L’analisi delle classi in cui è divisa la società borghese

Rapporti Sociali n. 3, marzo 1989  (versione Open Office / versione MSWord )

 

1. La divisione in classi

 

1.1. “Maturità” della rivoluzione socialista e divisione della società imperialista in classi

 

Con l’inizio della fase imperialista, il modo di produzione capitalista ha esaurito le sue potenzialità come ambito favorevole allo sviluppo della forza produttiva del lavoro umano.(1) Quanto più la fase del suo declino si protrae, tanto più i suoi effetti distruttivi diventano profondi e universali, diffusi a più aspetti, individuali e sociali, della vita degli uomini, a tutti gli uomini, al resto della natura: distruzione dell’ecosistema, inquinamento diffuso, deterioramento della salute individuale a delle condizioni igieniche pubbliche, tendenze culturali di distruzione e di morte, distruzione di uomini e cose prodotta non dai limiti dello sviluppo ma dallo sviluppo stesso, rischi di alcune applicazioni della scienza e della tecnologia, epidemie dovute al degrado delle condizioni igieniche e ambientali, masse di individui cronicamente relegati nella condizione di esercito di riserva, di “poveri” e di affamati. Le contraddizioni proprie del modo di produzione capitalista si presentano quindi sempre più come “problemi universali”, genericamente umani.(2)

 

1. Questa affermazione viene spiegata e dimostrata nel punto 4 dello scritto Rapporto di capitale nel presente numero di Rapporti Sociali. Dall’inizio della fase imperialista il fatto che il modo di produzione capitalista è storicamente superato si riflette ovviamente anche nella cultura borghese. La “registrazione” di questo da parte della cultura borghese inizia alla fine del secolo scorso e da allora è una costante del firmamento ideologico borghese, una cometa che a tratti splende di luce più forte, a tratti quasi scompare. Al suo primo apparire si presenta come reazione al positivismo e al razionalismo, come “pensiero negativo”: Nietzsche, Burckhardt ed altri epigoni di Schopenhauer sono i principali esponenti di queste correnti. Nella prima metà del secolo attuale il pessimismo sulle “sorti dell’umanità” trova espressione in campo filosofico in opere come Il tramonto dell’Occidente di Spengler – oltre che nella letteratura e nelle arti figurative. Questo indirizzo di pensiero è stato ripreso più recentemente nelle ricerche sulla filosofia greca antica tendenti a dimostrare il carattere aberrante del pensiero razionale (cui si contrappone il pensiero non razionale e non logico dell’Oriente), e la connessione di questo con il carattere autodistruttivo della cultura occidentale. Ma esiste un altro versante – apparentemente opposto – della cultura borghese nel quale è dominante la tematica della negatività del progresso, del suo carattere, “reificato”, “alienato”, ecc. La parabola della Scuola di Francoforte (soprattutto Adorno ed Horkheimer) a cavallo della 2a guerra mondiale e l’esistenzialismo francese esemplificano questa critica “razionale” del “progresso”. Soprattutto la prima avrà una profonda influenza in Italia sia sulle posizioni degli operaisti (Panzieri soprattutto), sia su altre correnti soggettiviste (situazionisti, negazionisti, neo-consilari, ecc.). Espressione più sistematica di quest’ultimo pensiero è Cesarano, nei cui scritti il “capitale totale” non è che la conseguenza ultima della rottura (consumata in tempi antichissimi) tra la specie umana e il resto della  natura; memoria di questa scissione (e unica speranza cui appoggiarsi) sarebbero quindi la “corporeità”, la “insurrezione erotica”, la ribellione, la devianza, ecc.

 

2. Di riflesso nel campo culturale, le contraddizioni dovute alla sopravvivenza del modo di produzione capitalista oltre i suoi limiti storici vengono ascritte genericamente al processo produttivo, alle conquiste scientifiche e tecnologiche. Tutto ciò che è peculiare del modo di produzione, del rapporto di produzione (lo sfruttamento di ogni risorsa fino a isterilirne la fonte, la crescita illimitata, la impossibilità di curarsi del domani, la riduzione della capacità lavorativa umana alla merce più vile proprio grazie ai fattori che hanno reso possibile la moltiplicazione degli uomini, ecc.) viene dalla cultura borghese ascritto alla “natura umana” e al “progresso”. Tipico esponente di questo indirizzo è K. Lorenz (vedasi la sua ultima opera, Hier bin ich, wo bist du?, ed. Mondatori).

