Marx e la crisi per sovrapproduzione di capitale

Rapporti Sociali n. 8,  novembre 1990 (versione Open Office / versione MSWord )

 

1. La causa della diminuzione del saggio del profitto

 

2. I motivi per cui nei sessanta anni trascorsi dall’inizio del secolo XIX la diminuzione del saggio del profitto non era stata più forte e più rapida di quella effettivamente registrata

2.1. L’intensificazione del lavoro

2.2. Il prolungamento della giornata lavorativa

2.3. L’aumento del numero dei lavoratori

2.4. La riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro

2.5. La diminuzione del valore degli elementi che costituiscono il capitale costante

2.6. La sovrappopolazione relativa

2.7. Il commercio estero

2.8. L’investimento di capitali in paesi economicamente arretrati

2.9. L’accrescimento del capitale azionario

2.10. Conclusioni

 

3. Un salto al presente

 

4. Gli sviluppi cui la riduzione del saggio di profitto avrebbe dato luogo

4.1. L’effetto dell’aumento della produttività sulla velocità di incremento del capitale

4.2. Gli effetti della circolazione sulla produzione di plusvalore

4.3. Crisi periodiche e crisi per sovrapproduzione di capitale

4.4. La concorrenza come conseguenza della caduta del saggio del profitto

4.5. La distruzione dei mezzi di produzione e la distruzione del capitale come grandezza di valore

4.6. Ancora sulla concorrenza come conseguenza della caduta del saggio del profitto

4.7. Le obiezioni alla tesi della sovrapproduzione assoluta di capitale

4.8. Conclusioni

4.9. Il carattere transitorio del modo di produzione capitalista

 

Marx e la crisi per sovrapproduzione di capitale

 

Agli inizi degli anni ’60 del secolo XIX esistevano nel mondo tre gruppi di paesi distinti dalle diversità del rapporto di produzione in essi predominante.

Si era oramai costituito un gruppo di paesi in cui la parte principale delle forze produttive era sussunta nel modo di produzione capitalista, i cui il grado di capitalizzazione delle attività economiche era nettamente superiore che nel resto del mondo: Gran Bretagna (esclusa l’Irlanda), Francia, Belgio, Olanda, Germania, Austria e Boemia, Svizzera, Italia settentrionale, la costa orientale degli USA, i paesi scandinavi, le colonie britanniche di popolamento (Australia, Canada, Nuova Zelanda). Nel 1870 Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Belgio e Svezia fornivano 1’83% dell’intera produzione manifatturiera europea (nel 1913 ne fornivano ancora il 74%). Nel 1913 la costa orientale degli USA forniva ancora il 75% dell’intera produzione manifatturiera USA. Dato che la produzione manifatturiera era svolta quasi per intero nell’ambito di rapporti capitalisti mentre al contrario la produzione agricola era svolta ancora in larga misura nell’ambito di rapporti non capitalisti, la concentrazione della produzione manifatturiera in questi paesi è un indice, impreciso ma significativo, del superiore grado di capitalizzazione delle attività economiche questi paesi rispetto agli altri.

Si era formato un secondo gruppo di paesi in cui la rispettiva classe dirigente aveva preso, più meno decisamente da paese a paese, la via dello sviluppo capitalista; paesi cioè in cui erano sta sostanzialmente rimossi gli ostacoli politici alla sussunzione delle attività economiche nel capitale e quindi la produzione mercantile si espandeva e si sviluppava in produzione capitalista. Gli eventi succedutisi nei decenni precedente avevano oramai fatto giustizia della tesi che il modo di produzione capitalista avrebbe soppiantato gli altri modi di produzione per forza propria, per concorrenza economica, senza guerre. Era divenuto chiaro che esso nell’ambito dei vecchi ordinamenti politici e culturali poteva svilupparsi solo in una limitata misura. Esso soppiantava i modi di produzione preesistenti solo dove i gruppi sociali interessati al suo sviluppo e creati dall’iniziale sviluppo capitalista, riuscivano, per una combinazione di circostanze, a  riunire nella società forze sufficienti per distruggere per via rivoluzionaria, “col ferro e col fuoco”, le condizioni della riproduzione dei modi di produzione esistenti, ossia, in ultima istanza, sufficienti per separare i lavoratori diretti dalle condizioni del loro lavoro e farne dei lavoratori salariati. K. Marx, nel capitolo 24 del libro I di Il capitale (che avrebbe pubblicato nel 1867) avrebbe mostrato, relativamente all’Inghilterra e alla Scozia, che l’“accumulazione originaria del capitale” era passata attraverso guerre di classe decisive ed era quindi stata un evento politico.

Nel resto del mondo, il modo di produzione capitalista era presente nella forma di investimenti diretti di gruppi capitalisti stranieri e faceva sentire il suo potente influsso come mercato finanziario atto a fornire prestiti e ad assorbire in investimenti finanziari tesori formatisi localmente. La stessa produzione mercantile vi aveva, di conseguenza, un’estensione limitata e, nella misura in cui si sviluppava, era prevalentemente determinata dall’azione del mercato internazionale che assorbiva alcuni prodotti locali (cereali, cotone, caffè, cacao, minerali, combustibili, ecc.) e offriva merci di lusso alle classi possidenti, armi e altri strumenti di potere ai loro Stati, mezzi moderni per lavori infrastrutturali per la vita privata e pubblica della vecchia classe dirigente (ferrovie, strade, porti, ecc.).

Nei primi sessanta anni del secolo XIX i paesi del primo gruppo erano stati colpiti ripetutamente da crisi economiche: 1810, 1815-1818, 1825, 1836, 1847, 1857, 1866. Tuttavia dopo ognuna di queste crisi, gli affari erano ripresi più alacremente di prima. Solo più tardi gli stessi paesi sarebbero entrati nei circa vent’anni di grande depressione 1873-1895 che F. Engels nel 1886 definiva “il pantano di disperazione di una depressione permanente e cronica” (prefazione all’edizione inglese del libro I di Il capitale).

Gli effetti delle crisi si erano manifestati in misura varia anche in altri paesi legati ai primi la rapporti commerciali. Ognuna di queste crisi aveva messo in luce che il movimento economico dei paesi capitalisti seguiva un andamento di alti e bassi sostanzialmente indipendente dalle condizioni naturali (il risultato dei raccolti, le catastrofi naturali, le epidemie, ecc.) e da eventi politici (guerre, invasioni, rivoluzioni, ecc.), ma determinato da cause intrinseche ai rapporti economici. Infatti gli effetti delle crisi erano state, di paese in paese, tanto più gravi quanto più alto era il grado di capitalizzazione dell’attività economiche del paese.

Già da tempo gli studiosi del movimento economico dei paesi borghesi avevano constatato empiricamente che, in generale, in ogni settore il saggio del profitto del capitale impiegato diminuiva man mano che la produttività del lavoro impiegato aumentava.(1)

 

(1). Per produttività del lavoro intendiamo, qui e nel seguito, la quantità di beni prodotti, in una unità di tempo, dal lavoratore diretto. Alcuni autori confondono irreparabilmente le acque intendendo per produttività del lavoro la somma di denaro ricavata dalla vendita dei beni prodotti dal lavoratore diretto, o addirittura dal lavoratore in generale, nell’unità di tempo.

