava forse meglio nel buon tempo antico? Non era forse meglio vivere vendendo liberamente i prodotti dell’agricoltura? Che cosa può esservi di più giusto?”. Così dicono i sostenitori coscienti di Kolciak e hanno ragione dal punto di vista degli interessi del capitale. Per restaurare il potere del capitale in Russia, bisogna basarsi sulle tradizioni, sui pregiudizi del contadino contro il suo giudizio, sulla vecchia abitudine al libero commercio e bisogna schiacciare con la violenza la resistenza degli operai. Non c’è altra via di uscita. I sostenitori di Kolciak hanno ragione dal punto di vista del capitale; nel loro programma economico e politico essi sanno trovare il nesso delle cose, capiscono dov’è il principio e dov’è la fine, capiscono il nesso fra il libero commercio dei contadini e le fucilazioni degli operai. E il nesso c’è, benché il cittadino Scer non lo comprenda. Il libero commercio del grano è il programma economico dei sostenitori di Kolciak; la fucilazione di decine di migliaia di operai (come in Finlandia) è il mezzo indispensabile per realizzare questo programma, perché l’operaio non cederà volontariamente le sue conquiste. Il legame è indissolubile e coloro che non capiscono assolutamente niente di economia e di politica, coloro che hanno dimenticato i principi del socialismo per la loro paura piccolo-borghese, cioè precisamente i menscevichi e i “socialisti-rivoluzionari”, cercano di farci dimenticare questo legame con delle ciance sull’“eguaglianza”, sulla “libertà”, urlando che noi violiamo il principio dell’eguaglianza in seno alla “democrazia del lavoro”, che la nostra Costituzione è “ingiusta”.

Il voto di alcuni contadini conta quanto il voto di un solo operaio. È ingiusto?

No, è giusto per un’epoca nella quale bisogna abbattere il capitale. So da dove prendete la vostra concezione della giustizia. Essa vi viene dalla passata epoca capitalista. Il proprietario di merci, la sua eguaglianza, la sua libertà: ecco la  vostra concezione della giustizia. Sono residui piccolo-borghesi di pregiudizi piccolo-borghesi: ecco che cosa è la vostra giustizia, la vostra eguaglianza, la vostra democrazia del lavoro. Per noi invece la giustizia è subordinata agli interessi dell’abbattimento del capitale. Non si può abbattere il capitale se non con gli sforzi riuniti del proletariato.

È forse passibile unire subito e saldamente decine di milioni di contadini contro il capitale, contro il libero commercio? Non lo si può fare a causa delle condizioni economiche, anche se i contadini fossero completamente liberi e assai più colti. Non lo si può fare perché per farlo occorrono altre condizioni economiche, occorrono lunghi anni di preparazione. E chi la farà, questa preparazione? O il proletariato, o la borghesia.

Per la sua situazione economica nella società borghese, il contadino si trova a dover seguire inevitabilmente o gli operai o la borghesia. Non c’è via di mezzo. Può tentennare, confondersi, fantasticare, può biasimare, imprecare, può maledire i “gretti” rappresentanti del proletariato, i “gretti” rappresentanti della borghesia. Essi rappresentano la minoranza. Li si può maledire, si possono dire frasi magniloquenti sulla maggioranza, sul carattere largo, universale della vostra democrazia del lavoro, sulla democrazia pura. Si possono dire quante parole si vuole. Saranno parole per coprire il fatto che se il contadino non segue gli operai, segue la borghesia. Non c’è e non può esserci via di mezzo. E coloro che in questo difficilissimo periodo di transizione della storia, mentre gli operai sono affamati e la loro industria è ferma, non aiutano gli operai a ottenere il grano a un prezzo più giusto, e non a un prezzo “libero”, non a un prezzo da capitalisti, non a un prezzo da mercanti, realizzano il programma di Kolciak, per quanto lo neghino anche di fronte a se stessi e per quanto siano sinceramente convinti di attuare in buona fede il proprio programma.

 

V

Mi soffermerò ora sull’ultima questione che ho indicato, la questione della sconfitta o della vittoria della rivoluzione. Kautsky, che ho definito il principale rappresentante del vecchio socialismo putrido, non ha capito i compiti della dittatura del proletariato. Ci biasima perché una soluzione fondata sulla maggioranza avrebbe potuto assicurare un esito pacifico. Una soluzione fondata sulla dittatura è una soluzione per via militare. Quindi, se non vincerete per via militare, sarete sconfitti e annientati, perché la guerra civile non fa prigionieri, annienta. Così “ha cercato di spaventarci” lo spaventato Kautsky.

