Osservazioni su questioni di economia relative alla discussione del novembre 1951 - J. V. Stalin

Rapporti Sociali n. 3, marzo 1989  (versione Open Office / versione MSWord )

 

Presentazione

 

Con il presente numero di Rapporti Sociali iniziamo la pubblicazione di testi significativi del marxismo-leninismo relativi a temi che rientrano nel nostro progetto editoriale. Riproporre all’attenzione dei nostri lettori una serie di scritti dei classici del marxismo-leninismo costituisce un’operazione necessaria oggi per due motivi. Anzitutto perché l’involuzione della cultura borghese di sinistra (anche nelle sue versioni di “movimento”) e la sua rincorsa alle mode editoriali ha fatto sì che molte opere siano divenute di fatto introvabili. In secondo luogo, perché in molti casi anni ed anni di dogmatismo e/o di pigrizia mentale hanno contribuito a sedimentare interpretazioni distorte, parziali, arbitrarie, scolastiche, in definitiva errate di un certo numero di scritti che passano (almeno in cerchie un po’ più ampie di quelle degli addetti ai lavori) per “noti”, “celebri”, ecc.

Questo scritto di Stalin costituisce la parte principale della raccolta Problemi economici del socialismo nell’URSS, pubblicata nel 1953. Nel 1951 Stalin propose la pubblicazione di un Manuale di economia politica, allo scopo di diffondere presso i giovani sovietici e i comunisti di tutto il mondo gli insegnamenti dell’esperienza di oltre quarant’anni di costruzione del socialismo nell’URSS. La bozza di progetto del manuale ed altri materiali relativi alla sua redazione furono oggetto di discussione in una riunione del novembre 1951; questo scritto contiene le osservazioni di Stalin (datate 1° febbraio 1952) ai verbali di quella riunione e ai documenti che vi furono discussi.

Va detto anzitutto che lo scritto non costituisce una trattazione sistematica e generale della questione della transizione, neppure per quanto riguarda la sola esperienza sovietica.

La sua importanza sta nell’affrontare alcuni aspetti particolari di essa (oltre ad altre questioni di grande interesse ed attualità come il carattere oggettivo delle leggi economiche e le contraddizioni fra paesi imperialisti).

La questione della transizione socialista è forse quella in assoluto in cui si è manifestata con maggiore evidenza nel nostro paese la subalternità dei rivoluzionari all’ideologia borghese nel suo complesso, tanto sul piano storico quanto sul piano teorico. Si è parlato dei processi reali di transizione socialista che avvenivano ed avvengono ai quattro lati del mondo sulla base dei propri desideri, dei propri sogni, delle proprie insoddisfazioni e delle proprie personali aspirazioni (per rispettabili che fossero); sono stati presi come punti di riferimento valori, ideali e miti ricavati da due secoli di dominio culturale (oltre che politico) borghese e se ne sono fatti parametri per giudicare quanto fosse giusto e quanto sbagliato in questa e quella esperienza concreta di costruzione del socialismo.

La questione ha una rilevanza immediata per coloro che lottano per la trasformazione in senso comunista della società borghese, in particolare per i comunisti dei paesi imperialisti. Dalla fine della 2a Guerra Mondiale i comunisti di questi paesi non hanno più esposto organicamente i fini per cui lottano, non hanno più saputo esplicitare il loro programma. Eppure la questione del programma dei comunisti è più che mai all’ordine del giorno, nella fase imperialista e nella nuova crisi generale del capitalismo; e non basta dirsi anticapitalisti, antimperialisti o (peggio) antagonista tout court per supplire alla mancanza di un programma.

D’altra parte, i contenuti di un programma comunista non possono non tener conto degli insegnamenti che si traggono (e sono tanti!) dal bilancio delle esperienze di transizione socialista. Prendiamo la questione del rapporto di  merce e del rapporto di denaro e della loro persistenza nel corso della fase socialista (che è uno dei punti centrali di questo scritto di Stalin). In proposito (e nonostante la massa di esperienze sin qui accumulate dai processi di transizione avviati dall’URSS alla Cina, dalla Cecoslovacchia al Vietnam) i comunisti dei paesi imperialisti non hanno mai saputo porre la questione altrimenti che nei termini astratti della “abolizione del denaro”, giungendo tutt’al più a vagheggiare improbabili ritorni allo scambio in natura, alla ripartizione del prodotto sociale in forma di razionamento e così avanti. In sostanza, riproponendo forme dimostratesi adeguate e necessarie al periodo del comunismo di guerra in Unione Sovietica! Ma la forza dei comunisti sta nell’andare nella direzione del corso storico e nell’accelerarne l’avanzata, nell’essere interpreti e guide di un processo storico oggettivo; se essi rinunciano a valersi delle esperienze già accumulate, se rinunciano a partire dal punto più avanzato di queste e da qui sperimentare forme nuove, in conformità alle condizioni concrete in cui si trovano ad agire, sono condannati alla sconfitta.

Cosi, fino a quando le basi materiali dell’esistenza del denaro e della produzione e circolazione delle merci non vengono comprese, non è neppure possibile comprendere le condizioni della loro soppressione nella transizione verso il comunismo. E lo stesso vale per altre questioni fondamentali, come il rapporto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, tra attività già sussunte realmente nel rapporto di capitale ed attività ancora parzialmente esterne a questo, tra settori in cui le forze produttive sono già state rese sociali dal capitalismo e settori in cui il processo lavorativo è ancora prevalentemente individuale

La presente traduzione è stata condotta sulla base dell’edizione in lingua inglese (Economic Problems of Socialism in the USSR, Mosca e Pechino), tenendo conto della traduzione già esistente in lingua italiana - quella riveduta da Togliatti pubblicata dalle Edizioni Rinascita e ripresa dalle Edizioni Movimento Studentesco.

L’esistente traduzione italiana si è dimostrata inutilizzabile (oltre che per lo stile, che sicuramente non facilita la comprensione del testo) a causa di veri e propri errori di sostanza, alcuni dei quali tali da stravolgere completamente il senso di interi passi dello scritto. Ad esempio: il termine “socializzazione” è stato sempre reso in italiano con “collettivizzazione” - per cui non si capisce più che differenza ci sarebbe tra proprietà di tutto il popolo e proprietà collettiva (kolkhoziana), quando lo scritto di Stalin mira proprio a distinguere nettamente fra le due forme; lo sviluppo “equilibrato” dell’economia nel socialismo è diventato lo sviluppo” pianificato” da cui si dedurrebbe implicitamente (e contro le intenzioni dell’autore) che nel socialismo è auspicabile la pianificazione integrale dell’economia e che i problemi dello sviluppo equilibrato si risolvono semplicemente con il piano: tutte falsificazioni che cancellano dallo scritto di Stalin la dialettica (tra le varie forme di proprietà, tra le leggi oggettive e le pratiche istituzionali, ecc.) e quindi lo rendono inutilizzabile.

Abbiamo omesso il capitolo 7 (Le leggi fondamentali del capitalismo contemporaneo e del socialismo) perché incomprensibile al di fuori della discussione cui si riferisce.

Abbiamo omesso i capitoli 8, 9 e 10 dello scritto (Altre questioni, Rilevanza internazionale di un manuale marxista di economia politica, Modi per migliorare il progetto di manuale) che contengono osservazioni schematiche, appunti di discussione e questioni di natura tecnica relative alla redazione del Manuale.

Le note sono della redazione di Rapporti Sociali.

 

La redazione

 

Ho ricevuto tutti i materiali sulla discussione di economia svoltasi per valutare il progetto di manuale di economia politica. Ho ricevuto, tra l’altro, le Proposte per migliorare il progetto di manuale di economia politica, le Proposte per eliminare gli errori e le imprecisioni nel progetto, la Nota informativa sulle questioni controverse.

 Su tutti questi materiali, come sul progetto di manuale, ritengo necessario fare le seguenti osservazioni.

 

 

1. Carattere delle leggi economiche nel socialismo

 

Alcuni compagni negano il carattere oggettivo delle leggi della scienza, in particolare delle leggi dell’economia politica, nel socialismo. Essi negano che le leggi dell’economia politica riflettano processi governati da leggi, processi che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Essi ritengono che, dato il ruolo particolare assegnato dalla storia allo Stato sovietico, quest’ultimo ed i suoi dirigenti possano abolire le leggi dell’economia politica esistenti e “formare”, “creare” nuove leggi.

Questi compagni si sbagliano profondamente. Evidentemente confondono le leggi scientifiche, che riflettono processi oggettivi che si svolgono nella natura o nella società indipendentemente dalla volontà degli uomini, con le leggi che vengono emanate dai governi, create per volontà degli uomini e che hanno validità soltanto giuridica. Ma queste leggi non vanno confuse.

 

Il marxismo considera le leggi della scienza - sia le leggi delle scienze naturali sia le leggi dell’economia politica - come un riflesso di processi oggettivi che si svolgono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, studiarle, tenerne conto nel loro agire ed utilizzarle negli interessi della società, ma non possono cambiarle o abolirle. Tanto meno possono creare o formare nuove leggi della scienza.

Questo significa forse che, per esempio, gli effetti delle leggi della natura, gli effetti delle forze della natura siano in genere irreparabili, che l’azione distruttiva delle forze della natura avvenga sempre e dovunque con una violenza elementare e implacabile, che non possa venir sottomessa all’influsso degli uomini? No, non significa questo. Se si escludono i processi astronomici, geologici e altri simili - su cui gli uomini non hanno il potere di influire, pur conoscendo le loro leggi di sviluppo - in molti altri casi gli uomini sono tutt’altro che impotenti per quanto riguarda la possibilità di influire sui processi della natura. In tutti questi casi gli uomini, una volta conosciute le leggi della natura, possono, tenendone conto e basandosi su di esse, applicandole ed utilizzandole abilmente, limitare la sfera della loro azione, deviare il corso delle forze distruttive della natura, sfruttarle a vantaggio della società.