 

(2). “Il valore della forza-lavoro è da dal valore dei beni che per consuetudine sono necessari all’operaio medio (Il capitale, libro I, cap. 15), cioè dei beni che vengono correntemente consumati dal lavoratore e servono alla conservazione e alla riproduzione del lavoratore. Quindi, ad evitare equivoci, il valore della forza-lavoro non dipende direttamente da quanti e quali sono questi beni, ma dal valore, ossia dal tempo di lavoro normale necessario alla produzione dei beni che un lavoratore impiega normalmente nella condizione che gli è propria nella società determinata. Che questi beni siano tanti o pochi, virtuosi o amorali, “necessari” o “superflui”, materiali o “spirituali”, soddisfino bisogni “naturali” o indotti, in questa sede non interessa. La “legge bronzea dei salari”, la “legge dell’immiserimento crescente del operai”, ecc. sono attribuite a Marx solo dall’ignoranza malevola degli espositori e dei commentatori di Marx.

 

Essi si trovavano di fronte al fenomeno strano di un saggio del profitto che diminuisce “non perché il lavoro divenga meno produttivo, ma perché la sua produttività aumenta”. Avveniva cioè il contrario di quello che essi avevano inizialmente ipotizzato essere la causa della diminuzione del saggio del profitto. Essi avevano attribuito da tempo questa diminuzione a un fatto “naturale”, cioè non intrinseco al modo di produzione capitalista, non suo specifico Essi avevano osservato che quando, per fa fronte ad una domanda crescente di alimenti, si mettevano a coltura, con la stessa tecnica già in uso, terreni meno fertili, la produttività del lavoro agricolo diminuiva. Di conseguenza il valore degli alimenti aumentava, con essi aumentava il valore della forza-lavoro (2) impiegata dal capitale dell’intero paese e diminuiva il  saggio del profitto del capitale. Essi avevano attribuito validità universale a questo fatto indubbio ma circoscritto. Nel corso del secolo XIX però erano stati messi a coltura nelle colonie e in altri paesi arretrati nuovi terreni più fertili dei terreni europei. Le trasformazioni della tecnica agricola e dell’allevamento e l’introduzione di nuove colture avevano reso più produttivo anche il lavoro applicato alla coltura dei vecchi terreni europei. Alimenti e fibre tessili a buon mercato avevano invaso i paesi capitalisti (suscitando l’accanita resistenza di agrari e di contadini) e avevano ridotto il valore della forza-lavoro impiegata dal capitale. La produttività decrescente del lavoro agricolo insomma si era oramai rivelata un fenomeno secondario e transitorio.(3) Quindi era diventata evidente l’inconsistenza delle teorie che spiegavano un fenomeno universale e permanente (la diminuzione del saggio del profitto) con un fatto “naturale” che si dava però sporadicamente.

Nel 1865 K. Marx (nell’ambito dei suoi scritti sul movimento economico della società borghese che F. Engels avrebbe successivamente riunito e pubblicato nel 1894 nel libro III di Il capitale, di cui costituiscono i capitoli 13, 14 e 15) si pose il compito di mostrare quale era la causa della diminuzione del saggio del profitto Egli anzitutto mostrò che vi era un elemento intrinseco al rapporto di capitale, e quindi ineliminabile stante il rapporto di capitale, che spingeva e non poteva che spingere il saggio del profitto a diminuire man mano che la produttività del lavoro aumentava.

Raggiunto questo risultato, egli dovette spiegare (e spiegò) come mai nei paesi già capitalisti negli anni trascorsi il saggio del profitto del capitale non era diminuito al disotto del livello che ai suoi tempi si registrava, nonostante 1’azione continua della causa intrinseca che spingeva in quella direzione. Egli mostrò che la diminuzione stessa del saggio del profitto aveva spinto i capitalisti a mettere in opera una serie di contromisure che avevano ostacolato e rallentato (ma non annullato) la diminuzione (controtendenze alla diminuzione del saggio del profitto) e che ogni capitalista era stato costretto ad adottare tali contromisure per evitare di essere espulso dal novero dei capitalisti tramite fallimento.

Da ultimo mostrò gli sviluppi cui la diminuzione del saggio del profitto aveva dato e dava luogo, mostrò che da essa derivava che la durata del modo di produzione capitalista aveva un termine insuperabile che le società capitaliste avrebbero necessariamente raggiunto in un tempo più o meno lungo (a seconda delle contromisure che di fatto sarebbero state adottate) e indicò i movimenti che si sarebbero sviluppati man mano che a questo termine ci si sarebbe avvicinati.

Per quanto i suoi scritti sull’argomento siano rimasti allo stadio di bozze e appunti che egli non ebbe tempo di elaborare in forma definitiva, essi forniscono gli strumenti per comprendere non solo il movimento economico delle società borghesi fino al 1865, ma soprattutto quello degli anni trascorsi da allora fino nostri giorni (4).

Nelle parti successive di questo scritto esporremo in dettaglio le tesi di Marx usando il più possibile le sue stesse parole. (5)

 

(3). Nei paesi capitalisti non solo il capitale non si era investito in terreni tali da comportare, nonostante le nuove tecniche, una produttività minore del lavoro, ma aveva abbandonato anche vecchi terreni per investirsi in terreni più fertili o in altri settori.

Nei paesi capitalisti la messa a coltura di terreni meno fertili nel secolo XIX si era presentata solo come soluzione disperata di sopravvivenza di contadini che il capitale cacciava dalla terra, di semiproletari e di proletari affamati dai bassi salari.

 

(4). Per comprendere le bozze e gli appunti riuniti nel libro III de II capitale (stesi negli anni 1864-1865) è di grande aiuto il libro I di Il capitale elaborato da Marx successivamente e dato alle stampe nel 1867. Occorre però smettere di confondere K. Marx con uno dei tanti scribacchini che si guadagnano da vivere rimestando, componendo e illustrando le idee di moda. Egli studiava per comprendere meglio e ciò che ha scritto dopo è in generale il superamento di ciò che aveva scritto prima. È evidente il carattere strumentale dell’operazione compiuta dagli operaisti che contrappongono i Grundrisse (una bozza di critica dell’economia politica scritta nel 1857-58) e le Teorie sul Plusvalore (appunti di lettura stesi nel periodo 1861-1863) a Il capitale (steso nel periodo 1864-1870). Chi deve sostenere con l’autorità di Marx le proprie idee poco sostenute dall’esperienza, deve inevitabilmente distorcere e stravolgere Marx per fargli dire anche quello che non ha detto!

 

(5). Nel presente scritto il termine capitale viene usato in tre accezioni ben distinte:

- nel senso di rapporto di produzione (produzione di merci a mezzo di lavoro altrui di cui il produttore entra in possesso  acquistando la forza-lavoro che si presenta anch’essa come merce);

- nel senso di valore delle condizioni della produzione (mezzi di produzione, materie prime e forza-lavoro), misurabile quindi in denaro ed equivalente ad una data quantità di denaro;

- nel senso di mezzi di produzione (infrastrutture, edifici, macchine operatrici, utensili) e di materie prime, costituenti un insieme eterogeneo di oggetti che entrano tutti nell’attività lavorativa degli uomini.