 

A questo punto alcuni acuti “dialettici” si sono messi a gridare che è oramai scomparsa ogni divisione di classe: non siamo tutti vittime dello stesso destino crudele? Non siamo tutti nella stessa barca? La cultura e l’opinione alimentate da questi “saggi” sono servite e servono a sostenere i lacci interclassisti che frenano movimenti che nascono da contraddizioni proprie del modo di produzione capitalista (ecologisti, ambientalisti, verdi, igienisti, pacifisti, antinuclearisti, movimenti contro la fame nel mondo, movimenti per i diritti civili, movimenti di sostegno alle lotte di liberazione nazionale, movimenti contro l’oppressione sui bambini, sulle donne, ecc., ecc.) e li mantengono alla fase di movimenti manovrabili dai vari gruppi delle classi dominanti.

La società borghese si muove grazie a contrasti antagonisti di interessi tra individui tra loro strettamente dipendenti. Ed è proprio l’unità di stretta dipendenza e di antagonismo d’interessi che fa in essa esplodere scintille. La cultura borghese invece nega che possa esistere antagonismo d’interessi dato che gli uomini sono strettamente dipendenti l’uno dall’altro. Il segreto di mille caratteristiche della cultura borghese contemporanea sta in questo negare la contraddizione e assolutizzare uno dei due termini facendo scomparire l’altro.

Dato che il modo di produzione capitalista basato sulla divisione in classi è storicamente superato e, persistendo, è diventato universalmente distruttivo (e ciò è appunto la manifestazione pratica del suo carattere obsoleto), essi sostengono che quindi la divisione in classi è “ assurda”, superata, inesistente. Il contrasto stridente tra due cose viene eliminato con un’operazione puramente intellettuale, negando uno dei due termini: non deve esistere, quindi non esiste (l’azione di bere distrugge il bevitore, quindi l’azione del bere è assurda, non può esistere, non esiste!).

In ciò sono aiutati

- dalle concezioni comportamentali e sociologiche delle classi (le classi distinte per gusti, abitudini, costumi, livello di vita, opinioni, schieramento politico): è un fatto che spesso le divisioni sociologiche e comportamentali non coincidono con le distinzioni di classe e che divisioni di questo genere attraversano le classi;

- dall’incomprensione diffusa del meccanismo sociale e del suo movimento: a chi vede il mondo a somiglianza di sé, il mondo appare uniforme! A chi vede il mondo come un groviglio incomprensibile di cose ed avvenimenti, una cosa appare eguale e indistinta dall’altra (nella notte nera tutte le vacche sono nere!)

Sulla scorta della definizione data da Lenin, noi qui e nel seguito chiamiamo classi quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i rapporti,  per lo più sanzionati e fissati da leggi, con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e quindi per il modo e la misura in cui usano la parte di ricchezza sociale di cui dispongono.

 

 

1.2. L’oggettività dei ruoli e la divisione in classi

 

La struttura economica della società imperialista divide i suoi membri in classi che hanno nella vita della società ruoli nettamente distinti. La nascita e lo sviluppo dei monopoli, del capitale finanziario, del sistema capitalistico mondiale, delle società internazionali hanno conferito alla borghesia imperialista un ruolo e un potere su milioni di uomini di misura tale che non ha eguali nella storia e hanno approfondito le divisioni tra le classi. Proprio il contrario di ciò di cui parlano quelli che sostengono la scomparsa della divisione in classi, basandosi su cose che con le classi c’entrano solo indirettamente e molto alla lontana.

La mobilità sociale, il passaggio di alcuni individui nel corso della loro vita da una classe all’altra, da un ruolo ad un altro, sono tipici della società borghese e, anche se la loro misura fosse maggiore di quella che realmente è, non hanno nulla a che vedere direttamente con la divisione in classi.(3)

Alla borghesia conviene, una volta iniziata la fase della sua decadenza, negare la divisione in classi e promuovere la collaborazione delle classi soggette con la classe dominante camuffata da interclassismo e da “collaborazione tra le classi”. Alla borghesia è utile concepire l’attuale società come un “sistema” unico articolato in parti funzionali, la moderna versione francofortese dell’antico apologo di Menenio Agrippa.(4)

 

3. L’oggettività dei ruoli, (per cui un dato ruolo esiste e qualcuno lo ricopre e ciò non ha nulla a che vedere con le particolarità individuali di chi lo ricopre, fatta salva l’attitudine alle funzioni che il ruolo comporta) toglie in un certo senso la responsabilità personale dell’esecutore (un boia ci deve comunque essere: se non lo faccio io, lo fa un altro e tutto marcerebbe come adesso). Da ciò deriva che chi concepisce moralisticamente le classi, può gridare che non esistono più classi (nel senso che nessun individuo decide liberamente delle sue azioni e quindi ne è nel senso pieno l’autore), che siamo tutti appendici, tentacoli e funzioni di un unico oscuro “sistema”.