Prendiamo uno degli innumerevoli esempi. Nell’antichità lo straripamento di grandi fiumi, le inondazioni, la conseguente distruzione delle abitazioni e dei raccolti erano considerati una sciagura irreparabile, contro la quale gli uomini erano impotenti. Ma col passare del tempo e con lo sviluppo delle conoscenze umane, quando gli uomini impararono a costruire dighe e centrali idroelettriche, divenne possibile risparmiare alla società la sciagura delle inondazioni che prima sembrava inevitabile. Non solo, ma gli uomini impararono a porre un limite alle forze distruttive della natura, ad imbrigliarle, a trasformare la forza dell’acqua a vantaggio della società e ad utilizzarla per irrigare i campi ed ottenere energia.

Ciò vuol dire che gli uomini in questo modo hanno abolito le leggi della natura, le leggi della scienza, creandone di nuove? No, non significa questo. La realtà è che tutta questa opera di prevenzione dell’azione della forza distruttiva dell’acqua e di utilizzazione di essa a vantaggio della società avviene senza che vi sia alcuna violazione, modificazione o abolizione delle leggi della scienza, senza che si creino nuove leggi della scienza. Al contrario, tutto questo è attuato proprio in conformità alle leggi della natura, alle leggi della scienza, perché qualsiasi violazione (anche minima) delle leggi della natura sconvolgerebbe tutto quanto e renderebbe vano ogni sforzo.

 

 Lo stesso va detto delle leggi dello sviluppo economico, delle leggi dell’economia politica - sia nel periodo del capitalismo sia nel periodo del socialismo. Anche qui, come nel caso delle scienze naturali, le leggi dello sviluppo economico sono leggi oggettive, che riflettono processi di sviluppo economico che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle e basandosi su di esse utilizzarle nell’interesse della società, imprimere un corso differente all’azione distruttiva di alcune leggi, limitare la loro sfera di azione, dare spazio ad altre leggi che cercano di aprirsi la strada; ma non possono distruggerle e creare nuove leggi economiche.

Una delle particolarità dell’economia politica sta nel fatto che le sue leggi, a differenza delle leggi delle scienze naturali, non sono eterne, che esse, o per lo meno la maggior parte di esse, agiscono nel corso di un determinato periodo storico, trascorso il quale cedono il posto a nuove leggi. Comunque queste leggi non vengono abolite, ma perdono validità a causa delle nuove condizioni economiche e scompaiono dalla scena per lasciare il posto a nuove leggi, che non si creano per volontà degli uomini, ma sorgono sulla base delle nuove condizioni economiche.

 

Si cita l’Antidühring di Engels, la sua formula secondo cui, una volta soppresso il capitalismo e socializzati i mezzi di produzione, gli uomini avranno il potere sui mezzi di produzione stessi, si libereranno dal giogo dei rapporti economici e sociali, diverranno “padroni” della loro esistenza sociale. Engels definisce questa libertà come “coscienza della necessità”. Ma cosa può significare “coscienza della necessità”? Significa che gli uomini, giunti a conoscere le leggi oggettive (“necessità”), le applicheranno in modo pienamente cosciente nell’interesse della società. Proprio per questo Engels nello stesso scritto afferma: “Le leggi della loro attività sociale, che sino a quel momento stavano di fronte agli uomini come leggi di natura estranee e li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi dominate”.(1)

 

1. Engels, Antidühring, Parte III (Socialismo), cap. 2 (Elementi teorici)

 

 

Come si vede, la formula di Engels non parla affatto a vantaggio di chi pensa che nel socialismo si possano abolire le leggi economiche esistenti e crearne di nuove. Al contrario, essa richiede non l’abolizione, ma la conoscenza delle leggi economiche e la loro applicazione intelligente.

 

Si dice che le leggi economiche abbiano carattere elementare, che l’azione di queste leggi sia inevitabile, che la società sia impotente di fronte ad esse. Ciò è falso. Ciò significa trasformare le leggi in feticci e rendersi schiavi di esse. È stato dimostrato che la società non è impotente di fronte alle leggi, che la società può, dopo aver conosciuto le leggi economiche e basandosi su di esse, limitarne la sfera d’azione, utilizzarle nell’interesse della società e imbrigliarle, come succede per quanto riguarda le forze della natura e le loro leggi, come nell’esempio citato dello straripamento dei grandi fiumi.

 

Si cita il ruolo particolare del potere sovietico nell’opera di costruzione del socialismo, ruolo che gli darebbe la possibilità di sopprimere le leggi dello sviluppo economico esistenti e “formarne” di nuove. Anche questo è falso.

Il ruolo particolare del potere sovietico è attribuibile a due circostanze: in primo luogo, il potere sovietico non doveva sostituire una forma di sfruttamento con un’altra, come è avvenuto nelle precedenti rivoluzioni, ma abolire ogni sfruttamento; in secondo luogo, mancando nel paese qualsiasi embrione già formato di economia socialista, esso dovette creare, (per cosi dire, “dal nulla”) forme nuove, socialiste di economia.

 Fu indubbiamente un compito difficile, complesso e senza precedenti. Ciononostante, il potere sovietico ha assolto questo compito con onore. Ma non l’ha assolto perché ha distrutto le leggi economiche esistenti e “formato” leggi nuove, ma solo perché si è basato sulla legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Le forze produttive nel nostro paese, specialmente nell’industria, avevano un carattere sociale; la forma della proprietà, invece, era privata, capitalista. Basandosi sulla legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive, il potere sovietico ha socializzato i mezzi di produzione, li ha resi proprietà di tutto il popolo ed in tal modo ha distrutto il sistema dello sfruttamento e creato forme socialiste di economia. Se non ci fosse stata questa legge e non si fosse basato su di essa il potere sovietico non avrebbe potuto compiere la sua missione.

La legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive cerca da tempo di aprirsi un varco nei paesi capitalisti. Se non vi è ancora riuscita e non ha trovato uno sbocco, è perché incontra una fortissima resistenza da parte delle forze sociali destinate a perire. Ecco un’altra particolarità delle leggi economiche. A differenza delle leggi delle scienze naturali, dove la scoperta e l’applicazione di una nuova legge procedono in modo più o meno pacifico, nel campo economico la scoperta e l’applicazione di una nuova legge che colpisca gli interessi delle forze caduche della società incontrano una fortissima resistenza da parte di queste stesse forze. Occorre quindi una forza, una forza sociale capace di superare questa resistenza. Nel nostro paese questa forza è stata l’alleanza della classe operaia e dei contadini, che rappresenta la schiacciante maggioranza della società. Una forza simile negli altri paesi capitalisti non esiste ancora. Qui sta il segreto di come il potere sovietico sia riuscito a sconfiggere le vecchie forze della società e di come la legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive abbia ricevuto da noi piena attuazione.

 

Si dice che la necessità dello sviluppo equilibrato (proporzionale) dell’economia nel nostro paese dia al potere sovietico la possibilità di sopprimere le leggi economiche esistenti e crearne di nuove. Ciò non è affatto vero. Non si devono confondere i nostri piani annuali e quinquennali con la legge economica oggettiva dello sviluppo equilibrato, proporzionale dell’economia nazionale. La legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza e dell’anarchia della produzione nel capitalismo. È sorta sulla base della socializzazione dei mezzi di produzione, dopo che la legge della concorrenza e dell’anarchia della produzione aveva perduto la sua efficacia. È entrata in vigore perché un’economia socialista può essere diretta soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale. Questo significa che la legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale dà ai nostri organi pianificatori la possibilità di pianificare in modo giusto la produzione sociale. Ma la possibilità non va confusa con la realtà. Si tratta di due cose differenti. Per far sì che questa possibilità diventi realtà occorre studiare questa legge economica, occorre impadronirsene, occorre imparare ad applicarla con perfetta cognizione di causa, occorre elaborare dei piani che riflettano interamente le esigenze di questa legge. Non si può dire che i nostri piani annuali e quinquennali il riflettano interamente.

 

Si dice che alcune leggi economiche vigenti da noi nel socialismo, tra cui la legge del valore, siano leggi “trasformate” o persino “trasformate in modo radicale” sulla base dell’economia pianificata. Anche questo non è vero. Le leggi non possono essere “trasformate”, tanto meno “in modo radicale”. Se si potessero trasformare, si potrebbero anche abolire, sostituendole con altre leggi. La tesi della “trasformazione” delle leggi è un’eredità della formula scorretta della “distruzione” e della “formazione” delle leggi. Benché da noi l’espressione “trasformazione delle leggi economiche”  sia ormai entrata da tempo nell’uso comune, sarà meglio rinunciarvi se vogliamo essere rigorosi. Si può limitare la sfera d’azione di questa o quella legge economica, se ne può prevenire (quando esista) l’azione distruttiva, ma non la si può “trasformare” o “distruggere”.

Di conseguenza, quando si parla di “assoggettamento” delle forze della natura o delle leggi economiche, del “dominio” su di esse e così via, non si vuole dire con questo che gli uomini possano “distruggere” le leggi della scienza o “formarle”. Al contrario, si vuol dire solamente che gli uomini possono scoprire le leggi, conoscerle, impadronirsene, imparare ad applicarle con perfetta cognizione di causa, utilizzarle nell’interesse della società ed in tal modo assoggettarle, arrivare a dominarle.

Dunque, le leggi dell’economia politica nel socialismo sono leggi oggettive, che riflettono le leggi di sviluppo dei processi della vita economica, i quali si compiono indipendentemente dalla nostra volontà. Coloro che negano questa tesi, negano di fatto la scienza; negando la scienza negano con ciò stesso la possibilità di qualsiasi previsione - di conseguenza negano la possibilità di dirigere l’attività economica.