Ci siamo sforzati di esporre l’argomento in modo da evitare il più possibile equivoci tra le tre accezioni, ma è essenziale che il lettore stesso stia attento ad evitarli. Il passaggio furtivo da un’accezione all’altra nel corso del discorso è la base che sostiene una serie di tesi fantasiose (ma finalizzate all’interesse della classe dominante e quindi aventi origine e ruolo comprensibili, razionali) della cultura accademica e della cultura corrente, in primo luogo la tesi che il capitale (inteso come rapporto di produzione) è sempre esistito ed esisterà sempre perché l’uomo nelle sue attività lavorative usa da sempre capitale (inteso come mezzi di produzione).

Anche il termine prodotto è usato in questo scritto in due accezioni distinte:

- nel senso di beni di consumo, mezzi di produzione e semilavorati risultanti dall’attività lavorativa;

- nel senso della somma dei valori di ognuno degli elementi prima indicati, somma che è misurabile in denaro ed equivalente ad una data quantità di denaro.

 

1. La causa della diminuzione del saggio del profitto

 

K. Marx spiega la diminuzione del saggio del profitto usando le categorie e adducendo i fatti che esporrà più ampiamente nel cap. 23 del libro I de Il capitale (pubblicato nel 1867).

Diminuzione del saggio del profitto e accumulazione del capitale sono semplicemente diverse manifestazioni di uno stesso processo: ambedue sono manifestazioni dell’aumento della produttività del lavoro”.

Come si manifesta nella società borghese l’aumento della produttività del lavoro?

Rispetto alla società, l’aumento della produttività del lavoro si manifesta in due modi:

- anzitutto nella quantità delle forze produttive già prodotte, nel valore e nella quantità e qualità delle condizioni di produzione che sono impiegate nella nuova produzione e nella grandezza del capitale produttivo già accumulato (ossia nell’aumento del capitale complessivo dall’intera società anticipato nella produzione, sia come quantità e qualità delle forze produttive sia come valore di esse);

- in secondo luogo nella relativa esiguità della parte di capitale spesa in salario in rapporto al capitale complessivo, ossia nella quantità relativamente modesta di lavoro vivo che è richiesta per riprodurre e valorizzare un dato capitale, cioè per lo svolgimento del complesso delle attività produttive (ossia nella diminuzione del capitale variabile V complessivamente impiegato nella società in rapporto al capitale C complessivamente anticipato)”.

 

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In questo scritto vengono usati i seguenti simboli:

C - valore di tutte le condizioni impiegate in un ciclo produttivo, eguale all’intero capitale della società anticipato per lo svolgimento della produzione.

V - capitale variabile, la parte, dell’intero capitale della società C, usata per l’acquisto di tutta la forza-lavoro impiegata in un ciclo lavorativo.

PV - plusvalore di cui si appropria l’intero capitale della società in un ciclo lavorativo.

v - valore della forza-lavoro di un singolo lavoratore.

s - saggio del plusvalore, eguale al rapporto tra la durata del pluslavoro e la durata del lavoro necessario.

p - saggio del profitto dell’intero capitale della società, eguale al rapporto tra PV e C.

N - numero totale dei lavoratori impiegati dal capitale in un ciclo produttivo per produrre plusvalore.

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“Anche rispetto alla forza-lavoro impiegata, l’aumento della produttività del lavoro si manifesta in due modi:

- anzitutto nell’aumento del pluslavoro, ossia nella diminuzione del tempo di lavoro necessario, ossia del tempo di lavoro richiesto per la riproduzione della forza-lavoro;

- in secondo luogo nella riduzione della quantità di forza-lavoro (del numero di operai) impiegata per mettere in opera un dato capitale”.

Quindi sia rispetto alla società sia rispetto alla forza-lavoro impiegata, l’aumento della produttività del lavoro si  manifesta in due movimenti distinti.

“I due movimenti non solo si attuano simultaneamente, ma si determinano reciprocamente, sono manifestazioni di una medesima legge. Essi tuttavia agiscono in senso opposto sul saggio del profitto.

Se si considera nel suo assieme l’intero capitale della società, la somma del profitto che in prima istanza affluisce a tutti i capitalisti è eguale al plusvalore PV di cui l’intero capitale della società si è appropriato. Il saggio del profitto è quindi espresso dalla formula p = PV/C = (plusvalore di cui l’intero capitale della società si è appropriato)/(capitale complessivo anticipato). Ma il plusvalore PV di cui l’intero capitale della società si è appropriato è pari al prodotto del saggio del plusvalore s (s = (durata del pluslavoro)/(durata del lavoro necessario)) per il valore complessivo della forza-lavoro impiegata contemporaneamente nell’intera società a quel saggio (ossia per il capitale variabile complessivo V dell’intera società, che è la stessa cosa): PV = sV. A sua volta il valore complessivo V della forza-lavoro impiegata contemporaneamente nell’intera società è dato dal prodotto del numero N di lavoratori impiegati per il valore v della forza-lavoro di ognuno di essi: V = Nv.

Ora l’aumento della produttività del lavoro agisce in modo contrastante sui due fattori s e V che determinano il plusvalore PV di cui l’intero capitale della società si appropria:

- fa aumentare il primo fattore (il saggio s del plusvalore) perché fa diminuire la durata del lavoro necessario e quindi fa aumentare (a pari durata della giornata lavorativa) la durata del pluslavoro;

- fa diminuire il secondo fattore (la grandezza del capitale variabile complessivo V) perché fa diminuire sia il numero N di operai impiegati per mettere in opera un dato capitale, sia il valore v della forza-lavoro di ognuno di essi.

Quindi l’aumento della produttività del lavoro

- in quanto fa diminuire la parte del lavoro erogato dagli operai che corrisponde al valore della loro forza-lavoro, fa aumentare il plusvalore di cui l’intero capitale della società si appropria perché fa aumentare il saggio del plusvalore;

- in quanto fa diminuire il valore complessivo V della forza-lavoro impiegata contemporaneamente da un capitale dato, fa diminuire il plusvalore di cui l’intero capitale della società si appropria perché fa diminuire il coefficiente per cui il saggio del plusvalore è moltiplicato per determinare il plusvalore”.

“Si deve ancora notare, in proposito, che questa legge vale anche nelle sfere di produzione i cui prodotti non sono consumati né direttamente né indirettamente dall’operaio, né entrano nelle condizioni di produzione dei suoi mezzi di sussistenza; quindi anche nelle sfere in cui nessuna diminuzione del valore delle merci può aumentare il plusvalore relativo o ridurre il valore della forza-lavoro (in queste sfere l’aumento della produttività del lavoro ha l’effetto di far diminuire V, mentre non ha l’effetto di fa aumentare s). Una diminuzione del valore del capitale costante può però aumentare il saggio del profitto in tutti questi rami, nonostante che lo sfruttamento degli operai resti invariato”.

