Scritti vari all’attenzione dei nostri lettori
Articolo da il manifesto del
21 giugno 2013 - pag. 15
Ripartire il lavoro o
il reddito?
COMMENTO - Piero
Bevilacqua
Nella drammatica situazione
italiana, come si fa a proporre la riduzione dell'orario di lavoro? Bisognerebbe
ricorrere alla risorse della rendita per finanziare il reddito di cittadinanza,
non a quelle dei lavoratori
Sul manifesto del 15
giugno Giorgio Lunghini è intervenuto per contestare l'utilità di perseguire «il
reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito», in nome di un'altra
possibile prospettiva: quella della riduzione della giornata lavorativa, con la
conseguente distribuzione del lavoro fra una più ampia platea di aspiranti.
L'obiezione avanzata da Lunghini è di gran rilievo sia sotto il profilo storico
che teorico. Sotto il profilo storico è il caso di ricordare che la riduzione
della giornata lavorativa, avviata con delimitazione per legge nelle fabbriche
inglesi negli anni '30 dell'Ottocento, segna una pagina nuova nella storia del
capitale. Come ricordava Marx, cessa allora l'estrazione di plusvalore assoluto,
sottratto agli operai allungando indefinitamente la durata del loro lavoro, e
inizia l'epoca del plusvalore relativo: quello che il capitalista - di fronte al
vincolo dell'orario - estrae accrescendo la produttività del lavoro tramite le
macchine e la continua riorganizzazione del processo produttivo. Le lotte
operaie volte a ridurre la giornata lavorativa costituiranno da allora la spinta
progressiva che percorre il capitalismo per tutto il corso dell'800 e del '900,
contribuendo a cambiare profondamente il volto delle società industriali.
Infine, sotto il profilo teorico, la prospettiva di una progressiva riduzione
dell'orario si inserisce nell'orizzonte della "liberazione dell'uomo dal lavoro"
che , com'è noto, costituisce uno scenario di utopia concreta, vagheggiato già
da Marx e di certo nelle possibilità materiali dell'umanità futura.
Dove nascono allora i
problemi? Come lo stesso Lunghini riconosce, le difficoltà che oggi sbarrano la
strada verso un tale obiettivo sono enormi: «Una politica di riduzione
dell'orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente
insuperabili resistenze da parte dei capitalisti». D'altra parte, essa non
potrebbe costituire la via solitaria di un solo stato e occorrerebbe approdare
ad accordi internazionali per risolvere i problemi di competitività fra i vari
paesi. D'altro canto, la riduzione dell'orario «presuppone salari di partenza
relativamente elevati e una situazione economica florida, tendenzialmente di
piena occupazione». Scenario dunque lontanissimo da quello attuale. Ma le
possibilità di percorrere la prospettiva della riduzione della giornata
lavorativa appaiono oggi ancor più proibitive per ragioni che non compaiono
nell'analisi di Lunghini. E vanno brevemente ricordate.
Oggi sono sempre più
numerosi gli analisti che considerano l'attuale crisi peggiore della Grande
Depressione del 1929. Solitamente, tuttavia costoro trascurano un aspetto che
segna una profonda differenza tra il nostro tempo e la situazione dei rapporti
di classe e del quadro politico internazionale negli anni Trenta. Il rapporto di
potere tra capitale e lavoro è sprofondato in una asimmetria abissale fra le due
forze. Il capitale ha a disposizione una forza di lavoro docile e rassegnata, un
«esercito industriale di riserva» a livello mondiale quale mai era esistito
nella storia umana. Sa che ha poco da temere dalle sporadiche esplosioni di
rabbia dei lavoratori, i quali ad altro non ambiscono che ad avere una qualche
occupazione e ad essere intensivamente sfruttati. Non ci si fa molto caso, ma
l'ottusità con cui i gruppi dirigenti europei rispondono alla crisi con le
medesime politiche che l'hanno generata si spiega anche - oltre all'esaurimento
storico delle prospettive neoliberiste - con l'assenza di una minaccia di classe
di proporzionata grandezza. Essi sanno bene che esiste tutto lo spazio politico
per uscire se non dalla crisi, dalla sua fase più turbolenta, guadagnando
ulteriore flessibilità e manovrabilità della variabile lavoro. Si comprende bene
tutto questo se noi osserviamo la creatività e l'intelligenza politica
dispiegata dalla borghesia, dagli intellettuali, dal ceto politico nella Grande
Depressione. Roosevelt non solo avviò il New Deal, esprimendo una capacità di
progetto che sembra essersi avvizzita nei cervelli degli attuali governanti. Su
sua iniziativa il Senato degli Usa aveva istituito nel 1933 la giornata
lavorativa di 30 ore: una legge che poi non venne ratificata alla Camera per la
vittoriosa opposizione del lobby industriali. Ma 5 anni dopo, con il Fair Labor
Standards Act, che stabiliva un tetto massimo di 44 ore introduceva di fatto la
media di 40 ore settimanali. Ma in Usa operavano allora sindacati fra i più
combattivi del mondo. In Europa, intorno al 1930, Keynes vagheggiava, nelle
Possibilità economiche per i nostri nipoti, lo scenario avvenire di una giornata
lavorativa ridotta a tre ore. Ma a quell'epoca le rivolte operaie erano un
pericolo non sottovalutabile. Per i dirigenti degli anni 30 la Rivoluzione
d'Ottobre non era una favola remota. Essa aveva mostrato al mondo intero che
operai e contadini guidati da un partito potevano rovesciare una società,
abbattere il capitalismo. E quella minaccia costituì per decenni la spinta
riformatrice del capitalismo in tutto l'Occidente.