 

Si potrà dire che tutto ciò che qui si afferma è giusto ed universalmente noto, ma che non vi è nulla di nuovo e che quindi non vale la pena di perder tempo a ripetere verità universalmente note. Certo, qui non vi è effettivamente nulla di nuovo; ma sarebbe sbagliato pensare che non valga la pena di perdere tempo ripetendo alcune verità a noi note. Il fatto è che a noi, nucleo dirigente, si aggiungono ogni anno migliaia di nuovi giovani quadri; essi ardono dal desiderio di aiutarci, di mostrare quel che valgono, ma non hanno una sufficiente preparazione marxista, non hanno familiarità con molte verità a noi ben note e sono perciò costretti a brancolare nel buio. Essi sono colpiti dalle colossali conquiste del potere sovietico; gli straordinari successi del sistema sovietico fanno loro girare la testa ed essi cominciano ad immaginare che il potere sovietico “possa tutto”, che per esso “niente sia impossibile”, che esso possa sopprimere le leggi della scienza, formare nuove leggi. Come dobbiamo comportarci con questi compagni? Come educarli nello spirito del marxismo-leninismo? Io ritengo che una sistematica ripetizione delle cosiddette verità “universalmente note”, un loro paziente chiarimento sia uno dei migliori mezzi di educazione marxista di questi compagni.

 

 

2. La produzione di merci nel socialismo

 

Alcuni compagni affermano che il partito ha agito erroneamente mantenendo la produzione di merci dopo la presa del potere e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione nel nostro paese. Essi ritengono che il partito avrebbe dovuto immediatamente eliminare la produzione di merci. A questo proposito essi citano Engels, che dice: “Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, viene eliminata la produzione di merci e con ciò il domino del prodotto sui produttori”.(2)

 

2. Engels, Antidühring, Parte III (Socialismo), cap. 2 (Elementi teorici)

 

Questi compagni sbagliano profondamente.

Esaminiamo la formula di Engels. La formula di Engels non si può considerare del tutto chiara e precisa, giacché non indica se si riferisca alla presa di possesso da parte della società di tutti i mezzi i produzione o solamente di una parte dei mezzi di produzione; se cioè tutti o solamente una parte dei mezzi di produzione siano diventati proprietà di tutto il popolo. Questa formula di Engels si può dunque interpretare in un modo o nell’altro.

Altrove nell’Antidühring Engels parla del dominio su “tutti i mezzi di produzione”, del possesso di “tutto il complesso dei mezzi di produzione”. Quindi Engels nella sua formula intende parlare della nazionalizzazione non di una parte dei  mezzi di produzione, ma di tutti i mezzi di produzione, ossia della trasformazione in proprietà di tutto il popolo non solo dei mezzi di produzione dell’industria, ma anche di quelli dell’agricoltura.

Ne deriva che Engels ha in mente paesi in cui il capitalismo e la concentrazione della produzione siano progrediti, non solo nell’industria, ma anche nell’agricoltura, al punto da permettere l’espropriazione di tutti i mezzi di produzione del paese e la loro trasformazione in proprietà di tutto il popolo. Engels ritiene, di conseguenza, che in questi paesi, oltre a socializzare tutti i mezzi di produzione, si debba eliminare la produzione di merci. E questo, naturalmente, è giusto.

Alla fine dello scorso secolo, all’epoca della pubblicazione dell’Antidühring, esisteva un solo paese del genere: l’Inghilterra. Qui lo sviluppo del capitalismo e la concentrazione della produzione, sia nell’industria sia nell’agricoltura, erano giunti ad un punto tale che sarebbe stato possibile, in caso di conquista del potere da parte del proletariato, trasformare tutti i mezzi di produzione del paese in proprietà di tutto il popolo ed eliminare la produzione di merci.

Tralascio in questa sede la questione dell’importanza del commercio estero per l’Inghilterra e il ruolo di primo piano che svolge nell’economia nazionale. Credo che solo in seguito a ricerche specifiche si potrebbe risolvere definitivamente la questione del destino della produzione di merci in Inghilterra dopo la conquista del potere da parte del proletariato e la nazionalizzazione di tutti i mezzi di produzione.(3)

Del resto, non solo alla fine del secolo scorso, ma anche oggi nessun paese ha ancora raggiunto quel grado di sviluppo del capitalismo e di concentrazione della produzione nell’agricoltura che osserviamo in Inghilterra. Per quanto riguarda gli altri paesi, nonostante lo sviluppo del capitalismo nelle campagne, esiste ancora una classe abbastanza numerosa di piccoli e medi proprietari-produttori agricoli, la cui sorte andrebbe decisa in caso di presa del potere da parte del proletariato.

 

3. Stalin si riferisce al caso di un paese in cui si usano rifornimenti provenienti da altri paesi e si producono oggetti che vengono usati in altri paesi. Per l’Inghilterra il primo flusso era una quota rilevante dei consumi e il secondo una quota rilevante della produzione.

Insieme con i prodotti si esportano e si importano anche i rapporti di produzione, quando questi per loro natura si presentano come qualità dei prodotti. Di conseguenza il sistema economico di un paese socialista riceve i prodotti dei paesi non socialisti (ed eventualmente anche di paesi socialisti) solo come merci e questi nei paesi d’origine sono prodotti capitalisti mentre, viceversa può cedere i suoi prodotti a imprese dei paesi capitalisti solo come merci. Quindi il commercio estero si pone per un paese socialista come relazione con un sistema economico capitalista la cui influenza è solo parzialmente limitata dalla nazionalizzazione del commercio estero.

È d’altra parte ovvio che nessun paese, anche se esteso e dotato di un sistema produttivo progredito, può fare a meno di rifornimenti provenienti da altri paesi senza conseguenze negative sul sistema produttivo e sulle condizioni di vita. Su questo fanno leva i blocchi commerciali. La contraddizione rappresentata per il commercio estero per i paesi socialisti si risolverà solo con l’estensione del socialismo nel mondo.

 

Ma ecco un problema: che cosa devono fare il proletariato e il suo partito in paesi (tra cui il nostro) dove esistono condizioni favorevoli per la conquista del potere da parte del proletariato e il rovesciamento del capitalismo, dove il capitalismo nell’industria ha talmente concentrato i mezzi di produzione che è possibile espropriarli e farne una proprietà della società, ma dove l’agricoltura, nonostante lo sviluppo del capitalismo, è ancora talmente frazionata in innumerevoli piccoli e medi proprietari-produttori da rendere improponibile l’espropriazione di questi produttori?

A questa domanda la formula di Engels non dà risposta. Detto per inciso, essa non doveva neppure rispondere a questa domanda, perché era sorta sulla base di un’altra questione, vale a dire quale dovesse essere il destino della produzione di merci una volta socializzati tutti i mezzi di produzione.

E allora, cosa fare se non tutti i mezzi di produzione sono stati socializzati, ma solamente una parte, eppure le condizioni sono favorevoli alla conquista del potere da parte del proletariato - il proletariato dovrebbe prendere il potere? e la produzione di merci dovrebbe essere poi immediatamente abolita?

Non possiamo, naturalmente, considerare una risposta l’opinione di alcuni sedicenti marxisti, i quali ritengono che in  tali condizioni bisognerebbe rinunciare alla presa del potere e aspettare fino a quando il capitalismo sia riuscito a ridurre alla miseria milioni di piccoli e medi produttori trasformandoli in braccianti e a concentrare i mezzi di produzione nell’agricoltura, e che solo dopo di questo si possa porre la questione della presa del potere da parte del proletariato e della socializzazione di tutti i mezzi di produzione. È evidente che una “soluzione” del genere non può essere accettata dai marxisti, se non vogliono definitivamente coprirsi di vergogna.

Neppure si può considerare una risposta l’opinione di altri sedicenti marxisti, i quali pensano che bisognerebbe prendere il potere, espropriare i piccoli e medi produttori nelle campagne e socializzare i loro mezzi di produzione. I marxisti non possono neppure seguire questa via insensata e criminale, perché comprometterebbe ogni possibilità di vittoria della rivoluzione proletaria e getterebbe per molto tempo i contadini nel campo dei nemici del proletariato.

È stato Lenin a dare una risposta a questa questione nei suoi scritti sull’Imposta in natura e nel celebre Sulla cooperazione.(4) La risposta di Lenin può essere riassunta come segue:

a) le condizioni favorevoli per la presa del potere non devono essere sprecate - il proletariato deve prendere il potere senza aspettare che il capitalismo sia riuscito a ridurre alla miseria i milioni di piccoli e medi produttori individuali;

b) i mezzi di produzione nell’industria vanno espropriati e trasformati in proprietà di tutto il popolo;

c) per quanto riguarda i piccoli e medi produttori individuali, essi vanno riuniti gradualmente in cooperative di produzione, cioè in grandi aziende agricole, fattorie collettive (i kolkhoz);(5)

d) l’industria va sviluppata al massimo e le fattorie collettive vanno dotate della base tecnica moderna della produzione su larga scala; esse non vanno espropriate, ma all’opposto rifornite generosamente di trattori di prima qualità e di altre macchine;

e) allo scopo di istituire un vincolo economico tra città e campagna, tra industria e agricoltura, la produzione di merci (scambio attraverso la compravendita) va conservata per un certo periodo come unica forma di legame economico con la città accettabile per i contadini; il commercio sovietico - statale, cooperativo e kolkhoziano - andrebbe sviluppato al massimo, eliminando dall’attività commerciale i capitalisti di ogni genere e tipo.

La storia della costruzione del socialismo nel nostro paese dimostra che questa linea di sviluppo, tracciata da Lenin, ha dato ottima prova di sé.

Non c’è dubbio che per tutti i paesi capitalisti con una classe più o meno numerosa di piccoli e medi produttori questa linea di sviluppo è l’unica possibile e fruttuosa per la vittoria del socialismo.

 

4. Il riferimento è agli scritti di Lenin Sull’imposta in natura e Sulla cooperazione, pubblicati rispettivamente nei voll. 32 e 33 delle Opere Complete (Ed. Riuniti).

 

5. I kolkhoz (abbreviazione di aziende agricole collettive) furono (assieme ai sovkhoz, aziende agricole di proprietà, proprietà di tutto il popolo) una delle forme in cui si concretizzò nell’URSS il processo di separazione dei produttori dalle condizioni della produzione nelle campagne. Il movimento per l’accelerazione di questo processo venne lanciato dai comunisti sovietici nel 1929.