È assolutamente vero. È un fatto. Noi confermiamo la giustezza di questa osservazione. Non c’è niente da dire. La guerra civile è più grave e crudele di ogni altra. È sempre stato così nella storia, incominciando dalle guerre civili dell’antica Roma, perché le guerre fra i popoli si sono sempre concluse con delle transazioni fra le classi possidenti e soltanto nella guerra civile la classe oppressa compie ogni sforzo per annientare completamente la classe che la opprime, per annientare le condizioni economiche di esistenza di questa classe.

Vi chiedo: che cosa valgono dei “rivoluzionari” che cercano di intimidire una rivoluzione già incominciata dicendo che essa può subire una sconfitta? Non ci sono mai state, non ci sono, non ci saranno e non possono esserci rivoluzioni che non rischiano la sconfitta. Si chiama rivoluzione l’esasperata lotta di classe quando giunge al massimo accanimento. La lotta di classe è inevitabile. Bisogna o rinunziare alla rivoluzione in generale o riconoscere che la lotta contro le classi abbienti sarà la più accanita di tutte le rivoluzioni. A questo proposito non ci sono state divergenze di opinione fra i socialisti più o meno coscienti. Quando ho dovuto analizzare il fondo di questi scritti da rinnegato di Kautsky, ho scritto, l’anno scorso: anche se domani - era il settembre dell’anno scorso - il potere bolscevico fosse abbattuto dagli imperialisti, noi non ci pentiremmo neppure per un momento di averlo preso. Nessun operaio cosciente che sostenga gli interessi delle masse lavoratrici se ne pentirebbe, né dubiterebbe che la nostra rivoluzione abbia egualmente vinto. Perché una rivoluzione vince se porta avanti la classe d’avanguardia che assesta gravi colpi allo sfruttamento. In questo caso le rivoluzioni vincono anche quando subiscono una sconfitta. Può sembrare un gioco di parole, ma per mostrare che è un fatto, citeremo un concreto esempio storico.

 Prendete la grande Rivoluzione francese. Non per nulla si chiama grande. Essa ha fatto tanto per la classe a vantaggio della quale operava, la borghesia, che tutto il secolo XIX, il secolo che ha dato la civiltà e la cultura a tutta l’umanità, è trascorso sotto il segno della Rivoluzione francese. In ogni parte del mondo questo secolo non ha fatto altro che attuare, realizzare una parte dopo l’altra e portare a compimento ciò che avevano creato i grandi rivoluzionari francesi della borghesia, della quale essi servivano gli interessi, benché non ne avessero coscienza, coprendosi con parole come libertà, eguaglianza e fratellanza.

Per la classe che noi serviamo, il proletariato, la nostra rivoluzione ha già fatto in un anno e mezzo incomparabilmente più di quanto hanno fatto i grandi rivoluzionari francesi.

Essi hanno resistito per due anni e sono crollati sotto i colpi della reazione europea coalizzata, sono crollati sotto i colpi degli eserciti coalizzati di tutto il mondo che hanno schiacciato i rivoluzionari francesi, hanno restaurato il legittimo monarca in Francia, il Romanov di allora, hanno restaurato il potere dei grandi proprietari fondiari e soffocato per lunghi decenni ogni movimento rivoluzionario in Francia. Ma tuttavia la grande Rivoluzione francese ha vinto.

Chiunque consideri la storia in modo consapevole, dirà che la Rivoluzione francese, benché sconfitta, ha tuttavia trionfato perché ha dato al mondo intero le basi della democrazia borghese, della libertà borghese, che non poterono più essere eliminate.

La nostra rivoluzione in un anno e mezzo ha fatto per il proletariato, per la classe che noi serviamo, per lo scopo al quale tendiamo, l’abbattimento del dominio del capitale, infinitamente di più di quanto la rivoluzione francese ha fatto per la sua classe. Perciò diciamo che se anche - facendo l’ipotesi del peggiore dei casi possibili - domani un qualche fortunato Kolciak non lasciasse in vita nemmeno un bolscevico, la rivoluzione resterebbe invincibile. La prova delle nostre parole, la vediamo nel fatto che la nuova organizzazione dello Stato, sorta da questa rivoluzione, ha già vinto moralmente in seno alla classe operaia di tutto il mondo e già ora gode del suo appoggio. Quando i grandi rivoluzionari borghesi francesi caddero nella lotta, soccombettero da soli, non avendo nessun appoggio negli altri paesi. Contro di loro scesero in campo tutti gli Stati europei e soprattutto la progredita Inghilterra: Oggi la nostra rivoluzione, dopo appena un anno e mezzo di potere bolscevico, ha ottenuto che la nuova organizzazione dello Stato da essa creata, l’organizzazione sovietica, divenisse comprensibile, familiare, popolare per gli operai di tutto il mondo, divenisse cosa loro.

