Indice degli scritti di Lenin

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Stato e Rivoluzione

Lenin, estate 1917 (Ed. Riuniti, Opere complete vol. 25)

 

Cap. V. Le basi economiche dell’estinzione dello Stato

Lo studio più approfondito di questo problema lo troviamo in Marx, nella sua Critica del programma di Gotha (lettera a Bracke del 5 maggio 1875, pubblicata soltanto nel 1891 nella Neue Zeit, IX, l, e di cui apparve un’edizione separata in russo). La parte polemica di questa importante opera, che contiene la critica del lassallismo [Ferdinand Lassalle, 1825-1864], ha lasciato per così dire nell’ombra la parte positiva, cioè l’analisi della connessione tra lo sviluppo del comunismo e l’estinzione dello Stato.

 

1. L’impostazione della questione in Marx

Se si sottopongono a un superficiale confronto la lettera di Marx a Bracke del 5 maggio 1875 e la lettera del 28 marzo 1875 di Engels a Bebel, esaminata più sopra [cap. IV paragrafo 3], può sembrare che Marx sia molto più “statalista” di Engels e che la differenza fra le concezioni dei due scrittori sullo Stato sia molto notevole.

Engels invita Bebel a smetterla con le chiacchiere sullo Stato, a bandire completamente dal programma la parola “Stato” e a sostituirla con la parola “Comune”; Engels dichiara persino che la Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Marx invece parla del “futuro Stato della società comunista”, cioè sembra ammettere la necessità dello Stato anche nella società comunista.

Ma una tale interpretazione sarebbe profondamente errata. Un più attento esame mostra che le idee di Marx e di Engels sullo Stato e sull’estinzione dello Stato coincidono perfettamente e che l’espressione di Marx citata si riferisce appunto all’organizzazione statale in via di estinzione.

Non è possibile evidentemente determinare il momento in cui avverrà questa futura “estinzione”, soprattutto perché essa sarà inevitabilmente un processo di lunga durata. L’apparente differenza tra Marx ed Engels si spiega con la differenza degli argomenti trattati e degli scopi da essi perseguiti. Engels si propone di dimostrare a Bebel, in modo clamoroso, incisivo, a grandi linee, tutta l’assurdità dei pregiudizi correnti (condivisi in gran parte da Lassalle) sullo Stato. Marx sfiora soltanto questo problema; un altro argomento l’interessa: lo sviluppo della società comunista.

Tutta la teoria di Marx è l’applicazione al capitalismo contemporaneo della teoria dell’evoluzione [della dialettica materialista], nella sua forma più conseguente e completa, meditata e ricca di contenuto. Si comprende quindi che Marx abbia visto il problema dell’applicazione di questa teoria all’imminente fallimento del capitalismo e al futuro sviluppo del futuro comunismo.

Su quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro sviluppo del futuro comunismo?

Sul fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, si sviluppa storicamente dal capitalismo, è il risultato dell’azione di una forza sociale prodotta dal capitalismo. In Marx non vi è traccia del tentativo di inventare delle utopie, di fare vane congetture su quel che ancora non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell’evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione.

Marx respinge innanzitutto la confusione in cui cade il programma di Gotha nella questione dei rapporti tra lo Stato e la  società.

“...La “società odierna” - egli scrive - è la società capitalista che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di aggiunte medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo “Stato odierno”, invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. Lo “Stato odierno” è dunque una finzione.”

Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalista. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno “Stato odierno”, in contrapposizione al futuro, quando la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita.

“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora che siano analoghe alle odierne funzioni statali? A questa questione si può rispondere solo scientificamente: componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna...”

Avendo così ridicolizzato tutte le chiacchiere sullo “Stato popolare”, Marx mostra come si deve impostare la questione, e avverte che non le si può dare in qualche modo una risposta scientifica se non basandosi su dati scientifici solidamente stabiliti.

Il primo punto, stabilito con la massima precisione da tutta la teoria dell’evoluzione e, in generale, da tutta la scienza - punto che gli utopisti dimenticavano e che dimenticano gli opportunisti odierni, i quali temono la rivoluzione sociale - è il seguente: è storicamente certo che fra il capitalismo e il comunismo dovrà necessariamente esserci uno stadio particolare o una tappa particolare di transizione.

 

2. La transizione dal capitalismo al comunismo

“...Tra la società capitalista e la società comunista - prosegue Marx - vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato...”