 

Si dice che la produzione di merci in qualsiasi condizione deve portare e necessariamente porterà al capitalismo. Questo non è vero. Non sempre e non in qualsiasi condizione! Non si può identificare la produzione di merci con la produzione capitalista. Sono due cose diverse. La produzione capitalista è la forma più alta di produzione di merci. La produzione di merci conduce al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, se la forza/lavoro si presenta sul mercato come una merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, di conseguenza, esiste nel paese un sistema di sfruttamento dei lavoratori salariati da parte dei capitalisti. La produzione capitalista inizia quando i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e i lavoratori, privi di mezzi di  produzione, sono costretti a vendere la loro forza/lavoro come una merce. Senza di ciò non esiste produzione capitalista.(6)

 

6. Cfr. al riguardo Rapporto di capitale in questo stesso numero di Rapporti Sociali.

 

Ebbene, e se non esistono queste condizioni che trasformano la produzione di merci in produzione capitalista, se i mezzi di produzione non sono più proprietà privata, ma proprietà socialista, se non esiste più il sistema del lavoro salariato e la forza/lavoro non è più una merce, se il sistema di sfruttamento è già da tempo eliminato - si può allora ritenere che la produzione di merci conduca in ogni caso al capitalismo? No, non si può. Ma la nostra società è appunto una società in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema del lavoro salariato, il sistema dello sfruttamento da tempo hanno cessato di esistere.

Non si può considerate la produzione di merci come un’entità autonoma, indipendente dalle condizioni economiche circostanti. La produzione di merci è più antica della produzione capitalista. Esisteva nel sistema schiavistico e lo serviva, ma non ha condotto al capitalismo. Esisteva nel feudalesimo e lo serviva, e tuttavia, benché abbia preparato alcune condizioni della produzione capitalista, non ha condotto al capitalismo. Ci si chiede allora perché la produzione di merci non possa temporaneamente servire anche alla nostra società socialista senza condurre al capitalismo, tenendo presente che nel nostro paese la produzione di merci non ha quella diffusione illimitata e universale che ha nelle condizioni del capitalismo, che essa da noi è costretta entro rigidi limiti grazie a condizioni economiche decisive, quali la proprietà sociale dei mezzi di produzione, l’abolizione del sistema del lavoro salariato, l’abolizione del sistema dello sfruttamento.

 

Si dice che da quando nel nostro paese è stato introdotto il predominio della proprietà sociale dei mezzi di produzione e il sistema del lavoro salariato e dello sfruttamento è stato abolito, l’esistenza della produzione di merci ha perso ogni senso e pertanto andrebbe eliminata.

Ma anche questo è falso. Attualmente da noi esistono due forme fondamentali di produzione socialista: la produzione statale, di tutto il popolo, e quella kolkhoziana, che non può essere definita di tutto il popolo. Nelle aziende statali i mezzi di produzione e la produzione stessa sono proprietà nazionale. Nelle aziende kolkhoziane, invece, benché i mezzi di produzione (la terra, le macchine) appartengano allo Stato, il risultato della produzione è di proprietà dei singoli kolkhoz, dato che il lavoro, come le sementi, è proprietà dei kolkhoz stessi, mentre della terra (che è stata concessa ai kolkhoz in uso perpetuo) i kolkhoz dispongono di fatto come di una loro proprietà, nonostante non possano venderla, comprarla, darla in affitto o ipotecarla.

La conseguenza è che lo Stato può disporre solo del prodotto delle aziende statali, mentre del prodotto kolkhoziano (proprietà dei kolkhoz) dispongono solamente i kolkhoz. Ma i kolkhoz non vogliono cedere i loro prodotti tranne che in forma di merci, in cambio delle quali vogliono ricevere le merci di cui hanno bisogno. Attualmente i kolkhoz non accettano altro rapporto economico con la città che non sia il rapporto di merce - lo scambio mediante compravendita. Per questo la produzione e la circolazione delle merci sono da noi una necessità oggi cosi come lo erano, diciamo trent’anni fa, quando Lenin proclamò la necessità di sviluppare il più possibile la circolazione delle merci.

Naturalmente, quando invece dei due fondamentali settori produttivi, quello statale e quello kolkhoziano, ve ne sarà uno solo che comprenda tutto ed abbia il diritto di disporre di tutti i beni di consumo prodotti nel paese, allora la circolazione delle merci con la sua “economia monetaria” scomparirà, come un elemento superfluo dell’economia nazionale. Ma finché questo non avviene, finché sussistono i due settori produttivi fondamentali, la produzione e la circolazione delle merci devono restare in vigore come elemento necessario e utilissimo del sistema della nostra  economia nazionale. In che modo avverrà la formazione di un unico settore onnicomprensivo - se attraverso il semplice assorbimento del settore kolkhoziano da parte del settore statale (il che è poco verosimile dato che ciò sarebbe visto come l’espropriazione dei kolkhoz) oppure attraverso l’istituzione di un unico organo economico nazionale (con una rappresentanza dell’industria di Stato e dei kolkhoz) che abbia il diritto dapprima di registrare tutti i beni di consumo del paese, in seguito anche di distribuirli, per esempio attraverso lo scambio in natura - questa è una questione particolare, che richiede un esame a parte.

Di conseguenza, la nostra produzione di merci non è la normale produzione di merci, ma una produzione di merci di tipo particolare, una produzione di merci senza capitalisti, che ha a che fare principalmente con prodotti di produttori socialisti associati (lo Stato, i kolkhoz, le cooperative), la cui sfera di azione è limitata agli oggetti di consumo personale, che evidentemente non può in nessun modo svilupparsi in produzione capitalista e che è destinata a servire, insieme con la sua “economia monetaria”, lo sviluppo e il consolidamento della produzione socialista.

 

Quindi si sbagliano completamente quei compagni che pretendono che, siccome la società socialista non ha eliminato le forme mercantili di produzione, siamo costretti ad assistere al ritorno di tutte le categorie economiche proprie del capitalismo: la forza-lavoro come merce, il plusvalore, il capitale, il profitto capitalista, il saggio medio di profitto e così via. Questi compagni confondono la produzione di merci con la produzione capitalista e credono che, una volta data la produzione di merci, debba esistere anche la produzione capitalista. Non comprendono che la nostra produzione di merci differisce radicalmente dalla produzione di merci nel capitalismo.

 

Inoltre, io penso che sia necessario rifiutare anche certi altri concetti, tratti dal Capitale di Marx - dove Marx si è occupato dell’analisi del capitalismo - e artificiosamente applicati ai nostri rapporti socialisti.

Alludo fra l’altro a concetti come quello di “lavoro necessario e “pluslavoro”, di “prodotto necessario” e “plusprodotto”, di “tempo di lavoro necessario” e “tempo di pluslavoro”. Marx analizzava il capitalismo per mettere in luce l’origine dello sfruttamento della classe operaia - il plusvalore - e fornire alla classe operaia, priva dei mezzi di produzione, un’arma intellettuale per il rovesciamento del capitalismo. È ovvio che Marx si serva in questo di concetti (categorie) che rispondono pienamente ai rapporti capitalisti. Ma è a dir poco strano servirsi di tali concetti oggi, quando la classe operaia non solo non è priva del potere dei mezzi di produzione, ma al contrario li ha nelle mani. È piuttosto assurdo, oggi, nel nostro sistema, parlare di forza/lavoro come merce e di “ingaggio” degli operai: come se la classe operaia, che possiede i mezzi di produzione, si ingaggiasse da sé, o vendesse a se stessa la sua forza-lavoro. Altrettanto strano è parlare oggi di “lavoro necessario” e “pluslavoro”: come se, nelle nostre condizioni, il lavoro fornito dai lavoratori alla società per estendere la produzione, promuovere l’istruzione, la sanità pubblica, organizzare la difesa ecc. non fosse altrettanto necessario, per la classe operaia oggi al potere, del lavoro speso per soddisfare i bisogni personali dell’operaio e della sua famiglia.

Bisogna sottolineare che Marx nella sua Critica del Programma di Gotha (dove non tratta più del capitalismo, ma, fra l’altro, della prima fase della società comunista) riconosce che in lavoro dato alla società per estendere la produzione, per l’istruzione, la sanità pubblica, le spese amministrative, l’accumulazione di riserve e così via, è altrettanto necessario del lavoro speso per coprire il fabbisogno di consumo della classe operaia.(7)

 

7. Il riferimento è al punto 3 delle Glosse marginali al programma del partito operaio tedesco, redatte da Marx nel 1875 e pubblicate per la prima volta da Engels nel 1891 col titolo Critica del programma di Gotha.

 

 Credo che i nostri economisti dovrebbero porre fine a questa incongruenza fra i vecchi concetti e il nuovo stato delle cose nel nostro paese socialista, sostituendo ai vecchi concetti concetti nuovi, corrispondenti alla nuova situazione.

Abbiamo potuto tollerare questa incongruenza per un certo tempo, ma è giunta l’ora di porvi fine.

 

3. La legge del valore nel socialismo

 

Talvolta si domanda se la legge del valore esiste e agisce da noi, nel nostro sistema socialista.

Sì, esiste e agisce. Là dove esistono merci e produzione di merci, deve esistere anche la legge del valore. Nel nostro paese, il campo d’azione della legge del valore si estende anzitutto alla circolazione delle merci, allo scambio delle merci attraverso la compravendita, specie allo scambio degli articoli di consumo individuale. Qui, in questo ambito, la legge del valore conserva, naturalmente entro certi limiti, una funzione regolatrice.

Ma l’azione della legge del valore non si limita al campo della circolazione delle merci. Essa si estende anche alla produzione. Certo, la legge del valore non ha una funzione regolatrice nella nostra produzione socialista, ma influisce tuttavia sulla produzione e di questo non si può non tenere conto nel dirigere la produzione stessa. In realtà, i prodotti di consumo, indispensabili per reintegrare la capacità lavorativa spesa nel processo produttivo, da noi sono prodotti e realizzati come merci, soggette all’azione della legge del valore. Proprio qui la legge del valore influisce sulla produzione. In rapporto a ciò, elementi come la contabilità dei costi e la redditività di gestione, i costi di produzione, i prezzi, ecc. hanno un’importanza effettiva per le nostre aziende. Perciò esse non possono e non devono operare senza tener conto della legge del valore.