Oggi, in Europa, dove
si trova un'aggregazione politica di forze riformatrici antagoniste che abbiano
almeno un profilo continentale? Dove sono le idee, le proposte, il fervore
riformatore, che sarebbero necessari? E in Italia? Temo che nessuno l'abbia
osservato. Negli ultimi tre-quattro mesi la cronaca quotidiana è stata intessuta
da uno stillicidio di notizie tragiche: imprese chiuse e operai gettati sul
lastrico, milioni di persone cadute in miseria, rinuncia crescente alle cure
mediche fra i meno abbienti, disoccupazione giovanile senza precedenti, persone
che si impiccavano o si davano fuoco per aver perso l'impresa o il lavoro.
Qualcuno, in questi mesi, ha sentito una proposta, una idea, una qualche voce da
parte dei sindacati, e in primissimo luogo da parte di uno dei maggiori e più
gloriosi sindacati europei, vale a dire la Cgil? Nulla, gelo, silenzio. Nessuno
pensa, nessuno elabora idee nel sindacato? Suo solo compito è difendere occupati
e cassintegrati? Ma sono decenni che, limitandosi a tale frontiera difensiva,
aggrappandosi all'esistente, il sindacato non fa che indietreggiare,
acconciandosi ad un ruolo sempre più subalterno e ininfluente. Della
rappresentanza politica del mondo del lavoro, osservando l'attuale stato del Pd,
appare ovvio che non è neppure il caso di parlare.
Se questo è, assai
sommariamente, il quadro della nostra situazione, come facciamo a proporre la
riduzione della giornata lavorativa? Per la verità Lunghini avanza anche
proposte alternative come quella dei «lavori prestati non nella sfera della
produzione delle merci, ma nella sfera della riproduzione sociale e della
manutenzione almeno dell'ambiente». Non si comprende, tuttavia, per quale
ragione, allorché si sofferma sul finanziamento del reddito di cittadinanza,
questo appare destinato ad essere sostenuto dal reddito dei lavoratori occupati.
Al contrario, i lavori fuori dal circuito della produzione di merci ricadrebbero
sulle rendite e sulla fiscalità progressiva. Supponiamo per la differenza di
dimensioni dei costi. Ma allora questi lavori alternativi sono una ben piccola
cosa? Francamente non si comprende perché non si possa ricorrere alle risorse
finanziarie della rendita per finanziare il reddito di cittadinanza. Questo già
accade in tanti Paesi d'Europa e i lavoratori occupati non se ne lamentano. A me
sembra che Lunghini si rappresenti un sistema industriale che tiene poco conto
dalla gigantesca metamorfosi in senso finanziario subita dal capitale. Immense
quantità di denaro sono oggi in giro per il mondo in cerca di profitti. È qui
che occorre attingere le risorse per fornire almeno ai senza lavoro un reddito
che li sottragga al "ricatto della vita" a cui oggi soggiacciono.
Ma Lunghini tiene
anche poco conto della leva politica che la battaglia per il reddito rende
utilizzabile. La sua richiesta costituirebbe una rivendicazione di larga
popolarità, capace di mobilitare vaste forze. Separare, sia pure parzialmente,
il reddito dal lavoro significa incominciare a pensare la ricchezza nazionale
prodotta come un bene comune da ripartire. Sottrarre una grande massa di
cittadini all'obbligo di un lavoro qualunque per sopravvivere è una scelta di
umana liberazione, che può agevolare l'impiego di masse crescenti verso lavori
volontari, esterni al ciclo di riproduzione delle merci. Per valorizzare la
società, prima che l'economia. Un progetto che si può attuare subito e non fra
vent'anni, quando saremo tutti morti.