Ne risulta che ogni aumento della produttività del lavoro può dar luogo o ad un aumento o ad una diminuzione del plusvalore di cui l’intero capitale della società si appropria, a seconda delle proporzioni relative dei due movimenti contrastanti che esso determina (aumento del saggio s del plusvalore e diminuzione del valore complessivo V della forza-lavoro).

Tuttavia “due lavoratori i quali lavorassero 12 ore al giorno non potrebbero produrre lo stesso plusvalore di 24 lavoratori i quali lavorassero anche solo due ore al giorno, neanche nel caso che quei due lavoratori potessero vivere semplicemente di aria e di conseguenza non dovessero produrre assolutamente nulla per se stessi. Sotto questo aspetto, la possibilità di compensare la diminuzione del numero di operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili: la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata”.

“L’accumulazione del capitale accelera la caduta del saggio del profitto, perché determina la concentrazione del lavoro su larga scala e di conseguenza una composizione organica superiore del capitale. D’altro lato la diminuzione del saggio del profitto accelera (...) la concentrazione del capitale e la sua centralizzazione mediante l’espropriazione di piccoli  capitalisti e dei produttori diretti ancora esistenti, presso i quali vi è ancora qualcosa da espropriare”.(6)

 

(6). “Questo implica tuttavia al tempo stesso una concentrazione di capitale, poiché ora le condizioni di produzione richiedono l’impiego di capitali molto grandi; e per conseguenza questo implica la centralizzazione dei capitali, vale a dire l’assorbimento dei piccoli capitalisti da parte dei grandi e la loro "decapitalizzazione". Si tratta ancora una volta della separazione - elevata alla seconda potenza - delle condizioni del lavoro dai produttori, ai quali questi piccoli capitalisti ancora appartengono, poiché il lavoro diretto tiene ancora un posto considerevole nella loro attività (il lavoro diretto del capitalista sta in generale in rapporto inverso alla grandezza del suo capitale, vale a dire al grado in cui egli è capitalista). È questa separazione tra le condizioni del lavoro da una parte ed i produttori dall’altra, che costituisce il concetto di capitale. Essa come punto di partenza ha l’accumulazione originaria (v. libro I, cap. 24 de Il capitale), continua a manifestarsi come processo costante nell’accumulazione e nella concentrazione del capitale e infine si esprime nella centralizzazione dei capitali già esistenti in poche mani e nella decapitalizzazione dei più (forma in cui si manifesta ora l’espropriazione). Questo processo avrebbe come conseguenza di portare rapidamente la produzione capitalista allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non esercitassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta, portando di continuo alla costituzione di nuovi capitali autonomi individuali”.

Qui sono descritte succintamente le dinamiche delle società imperialiste: soggezione gerarchica dei piccoli capitalisti a pochi grandi capitalisti - e quindi rovesciamento dialettico della democrazia borghese nell’autoritarismo imperialista - che si esprime (oltre che nella dipendenza dei piccoli capitalisti dai grandi per il credito, la commercializzazione del prodotto, il rifornimento di materie prime, il rinnovamento tecnologico, la legislazione commerciale, industriale e del lavoro) nella morte continua di piccoli capitalisti assorbiti dai grandi, nell’ingrandimento dei singoli capitali più per assorbimento di capitali già esistenti che per accumulazione di nuovo capitale, nella generazione altrettanto continua di nuovi capitali per la maggior parte in funzione dei capitali già esistenti (“capitali derivati”: nati per decentramento di loro funzioni, appalti e subappalti, autonomizzazione di servizi alla produzione, ecc.). Quindi un superamento della produzione mercantile che si basa sulla produzione mercantile, un superamento della proprietà individuale dei capitali che si basa sulla proprietà individuale dei capitali, una dipendenza personale che si basa sulla libertà personale, ecc.

 

“Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore, provoca una diminuzione del saggio del profitto. Ma un tal metodo di produzione fa diminuire il prezzo di produzione delle merci”, ed è per questo che il capitalista lo fa suo ed è costretto a farlo suo dalla concorrenza della merce che un altro capitalista vende a prezzo minore.

“Tutti i fattori che hanno come effetto la riduzione del valore delle merci prodotte in seguito all’impiego delle macchine, si riducono sempre

- innanzitutto alla diminuzione della quantità di lavoro vivo che viene assorbita dalla singola merce;

- in secondo luogo alla riduzione della quota-parte del logorio del macchinario, il cui valore entra a determinare il valore della singola merce: meno rapido è il logorio della macchina, tanto maggiore è la quantità di merci sulle quali esso si ripartisce, e più considerevole è il lavoro vivo che la macchina sostituisce prima che arrivi il momento della sua sostituzione.

In ambedue i casi la quantità ed il valore del capitale costante fisso si accrescono rispetto al capitale variabile”.

“Il capitalista che riduce il valore delle sue merci, in un primo tempo le vende al di sopra del loro prezzo di produzione, e forse anche al di sopra del loro valore. Egli intasca la differenza fra il suo costo di produzione e il prezzo di mercato delle stesse merci che gli altri capitalisti producono a costi di produzione più elevati. Egli può fare questo perché il tempo mediamente necessario alla produzione di tali merci in base ai metodi comunemente impiegati nella società, è superiore al tempo di lavoro inerente al suo nuovo metodo di produzione. Il suo metodo di produzione è superiore alla media sociale: ma la concorrenza non tarda a generalizzarlo ed a sottometterlo alla legge comune. Solo allora ha inizio la diminuzione del saggio del profitto che può manifestarsi in un primo tempo solo nella sfera di produzione del capitalista, per poi livellarsi al saggio del profitto delle altre sfere - senza che tutto ciò dipenda minimamente dalla volontà del capitalista (...).

Non appena il nuovo metodo di produzione comincia a guadagnare terreno, fornendo così la prova tangibile che queste merci possono venir prodotte a costo minore, il capitalista che continua a lavorare secondo i vecchi sistemi di produzione deve vendere le sue merci al di sotto del loro pieno prezzo di produzione, perché il valore di queste merci è ora diminuito ed il tempo di lavoro che egli impiega per la loro produzione è ora superiore a quello corrispondente al  metodo ora comunemente usato nella società. In una parola - e questo sembra essere un effetto della concorrenza - egli pure è costretto ad introdurre il nuovo metodo di produzione, che diminuisce il rapporto in cui il capitale variabile sta al capitale costante”.

“Dato che il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalista (come la valorizzazione del capitale ne costituisce l’unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalista di produzione. Essa favorisce infatti la sovrapproduzione di merci, la speculazione, la crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente ad un eccesso di popolazione.

Gli economisti che (...) considerano il modo di produzione capitalista come assoluto (eterno, definitivo, l’unico corrispondente a ragione e giustizia, ecc.), si rendono conto a questo punto che tale modo di produzione si crea esso stesso dei limiti, ed attribuiscono questi limiti non ai rapporti di produzione ma alla natura (nella teoria della rendita).(7) Il brivido di terrore che essi provano di fronte alla tendenza del saggio del profitto a diminuire, è ispirato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalista trova nella crescita delle forze produttive un limite il quale non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale.(8) Questo particolare limite attesta il carattere ristretto, semplicemente storico e transitorio, del modo di produzione capitalista; prova che il modo di produzione capitalista non rappresenta affatto l’unico modo di produzione che possa produrre la ricchezza, ma che, al contrario, raggiunto un certo stadio di sviluppo della ricchezza, esso entra in conflitto con l’ulteriore sviluppo della stessa”.