Questa conclusione si basa, in Marx, sull’analisi della funzione che il proletariato ha nella società capitalista odierna, sui dati dello sviluppo di questa società e sull’inconciliabilità degli opposti interessi del proletariato e della borghesia.

Prima la questione veniva posta in tal modo: per ottenere la sua emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia, conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura rivoluzionaria.

Ora la questione si pone in modo un po’ diverso: il passaggio dalla società capitalista, che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un “periodo politico di transizione”; lo Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.

Ma qual è l’atteggiamento di questa dittatura verso la democrazia?

Abbiamo visto che il Manifesto del partito comunista [1848] pone semplicemente uno accanto all’altro i due concetti: “trasformazione del proletariato in classe dominante” e “conquista della democrazia”. Tutto ciò che precede permette di determinare in modo più preciso le modificazioni che subirà la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo.

La società capitalista, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre limitata nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalista, e rimane sempre, in definitiva, una democrazia per la minoranza, solo per le classi possidenti, solo per i ricchi. La libertà, nella società capitalista, rimane sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell’antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in conseguenza dello sfruttamento capitalista, sono  talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno altro per la testa che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinario e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale.

L’esattezza di questa affermazione è confermata, forse con la maggiore evidenza, dall’esempio della Germania, perché è proprio in questo paese che la legalità costituzionale si mantenne, per quasi mezzo secolo (1871-1914), con una costanza e una durata sorprendenti e durante questo periodo la socialdemocrazia seppe, molto più che negli altri paesi, “usufruire della legalità” e organizzare in un partito politico una parte di operai molto più grande che in qualsiasi altro paese del mondo.

Quale è dunque questa parte - la più elevata fra quelle che si osservano nella società capitalista - degli schiavi salariati politicamente coscienti e attivi? Un milione di membri del partito socialdemocratico su 15 milioni di operai salariati! Tre milioni di operai organizzati nei sindacati su 15 milioni di operai!

Democrazia per un’infima minoranza, democrazia per i ricchi: questo è il sistema democratico della società capitalista. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della democrazia capitalista, sempre dovunque - sia nei “piccoli” (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale (durata della residenza, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli posti di fatto al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell’organizzazione puramente capitalista della stampa quotidiana, ecc. - si vedranno restrizioni su restrizioni al sistema democratico. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri sembrano piccoli soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia.

Marx afferrò perfettamente questa caratteristica essenziale della democrazia capitalista, quando, nella sua analisi dell’esperienza della Comune [La guerra civile in Francia, 1871], disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!

Ma l’evoluzione da questa democrazia capitalista - inevitabilmente ristretta, che respinge in modo dissimulato i poveri, e quindi profondamente ipocrita e bugiarda - “a una democrazia sempre più completa”, non avviene così semplicemente, direttamente e senza scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo, cioè l’evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti, poiché non v’è nessun’altra classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori.

Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l’umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia.

Engels lo ha espresso in modo mirabile nella sua lettera a Bebel scrivendo, come il lettore ricorda, che “finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari; quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere”.

Democrazia per l’immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla democrazia,  per gli sfruttatori, gli oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo.

Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v’è cioè più distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora “lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà”. Soltanto allora diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia [lo Stato democratico] comincia a estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalista, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalista, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato.

L’espressione: “lo Stato si estingue” è molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità. Soltanto l’abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo produrrà, poiché noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca l’indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria la repressione.

La società capitalista non ci offre dunque che una democrazia monca, miserabile, falsificata, una democrazia solo per i ricchi, solo per la minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una democrazia realmente completa e quanto più sarà completa, tanto più rapidamente diventerà superflua e si estinguerà da sé.

In altri termini: noi abbiamo, nel regime capitalista, lo Stato nel vero senso della parola, una macchina speciale per la repressione di una classe da parte di un’altra e per di più della maggioranza da parte della minoranza. Si comprende come per realizzare un simile compito - la sistematica repressione della maggioranza degli sfruttati da parte di una minoranza di sfruttatori - siano necessarie una crudeltà e una ferocia di repressione estreme: fiumi di sangue attraverso cui l’umanità prosegue il suo cammino, sotto il regime della schiavitù, della servitù della gleba e del lavoro salariato.