 

4. Al contrario, nella fase storica in cui la borghesia è stata una classe rivoluzionaria, i suoi ideologi hanno sempre riconosciuto e fatto propria (usandola come strumento nella battaglia politica) la divisione della società in classi.

Ad esempio, il concetto di “classe sociale” è ben presente in Hume e Bolingbroke (ideologi della borghesia inglese fra il XVII e il XVIII secolo), in Adam Smith (economista inglese sostenitore del liberalismo) e nei pensatori illuministi, ideologi della Rivoluzione francese del 1789 (Sieyès, Hélvetius, Robespierre, Saint-Just).

 

Al proletariato, invece, è utile e necessario comprendere e mettere in luce la divisione e la contraddizione insite nel meccanismo sociale ed il contrasto di interessi che esiste e si riproduce su questa base.

La contraddizione tra la divisione della società in classi e l’appropriazione privata da una parte e dall’altra il carattere sociale delle forze produttive e la conseguente reale unità della società è la chiave per comprendere il movimento della società attuale e gli schieramenti politici e culturali, anche se questi di regola non si identificano immediatamente e univocamente con le classi. Ricostruire gli anelli della catena genetica che corre dalle classi ai concreti schieramenti politici e culturali mal si adatta alla pigrizia mentale sia dei dogmatici ripetitori di formule “marxiste” (opportunisti di sinistra) sia dei succubi della cultura borghese (opportunisti di destra), perché richiede ricerca concreta e verifica sperimentale. Ma proprio qui sta la scuola dove si imparano le leggi del movimento della società e quindi si impara anche ad usare queste stesse leggi a vantaggio della causa del proletariato.

 

 

1.3. Classi principali e classi secondarie

 

Nella società imperialista, oltre alla borghesia e al proletariato, le due classi fondamentali nel rapporto di produzione capitalista, hanno continuato a sussistere e a prodursi varie classi intermedie, smentendo apparentemente la tesi della polarizzazione della società in due classi contrapposte e la sussunzione dell’intera società nel capitale

Ma le classi intermedie della società attuale esistono, nascono e si riproducono nel contesto generale determinato dal capitale, non hanno autonomia economica, vivono di riflesso alla vita del capitale e occupano gli spazi che il capitale lascia liberi. I bottegai e i piccoli commercianti si allargano o restringono di numero in funzione del ciclo del capitale e dell’interesse dei capitalisti ad investire nel campo del commercio al dettaglio; gli artigiani e i professionisti crescono o diminuiscono di numero in base al movimento di centralizzazione o decentralizzazione del capitale; gli impiegati statali in base alla privatizzazione o statalizzazione dei servizi, ecc. Alcune di queste classi si espandono in nuovi campi di attività creati dal movimento del capitale (basti pensare al campo d’azione della piccola impresa familiare creato in  alcune zone in questo secondo dopoguerra dallo sviluppo del turismo). Sono casi rari e marginali le attività economiche “autonome” che non risentono in maniera determinante dell’andamento del ciclo di valorizzazione del capitale e non sono subordinate ad esso. In ciò si manifesta il grado di capitalizzazione effettivo dell’attività economica dell’intera società e il ruolo dirigente assunto dal capitale nonostante la varietà delle forme economiche esistenti.

Chi non capisce questo, pensa che la struttura della società dipenda da... Margaret Thatcher che privatizzando le poste e le galere aumenterebbe o diminuirebbe la polarizzazione della società in classi!