Vi ho dimostrato che la dittatura del proletariato è inevitabile, necessaria e assolutamente obbligatoria per uscire dal capitalismo. Dittatura non significa soltanto violenza, benché essa sia impossibile senza la violenza; significa anche un’organizzazione del lavoro superiore alla precedente. Ecco perché nel mio breve saluto all’inizio del congresso ho sottolineato questo compito semplicissimo, elementare, fondamentale dell’organizzazione ed ecco perché sono implacabilmente ostile a tutte le elucubrazioni intellettualistiche, a tutte le “culture proletarie”. A queste elucubrazioni io contrappongo l’abbiccì dell’organizzazione. Dividere il grano e il carbone in modo che ci si preoccupi per ogni pud di carbone, per ogni pud di grano: ecco l’obiettivo della disciplina proletaria. Non la disciplina che si regge sul bastone, come sul bastone si reggeva la disciplina con i feudali, oppure sulla fame, come con i capitalisti, ma una disciplina fraterna, la disciplina delle associazioni operaie. Assolvete questo elementare, semplicissimo compito di organizzazione e avremo vinto. Perché allora il contadino verrà senz’altro con noi, il contadino che esita fra l’operaio e il capitalista, che non sa se deve legarsi a quella gente alla quale ancora non crede, ma che, deve ammettere, sta attuando un regime del lavoro più giusto, nel quale non vi sarà più sfruttamento, nel quale il “libero” commercio del grano sarà un delitto di Stato, non sa se deve seguire costoro oppure quelli che promettono il libero commercio del grano come nel buon tempo antico, il che significherebbe la libertà del lavoro. Se il contadino vedrà che il proletariato edifica il suo potere statale dimostrando che sa istituire l’ordine - e il contadino esige l’ordine, lo vuole, e in questo ha ragione, benché in questa aspirazione contadina all’ordine vi sia molto di confuso, di reazionario, di connesso ai pregiudizi - allora il contadino  finalmente, dopo molte esitazioni, seguirà l’operaio. Il contadino non può abbandonare semplicemente, facilmente, subito la vecchia società per entrare nella nuova. Egli sa che la vecchia società gli dava l’“ordine” a prezzo della miseria dei lavoratori, a prezzo della loro schiavitù. Egli non sa se il proletariato può dargli l’ordine. Dal contadino, abbrutito, ignorante, isolato, non si può pretendere di più. Egli non crede a nessuna parola, a nessun programma. E fa bene a non credere alle parole, altrimenti non si potrebbe sfuggire gli inganni. Egli crede soltanto agli atti, all’esperienza pratica. Dimostriamogli che noi, proletariato unito, potere statale proletario, dittatura proletaria siamo capaci di ripartire il grano e il carbone in modo che nemmeno un pud di grano, nemmeno un pud di carbone vada perduto, che siamo capaci di fare in modo che ogni pud di grano e ogni pud di carbone in eccedenza non sia venduto dagli speculatori, non serva agli eroi della Sukharevka, ma a una giusta ripartizione, a nutrire gli operai affamati, a sostenerli anche nei momenti di disoccupazione, quando le officine, le fabbriche sono ferme. Dimostriamolo. Ecco il compito fondamentale della cultura proletaria, dell’organizzazione proletaria. Si può impiegare la violenza senza avere radici economiche; ma allora la storia la condanna. Ma si può impiegare la violenza appoggiandosi sulla classe d’avanguardia, sui principi superiori della società socialista, l’ordine e l’organizzazione. E allora essa può subire temporaneamente un insuccesso, ma è invincibile.

Se l’organizzazione proletaria mostra al contadino che essa crea un ordine perfetto, che la ripartizione del lavoro e del grano è giusta, che ci si preoccupa di ogni pud di grano e di carbone, che noi, come operai, possiamo farlo con la nostra disciplina fraterna, che usiamo la violenza soltanto per difendere gl’interessi del lavoro, che prendiamo il grano agli speculatori e non ai lavoratori, e che vogliamo l’accordo col contadino medio, col contadino lavoratore, che siamo pronti a dargli tutto ciò che possiamo dare adesso; se il contadino lo vedrà, la sua alleanza con la classe operaia, la sua alleanza col proletariato sarà indistruttibile. Ed è in questa direzione che noi andiamo.