In seguito, nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la repressione è ancora necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di sfruttati contro una minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la macchina speciale di repressione, lo “Stato”, è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio, non più lo Stato propriamente detto, perché la repressione di una minoranza di sfruttatori da parte della maggioranza degli schiavi salariati di ieri, è cosa relativamente così facile, semplice e naturale, che costerà molto meno sangue di quello che è costata la repressione delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati, costerà molto meno caro all’umanità. Ed essa è compatibile con una democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale di repressione. Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di reprimere il popolo senza una macchina molto complicata destinata a questo compito; il popolo, invece, può reprimere gli sfruttatori anche con una “macchina” molto semplice, quasi senza “macchina”, senza apparato speciale, mediante la semplice organizzazione delle masse in armi (come - diremo anticipando - i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati).

Infine, solo il comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perché non c’è da reprimere nessuno, “nessuno” nel senso di classe, nel senso di lotta sistematica contro una parte determinata della popolazione. Noi non siamo utopisti e non escludiamo affatto che siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per questo non c’è bisogno d’una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con  cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata violenza contro una donna. Sappiamo inoltre che la principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro miseria e ignoranza. Eliminata questa causa principale, gli eccessi cominceranno infallibilmente a “estinguersi”. Non sappiamo con quale ritmo e quale gradualità, ma sappiamo che si estingueranno. E con essi si estinguerà anche lo Stato.

Marx, senza abbandonarsi all’utopia, definì più in particolare ciò che è ora possibile definire di questo avvenire, e precisamente ciò che distingue la fase (gradino, tappa) inferiore dalla fase superiore della società comunista.

 

3. La prima fase della società comunista

Nella Critica del programma di Gotha Marx confuta minuziosamente l’idea di Lassalle che l’operaio debba ricevere in regime socialista il reddito “non ridotto” o il “reddito integrale del suo lavoro”. Marx dimostra che dal prodotto sociale complessivo di tutta la società bisogna detrarre: un fondo di riserva, un fondo per l’allargamento della produzione, un fondo destinato a reintegrare il macchinario “consumato”, ecc.; inoltre bisogna detrarre dagli oggetti di consumo un fondo per le spese di amministrazione, per le scuole, per gli ospedali, gli ospizi per i vecchi, ecc.

Invece della formula nebulosa, oscura e generica di Lassalle (“all’operaio il frutto integrale del suo lavoro”), Marx stabilisce lucidamente come deve essere la gestione di una società socialista. Egli affronta l’analisi concreta delle condizioni di vita di una società in cui non esisterà più il capitalismo, e aggiunge:

“Quella con cui abbiamo da far qui” (analizzando il programma del partito operaio) “è una società comunista non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma, viceversa, come emerge dalla società capitalista; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto economico, morale, spirituale, le “macchie” della vecchia società dal cui seno essa è uscita”.

È questa società comunista appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama “la prima fase” o fase inferiore della società comunista.

I mezzi di produzione non sono già più proprietà privata individuale. Essi appartengono a tutta la società. Ogni membro della società, eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta ch’egli ha prestato una data quantità di lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti. Detratta la quantità di lavoro versata ai fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla società tanto quanto le ha dato.

Si direbbe il regno dell’“uguaglianza”.

Ma quando, a proposito di quest’ordinamento sociale (abitualmente chiamato socialismo e che Marx chiama prima fase del comunismo), Lassalle dice che c’è in esso “giusta ripartizione”, “uguale diritto di ciascuno all’uguale prodotto del lavoro”, egli si sbaglia e Marx spiega perché.

Un “uguale diritto” - dice Marx - qui effettivamente l’abbiamo, ma è ancora il “diritto borghese”, che, come ogni diritto, presuppone la disuguaglianza. Ogni diritto consiste nell’applicazione di una norma eguale e unica a persone diverse, a persone che non sono, in realtà, né identiche, né uguali. L’“uguale diritto” equivale quindi a una violazione dell’uguaglianza e della giustizia. Infatti, per una parte uguale di lavoro sociale fornito, ognuno riceve un’uguale parte della produzione sociale (con le detrazioni indicate più sopra).

Gli individui però non sono uguali: uno è più forte, l’altro è più debole, uno è ammogliato, l’altro no, uno ha più figli, l’altro meno, ecc.

“...Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale - conclude Marx - l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale...”