In conclusione Marx mostra che la diminuzione del saggio del profitto è intrinseca al modo di produzione capitalista, è un effetto (ostacolabile ma non annullabile) del suo ruolo e merito storico: l’aumento della produttività del lavoro.

 

(7). Vedi nota 3. Quando negli anni ’70 iniziò l’attuale crisi, un analogo tentativo di attribuirla a cause “naturali” venne fatto con grande clamore dal Club di Roma con la teoria I limiti dello sviluppo. Questo gruppo attribuiva la crisi all’esaurimento delle risorse minerarie del pianeta.

 

(8). Il limite quindi non deriva

- né dal fatto che si è già prodotta troppa ricchezza, dal fatto che si è già creato il “regno dell’abbondanza”;

- né dalle difficoltà che si incontrano a vendere le merci prodotte in abbondanza.

A questa tesi di Marx dovrebbero rispondere, se vogliono essere presi sul serio, quanti si ostinano a sostenere che il limite del capitale è la sovrapproduzione di merci e a dare quindi credito ai progetti della borghesia di trovare un’uscita dalla crisi o accaparrandosi nuovi adeguati mercati (a spese di altri capitalisti) o creando nuovi adeguati mercati (a mezzo dell’intervento delle Pubbliche Autorità per aumentare la spesa pubblica, con programmi di lavori pubblici, con programmi di riarmo o con distribuzione di potere d’acquisto o con una qualche combinazione delle tre misure).

In particolare se la sovrapproduzione di merci fosse l’inizio della crisi (anziché una conseguenza inevitabile della crisi), i capitalisti associati potrebbero agevolmente prevenirla o attraverso uno dei tanti accordi di cartello che essi effettivamente combinano senza risultati se non temporanei o attraverso disposizioni dei loro Stati imposte ad ogni singolo capitalista. E, se non prevenuta, la sovrapproduzione di merci potrebbero agevolmente ed effettivamente curarla adottando le sciocche ricette suggerite da un Keynes o da un Galbraith (vedasi Rapporti Sociali n. 1 pag. 23 nota 20). A chi impara dall’esperienza, insegna qualcosa il fatto che ricette del genere siano state più volte adottate, senza alcun risultato per quanto riguarda il rimedio alla sovrapproduzione (altra questione è la loro efficacia come soluzione provvisoria di problemi di ordine pubblico o come alleviamento temporaneo alla miseria delle masse oppresse).

 

Essa quindi, in particolare, non è causata

- né dalla grande quantità di beni già prodotti, come più tardi sosterranno sia alcuni pseudomarxisti come Baran, Sweezy, ecc. (con le teorie sul plusprodotto o sovrapprodotto, ecc.) sia alcuni borghesi dichiarati come Galbraith (con le teorie keynesiane sulla società dell’abbondanza, ecc.);

- né, direttamente, dalla difficoltà della vendita dei beni prodotti, cioè dalla sovrapproduzione di merci come più tardi avrebbero sostenuto vari portavoce dell’espansionismo imperialista (dello “spazio vitale” o del “compito dell’uomo bianco nel mondo”) e vari portavoce dell’intervento statale nell’economia, forti entrambi dell’osservazione banale che i capitalisti non riescono a vendere tutte le merci che producono o che potrebbero produrre se facessero lavorare i loro impianti a pieno ritmo; l’esperienza insegna al contrario che la difficoltà della vendita è una conseguenza del basso  volume di investimenti che a sua volta è una conseguenza della diminuzione del saggio del profitto;

- né dal prevalere delle “viziose” e speculative attività finanziarie sulle “sane” attività produttive, che anzi il prevalere delle prime è una conseguenza della diminuzione del saggio del profitto, a causa della quale il capitale trova nelle “sane” attività produttive un profitto calante.

Marx parimenti mostra, in particolare, che il saggio del profitto diminuisce “non perché il grado di sfruttamento dell’operaio diminuisca, ma perché viene impiegata una quantità di lavoro decrescente in rapporto al capitale impiegato”. La riduzione dei salari quindi può rallentare la diminuzione del saggio del profitto, ma non annullarla. E ciò nonostante sia le teorie dei sostenitori della “politica dei redditi” (alla La Malfa) e dei sostenitori delle teorie delle “compatibilità” (alla Lama) sia le teorie della rottura del sistema tramite rivendicazioni salariali continuamente crescenti (alla Negri e Scalzone, quando ancora giocavano alla rivoluzione).

Il saggio del profitto diminuisce perché il plusvalore di cui si appropria l’intero capitale della società diminuisce, e non può non diminuire in proporzione al capitale impiegato, man mano che il modo di produzione capitalista stesso aumenta la produttività del lavoro, dato che aumento della produttività del lavoro vuol dire semplicemente aumento della quantità di materie prime, di semilavorati, di mezzi di produzione messi in moto da ogni singolo lavoratore impiegato, con conseguente aumento della quantità di beni da esso prodotti.

 

2. I motivi per cui nei sessanta anni trascorsi dall’inizio del secolo XIX la diminuzione del saggio del profitto non era stata più forte e più rapida di quella effettivamente registrata

 

K. Marx si pose a questo punto il compito di spiegare per quali motivi nei paesi capitalisti il saggio del profitto del capitale era ancora al livello registrato al suo tempo, nonostante la spinta continua verso la diminuzione che quella causa intrinseca, che egli aveva messo in luce, aveva esercitato nel corso dei decenni trascorsi e in particolare di spiegare perché le società borghesi al suo tempo non erano entrate ancora in un periodo di stagnazione economica e di conseguenti convulsioni politiche nonostante “l’enorme quantità di capitale fisso che, in aggiunta al macchinario propriamente detto era entrato nel processo della produzione sociale” nei decenni appena trascorsi, nonostante “l’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale” che si era realizzato anche solo negli ultimi trent’anni precedenti il periodo in cui Marx tracciava i suoi appunti.

Marx rispose al quesito ricostruendo la storia del movimento economico delle società borghesi nel periodo trascorso e indicò nove elementi quali più generali fattori che avevano consentito a singoli capitali di avere alti saggi di profitto e quindi avevano “ostacolato ma non annullato” la diminuzione del saggio del profitto del capitale complessivo dei paesi già capitalisti. Ciò facendo, Marx mostrò implicitamente la ragione profonda (la razionalità) di alcuni irresistibili movimenti dell’epoca che a prima vista (ossia secondo le categorie della cultura corrente dell’epoca) erano “assurdi”.(9)

 

(9). Nel secolo XIX in Inghilterra come in Francia le correnti democratiche piccolo-borghesi avevano tuonato a vuoto contro l’espansione coloniale denunciandola come “spreco di pubblico denaro” e avevano additato le cause di essa nelle caratteristiche caratteriali dei personaggi che l’avevano promossa.

