Scritti vari all’attenzione dei nostri lettori
Articolo da il manifesto del 15
giugno 2013 - pag. 1 e 15
LAVORO
Riduciamo l'orario, non il salario
EDITORIALE - Giorgio Lunghini
Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla
Costituzione. Secondo Smith, «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni
nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che
in un anno consuma». Più breve e efficace, l'articolo 1 della Costituzione
recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Sul lavoro,
non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito
garantito, d'altra parte, non ho cambiato l'idea che coltivavo qualche anno fa,
e qui la riprendo.
Quando una improbabile crescita dell'economia è sì condizione necessaria per
realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo
di una società capitalista si aggrava. Se si è d'accordo su ciò, e se si
conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua
volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una
distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si
deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una
soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è
il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo
Stato o direttamente all'interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente
l'eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di
riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di
cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell'autonomia
economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero,
ne certificherebbe l'emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe
irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L'autonomia economica
e politica presuppone un reddito da lavoro.
Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell'altra soluzione cui si può
pensare: una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro; tuttavia una
politica di riduzione dell'orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi
ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e
implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni.
Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di
trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma
difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di
competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della
depressione che si annuncia, la riduzione dell'orario di lavoro rischia di
essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori
occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla
logica della produzione di merci. L'idea che giustifica le politiche di
riduzione dell'orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di
produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori
tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza
relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida,
tendenzialmente di piena occupazione. L'esatto contrario della situazione
attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti parziali accettati in cambio di
aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra
occupati e non occupati e con una maggiore flessibilità all'interno della
fabbrica e sul mercato del lavoro. Il livello della produzione capitalistica non
viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i
bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei
profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono
soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto.
Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno
variazioni significative nell'occupazione se non in lavori servili, precari e a
basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti
sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema - troppe merci, poco
lavoro - va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e
mercantile della società. C'è oggi coincidenza tra una situazione di crisi
gravissima e prospettive di nuovi spazi politici. Non si tratta di uscire dal
capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell'economia e della
società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da
un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall'altro le tante attività che
non sono mosse dall'obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo,
movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in
quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non
sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una
funzione surrogatoria). Nella produzione di merci «col carattere di utilità dei
prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in
essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le
quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano
eguale, lavoro umano in astratto». Si tratta proprio di ciò, di promuovere e
organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato
nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di
valori d'uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci
di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così
come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente
individuali e servizi tecnicamente sociali. L'azione più importante dello Stato,
attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a
quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni
che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni
che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto. Si
tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione
di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso
smithianomarxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi,
ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei
bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di
merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno
dell'ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e
della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle
merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d'acquisto
individuale. Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle
tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul
mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì
inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto
intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di
necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme
democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione
decentrata dell'offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza
internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di
efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla
congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i
valori d'uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari
reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori
concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori
d'uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente
servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di
scambio prodotti dal lavoro astratto. Le risorse si potrebbero trovare
facilmente: se mai si volesse provvedere all'eutanasia del rentier, e alla
costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze.
Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si
tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà
nell'abbondanza a quello stato dell'economia e della società prefigurato da
Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative,
questa è una prospettiva di benessere nell'austerità, ma meglio sarebbe dire di
benessere nella sobrietà. Un discorso sull'austerità che si limiti a una critica
del consumismo e all'esortazione moralistica è un discorso politicamente
sterile. L'alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme
di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme
nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L'apologia del mercato nasconde
il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione
dell'esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della
politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo
economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce
un grande intellettuale, che non tanto l'intellettuale quanto l'uomo in generale
si senta responsabile di qualche cosa d'altro che di procacciare cibo ai suoi
piccoli, finché non gli sarà segato l'albero su cui si è costruito il nido. (www.sbilanciamoci.info)