La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e l’uguaglianza; rimarranno differenze di  ricchezza e differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, poiché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc. Demolendo la formula confusa e piccolo-borghese di Lassalle sulla “uguaglianza” e la “giustizia” in generale, Marx indica il corso dello sviluppo della società comunista, costretta da principio a distruggere solo l’“ingiustizia” costituita dall’accaparramento dei mezzi di produzione da parte di singoli individui, ma incapace di distruggere di punto in bianco l’altra ingiustizia: la ripartizione dei beni di consumo “secondo il lavoro” (e non secondo i bisogni).

Gli economisti volgari, e fra essi i professori borghesi, compreso il “nostro” Tugan [Michail Tugan-Baranovski, 1865-1919], rimproverano continuamente ai socialisti di dimenticare la disuguaglianza degli individui e di “sognare” la soppressione di questa disuguaglianza. Questi rimproveri, come si vede, dimostrano soltanto l’estrema ignoranza dei signori ideologi borghesi.

Non solo Marx tiene conto con molta precisione di questa inevitabile disuguaglianza delle persone, ma non trascura nemmeno il fatto che, da sola, la socializzazione dei mezzi ai produzione (“socialismo” nel senso abituale della parola) non elimina gli inconvenienti della distribuzione e la disuguaglianza del “diritto borghese” che continua a dominare fino a quando i prodotti sono divisi “secondo il lavoro”.

“...Ma questi inconvenienti - continua Marx - sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalista. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, condizionato dalla configurazione economica della società...”.

Così, nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata socialismo), il “diritto borghese” non è completamente abolito, è abolito solo in parte, soltanto nella misura in cui la rivoluzione economica è compiuta, cioè unicamente per quanto riguarda i mezzi di produzione. Il “diritto borghese” riconosce la proprietà privata su questi ultimi a individui singoli. Il socialismo ne fa una proprietà comune. In questa misura - e soltanto in questa misura - il “diritto borghese” è abolito.

Ma esso sussiste nell’altra sua parte, sussiste quale regolatore (fattore determinante) della distribuzione dei prodotti e del lavoro fra i membri della società. “Chi non lavora non mangia”: questo principio socialista è già realizzato; “a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti”: quest’altro principio socialista è anche esso già realizzato. Tuttavia ciò non è ancora il comunismo, non abolisce ancora il “diritto borghese” che attribuisce a persone disuguali e per una quantità di lavoro disuguale (di fatto disuguale) [ognuno vende la forza-lavoro che ha e la fatica che fa dipende dalle sue forze] una quantità eguale di prodotti.

È un “inconveniente”, dice Marx, ma esso è inevitabile nella prima fase del comunismo, in quanto non si può pensare, senza cadere nell’utopia, che appena rovesciato il capitalismo gli uomini imparino, dall’oggi al domani, a lavorare per la società senza alcuna norma giuridica; d’altra parte, l’abolizione del capitalismo non crea subito le premesse economiche per un tale cambiamento.

E non vi sono altre norme, all’infuori di quelle del “diritto borghese”. Rimane perciò la necessità di uno Stato che, mantenendo comune la proprietà dei mezzi di produzione, mantenga la disuguaglianza del lavoro [ognuno vende la forza lavoro che è ancora sua proprietà privata] e la disuguaglianza della distribuzione dei prodotti.

Lo Stato si estingue nella misura in cui non ci sono più capitalisti, non ci sono più e quindi non è più possibile reprimere alcuna classe.

Ma lo Stato non si è ancora estinto completamente, poiché rimane la salvaguardia del “diritto borghese” che consacra la disuguaglianza di fatto. Perché lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale.

 

4. La fase superiore della società comunista

Marx continua:

 “...In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparso l’asservimento degli individui alla divisione del lavoro e quindi è scomparso anche il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; dopo che il lavoro è divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni!”

Ora soltanto possiamo apprezzare tutta la giustezza delle osservazioni di Engels, che colpisce implacabilmente con i suoi sarcasmi l’assurdo accoppiamento delle parole “libertà” e “Stato”. Finché esiste lo Stato, non vi è libertà; quando si avrà la libertà non vi sarà più Stato.

La condizione economica della completa estinzione dello Stato è che il comunismo giunga a un grado così elevato di sviluppo che ogni contrasto tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale scompaia e scompaia quindi una delle principali fonti della disuguaglianza sociale contemporanea, fonte che la sola socializzazione dei mezzi di produzione, la sola espropriazione dei capitalisti non eliminare di colpo.