La stessa cosa vale per l’esportazione di capitali all’estero, invano denunciata dalle stesse correnti come impoverimento della nazione dove tante situazione “necessitavano di capitale”.

Quanto alla riduzione del salario e all’intensificazione del lavoro, quintali di carta furono riempiti, in cui socialisti, aristocratici, personaggi metà aristocratici e metà socialisti, persone pie a gara denunciavano “l’irrazionalità” di un sistema che condannava alla degradazione e all’esaurimento “i lavoratori del nostro paese”, le “reclute delle nostre forze armate”, ecc., di un sistema che esponeva “le donne del nostro paese” alla “immoralità del lavoro extradomestico”, ecc.

Le contromisure alla diminuzione del saggio di profitto messe in atto dai capitalisti del secolo XIX sono la spiegazione razionale della storia del secolo, che risulta essere la mediazione tra queste controtendenze e le condizioni esterne (ambientali, storiche, ecc.) in cui esse si realizzavano.

Le stesse contromisure i nostri attuali lettori possono vederle dispiegarsi sotto i loro occhi, giorno dopo giorno. Ancora oggi esse sono la ragione di movimenti e di misure che i soggettivisti attribuiscono alla malvagità dei capitalisti e i riformisti (aspiranti ministri) all’ignoranza e all’arretratezza dei capitalisti.

  

2.1. L’intensificazione del lavoro

I capitalisti avevano aumentato il carico di macchine per lavoratore, avevano aumentato la velocità di funzionamento del macchinario, avevano introdotto, specialmente in agricoltura, metodi di lavoro nuovi che non comportavano aumento del capitale costante impiegato ma aumentavano la produttività del lavoro, avevano usufruito dei vantaggi transitori derivanti dallo sfruttamento di invenzioni. Una parte della forza-lavoro impiegata era stata “liberata” da vincoli ed ostacoli legali o abitudinari che ne limitavano l’impiego (pause, festività, lavoro notturno, lavoro su più turni, eliminazione del carattere stagionale dei lavori, riduzione dei “diritti di mestiere”, ecc.).

Ognuna di queste misure aumentava temporaneamente la quantità di lavoro semplice erogato da alcuni lavoratori nell’ambito di una giornata di lavoro di eguale lunghezza (dato che il loro lavoro effettivo diventava più intenso del normale) e quindi aumentava il saggio del plusvalore a cui erano impiegati. L’efficacia di ogni singola misura si esauriva man mano che la sua adozione diveniva universale e quindi la nuova intensità del lavoro diveniva 1’intensità normale. Ma dato che i capitalisti avevano continuato ad introdurre nuove misure del genere, vi era stato un costante effetto di esse teso ad aumentare il plusvalore di cui si era appropriato il capitale dell’intera società.

Alcune di queste misure avevano però avuto anche l’effetto di ridurre l’impiego di forza-lavoro da parte di un dato capitale e quindi il loro effetto complessivo sul saggio del profitto non era stato né uniforme né costantemente dello stesso segno.

 

2.2. Il prolungamento della giornata lavorativa

Esso si era concretizzato nell’allungamento dei turni di lavoro, nella diffusione del doppio lavoro e in misure analoghe. (10) L’allungamento della giornata lavorativa aveva avuto per i capitalisti il grande vantaggio di aumentare il plusvalore prodotto senza alterare sostanzialmente il rapporto tra la forza-lavoro impiegata e il capitale fisso da essa messo in opera, quindi aveva avuto un effetto univocamente positivo sul saggio del profitto.

Marx avrebbe esposto la storia della giornata lavorativa nel periodo in esame, nel capitolo 8 del libro I di Il capitale.

 

(10). L’aumento degli straordinari e la diffusione del doppio (o triplo) lavoro, hanno in definitiva l’effetto di prolungare la giornata lavorativa. Il fatto che sia il lavoro straordinario sia il doppio lavoro comportano un aumento del salario dei singoli operai, nulla toglie al fatto che la durata media della giornata lavorativa effettiva sale e che i lavoratori continuano ... a essere lavoratori e quindi il valore della forza-lavoro non sale. Lavoro straordinario e doppio lavoro sono introdotti e fatti valere non sempre e non solo con l’imposizione amministrativa, bensì con l’incentivazione del maggiore guadagno individuale per chi vi si sottomette. Ma l’effetto d’assieme e generale delle due misure è il prolungamento della giornata lavorativa e l’aumento della durata del pluslavoro rispetto al lavoro necessario.

 

2.3. L’aumento del numero dei lavoratori

In tutti i paesi capitalisti, anche in Inghilterra che era il paese dove il grado di capitalizzazione era già il più elevato del periodo, nuovi uomini erano stati attratti nella sfera d’azione del capitale. La popolazione operaia era aumentata sia attingendo alle attività non ancora capitaliste del paese, sia attirando lavoratori di altri paesi aventi un grado di capitalizzazione minore (emigrazione).

L’aumento della popolazione operaia, vale a dire della “materia sfruttabile senza la quale il capitale non è capitale” aveva comportato un aumento del plusvalore di cui l’intero capitale della società si era appropriato. Il suo effetto diretto sul saggio del profitto era stato positivo.

 

2.4. La riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro

In questo caso il salario non aveva più consentito al lavoratore di disporre di tutti i beni di cui per consuetudine  disponeva, lo aveva costretto a ridurre le sue abitudini di vita. Il maschio adulto non era più riuscito a mantenere col suo salario la famiglia; le donne e i bambini erano dovuti andare anche loro al lavoro. Il lavoratore salariato era stato ridotto, dal punto di vista del vitto, dell’alloggio, dei passatempi, degli strumenti culturali, della partecipazione alla vita sociale, del decoro, allo stato più basso della società. La natalità si era ridotta. Nel caso estremo alcuni gruppi di lavoratori erano stati ridotti ad un salario che non consentiva la riproduzione e si erano estinti. Il fatto era stato particolarmente rilevante nei confronti dei lavoratori immigrati dalle colonie e dalle zone più arretrate e ancora di più nei confronti dei lavoratori delle colonie e delle zone arretrate impiegati sul posto, come vedremo più avanti.

Le condizioni della classe operaia in quegli anni sono state descritte per l’Inghilterra da F. Engels nella sua opera La condizione della classe operaia in Inghilterra (1845) e per un numero più vasto di paesi da Marx in varie parti del libro I di II capitale. Su essa esiste una vasta letteratura di denuncia opera sia dei primi socialisti, sia di aristocratici oppositori della borghesia in ascesa, sia di personaggi a metà strada tra i due primi gruppi.

La riduzione del salario aveva comportato un aumento netto del plusvalore di cui si era appropriato l’intero capitale della società ed un effetto positivo sul saggio del profitto.

 

2.5. La diminuzione del valore degli elementi che costituiscono il capitale costante

L’aumento della produttività del lavoro nei settori dove venivano prodotti gli elementi che costituivano il capitale costante aveva causato la diminuzione del valore unitario di essi (nell’industria tessile ad es. era diminuito il valore del chilo di cotone o del telaio). Di conseguenza all’enorme aumento della quantità dei mezzi di produzione messi in moto dal lavoratore era corrisposto un aumento minore del valore di essi. L’effetto si era verificato sia sul nuovo capitale costante che sul capitale costante già esistente che anch’esso era diminuito di valore. Da qui si era avuto un effetto positivo sul saggio del profitto perché era diminuito (in valore) il capitale anticipato complessivo.