A conseguenza della perdita di autonomia economica, le classi intermedie hanno perso anche importanza nella direzione del movimento della società a nella vita politica di essa. Il contrasto tra capitalisti e lavoratori è il contrasto determinante: le altre classi vivono di riflesso, al seguito ora dell’uno ora dell’altro, in via di evoluzione verso l’uno o l’altro, in equilibrio instabile tra i due. Esse possono avere un ruolo determinante solo come supporto all’uno o all’altro dei due antagonisti. Ognuna di esse è “usata” da una delle due classi principali e da specifici gruppi all’interno di esse. La società imperialista è una società ricca di divisioni (contrariamente a quanto sostengono quelli che predicano la scomparsa della divisione in classi) e la conquista e la gestione del potere politico comporta linee adeguate e tattiche adeguate alle varie parti della società. Diceva Lenin:

“Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato “puro” non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra proletario e il semiproletario (colui che si procura da vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza/lavoro), tra il semiproletario e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno al proletariato stesso, non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per religione, ecc.. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità incondizionata, assoluta per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere” (L’estremismo, malattia infantile del comunismo).

La struttura economica della società determina i ruoli distinti svolti dagli individui nel sistema della produzione sociale. Ma nulla poi vieta (e generalmente succede) che individui concreti svolgano contemporaneamente ruoli sociali antagonisti, dando luogo a classi a sé (si pensi per esempio al piccolissimo impresario agricolo e industriale del meridione che nella stagione morta va o andava in Germania come salariato). Se si considerano solo le classi fondamentali, una buona parte della popolazione viene ad occupare una collocazione ambigua.

 

 

2. La divisione in classi è una divisione “formale”

 

La divisione in classi è una divisione formale, vale a dire una divisione che deriva ed è determinata dalla forma del processo produttivo, cioè dal rapporto di produzione; è la personificazione dei ruoli individuati dal rapporto di produzione: ogni classe è l’insieme delle persone che svolgono lo stesso ruolo nel rapporto di produzione.

In particolare non hanno nulla a che vedere con l’analisi di classe la teoria della “composizione politica di classe” e altre simili teorie importate in Italia dalla scuola operaista negli anni ’60 e ’70, derivandole, con trent’anni di ritardo, dalla scuola francofortese.

La divisione in classi non è determinata dalla diversità dei contenuti delle attività lavorative: le classi non coincidono con l’insieme di persone che fanno lo stesso mestiere. La divisione in classi non coincide con la divisione in categorie professionali, in settori produttivi, in mestieri. In particolare il proletariato (o la classe operaia) non coincide con l’insieme di persone che svolgono lavori manuali. Dato però che tra forma dell’attività economica (il rapporto di produzione) e contenuto dell’attività economica (il concreto processo lavorativo) esiste una relazione di unità e lotta, anche tra contenuto dell’attività lavorativa e classe esiste un rapporto mediato, indiretto che deve essere messo in luce nell’analisi di classe, al fine di definire adeguate linee d’azione.(5)

 

5. La profusione d’analisi del processo lavorativo immediato e delle innovazioni tecnologiche è stata spacciata nella cultura borghese di sinistra come analisi di classe. È un “lavoro” in cui in Italia si sono distinti negli anni ’60 e ’70 gli operaisti. Un motivo che ha fatto la fortuna di molti sociologi (e che alcuni compagni riprendono con l’inerzia a la pigrizia con cui si ripetono i luoghi comuni) a stato negli anni scorsi i quello dell’“operaio massa”. Con questo motivo gli operaisti hanno preteso vincolare la loro rottura con la tradizione storica del movimento operaio comunista al ruolo assunto nella fabbrica moderna dal lavoro alla catena. Nella loro fantasie essi hanno preteso viceversa stabilire un legame tra il movimento operaio comunista e l’operaio operatore delle macchine utensili (“operaio professionale”). Con quanto rispetto e comprensione della realtà non è difficile capire!

 

In particolare il proletariato non è determinato dal fatto di essere addetto alla produzione di merci materiali. La merce non è necessariamente un oggetto materiale. “La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità, soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla” (da Il capitale, libro I, cap. 1). Così pure non cambia nulla il fatto che il bisogno sia “naturale” o indotto dal movimento sociale, che sia un bisogno “sano” o un bisogno autodistruttivo, che sia un bisogno approvato o un bisogno disapprovato e vietato, che sia un bisogno essenziale o voluttuario

Il meccanismo economico di una società non può essere compreso se non si tiene conto anche del contesto internazionale in cui quella società si colloca, del mercato mondiale, del sistema capitalistico mondiale e della collocazione che un paese ha nella divisione internazionale del lavoro. Di conseguenza è impossibile un’analisi di classe se non si tiene conto del contesto internazionale.