Questa espropriazione renderà possibile uno sviluppo gigantesco delle forze produttive. Vedendo che, già ora, il capitalismo intralcia in modo assurdo questo sviluppo e quali progressi potrebbero essere realizzati grazie alla tecnica moderna già acquisita, abbiamo il diritto di affermare con assoluta certezza che l’espropriazione dei capitalisti darà necessariamente un gigantesco impulso alle forze produttive della società umana. Ma non sappiamo e non possiamo sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo, quando esso giungerà a una rottura con la divisione del lavoro, alla soppressione del contrasto fra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale, alla trasformazione del lavoro nel “primo bisogno della vita”.

Abbiamo perciò unicamente il diritto di parlare dell’inevitabile estinzione dello Stato, sottolineando a proposito della durata di questo processo, che esso dipende dalla rapidità di sviluppo della fase più elevata del comunismo, lasciando assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione assumerà, poiché non abbiamo dati che ci permettano di risolvere simili questioni.

Lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio. “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo che essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità. “L’angusto orizzonte giuridico borghese”, che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock (“non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?”) questo ristretto orizzonte sarà allora sorpassato. La distribuzione dei prodotti non renderà più necessario che la società razioni i prodotti a ciascuno: ciascuno sarà libero di attingere “secondo i suoi bisogni”.

Dal punto di vista borghese è facile dichiarare che un tale regime sociale è “pura utopia” e coprire di sarcasmi i socialisti che promettono a ogni cittadino di ricevere dalla società, senza alcun controllo del suo lavoro, tutti i tartufi, tutte le automobili, tutti i pianoforti che desidera. Ancor oggi la maggior parte degli “scienziati” borghesi se la cavano con sarcasmi del genere, rivelando in tal modo sia la loro ignoranza che la loro interessata difesa del capitalismo.

Ignoranza, perché non a un solo socialista è mai venuto in mente di “promettere” l’avvento della fase superiore del comunismo [osò farlo Kruscev anni dopo, al XXII congresso del PCUS nel 1962]. Quanto alla previsione dei grandi socialisti sul suo avvento, essa presuppone una produttività del lavoro diversa da quella attuale e non l’attuale borghese, capace, come i seminaristi di Pomialovski,(1) di sperperare “a destra e a sinistra” le ricchezze pubbliche e di pretendere l’impossibile.

 

1. Allusione al romanzo di N.G. Pomialovski, Vita di seminario.

 

 Fino all’avvento della fase “più elevata” del comunismo, i socialisti reclamano dalla società e dallo Stato che sia esercitato il più rigoroso controllo della misura del lavoro e della misura del consumo; ma questo controllo deve cominciare con l’espropriazione dei capitalisti e con il controllo degli operai sui capitalisti e deve essere esercitato non dallo Stato dei funzionari, ma dallo Stato degli operai armati.

La difesa interessata del capitalismo da parte degli ideologi borghesi (e dei loro reggicoda del tipo di Tsereteli, Cernov e consorti) consiste precisamente nell’eludere con discussioni e frasi su un lontano avvenire, la questione urgente e di scottante attualità della politica di oggi: l’espropriazione dei capitalisti, la trasformazione di tutti i cittadini in lavoratori e impiegati di un unico e grande “cartello”, vale a dire dello Stato e la completa subordinazione di tutto il lavoro di tutto questo cartello a uno Stato veramente democratico, allo Stato dei Soviet dei deputati degli operai e dei soldati.

In fondo quando un dotto professore e dopo di lui il filisteo [la persona bigotta e benpensante] e dopo di lui i signori Tsereteli e i signori Cernov parlano delle utopie insensate, delle promesse demagogiche dei bolscevichi, della impossibilità di “introdurre” il socialismo, essi alludono appunto a questo stadio o a questa fase superiore del comunismo, che non solo nessuno ha mai promesso, ma non ha neppure mai pensato di “introdurre”, per la sola ragione che è impossibile “introdurla”.