Mi sono però un po’ allontanato dal mio tema e vi debbo tornare. Ora in tutti i paesi la parola “bolscevico” e la parola “soviet” hanno cessato di essere espressioni strane quali erano fino a poco tempo fa, come da noi la parola “boxeur”, che ripetevamo senza capirla. Le parole “bolscevico” e “soviet” vengono ora ripetute in tutte le lingue del mondo. Gli operai coscienti vedono che la borghesia di tutti i paesi ogni giorno copre di calunnie il potere sovietico nei suoi giornali, a milioni di copie; ed essi imparano da queste ingiurie. Recentemente ho letto alcuni giornali americani. Ho visto il discorso di un prete americano il quale diceva che i bolscevichi sono gente immorale, che istituiscono la nazionalizzazione delle donne, sono dei briganti, dei rapinatori. E ho visto la risposta dei socialisti americani: essi diffondono per cinque cent la Costituzione della Repubblica russa sovietica, di questa “dittatura” che non dà “l’eguaglianza della democrazia del lavoro”. Rispondono citando un paragrafo della Costituzione di questi “usurpatori”, “briganti”, “violenti”, che violano l’unità della democrazia del lavoro. Fra l’altro, quando si fecero le accoglienze alla Bresckovskaia, il più grande giornale capitalista di New York il giorno del suo arrivo scrisse a lettere cubitali: “Benvenuta, nonnina!”. I socialisti americani ristampando questo titolo hanno detto: “La Bresckovskaia è per la democrazia politica, c’è forse da meravigliarsi, operai americani, se i capitalisti ne fanno gli elogi?”. È per la democrazia politica. Perché devono farne gli elogi? Perché è contro la Costituzione sovietica. “Ed eccovi - dicono i socialisti americani - un articolo della Costituzione di questi briganti”. Essi citano sempre lo stesso articolo, che dice: non ha il diritto di voto e non ha il diritto di essere eletto chi sfrutta il lavoro altrui. Questo articolo della nostra Costituzione è conosciuto in tutto il mondo. Il potere sovietico proprio perché ha detto apertamente che tutto è subordinato alla dittatura del proletariato, che esso è un nuovo tipo di organizzazione dello Stato, proprio per questo si è conquistato la simpatia degli operai di tutto il mondo. Questa nuova organizzazione dello Stato nasce con grande fatica perché vincere la nostra indisciplina, il nostro disordine piccolo-borghese, è la cosa più difficile, è un milione di volte più difficile che schiacciare un grande proprietario fondiario dispotico o un capitalista dispotico, ma è anche un milione di volte più fecondo per creare una nuova organizzazione, libera dallo sfruttamento. Quando l’organizzazione proletaria  avrà assolto questo compito, il socialismo trionferà definitivamente. A questo si deve dedicare tutta la nostra attività nell’educazione scolastica ed extrascolastica. Nonostante le condizioni straordinariamente difficili, benché la rivoluzione socialista avvenga per la prima volta nel mondo in un paese con un livello culturale così basso, nonostante ciò il potere sovietico ha già conquistato il riconoscimento degli operai degli altri paesi. L’espressione “dittatura del proletariato” è latina e qualunque lavoratore la udiva non ne capiva il significato, non capiva come si potesse tradurre in realtà. Adesso questa espressione è stata tradotta nella moderna lingua del popolo, adesso abbiamo mostrato che la dittatura del proletariato è il potere sovietico, il potere nel quale gli operai organizzano se stessi e dicono: “La nostra organizzazione è superiore a tutte; chiunque non sia un lavoratore, chiunque sfrutti non ha il diritto di partecipare a questa organizzazione. Questa organizzazione è tutta tesa a un solo fine: l’abbattimento del capitalismo. Nessuna parola d’ordine menzognera, nessun feticcio, come la “libertà”, l’“eguaglianza”, ci può ingannare. Non riconosciamo né la libertà, né l’eguaglianza, né la democrazia del lavoro, se esse sono in contrasto con gli interessi dell’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale”. Questo abbiamo scritto nella Costituzione sovietica e questa ha già guadagnato le simpatie degli operai di tutto il mondo. Essi sanno che, per quanto sia difficile la nascita dell’ordine nuovo, per quante dure prove e persino sconfitte possano toccare a singole repubbliche sovietiche, nessuna forza al mondo farà tornare l’umanità indietro. (Applausi fragorosi.)