 È il rapporto sociale di produzione che definisce ruoli e classi, non il contenuto dell’attività lavorativa. Esempio: nelle società moderne alcune grandi società di trasformazione di prodotti agricoli anziché dirigere direttamente imprese agricole di produzione, fanno svolgere la produzione a coltivatori a cui anticipano mezzi di lavoro come credito e con cui hanno un contratto, a volte a lungo termine, per la consegna del prodotto a prezzi prefissati. In Italia, avviene così ad esempio per la barbabietola da zucchero, per la soia, per il pomodoro e altro. Mettere questi coltivatori assieme al piccolo contadino autonomo o all’impresario agricolo è considerare il contenuto del lavoro e non il rapporto sociale di produzione.

Considerazioni analoghe valgono per alcuni settori di commercio al dettaglio, in cui il gestore del punto di vendita non è formalmente un salariato, ma dipende dalla società commerciale come se lo fosse.

È quindi dalla struttura economica della società e dai rapporti sociali (e non dalla veste giuridica o culturale) che discende la divisione in classi e quindi anche l’analisi delle classi.

Le teorie dei “nuovi soggetti rivoluzionari” assunte come teorie per l’analisi di classe sono completamente estranee all’analisi di classe. Esse hanno, nel caso migliore, una certa importanza nell’impostazione della tattica.

La classe operaia si distingue dalla massa dei lavoratori autonomi, piccolo-borghesi, contadini, artigiani, ecc. (anche di quei lavoratori autonomi che posseggono solo la loro forza/lavoro) perché ogni operaio si trova direttamente, apertamente ed espressamente posto nella condizione di articolazione di un organismo collettivo di divisione del lavoro. Il lavoratore autonomo viene a trovarsi di fatto nella stessa condizione ma non direttamente, bensì attraverso lo scambio e il mercato, cosicché il rapporto in cui egli è inserito si presenta e si realizza come rapporto tra cose (le merci) ed egli agisce come autonomo, come se la sua attività economica dipendesse dalle libere decisioni sue e l’attività economica degli altri fosse un mondo oggettivo con cui deve misurarsi.

La società borghese è composta di milioni di individui che non sono abituati e rifiutano istintivamente di essere inquadrati, nella loro attività produttiva, apertamente e consapevolmente coma articolazioni individuali di una unitaria macchina produttiva sociale: ma è quanto fa di essi il mercato a loro insaputa, in modo tanto più inesorabile e casuale proprio perché inconsapevole e spontaneo, lasciandoli ad imprecare contro le stelle o il destino per le disgrazie che questo loro comporta. La superiorità della classe operaia rispetto alle altre molteplici classi oppresse della società borghese sta anche in questo: in questa società stessa ogni operaio è apertamente posto come articolazione di un organismo produttivo collettivo, per lui il prodotto del suo lavoro non è una merce, ma una parte costitutiva, in misura e forme tecnicamente definite, del prodotto collettivo e spesso addirittura egli contribuisce con la sua attività lavorativa ad un prodotto collettivo senza che il risultato del suo lavoro costituisca una parte in qualche modo isolabile in esso. Di conseguenza per l’operaio istintivamente (perché derivata dall’esperienza diffusa e quotidiana) è già chiara e scontata una condizione che i membri delle altre classi oppresse subiscono inconsapevolmente.

La classe operaia si distingue tra la massa di lavoratori dipendenti perché essa scambia la sua forza-lavoro contro capitale, ciò a differenza dei dipendenti di enti pubblici e dei lavoratori assunti dal capitalista e da altri benestanti al proprio servizio. Questi scambiano la loro forza lavoro contro reddito (anche se eventualmente il contenuto del loro lavoro è il medesimo). La differenza fondamentale tra le due situazioni sta nel fatto che per il lavoratore che scambia la sua forza lavoro contro capitale la misura dello scambio (il salario) e le forme dell’erogazione della sua capacità lavorativa sono determinate, salvo che per aspetti secondari o transitori, da leggi che si impongono anche al capitalista come necessarie e quindi sono leggi socialmente oggettive. Mentre per i dipendenti pubblici e i lavoratori che scambiano la loro forza lavoro contro reddito la misura dello scambio e le forme dell’erogazione della capacità lavorativa sono dettate dall’arbitrio e solo la concorrenza tra lavoratori (tra venditori di capacità lavorativa) dà ad esse  una certa omogeneità che le fa simili a quelle che si determinano per i lavoratori dipendenti dal capitale, quando il rapporto di capitale è diventato il rapporto di produzione dominante. Per l’operaio è esperienza quotidiana e diffusa l’inserimento in un organismo produttivo collettivo che si muove secondo leggi oggettive.