Inoltre “mentre la parte circolante del capitale costante (materie prime, ecc.) non cessa di aumentare proporzionalmente alla produttività del lavoro, non si verifica lo stesso per il capitale fisso (edifici, macchinario, impianti per l’illuminazione, per il riscaldamento, ecc.). Con l’accrescersi della sua efficacia, la macchina diventa, è vero, sempre più costosa in senso assoluto, ma nello stesso tempo essa diventa relativamente sempre meno cara. Se cinque operai producono oggi un quantitativo di merci che è dieci volte più grande di prima, questo non significa che occorra moltiplicare per dieci la spesa di capitale fisso. Il valore di questa parte del capitale costante cresce, è vero, insieme allo sviluppo della forza produttiva, ma è ben lungi dal crescere nella stessa proporzione”.

“L’aumento del capitale, e quindi l’accumulazione, si ripercuote in una diminuzione del saggio del profitto unicamente quando questo aumento sia accompagnato da modificazioni nel rapporto degli elementi organici del capitale di cui ci siamo già occupati. Ora, malgrado le continue, quotidiane rivoluzioni dei metodi di produzione, ora l’una ora l’altra parte, più o meno importante, del capitale complessivo continua per un certo tempo ad accumularsi in base ad una proporzione media data di questi elementi, cosicché con il suo incremento non si verifica nessuna modificazione organica e non si verificano quindi le cause che determinano la caduta del saggio del profitto. Questo continuo aumento di capitale ed in conseguenza anche l’estensione della produzione, che procede tranquillamente in base ai vecchi metodi di produzione, mentre intorno nuovi metodi cominciano già ad essere applicati, rappresenta un altro fattore che impedisce al saggio del profitto di diminuire nella stessa proporzione in cui si accresce il capitale complessivo sociale”.

 

2.6. La sovrappopolazione relativa

“Lo sviluppo della produttività del lavoro (...) crea necessariamente ed accelera condizioni di relativa sovrappopolazione che assume manifestazioni tanto più evidenti quanto più sviluppato è il modo di produzione capitalista.

 Dalla sovrappopolazione relativa derivano due processi.

- Da un lato il prolungarsi in molti rami produttivi della più o meno incompleta sussunzione della forza-lavoro nel capitale, la quale persiste più a lungo di quanto lo comporti a prima vista il grado generale dello sviluppo a causa 1. della diminuzione del prezzo della forza-lavoro e dell’aumento della massa di operai disponibili o licenziati; 2. della resistenza maggiore che, per la loro natura intrinseca, alcuni rami di produzione oppongono alla sostituzione delle macchine al lavoro manuale.

- D’altro lato sorgono nuove industrie, sopratutto per la produzione di beni di lusso, le quali si fondano proprio su questa sovrappopolazione relativa che si trova sovente disoccupata a causa della crescita preponderante del macchinario in altri rami di produzione. Queste nuove industrie al contrario poggiano sulla preponderanza del lavoro vivo e solo gradualmente percorrono la stessa evoluzione già percorsa dagli altri rami di produzione”.(11)

In entrambi i casi il capitale variabile aveva assunto particolare rilevanza rispetto al capitale complessivo (la composizione organica del capitale era diminuita), con elevato saggio del plusvalore e aumento del plusvalore, che avevano contribuito a tenere alto il saggio medio del profitto.

 

(11). Non sembra che Marx stia parlando dei “milioni di posti di lavoro” creati negli USA negli anni ’80 di questo secolo durante la reazione guidata da Reagan?

 

 

2.7. Il commercio estero

Il commercio estero era diventato un’attività crescente per ogni paese capitalista. In ognuno di essi il volume e il valore delle merci importate ed esportate erano cresciuti relativamente al volume e al valore delle merci prodotte nel paese stesso.

Il commercio estero aveva contrastato la diminuzione del saggio del profitto del capitale di ogni paese capitalista per quattro vie:

-l’importazione di alimenti e di altri beni di sussistenza per i lavoratori a buon mercato aveva fatto diminuire il valore della forza-lavoro e quindi aveva fatto aumentare il saggio del plusvalore;

- l’importazione di elementi del capitale costante a buon mercato (cotone, legname, minerali, combustibili, ecc.) aveva fatto diminuire il valore del capitale costante;

- i capitali investiti nel commercio estero avevano dato un elevato saggio del profitto nella misura in cui, approfittando del diverso grado di sviluppo dei vari paesi, riuscivano a vendere in un paese al valore corrispondente a un lavoro di qualità superiore quello che invece nell’altro paese avevano comperato al valore corrispondente ad un lavoro normale;

- un mercato più esteso, che il commercio estero aveva contribuito a creare, aveva consentito l’ampliamento della scala della produzione; questo aveva fatto diminuire il valore delle singole merci prodotte e quindi sia dei beni di sussistenza che degli elementi del capitale costante (ma aveva anche fatto crescere il capitale costante più del capitale variabile).

 

2.8. L’investimento di capitali in paesi economicamente arretrati

Da ogni paese capitalista, man mano che era cresciuto il grado di capitalizzazione delle sue attività economiche, era iniziata l’esportazione di capitali.

L’investimento diretto di capitali in paesi stranieri, oltre che come mezzo per ampliare il commercio estero con gli effetti illustrati al punto precedente, si era sviluppato come controtendenza alla caduta del saggio del profitto

- sia perché nei paesi capitalisticamente arretrati di regola il saggio del profitto era più elevato;

- sia perché con l’impiego di schiavi e altre istituzioni di lavoro coatto i lavoratori venivano sfruttati più intensamente e senza preoccupazioni per la loro riproduzione, mentre il prodotto del loro lavoro veniva venduto alla pari di merce che oggettivava libero lavoro salariato;

 - sia perché a mezzo di monopoli, concessioni, ecc. il capitale aveva qui riscosso anche la rendita fondiaria (miniere, infrastrutture, piantagioni, ecc.).

L’investimento finanziario di capitale in paesi stranieri, oltre che come mezzo per ampliare il commercio estero con gli effetti illustrati al punto precedente, si era sviluppato come controtendenza alla caduta del saggio del profitto in quanto riscuoteva interessi da rapina e la gestione dei prestiti finanziari esteri (la collocazione dei titoli presso i risparmiatori, la raccolta delle sottoscrizioni, la gestione dei fondi raccolti, ecc.) era diventata ben presto essa stessa, ben più del capitale prestato, fonte di ingenti profitti sia alle spalle dei prestatori (prestiti a creditori poco affidabili, perdite di interessi, perdite di capitale, ecc.) sia alle spalle dei contraenti il prestito (provvigioni per i promotori del prestito, scarto tra la somma nominale del prestito raccolta dal promotore tra i sottoscrittori del prestito e la somma realmente versata dal promotore al debitore, concessioni del debitore al promotore in altri campi, ecc.).