È una buona cosa? Non è cattiva. Nelle condizioni attuali effettivamente non è davvero cosa cattiva, perché abitua i nostri dirigenti economici a dirigere la produzione secondo criteri razionali e li disciplina. Non è cattiva perché insegna ai nostri dirigenti a misurare le grandezze della produzione, a misurarle con precisione, a calcolare i fattori reali della produzione e a non dire sciocchezze basandosi su “dati approssimati”, campati in aria. Non è cattiva perché insegna ai nostri dirigenti a cercare, trovare e sfruttare le riserve nascoste della produzione, a non mettersele sotto i piedi. Non è cattiva perché insegna ai nostri dirigenti a migliorare sistematicamente i metodi della produzione, ad abbassare i costi di produzione, ad impiegare il calcolo economico e ad ottenere che le aziende siano redditizie. È una buona scuola pratica, che accelera lo sviluppo dei nostri quadri economici e la loro trasformazione in veri dirigenti della produzione socialista nella fase attuale di sviluppo.

Il guaio non è che da noi la legge del valore influisce sulla produzione. Il guaio è che i nostri dirigenti d’azienda e i dirigenti della pianificazione, salvo rare eccezioni, hanno poca dimestichezza con l’azione della legge del valore, non la studiano e non sanno tenerne conto nei loro calcoli. Così in realtà si spiega la confusione che regna tuttora da noi nel campo della politica dei prezzi. Ecco uno dei tanti esempi. Qualche tempo fa si decise (nell’interesse della coltivazione del cotone) di aggiustare il rapporto tra i prezzi del cotone e del grano, di fissare con maggior accuratezza i prezzi del grano venduto ai coltivatori di cotone e di aumentare i prezzi del cotone consegnato allo Stato. A questo proposito i nostri dirigenti d’azienda e dirigenti della pianificazione avanzarono una proposta che non poté non riempire di stupore i membri del Comitato Centrale: secondo questa proposta, il prezzo di una tonnellata di grano doveva essere fissato ad un livello quasi uguale a quello di una tonnellata di cotone e inoltre il prezzo di una tonnellata di grano considerato equivalente a quello di una tonnellata di pane. Alle osservazioni dei membri del Comitato Centrale che il prezzo di una

tonnellata di pane deve essere superiore al prezzo di una tonnellata di grano, in considerazione delle spese addizionali per la macinazione e la cottura, e che il cotone in genere è molto più caro del grano, come testimoniano anche i prezzi mondiali del cotone e del grano, gli autori della proposta non seppero rispondere nulla di sensato. Il Comitato Centrale dovette quindi interessarsi direttamente della questione, diminuire i prezzi del grano e aumentare i prezzi del cotone.  Che cosa sarebbe accaduto se la proposta di questi compagni fosse stata tradotta in legge? Avremmo rovinato i coltivatori di cotone e ci saremmo trovati privi di cotone.

Ma tutto questo significa che l’azione della legge del valore ha da noi la medesima ampiezza che ha nel capitalismo e che la legge del valore è anche da noi la regolatrice della produzione? No. In realtà il campo d’azione della legge del valore nel nostro sistema economico è rigidamente limitato e circoscritto. Abbiamo già detto che la sfera d’azione della produzione di merci è limitata e circoscritta dal nostro sistema. Lo stesso vale per il campo d’azione della legge del valore. Indubbiamente l’assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e la socializzazione dei mezzi di produzione, sia nella città che nella campagna, non possono non limitare il campo d’azione della legge del valore e il grado del suo influsso sulla produzione.

Nella stessa direzione agisce la legge dello sviluppo equilibrato (proporzionato) dell’economia nazionale, che ha sostituito la legge della concorrenza e dell’anarchia della produzione.

Nella stessa direzione agiscono anche i nostri piani annuali e quinquennali e in generale tutta la nostra politica economica, che si basano sulle esigenze della legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale.

L’effetto complessivo di tutto questo insieme di elementi è che da noi il campo d’azione della legge del valore è rigorosamente limitato e che nel nostro sistema la legge del valore non può svolgere la funzione di regolatore della produzione.

Proprio così si spiega il fatto “sorprendente” che, nonostante lo sviluppo ininterrotto e rapido della nostra produzione socialista, la legge del valore non provoca da noi crisi di sovrapproduzione, mentre la stessa legge, che ha nel capitalismo un vasto campo d’azione nonostante il basso tasso di crescita della produzione, conduce a crisi periodiche di sovrapproduzione.

 

Si dice che la legge del valore è una legge permanente, vincolante in ogni fase dello sviluppo storico; si dice che anche se la legge del valore perde nella seconda fase della società comunista la sua funzione di regolatore dei rapporti di scambio, essa conserverà tuttavia anche in quella fase di sviluppo la sua efficacia come regolatore dei rapporti fra i diversi settori produttivi, come regolatore della ripartizione del lavoro fra di essi.

Ciò è assolutamente falso. Il valore, come la legge del valore, è una categoria storica, legata all’esistenza della produzione di merci. Con la scomparsa della produzione di merci spariranno sia il valore con le sue forme, sia la legge del valore.

Nella seconda fase della società comunista la quantità di lavoro speso per la produzione dei beni non si misurerà per vie indirette, tramite il valore e le sue forme, come accade nella produzione di merci, ma direttamente e immediatamente - con la quantità di tempo, con il numero di ore spese nella produzione dei beni. Per quanto riguarda la ripartizione del lavoro fra i settori produttivi, essa non sarà regolata dalla legge del valore, che per quell’epoca avrà perso la sua efficacia, ma dall’aumento della richiesta di beni da parte della società. Sarà una società in cui la produzione verrà regolata dal fabbisogno sociale e il calcolo del fabbisogno sociale acquisterà un’importanza fondamentale per gli organismi della pianificazione.

 

È del tutto scorretta anche l’affermazione in base a cui nel nostro attuale sistema economico, nella prima fase di sviluppo della società comunista, la legge del valore regolerebbe le “proporzioni” secondo cui il lavoro si ripartisce tra i diversi settori produttivi.

Se fosse vero, non si capisce perché da noi non venga sviluppata al massimo l’industria leggera, più redditizia, e perché  venga attribuita priorità all’industria pesante, che spesso è meno redditizia e talvolta per nulla redditizia.

Se fosse vero, non si capisce perché da noi non vengano chiusi un certo numero di impianti dell’industria pesante per il momento ancora non redditizi, dove il lavoro degli operai non dà il “giusto rendimento”, e non si aprano nuovi impianti dell’industria leggera, che sarebbero sicuramente redditizi e dove il lavoro degli operai darebbe “ottimi rendimenti”.

Se fosse vero, non si capisce perché da noi non si trasferiscano gli operai dagli stabilimenti meno redditizi, anche se indispensabili all’economia nazionale, a quelli più redditizi - coerentemente con la legge del valore, che regolerebbe le “proporzioni” della ripartizione del lavoro fra i settori produttivi.

Ovviamente, se si seguisse la via indicata da questi compagni dovremmo smettere di dare la priorità alla produzione dei mezzi di produzione a favore della produzione dei mezzi di consumo. Ma che effetto avrebbe smettere di dare la precedenza alla produzione dei mezzi di produzione? Avrebbe l’effetto di eliminare la possibilità di sviluppo ininterrotto della nostra economia nazionale, poiché questa non può continuare ad espandersi senza dare la precedenza alla produzione dei mezzi di produzione.

Questi compagni dimenticano che la legge del valore può regolare la produzione solo nel capitalismo, quando esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, la concorrenza, l’anarchia della produzione e le crisi di sovrapproduzione. Dimenticano che da noi la sfera d’azione della legge del valore è limitata dalla proprietà sociale dei mezzi di produzione, dalla legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale; di conseguenza, questo campo è anche limitato dai nostri piani annuali e quinquennali, che riflettono per approssimazione le esigenze di questa legge.

Alcuni compagni traggono di qui la conclusione che la legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale e la pianificazione economica sopprimono il principio della redditività della produzione. Ciò è del tutto falso. Le cose stanno esattamente al contrario. Se si considera la redditività non dal punto di vista di singole aziende o settori e non in riferimento a un solo anno, ma dal punto di vista di tutta l’economia nazionale e in riferimento, poniamo, a un periodo di 10 -15 anni - che è l’unico approccio corretto alla questione - allora non c’è paragone fra la redditività temporanea e instabile di singole aziende o settori e quella forma superiore di redditività stabile e permanente che ci viene assicurata dall’azione della legge dello sviluppo equilibrato dell’economia nazionale e dalla pianificazione economica; esse ci liberano dalle crisi economiche periodiche - che distruggono l’economia nazionale e causano alla società un immenso danno materiale - e ci assicurano un continuo ed elevato tasso di crescita dell’economia nazionale.

In breve: non c’è dubbio che nelle nostre attuali condizioni socialiste della produzione la legge del valore non può essere il “regolatore delle proporzioni” nella ripartizione del lavoro fra i diversi settori produttivi.

 

 

4. Superamento del contrasto fra città e campagna, fra lavoro manuale e intellettuale ed eliminazione delle differenze tra di essi

 

Questo titolo comprende numerosi problemi, che differiscono sostanzialmente l’uno dall’altro. Li riunisco in un solo capitolo non per confonderli, ma esclusivamente per brevità d’esposizione.