Ci troviamo qui di fronte al problema della distinzione scientifica tra socialismo e comunismo, problema toccato da Engels nel brano precedentemente citato sulla denominazione non esatta di “socialdemocratico”. Dal punto di vista politico, la differenza fra la prima fase o fase inferiore e la fase superiore del comunismo probabilmente diventerà col tempo una questione molto importante. Ma oggi, in regime capitalista, sarebbe ridicolo farne un caso ora. Forse solo certi anarchici potrebbero metterla in primo piano (se ci sono ancora fra gli anarchici uomini a cui la metamorfosi “plekhanoviana” dei Kropotkin, dei Grave, dei Cornelissen e di altre “stelle” dell’anarchismo in socialsciovinisti o anarchici delle trincee - per usare l’espressione di Gay, uno dei pochi anarchici che abbiano conservato l’onore e la coscienza - non ha insegnato nulla).(2)

 

2. A.Iu. Gay fu uno degli anarchici russi che simpatizzarono con i bolscevichi e collaborarono con essi anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Fu membro del Comitato esecutivo centrale dei Soviet e del governo sovietico del Caucaso del nord. Nel 1919 cadde vittima del terrore bianco nel corso della guerra civile.

Kropotkin e gli altri “grandi” esponenti dell’anarchismo allo scoppio della prima Guerra Mondiale divennero sciovinisti fautori della guerra.

 

Ma la differenza scientifica fra socialismo e comunismo è chiara. Marx chiama “prima” fase o fase inferiore della società comunista ciò che comunemente viene chiamato socialismo. La parola “comunismo” può essere anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione divengono proprietà comune, purché non si dimentichi che non è un comunismo completo. Ciò che conferisce un grande pregio all’esposizione di Marx è ch’egli applica conseguentemente anche qui la dialettica materialista, la teoria dell’evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si sviluppa dal capitalismo. Anziché attenersi a definizioni “escogitate”, scolastiche e artificiali, a sterili dispute su parole (che cos’è il socialismo? che cos’è il comunismo?), Marx analizza quelli che si potrebbero chiamare i gradi della maturità economica del comunismo.

Nella sua prima fase, nel suo primo grado, il comunismo non può essere, dal punto di vista economico, completamente maturo, completamente libero dalle tradizioni e dalle vestigia del capitalismo. Di qui il fenomeno interessante qual è il mantenimento dell’“angusto orizzonte giuridico borghese” nella prima fase del regime comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la distribuzione dei beni di consumo, suppone pure necessariamente uno Stato borghese, poiché il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle sue norme.

Ne consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese ma anche lo Stato borghese, senza borghesia!

 Ciò può sembrare un paradosso o un gioco dialettico del pensiero e questo rimprovero è stato spesso mosso al marxismo da gente che non si è mai data la minima pena di studiarne la sostanza estremamente profonda.

Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società, che vestigia del passato sopravvivono nel presente. Marx non introdusse arbitrariamente nel comunismo una particella del diritto “borghese”; egli si rese conto soltanto di ciò che, economicamente e politicamente, è inevitabile nella società uscita dal seno del capitalismo.

La democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe operaia contro i capitalisti per la propria emancipazione. Ma la democrazia non è affatto un limite, un limite insuperabile; è semplicemente una tappa sulla strada che va dal feudalesimo al capitalismo e dal capitalismo al comunismo.

Democrazia vuol dire uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande importanza hanno la lotta del proletariato per l’uguaglianza e la parola d’ordine dell’uguaglianza se si comprende quest’ultima in modo giusto, nel senso della soppressione delle classi. Ma democrazia significa soltanto uguaglianza formale. E appena realizzata l’uguaglianza di tutti i membri della società per ciò che concerne il possesso dei mezzi di produzione, vale a dire l’uguaglianza del lavoro, l’uguaglianza del salario, sorgerà inevitabilmente davanti all’umanità la questione di compiere un successivo passo in avanti, di passare dall’uguaglianza formale all’uguaglianza reale, cioè alla realizzazione del principio: “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Noi non sappiamo né possiamo sapere per quali tappe, attraverso quali provvedimenti pratici l’umanità andrà verso questo fine supremo. Ma quel che importa è vedere quanto sia falsa l’idea borghese corrente che il socialismo sia qualche cosa di morto, di fisso, di dato una volta per sempre, mentre in realtà soltanto col socialismo incomincerà, in tutti i campi della vita sociale e privata, un rapido, vero, movimento progressivo, effettivamente di massa, a cui parteciperà la maggioranza della popolazione prima, e tutta la popolazione poi.