La classe operaia si distingue tra la massa dei lavoratori dipendenti dal capitale non per il contenuto del suo lavoro (lavoro manuale o lavoro intellettuale, produzione di beni materiali o servizi, produzione di beni essenziali o voluttuari o nocivi,(6) settore di lavoro agricolo o industriale o terziario), non per l’inquadramento contrattuale (qualifica d’operaio o impiegato o equiparato o dirigente), non per aspetti normativi o legislativi, non per le modalità della misurazione del suo salario (orario, mensile, cottimo, ecc.), ma unicamente per aspetti formali.

 

6. La maggior parte dei “beni materiali” in realtà comprende grandi patrimoni di conoscenza e di sensibilità: sono pochissimi gli oggetti, se ancora ve ne sono, che entrano nell’uso dell’uomo senza essere più o meno trasformati dall’attività dell’uomo conformemente ad un piano, ad un’esperienza, ad un gusto. Viceversa ogni “bene spirituale” ha una componente materiale essenziale al suo essere. Prendiamo ad esempio un concerto della sesta sinfonia di Beethoven e una zuppiera di tortellini alla panna.

Il primo è una cosa molto “spirituale”, la seconda una cosa molto “materiale”. Ma se ben guardiamo, il concerto nasce dalla combinazione di sentimenti, stati d’animo, idee, riflessioni ed immagini con l’abilità nell’uso di strumenti ed ambienti per esprimerli e con l’abilità nel costruire strumenti musicali e ambienti. Sia nell’abilità di usarli sia in quella di costruirli il patrimonio spirituale (la conoscenza, il gusto, la sensibilità, ecc.) ha un’importanza di gran lunga maggiore ai fini del risultato di quanta ne ha il materiale con cui si combina (il legno, il metallo, ecc.). Ma non c’è concerto che non sia fatto con carta da spartito, con legno, con metallo, ecc.

Prendiamo ora la nostra fumante zuppiera di tortellini alla panna. Essa nasce dalla combinazione di alcuni ingredienti “naturali” secondo un piano, una conoscenza, un’esperienza e un gusto raffinati: tutte cose di gran lunga preponderanti, per la nostra zuppiera, rispetto al grano, al latte, alla carne e agli altri ingredienti. Orbene, perché la zuppiera di tortellini alla panna, pur prodotto di spirito educato e raffinato, sarebbe un “bene materiale” mentre il concerto, pur indissolubilmente legato a cose dure e pesanti come gli alberi, i minerali, ecc., sarebbe un “bene spirituale”? In realtà la duplice classificazione dei beni non fa che riproporre la distinzione a la separazione di anima e corpo nell’uomo e quindi, a buon diritto, appartiene ai preti. Lo spirito che viene contrapposto alla materia non è che l’intelligenza, la conoscenza, la sensibilità , ecc. Ed è un indice del progredire della civilizzazione umana il fatto che proprio questi diventano in ogni oggetto d’uso preponderanti rispetto al materiale di cui l’oggetto pur si compone: si può forse ridurre un orologio Omega al metallo che lo compone?

Appare quindi chiaro che la distinzione tra “beni materiali” e “beni spirituali” è un non senso benché sia anche un luogo comune e non ha alcun ruolo nell’analisi delle classi.

 

Vi sono infatti, nel processo lavorativo promosso dal capitale per la propria valorizzazione, funzioni che nascono storicamente come articolazione del lavoro del capitalista e conservano per un tempo più o meno lungo tracce più o meno consistenti di tale origine nella contrapposizione dei lavoratori che svolgono le funzioni agli altri lavoratori. Non che queste funzioni siano inutili: non ha senso la distinzione tra lavori utili e lavori inutili rispetto al loro contenuto: dato il modo di produzione capitalista, il lavoro del capitalista è indispensabile come il lavoro dell’operaio (dato il carcere il secondino è indispensabile come il carcerato). Se però si prescinde dal modo di produzione capitalista ... si prescinde da quello di cui appunto si sta parlando e quindi cosa resta da dire? Solo fantasie!