Il problema dell’eliminazione del contrasto fra città a campagna, fra industria e agricoltura è un problema noto, discusso già da tempo da Marx e Engels. La base economica di questo contrasto è lo sfruttamento della campagna da parte della città, l’espropriazione dei contadini e la rovina della maggior parte della popolazione rurale come conseguenza di tutto il corso dello sviluppo dell’industria, del commercio e del sistema creditizio nel capitalismo. Perciò il contrasto fra città e campagna nel capitalismo va considerato come uno scontro di interessi. È questo che ha originato l’atteggiamento ostile della campagna verso la città e in generale verso la “gente di città”. Senza dubbio, con la distruzione del  capitalismo e del sistema dello sfruttamento nel nostro paese, con il consolidamento del regime socialista, doveva necessariamente scomparire anche il contrasto di interessi tra città e campagna, tra industria e agricoltura. E cosi è accaduto. L’enorme aiuto fornito ai nostri contadini dalla città socialista e dalla classe operaia per liquidare i proprietari fondiari e i kulak (8) ha consolidato le basi dell’alleanza fra la classe operaia e i contadini; mentre la fornitura sistematica di trattori di prima qualità e di altre macchine ai contadini e ai loro kolkhoz ha trasformato l’alleanza in amicizia.

Certo, gli operai e i contadini kolkhoziani costituiscono tuttora due classi, che differiscono l’una dall’altra per la loro condizione. Ma questa differenza non indebolisce in nessun modo la loro amicizia. Al contrario, i loro interessi corrono lungo un’unica linea comune, lungo la linea del rafforzamento del sistema socialista e del conseguimento della vittoria del comunismo. Non sorprende, quindi, che non sia rimasta traccia dell’antica sfiducia - per non parlare dell’antico odio - della campagna verso la città.

Tutto questo significa che la base su cui sorge il contrasto fra città e campagna, fra industria e agricoltura, è già stata eliminata dal nostro attuale sistema socialista.

Questo, naturalmente, non significa che l’eliminazione del contrasto fra città e campagna debba condurre alla “rovina delle grandi città”.(9) Non solo le grandi città non andranno in rovina, ma sorgeranno nuove grandi città, quali centri del massimo sviluppo culturale, centri non solo della grande industria, ma anche della lavorazione dei prodotti agricoli e di un potente sviluppo di tutti i settori dell’industria alimentare. Questo favorirà il progresso culturale della nazione e tenderà ad equilibrare le condizioni di vita nella città e nella campagna.

 

8. Il termine indicava in Russia i contadini ricchi, proprietari dei mezzi di produzione, il cui reddito proveniva fondamentalmente sullo sfruttamento del semiproletariato rurale, dei contadini poveri e di parte dei contadini medi; la loro riproduzione in quanto classe poté continuare fino al 1929 – 30, quando venne eliminata dal movimento della collettivizzazione nelle campagne.

 

9. Engels Antidühring, parte III (Socialismo), cap. 2 (Elementi teorici)

 

Abbiamo una situazione simile a proposito del problema dell’eliminazione del contrasto fra lavoro manuale e intellettuale. Anche questo è un problema noto, discusso già da tempo da Marx ed Engels. La base economica del contrasto fra lavoro fisico e intellettuale è costituita dallo sfruttamento dei lavoratori manuali da parte dei lavoratori intellettuali. Tutti conoscono l’abisso che nel capitalismo divideva i lavoratori manuali nelle aziende e il personale direttivo. È noto che questo abisso ha dato origine ad un atteggiamento ostile degli operai verso i direttori, i capi-reparto, gli ingegneri e il resto del personale tecnico, considerati come nemici. Naturalmente, con la distruzione del capitalismo e del sistema di sfruttamento, doveva necessariamente scomparire anche il contrasto d’interesse fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ed esso effettivamente è scomparso nel nostro attuale sistema socialista. Oggi i lavoratori manuali e il personale direttivo non sono nemici ma compagni e amici, membri di un unico collettivo di produttori, interessati in modo vitale al progresso e al miglioramento della produzione. Dell’antica ostilità fra loro non è rimasta traccia.

 

Carattere completamente diverso ha il problema della scomparsa delle differenze fra città (industria) e campagna (agricoltura), fra lavoro manuale e intellettuale. Questo problema non è stato discusso dai classici del marxismo. È un problema nuovo, suscitato nella pratica dalla nostra costruzione socialista.

Si tratta di un problema immaginario? Ha per noi una qualche importanza pratica o teorica? No, questo problema non può essere considerato immaginario. Al contrario, è per noi della massima importanza.

Prendiamo ad esempio la differenza fra agricoltura e industria. Nel nostro paese essa non consiste solo nel fatto che le  condizioni di lavoro nell’agricoltura differiscono dalle condizioni di lavoro nell’industria, ma innanzitutto e principalmente nel fatto che nell’industria abbiamo la proprietà di tutto il popolo dei mezzi di produzione e del prodotto dell’attività produttiva, mentre nell’agricoltura non abbiamo la proprietà di tutto il popolo, ma di gruppo, kolkhoziana. È già stato detto che questo comporta il mantenimento della circolazione delle merci e che solo con la scomparsa di questa differenza fra industria e agricoltura può scomparire la produzione di merci, con tutte le conseguenze che ne derivano. Di conseguenza, non si può negare che la scomparsa di questa essenziale differenza tra agricoltura e industria deve aver per noi un’importanza di prim’ordine.

Lo stesso va detto del problema dell’eliminazione della differenza sostanziale tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Anche questo problema ha per noi un importanza di prim’ordine. Prima che il movimento dell’emulazione socialista assumesse dimensioni di massa, la crescita dell’industria procedeva in modo stentato e molti compagni suggerirono perfino di rallentare il ritmo dello sviluppo industriale. La cosa si spiega soprattutto col fatto che il livello tecnico e culturale degli operai era troppo basso e molto arretrato rispetto al livello del personale tecnico. Ma la situazione è radicalmente cambiata dopo che l’emulazione socialista assunse da noi un carattere di massa. Fu dopo di allora che l’industria cominciò a crescere a ritmo accelerato. Perché l’emulazione socialista assunse un carattere di massa? Perché fra gli operai si fecero avanti interi gruppi di compagni, che non solo avevano assimilato la preparazione tecnica minima richiesta, ma erano andati oltre; progrediti al livello del personale tecnico, cominciarono a correggere tecnici e ingegneri, a infrangere le norme esistenti come superate, a introdurre nuove norme, più moderne, e così via. Che cosa sarebbe accaduto se non gruppi isolati di operai, ma la maggioranza degli operai avesse elevato il proprio livello tecnico-culturale portandolo alla pari con quello del personale tecnico e degli ingegneri? La nostra industria avrebbe raggiunto traguardi inaccessibili alle industrie degli altri paesi. Dunque, non si può negare che l’eliminazione della differenza sostanziale fra il lavoro fisico e il lavoro intellettuale, ottenuta portando il livello tecnico-culturale degli operai al livello del personale tecnico, ha necessariamente per noi un’importanza di prim’ordine.

Alcuni compagni affermano che col tempo sparirà non solo la differenza sostanziale fra industria a agricoltura, fra lavoro manuale e intellettuale, ma sparirà anche ogni differenza fra di essi. Questo non è vero. L’eliminazione della differenza sostanziale fra industria e agricoltura non può portare all’eliminazione di tutte le differenze fra di esse. Una certa differenza, anche se non sostanziale, certamente rimarrà, a causa delle differenze esistenti nelle condizioni di lavoro nell’industria e nell’agricoltura. Anche nell’industria le condizioni di lavoro non sono identiche in ciascun settore: per esempio, le condizioni di lavoro dei minatori addetti all’estrazione del carbone differiscono dalle condizioni di lavoro degli operai di un calzaturificio meccanizzato, le condizioni di lavoro dei minatori addetti all’estrazione dei metalli differiscono dalle condizioni di lavoro degli operai addetti alle costruzioni meccaniche. Se questo è vero, a maggior ragione dovrà persistere una certa differenza fra industria e agricoltura.

Lo stesso va detto della differenza fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. La differenza sostanziale che esiste fra di essi, cioè la differenza nel livello tecnico-culturale, certamente sparirà. Ma una certa differenza, anche se non sostanziale, continuerà a sussistere, se non altro perché le condizioni di lavoro del personale dirigente non sono identiche alle condizioni di lavoro degli operai.

I compagni che affermano il contrario si basano, presumibilmente, sulla nota espressione contenuta in alcuni miei scritti, che parla di eliminazione delle differenze fra industria e agricoltura, fra lavoro manuale e intellettuale, senza precisare che si tratta di eliminare le differenze sostanziali e non tutte le differenze. I compagni hanno inteso in questo senso la mia espressione, supponendo che comportasse l’eliminazione di qualsiasi differenza. Ma questo significa che la formula non era precisa, non era soddisfacente. Essa deve essere respinta e sostituita con un’altra formula, che parli  dell’eliminazione delle differenze sostanziali e del persistere di differenze non sostanziali fra industria e agricoltura, fra lavoro manuale e intellettuale.

 

 

5. Rottura dell’unità del mercato mondiale e approfondirsi della crisi del sistema capitalista mondiale

 

La disgregazione del mercato mondiale unico va considerata come la conseguenza più importante della 2a Guerra Mondiale e dei suoi effetti in campo economico. Essa ha determinato l’ulteriore approfondimento della crisi generale del sistema capitalista mondiale.

La 2a Guerra Mondiale stessa fu un prodotto di questa crisi. Ciascuna delle due coalizioni capitaliste scese in guerra contava di schiacciare l’avversario e di conquistare il dominio mondiale. In questo esse cercavano una via d’uscita dalla crisi. Gli USA contavano di mettere fuori combattimento i concorrenti più pericolosi, la Germania e il Giappone, di impadronirsi dei mercati esteri e delle risorse mondiali di materie prime e stabilire la propria supremazia in campo mondiale.

Ma la guerra non soddisfece queste speranze. È vero, la Germania e il Giappone furono messi fuori combattimento come concorrenti dei tre principali paesi capitalisti: gli USA, l’Inghilterra e la Francia. Ma al tempo stesso la Cina e altre democrazie popolari europee (10) si staccarono dal sistema capitalista, formando insieme con l’Unione Sovietica un unico e potente campo socialista, opposto al campo del capitalismo. La conseguenza economica dell’esistenza di due campi opposti è stata la rottura del mercato mondiale unico: per cui abbiamo oggi due mercati mondiali paralleli, anch’essi opposti l’uno all’altro.