La democrazia è una forma dello Stato, una delle sue varietà. Essa è quindi, come ogni Stato, l’applicazione organizzata, sistematica, della costrizione agli uomini. Questo, da un lato. Ma dall’altro lato, la democrazia è il riconoscimento formale dell’uguaglianza fra i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forma dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che, a un certo grado del suo sviluppo, la democrazia in primo luogo unisce contro il capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di far sparire dalla faccia della terra la macchina dello Stato borghese, anche se borghese repubblicano, l’esercito permanente, la polizia, la burocrazia. e di sostituirli con una macchina più democratica, ma che rimane tuttavia una macchina statale, costituita dalle masse operaie armate, e poi da tutto il popolo che partecipa alla milizia.

Qui “la quantità si trasforma in qualità”; arrivata a questo grado, il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il comunismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che “tutti” effettivamente possano partecipare alla gestione dello Stato. Queste premesse sono, tra l’altro, l’istruzione generale, già realizzata in molti paesi capitalisti più avanzati, poi l’“educazione e l’abitudine alla disciplina” di milioni di operai per opera dell’enorme e complesso apparato socializzato delle poste, delle ferrovie, delle grandi officine, del grande commercio, delle banche, ecc.

Con tali premesse economiche, è perfettamente possibile, dopo aver rovesciato i capitalisti e i funzionari, sostituirli immediatamente dall’oggi al domani - per il controllo della produzione e della distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei prodotti - con gli operai armati, con tutto il popolo in armi. (Non bisogna confondere la questione del controllo e della registrazione con quella del personale tecnico scientificamente preparato, ingegneri, agronomi, ecc.; questi signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti, lavoreranno ancor meglio domani agli ordini degli operai armati).

Registrazione e controllo: ecco l’essenziale, ciò che è necessario per l’“avviamento” e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito  dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d’un solo “cartello” di tutto il popolo, dello Stato. Tutto sta nell’ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura. La registrazione e il controllo in tutti questi campi sono stati semplificati all’estremo dal capitalismo che li ha ridotti a operazioni straordinariamente semplici di sorveglianza e di conteggio, e al rilascio di ricevute, cose tutte accessibili a chiunque sappia leggere e scrivere e fare le quattro operazioni.(3)

 

3. Quando lo Stato riduce le sue funzioni essenziali alla registrazione e al controllo da parte degli stessi operai, cessa di essere uno “Stato politico”; “le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico e si cangeranno in semplici funzioni amministrative” (si veda sopra, cap. IV paragrafo 2, la polemica di Engels con gli anarchici).

 

Quando la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati allora in impiegati) [ai tempi in cui Lenin scrive, in Russia non era ancora cosa corrente la divisione tra capitalisti proprietari e capitalisti dirigenti delle aziende] e dei signori intellettuali che avranno conservato ancora delle abitudini capitaliste, questo controllo diventerà veramente universale, generale, nazionale, e nessuno potrà in alcun modo sottrarvisi, “non saprà dove cacciarsi” per sfuggirvi.

L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario.

Ma questa disciplina “di fabbrica” che il proletariato, vinti i capitalisti e rovesciati gli sfruttatori, estenderà a tutta la società, non è affatto il nostro ideale né la nostra meta finale: essa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la società dalle brutture e dalle ignominie dello sfruttamento capitalista e assicurare l’ulteriore marcia in avanti.

Dal momento in cui tutti i membri della società, o almeno l’immensa maggioranza di essi, hanno appreso a gestire essi stessi lo Stato, si sono messi essi stessi all’opera, hanno “organizzato” il loro controllo sull’infima minoranza dei capitalisti, sui signori desiderosi di conservare le loro abitudini capitaliste e sugli operai profondamente corrotti del capitalismo - da quel momento la necessità di qualsiasi amministrazione comincia a scomparire. Quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua. Quanto più democratico è lo “Stato” composto dagli operai armati, che “non è più uno Stato nel senso proprio della parola”, tanto più rapidamente incomincia ad estinguersi ogni Stato.

Infatti quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti procederanno essi stessi alla registrazione e al controllo dei parassiti, dei figli di papà, dei furfanti e simili “guardiani delle tradizioni del capitalismo”, ogni tentativo di sfuggire a questa registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il popolo diventerà una cosa talmente difficile, un’eccezione così rara, provocherà verosimilmente un castigo così pronto e così esemplare (poiché gli operai armati sono gente che hanno il senso pratico della vita e non dei piccoli intellettuali sentimentali: non permetteranno che si scherzi con loro), che la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume.

Si spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla prima alla fase superiore della società comunista e, quindi, alla completa estinzione dello Stato.