Vi sono anche distinzioni formali che si traducono in divisioni nel corpo della classe operaia. Alcuni contenuti del processo lavorativo sono formalmente rilevanti (danno cioè luogo a categorie economiche diverse) e queste diverse categorie economiche si riflettono in divisioni in seno alla classe operaia. Facciamo alcuni esempi.

1. Alcuni lavori sono connessi a caratteristiche personali dell’individuo (la voce di un cantante, ecc.), a qualità che non sono patrimonio diffuso e comune.

2. Alcuni lavori sono concretamente lavoro astratto, cioè generica attività lavorativa umana, il cui erogatore è scambiabile con chiunque altro: in essi cioè il concreto lavoro svolto si avvicina a pura e semplice erogazione di attività lavorativa di qualità a caratteristiche comunemente e diffusamente possedute, quindi è intercambiabile e non richiede una specifica abilità, attitudine, attaccamento al contenuto particolare del lavoro, ecc. Il lavoro astratto è una caratteristica dello sviluppo del capitalismo. Già negli anni ’20 Henry Ford (My Life and Work) affermava che il 43% dei lavoratori delle sue fabbriche richiedeva non più di un giorno di addestramento, il 36% da un giorno ad una settimana, il 20% da una settimana ad un anno e solo l’1 % non meno di un anno.

Alcuni lavori danno un prodotto che non è separabile come oggetto indipendente dal lavoratore e consiste nello svolgimento del lavoro stesso (es. cameriere, attore, professionista).

Alcuni lavori forniscono un prodotto che è oggetto di solo mercato locale, di solo mercato nazionale.

Queste ed altre varietà relative al contenuto dell’attività lavorativa, riflettendosi in diversità del meccanismo economico in cui i lavoratori sono inseriti e quindi in diversità nella loro esperienza, sono spesso molto rilevanti ai fini dell’attività politica.

Sopra abbiamo detto che non sono rilevanti ai fini dell’analisi di classe le differenze nel contenuto del processo produttivo e nel suo prodotto. Tuttavia esiste una dialettica di unità e lotta tra contenuto del processo produttivo e forma di esso (ossia il rapporto sociale di produzione). Ciò fa sì che il rapporto di capitale si esprima diversamente o abbia un grado di sviluppo diverso in settori produttivi diversi (tipici ad esempio il relativamente basso livello di capitalizzazione dell’agricoltura nell’Europa Continentale rispetto all’industria, l’ingresso tradivo e ancora parziale del capitale nel commercio al dettaglio).

Queste diversità si riflettono anche nella divisione in classi e quindi creano un legame indiretto (a volte limitato ad una  fase storica e poi superato, a volte relativo solo a frazioni di classe) tra contenuto del processo produttivo e classi.

Sull’esistenza di questi legami indiretti (assolutizzati e generalizzati nella fantasia) si basano le analisi di classe secondo il contenuto del processo produttivo: per cui secondo alcuni costituiscono classe a sé i salariati del settore industriale (classe operaia industriale), secondo altri i salariati dei settori che producono beni materiali.

 

 

 

3. Le divisioni nella borghesia

 

Il “capitale in generale”, il capitale complessivo esiste solo come connessione e scontro di singoli capitali.

La borghesia è inevitabilmente in preda a contrasti di interessi economici tra gruppi di capitalisti. Questi contrasti si traducono inevitabilmente in contrasti culturali e di indirizzo politico. Anche nella comune attività di repressione del proletariato e delle altre classi oppresse inevitabilmente si manifestano in seno alla borghesia conflitti di interessi e quindi di orientamento sui mezzi, i metodi e i tempi della repressione, perché ogni linea seguita favorisce o lede gli interessi di alcuni gruppi borghesi rispetto ad altri.

Le divisioni nella borghesia sono anzitutto divisioni di interessi e solo su questa base le divisioni culturali e politiche possono essere comprese e diventare oggetto di intervento politico. Quindi anche la comprensione delle divisioni nella borghesia richiede la comprensione del movimento economico della società.

In ogni paese imperialista la parte dirigente della borghesia fa parte della borghesia imperialista. Con l’imperialismo si è costituita una borghesia che opera a livello mondiale, che decide e realizza i propri affari avendo il mondo (libero!) come terreno d’attività. Con ciò si è creata un’ulteriore contraddizione tra borghesia imperialista e le borghesie nazionali dei singoli paesi, che realizzano i loro profitti in ambiti locali e nazionali. Benché la borghesia imperialista sia in ogni paese il fattore dirigente, l’imperialismo può esistere solo sulla base del vecchio capitalismo e di varie  combinazioni di vecchi rapporti di produzione, come ben illustrato da Lenin nella polemica contro i teorici del superimperialismo (Vedasi Lenin, Rapporto sul programma del partito all’VIII Congresso, Opere vol. 29).