Bisogna osservare che gli USA, l’Inghilterra e la Francia hanno favorito essi stessi - naturalmente contro la loro volontà - la formazione e il consolidamento del nuovo mercato mondiale parallelo. Essi hanno imposto un blocco economico contro l’URSS, la Cina e le democrazie popolari europee, che non avevano aderito al sistema del Piano Marshall,(11) pensando con ciò di strangolarli. Ma l’effetto è stato non un soffocamento, bensì un consolidamento del nuovo mercato mondiale.

 

10. Si tratta dell’Albania, della Bulgaria, della Cecoslovacchia, della Polonia, della Repubblica Democratica Tedesca, della Romania e dell’Ungheria.

 

11. Sotto questo nome è meglio conosciuto l’European Recovery Program (Programma di ricostruzione europea), con cui la borghesia imperialista e lo stato USA conseguirono l’obiettivo di stabilizzare sul piano economico, sociale e politico i paesi capitalisti europei e di garantirsi un mercato di sbocco per le proprie esportazioni. Il programma prevedeva l’erogazione di prestiti a favore degli Stati europei aderenti, con i quali questi avrebbero pagato le forniture di mezzi di produzione, materie prime e prodotti di consumo da parte dello Stato e di imprese USA.

 

Ma naturalmente l’elemento essenziale non è il blocco economico, ma il fatto che nel periodo dopo la guerra questi paesi si sono avvicinati economicamente ed hanno avviato una collaborazione economica e una mutua assistenza. L’esperienza di questa collaborazione dimostra che nessun paese capitalista avrebbe potuto prestare un aiuto così efficace e tecnicamente qualificato alle democrazie popolari come quello che presta loro l’Unione Sovietica. Non si tratta solo del fatto che questo aiuto ha un costo minimo per questi paesi ed è tecnicamente di prim’ordine. Si tratta soprattutto del fatto che questa collaborazione si basa sul sincero desiderio di aiutarsi a vicenda e di promuovere lo sviluppo economico comune. Il risultato è l’elevato ritmo di sviluppo dell’industria in questi paesi. Si può affermare con sicurezza che, grazie a questo ritmo di sviluppo industriale, si arriverà rapidamente ad una situazione in cui questi paesi non solo non avranno bisogno di importare dai paesi capitalisti, ma sentiranno essi stessi la necessità di trovare un  mercato esterno per la loro produzione eccedente.(12)

 

12. Nei punti 5 e 6 di questo scritto Stalin mette in rilievo tendenze che negli anni successivi non si sono realizzate.

In primo luogo i paesi socialisti non hanno surclassato i paesi capitalisti nella qualità e quantità dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. L’avvento al potere dei gruppi revisionisti (che Stalin non aveva previsto) ha determinato l’interruzione della collaborazione tra i paesi socialisti (in primo luogo tra l’URSS e la Repubblica Popolare Cinese) e il rallentamento dello sviluppo qualitativo e quantitativo dell’economia. Benché la borghesia non sia ancora riuscita nei trentacinque anni trascorsi dalla morte di Stalin a cancellare tutte le conquiste del socialismo, essa ha determinato l’arresto dello sviluppo dei germi di comunismo connessi con la direzione politica del proletariato.

In secondo luogo Stalin non aveva compreso che le distruzioni e gli sconvolgimenti prodotti nel periodo 1914-1945 avevano aperto un nuovo lungo periodo (durato circa trent’anni) in cui il capitale avrebbe potuto di nuovo accumularsi e che, di conseguenza, proprio per i motivi che lui stesso qui indica essere alla base delle contraddizioni tra Stati imperialisti, queste contraddizioni avrebbero avuto un ruolo secondario nella vita mondiale. È solo dopo il 1975 che, con il riaffacciarsi della crisi economica, si riproduce il terreno su cui necessariamente si sviluppano le contraddizioni tra Stati imperialisti.

Finché esistettero condizioni per l’accumulazione del capitale, il predominio politico dello Stato USA non impedì ai capitalisti inglesi, francesi, tedeschi, giapponesi, ecc. di accumulare. I soggetti dell’accumulazione non sono gli Stati, bensì i capitalisti. Stalin non vede come “l’abbraccio” degli USA e la perdita di una “posizione autonoma” da parte degli Stati britannico e francese possano tradursi (e si sono di fatto tradotti) in eccellenti occasioni di affari e di alti profitti per i capitalisti di Parigi a di Londra, al pari di quelli di New York, Detroit, Los Angeles, ecc. Il punto è ancora una volta lo sviluppo complessivo dell’accumulazione capitalista a livello mondiale; finché questa può espandersi, non esistono limiti assoluti di natura politica allo sfruttamento delle occasioni di investimento, delle materie prime, dei mercati di sbocco, ecc.; qualsiasi vincolo di natura politica può essere superato mediante accordi, concessioni, affitti e cosi via. Solo quando questo spazio all’ulteriore accumulazione capitalista viene progressivamente a ridursi, solo allora cominciano a porsi le condizioni perché le contraddizioni fra gruppi borghesi tornino a ripresentarsi nella forma di contraddizioni fra Stati.

Per maggiori approfondimenti sull’argomento, rimandiamo al punto 7 di Rapporto di capitale che comparirà su Rapporti Sociali n. 4.

 

Ma da questo deriva che la sfera disponibile per lo sfruttamento delle risorse mondiali da parte dei principali paesi capitalisti (USA, Inghilterra, Francia) non si estenderà, ma si ridurrà; che le condizioni di vendita nel mercato mondiale per questi paesi peggioreranno; che le industrie di questi paesi opereranno sempre più al di sotto della loro capacità produttiva massima. In questo consiste, propriamente, l’approfondirsi della crisi generale del sistema capitalista mondiale sotto l’aspetto della disgregazione del mercato mondiale. Di questo si accorgono anche i capitalisti, perché sarebbe difficile non accorgersi della perdita di mercati come l’URSS e la Cina. Essi cercano di superare queste difficoltà con il Piano Marshall, con la guerra di Corea, con la corsa agli armamenti, con la militarizzazione dell’industria. Ma questo ricorda un uomo che affoga e si aggrappa ad un filo di paglia.

 

Questo stato di cose ha posto agli economisti due questioni:

a) si può affermare che sia tuttora valida la tesi di Stalin (enunciata prima della 2a Guerra Mondiale) sulla relativa stabilità dei mercati nel periodo della crisi generale del capitalismo?

b) si può affermare che sia tuttora valida la tesi di Lenin (esposta nella primavera del 1916) secondo cui, nonostante la decadenza del capitalismo, “nel suo insieme il capitalismo cresce molto più rapidamente di prima”?(13)

Penso che non sia possibile. Alla luce delle nuove condizioni sorte in seguito alla 2a Guerra Mondiale, entrambe queste tesi devono considerarsi superate.

 

13. La tesi è esposta da Lenin in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.

É necessario osservare che sotto molti aspetti la tesi è da considerarsi tutt’altro che superata. Da un lato, Stalin sottovaluta lo spazio per l’accumulazione capitalista aperto da due successive guerre mondiali (vedi anche la nota 12). Dall’altro, gli stessi periodi di crisi del modo di produzione capitalista nell’ambito della sua fase imperialista (come il primo decennio del XX secolo, gli anni ’30, gli anni successivi al 1975) si caratterizzano per un moltiplicarsi delle iniziative in campo economico, per un’accelerazione dello sviluppo delle forze produttive, per profondi rivolgimenti economici e sociali, nei quali si manifesta la lotta fra le diverse frazioni del capitale mondiale per la spartizione del plusvalore complessivo.

 

 

6. Inevitabilità delle guerre fra i paesi capitalisti

 

Alcuni compagni sostengono che in seguito allo sviluppo delle nuove condizioni internazionali dopo la 2a Guerra Mondiale, le guerre fra i paesi capitalisti hanno cessato di essere inevitabili. Esse ritengono che le contraddizioni fra il campo socialista e il campo capitalista siano più acute delle contraddizioni fra i paesi capitalisti; che gli USA abbiano assoggettato gli altri paesi capitalisti al punto da impedire che essi entrino in guerra fra loro e s’indeboliscano a vicenda; che i cervelli più lungimiranti del capitalismo siano stati abbastanza istruiti dall’esperienza delle due guerre mondiali e dei gravi danni causati a tutto il mondo capitalista, da non avventurarsi a coinvolgere nuovamente i paesi capitalisti in una guerra fra loro; che, in considerazione di tutto questo, le guerre fra i paesi capitalisti abbiano cessato di essere inevitabili.

Questi compagni si sbagliano. Essi vedono i fenomeni esteriori che appaiono in superficie, ma non vedono le forze profonde che, anche se finora hanno agito impercettibilmente, determineranno tuttavia il corso degli eventi.

 

Esteriormente, sembra che tutto “vada bene”: gli USA hanno messo in riga l’Europa Occidentale, il Giappone e gli altri paesi capitalisti; la Germania (occidentale), l’Inghilterra, la Francia, l’Italia e il Giappone sono alla fine caduti nelle grinfie degli USA ed eseguono docilmente i loro ordini. Ma sarebbe sbagliato credere che le cose possano continuare ad “andar bene” per “l’eternità”, che questi paesi possano tollerare indefinitamente il dominio e l’oppressione degli USA, che essi non tenteranno di sottrarsi alla servitù americana e di porsi sulla via di uno sviluppo autonomo

 

Prendiamo anzitutto l’Inghilterra e la Francia. Non c’è dubbio che sono paesi imperialistici. Non c’è dubbio che materie prime a buon mercato e mercati di sbocco sicuri hanno per essi un’importanza fondamentale. Si può ammettere che essi sopporteranno per sempre la situazione attuale, in cui gli americani, con il pretesto degli “aiuti del Piano Marshall”, penetrano nelle economie dell’Inghilterra e della Francia, cercando di trasformarle in appendici dell’economia USA; in cui il capitale americano si impadronisce delle materie prime e dei mercati di sbocco nelle colonie inglesi e francesi, con conseguenze catastrofiche per i profitti dei capitalisti inglesi e francesi? Non sarebbe più corretto dire che l’Inghilterra capitalista e dopo di essa anche la Francia capitalista, saranno alla fine costrette a svincolarsi dall’abbraccio degli USA e ad entrare i conflitto con essi per assicurarsi una posizione autonoma e, naturalmente, alti profitti?

Passiamo ai principali paesi vinti, Germania (occidentale) e Giappone. Questi paesi menano oggi un’esistenza grama sotto lo stivale dell’imperialismo americano. La loro industria e l’agricoltura, il loro commercio, la loro politica interna ed estera, tutta la loro esistenza è avvinta dalle catene del “regime” americano di occupazione. Ma ancora ieri questi paesi erano grandi potenze imperialiste, che scossero le basi del dominio dell’Inghilterra, degli USA e della Francia in Europa e in Asia. Credere che questi paesi non tenteranno nuovamente di rimettersi in piedi, di infrangere il “regime” degli USA e porsi sulla strada dello sviluppo autonomo, significa credere nei miracoli.

 

Si dice che le contraddizioni tra capitalismo e socialismo sono più forti delle contraddizioni fra i paesi capitalisti. Certo, teoricamente questo è vero. È vero non solo oggi, ai nostri giorni, ma era vero anche prima della 2a Guerra Mondiale. E se ne rendevano conto, chi più chi meno, anche i dirigenti dei paesi capitalisti. Eppure la 2a Guerra Mondiale non incominciò come guerra contro l’URSS, ma come guerra fra i paesi capitalisti. Come mai?

In primo luogo, perché la guerra contro l’URSS, in quanto guerra contro un paese socialista, è più pericolosa per il capitalismo della guerra fra i paesi capitalisti, dato che, mentre la guerra fra paesi capitalisti mette in gioco solo il predominio di determinati paesi capitalisti su altri paesi capitalisti, la guerra contro l’URSS invece necessariamente mette in gioco l’esistenza stessa del capitalismo.

 In secondo luogo, perché i capitalisti, sebbene a scopo di “propaganda” strillino a proposito dell’aggressività dell’Unione Sovietica, non credono essi stessi a questa aggressività, poiché sono coscienti della politica pacifica dell’Unione Sovietica e sanno che essa non attaccherà per prima i paesi capitalisti.

 

Anche dopo la 1a Guerra Mondiale si riteneva che la Germania fosse stata definitivamente messa fuori combattimento, così come alcuni compagni pensano del Giappone e della Germania. Anche allora sulla stampa si scriveva a grandi lettere che gli USA avevano messo in riga l’Europa, che la Germania non avrebbe più potuto rimettersi in piedi, che non ci sarebbero state più guerre fra i paesi capitalisti. A dispetto di tutto questo, la Germania, nel giro di quindici o venti anni dalla sua sconfitta, si risollevò e si rimise in piedi come grande potenza, sottraendosi alla servitù a prendendo la via dello sviluppo autonomo. Ed è significativo che furono proprio l’Inghilterra e gli USA ad aiutare la Germania a risollevarsi economicamente e ad accrescere il suo potenziale economico e bellico. Naturalmente gli USA e l’Inghilterra, nell’aiutare la Germania a risollevarsi economicamente, miravano a rivolgere contro l’Unione Sovietica la Germania risollevata, a servirsene contro il paese del socialismo. Ma la Germania diresse le sue forze anzitutto contro il blocco anglo-franco-americano. E quando la Germania hitleriana dichiarò guerra all’Unione Sovietica, il blocco anglo-franco-americano, lungi dall’unirsi ad essa, fu costretto a formare una coalizione con l’URSS contro la Germania hitleriana.

Quindi, la lotta dei paesi capitalisti per la conquista dei mercati e il desiderio di distruggere i propri concorrenti si rivelarono concretamente più forti delle contraddizioni fra il campo capitalista e il campo socialista.

Che garanzia esiste, allora, che la Germania e il Giappone non si rimettano nuovamente in piedi e non tentino di sottrarsi alla servitù americana e di vivere una propria vita autonoma? Credo che una garanzia del genere non esista.

Ma da ciò deriva che l’inevitabilità delle guerre fra i paesi capitalisti continua a sussistere.

 

Si dice che la tesi di Lenin secondo cui l’imperialismo genera inevitabilmente guerre deve considerarsi superata, dato che potenti forze popolari si sono fatte avanti in difesa della pace, contro una nuova guerra mondiale. Questo non è vero. Lo scopo dell’attuale movimento per la pace è quello di spingere le masse popolari alla lotta per salvaguardare la pace, per scongiurare una nuova guerra mondiale. Di conseguenza, esso non ha lo scopo di rovesciare il capitalismo e di instaurare il socialismo - esso si limita a perseguire il fine democratico del mantenimento della pace. Sotto questo aspetto l’attuale movimento per la pace si distingue dal movimento dell’epoca della 1a Guerra Mondiale, che lottava per trasformare la guerra imperialista in guerra civile: quest’ultimo movimento andava oltre e perseguiva fini socialisti.

Può darsi che, per un concorso di circostanze, la lotta per la pace si sviluppi qua e là in lotta per il socialismo. Ma allora non si tratterebbe più dell’attuale movimento per la pace: sarebbe un movimento per il rovesciamento del capitalismo.

La cosa più probabile è che l’attuale movimento per la pace, in quanto movimento per il mantenimento della pace, in caso di successo porterà a scongiurare una particolare guerra, a rinviarla nel tempo, a mantenere temporaneamente una pace particolare, a costringere alle dimissioni un governo guerrafondaio sostituendolo con un altro disposto a salvaguardare per un certo tempo la pace. Questa, naturalmente, è una buona cosa. Anzi, è un’ottima cosa. Tuttavia non basta per eliminare in generale l’inevitabilità delle guerre fra i paesi capitalisti. Non basta, perché, qualunque successo ottenga il movimento per la pace, l’imperialismo continua ad esistere, conserva le sue forze - e di conseguenza continua ad esistere l’inevitabilità delle guerre.

 

Per eliminare l’inevitabilità delle guerre è necessario distruggere l’imperialismo.

 

  

***** Manchette

 

RAPPORTI SOCIALI

Rivista di dibattito per il comunismo

 

L’obiettivo per cui è nata questa rivista è accumulare e diffondere tra quanti lottano per il comunismo la conoscenza del movimento economico della società attuale e della storia dell’epoca imperialista.

 

Una buona comprensione del movimento economico della società attuale e delle tendenze che si esplicano in esso è condizione indispensabile per una politica comunista. Capire il movimento economico della nostra società non basta ovviamente per avere una linea politica. Il movimento economico non porta mai ad una situazione che nell’immediato abbia una sola via d’uscita possibile: ogni situazione ne presenta sempre alcune. La lotta politica dei comunisti è un’arte.

 

Un’arte che però può svilupparsi solo sulla solida base della comprensione della vita economica. Il ruolo specifico dell’iniziativa politica in ogni situazione data, sta nel riunire e mobilitare le forze motrici di una delle soluzioni possibili in contrapposizione alle altre. Ma è il movimento economico della società che nel suo corso genera in ogni situazione concreta sia gli obiettivi possibili dell’attività politica dei comunisti che le forze con cui perseguirli. Procurarsi le condizioni materiali dell’esistenza è l’occupazione principale e la forza motrice dell’attività della stragrande maggioranza degli uomini; il traffico a ciò diretto determina, quale causa principale rispetto alla quale tutto il resto si pone come interferenza accidentale o derivata, l’ambito entro cui si svolge nelle sue varianti la vita di tutti gli individui e il divenire dell’intera società. Le tendenze soggettiviste, proprie dell’aristocrazia proletaria dei paesi imperialisti, hanno fatto spesso dimenticare anche ai comunisti queste tesi fondamentali della concezione materialistica della storia (pur fatta oggetto a parole di culto come mostro sacro e inutile). La conseguenza è stato il pullulare di concezioni, linee e obiettivi politici arbitrari e quindi perdenti.

 

D’altra parte il movimento economico della nostra società è abbastanza complesso, essendo difficile, se non impossibile, distinguere manifestazioni effimere da tendenze di lungo periodo, fenomeni di crescita da fenomeni di decadenza e in generale penetrare la reale natura di un singolo fenomeno se non si capisce il movimento storico del cui corso esso è parte, se non lo si colloca nella sua propria intrinseca connessione con il corso degli avvenimenti nel quale si produce. Donde la difficoltà, se non l’impossibilità, di pervenire ad una conoscenza scientifica del movimento economico presente prescindendo dal suo retroterra storico e dalle forme che i movimenti politici effettivamente affermatisi hanno impresso al movimento economico. Noi viviamo nella fase imperialista del capitalismo; la fase dell’avvenuta spartizione del mondo tra gruppi e stati capitalisti; la fase in cui il capitale finanziario, il monopolio e l’esportazione di capitali sono i fattori dirigenti della vita economica mondiale; la fase delle prime rivoluzioni proletarie e della transizione dal capitalismo al comunismo. In essa quindi il senso reale, il ruolo reale di ogni avvenimento sta nel suo rapporto con questi fattori principali ed è solo mettendosi dal loro punto di vista che può essere capito: la conoscenza di ogni avvenimento non è vera se non è conoscenza del suo rapporto con questi fattori.

 

Ciò definisce e delimita i compiti che i promotori della rivista si propongono e definisce anche la necessaria cornice per una collaborazione di osservazioni, suggerimenti, critiche, segnalazioni, proposte di articoli e studi da parte dei nostri lettori che fin d’ora sollecitiamo.

 

I promotori dedicano la loro iniziativa a tutti quanti, nelle difficili ma feconde circostanze presenti, lavorano per il comunismo con consapevolezza e determinazione, ai compagni impegnati nei luoghi di lavoro e nei movimenti di massa e ai compagni prigionieri, e ne sollecitano la collaborazione.

 

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