Nell’ambito dell’analisi di classe deve essere risolto il problema dei modi e tempi in cui le contraddizioni economiche tra gruppi imperialisti nella società attuale si traducono e possono tradursi in contraddizioni tra Stati imperialisti e quindi nella dinamica della tendenza alla guerra interimperialista.

L’unità commerciale, finanziaria e monetaria del sistema capitalista mondiale realizzata dopo la 2a Guerra Mondiale non ci deve trarre in inganno. Questa unità era molto elevata anche all’inizio di questo secolo alla vigilia della 1a crisi per sovrapproduzione generale di capitale, ma nonostante ciò si spezzò e si ricompose solo attraverso un lungo periodo di guerre. Non dobbiamo mai dimenticare che ogni gruppo borghese, messo di fronte all’alternativa di sacrificare i suoi interessi o cercare di salvarli a spese di altri capitalisti, sceglierà la seconda via. E il movimento economico della società borghese prima o poi presenta ad ogni gruppo borghese questa alternativa.

 

 

4. Il ruolo della classe operaia nella lotta politica contro la borghesia

 

La classe operaia è contrapposta direttamente, già nella società borghese e prima di ogni coscienza di ciò e prima di ogni scelta, al capitale nel processo produttivo in cui è immessa, quindi nella sua condizione oggettiva.

Il carattere sociale del lavoro (divisione del lavoro e connessione universale dei lavori) è per la classe operaia un dato di partenza, non una scelta e decisione come in una cooperativa o comune dove la cosa nasce come arbitraria, consapevole e libera decisione.

La produttività del lavoro della classe operaia non è determinata principalmente dall’abilità, diligenza e caratteristiche personali, ma dall’efficacia dei mezzi di produzione con cui opera, dalla particolare organizzazione del lavoro in cui è inserita, dalla complessiva organizzazione economica in cui opera: il suo lavoro concreto è il lavoro più astratto (generica attività lavorativa umana, generica erogazione di capacità lavorativa) che si sia realizzato e quindi è il più corrispondente al concetto.

Le condizioni stesse di lavoro, la contrapposizione di tanti lavoratori allo stesso capitalista per il salario e le condizioni di lavoro, pongono la classe operaia nella necessità di organizzarsi e la fabbrica moderna gliene offre gli strumenti materiali (contiguità di luogo e di tempo). Ciò a differenza di tutti gli altri lavoratori e del resto delle masse sfruttate. Questo però si ha anche per quei lavoratori dipendenti (es. dipendenti pubblici) che non si contrappongono a capitale, ma a reddito.

Ogni sviluppo del capitale non può che ribadire l’esistenza e il ruolo della classe operaia, a differenza di quanto succede per altre categorie di lavoratori la cui esistenza è legata ai cicli temporali e alle caratteristiche locali della formazione economico-sociale.

Le condizioni della classe operaia sono direttamente ed inevitabilmente dipendenti dalle vicissitudini della valorizzazione del capitale: a differenza di quanto avviene per i lavoratori dipendenti che scambiano la loro capacità lavorativa contro reddito.

Il comunismo è l’eliminazione della classe operaia in quanto tale, l’eliminazione della schiavitù salariata e questo non può essere che opera della classe operaia.

Tutti questi fattori concorrono a fare della classe operaia la protagonista principale e la forza dirigente di ogni rivoluzione anticapitalista della società moderna, come è confermato da tutta la storia delle rivoluzioni nell’epoca imperialista.

  

 

Conclusioni

 

Sulla base di questi criteri (7) e facendo piazza pulita dei luoghi comuni e dei pregiudizi correnti della cultura borghese di sinistra intendiamo procedere nell’analisi delle classi in cui è divisa la popolazione del nostro paese. Un lavoro che probabilmente compiremo a gradi, per approssimazioni successive e a cui invitiamo a concorrere i nostri lettori che ne sono capaci.

 

7. Sull’argomento dell’analisi di classe e del far piazza pulita dei luoghi comuni della cultura borghese di sinistra si veda anche: Coproco, I fatti e la testa, Giuseppe Maj ed., pag. 100 e seguenti.