 

2.9. L’accrescimento del capitale azionario

“A misura che la produzione capitalista (...) si sviluppa, una parte crescente del capitale viene calcolata ed impiegata unicamente come capitale produttivo d’interessi (...) nel senso che questa parte di capitale, quantunque investita in grandi imprese, come ad es. le ferrovie, una volta dedotti tutti i costi, rende semplicemente degli interessi più o meno considerevoli, i cosiddetti dividendi”.

“Nella concorrenza, sotto l’azione della produttività crescente, l’aumento del volume minimo di capitale necessario per la gestione proficua di un’impresa industriale autonoma assume le seguenti caratteristiche. Non appena l’uso di un nuovo impianto più costoso si è generalizzato, i piccoli capitali si trovano esclusi dalla produzione, poiché essi possono funzionare in modo indipendente nelle diverse sfere di produzione unicamente quando le invenzioni meccaniche sono al loro inizio. D’altro lato le imprese molto ampie, aventi una proporzione straordinariamente elevata di capitale costante, come ad es. le ferrovie, non danno il saggio medio del profitto, ma soltanto una frazione di esso, un interesse. Se non fosse così, la diminuzione del saggio generale del profitto sarebbe ancora più forte. In compenso, una forte concentrazione di capitale trova qui, sotto forma di azioni, un campo immediato di investimento”.

Una parte del capitale era stata investita, invece che in azioni, in altri titoli finanziari (obbligazioni, titoli del debito pubblico del paese o di paesi esteri, ecc.). Anch’esse percepivano solo un interesse.

Questi capitali non erano entrati nella formazione del saggio medio del profitto e quindi non avevano contribuito a ridurlo. Se il capitale investito in uno di questi modi aveva ottenuto un profitto pari solo all’interesse, la produzione di questi investimenti era diventata un’impresa lucrosa e quindi di grande interesse per i promotori.

Quindi esistevano tutte le condizioni per lo sviluppo di essi.

 

2.10. Conclusioni

Le contromisure alla diminuzione del saggio di profitto messe in opera dai capitalisti nel periodo precedente il 1865 e illustrate da Marx in particolare contengono le spinte alla creazione del mercato mondiale, all’internazionalizzazione delle attività economiche, all’esportazione dei capitali, alla conquista di tutto il mondo, alla creazione dei monopoli, alla formazione del capitale finanziario, ecc. la cui realizzazione costituirà i tratti distintivi della fase in cui capitalismo entrerà nell’ultimo quarto del secolo XIX, l’imperialismo.

Questo rende ragione della definizione dell’imperialismo come controtendenza alla caduta del saggio di profitto.

Nello stesso tempo quelle contromisure mostrano l’origine economica dell’imperialismo, mostrano come esso nasca inevitabilmente dal normale, “sano” e “morale” capitalismo e quindi quanto sia inconsistente teoricamente (ma proprio per questo politicamente finalizzata) la proposta di un capitalismo senza imperialismo, di un capitalismo nazionale, di un capitalismo pacifico, di un capitalismo della collaborazione compreso quello che Bush e Gorbaciov patrocinano in  questi giorni.

 

3. Un salto al presente

 

Dopo aver mostrato i meccanismi per cui nei paesi capitalisti nei decenni già trascorsi il saggio di profitto del capitale non era ancora sceso ad un livello tale da comportare la paralisi delle attività economiche, Marx si pose il problema di quanto a lungo poteva proseguire l’accumulazione del capitale. In altre parole, il problema è fino a quanto poteva diminuire il saggio del profitto, dato che, come abbiamo già detto “diminuzione del saggio di profitto e accumulazione del capitale sono semplicemente diverse manifestazioni di uno stesso processo: ambedue sono manifestazioni dell’aumento della produttività del lavoro”.

Nei manoscritti raccolti nel libro II di Il capitale (e scritti successivamente al manoscritto del libro III), Marx avrebbe mostrato, con gli schemi di riproduzione, che in una società capitalista la riproduzione allargata del processo di produzione delle condizioni materiali dell’esistenza poteva attuarsi solo a determinate condizioni dovute al carattere specifico del modo di produzione capitalista. Infatti in una società capitalista il processo di produzione delle condizioni materiali dell’esistenza si compie solo come supporto materiale della valorizzazione del capitale; parimenti la riproduzione allargata del processo si compie solo come supporto materiale della valorizzazione di un capitale più grande, ossia come accumulazione del capitale, ossia come trasformazione in capitale di una parte del plusvalore complessivamente prodotto nel ciclo precedente. Egli avrebbe mostrato che condizione necessaria perché in una società capitalista la riproduzione allargata possa avvenire è che tra le parti costitutive del prodotto sociale complessivo ottenuto siano rispettati, oltre che i rapporti tecnicamente determinati tra le quantità relative,(12) anche determinati rapporti tra i valori delle parti stesse.

 

(12). Per rapporti quantitativi tecnicamente determinati tra le parti costitutive del prodotto intendiamo ad esempio questo: due torni aggiuntivi atti a lavorare 50 tonnellate di barre d’acciaio al mese, prodotti in un periodo, potevano essere impiegati nel periodo successivo solo se nello stesso periodo oltre ai torni era stata prodotta anche una adeguata quantità aggiuntiva di barre d’acciaio. Ogni tipo di prodotto deve essere presente in quantità proporzionata alle quantità di altri prodotti che devono combinarsi con esso nel ciclo lavorativo successivo. In particolare mezzi di produzione, mezzi di sussistenza e lavoratori devono essere presenti in quantità proporzionate.

 

Il prodotto sociale ottenuto in un periodo, poteva dare luogo ad un processo produttivo su scala più grande nel periodo successivo solo se erano soddisfatte, oltre alle condizioni conseguenti dalla natura materiale dei prodotti (rapporti tecnicamente determinati tra le quantità dei vari valori d’uso), anche le condizioni conseguenti dai rapporti di produzione capitalisti (rapporti determinati tra i valori dei vari elementi del prodotto complessivo). Nella società borghese niente e nessuno garantiva che quei determinati rapporti (quantitativi e di valore) tra le parti costitutive del prodotto fossero rispettati. Donde una sproporzione continua tra le parti costitutive del prodotto, che veniva continuamente corretta in senso opposto attraverso più o meno gravi crisi di sproporzionalità, realizzando nel tempo una proporzionalità risultante dalla successione di sproporzionalità di senso opposto. Questa essendo l’unico tipo di proporzionalità tra le parti costitutive del prodotto realizzabile nell’ambito del modo di produzione capitalista (l’equilibrio come risultato di crisi di sproporzionalità, come risultato di squilibri in senso opposto).

La pubblicazione nel 1885, a due anni dalla morte di Marx, del libro II di Il Capitale avrebbe fornito una grande guida per l’analisi della realtà agli esponenti rivoluzionari del movimento operaio. Basta pensare all’uso magistrale che ne fece Lenin nella sua opera A proposito della cosiddetta questione dei mercati e in generale nella polemica contro i populisti (Opere vol. l, 2, 3) e per analizzare lo sviluppo del capitalismo in Russia (Opere vol. 3). Questi brillanti lavori di Lenin sono ancora oggi utili per mostrare l’inconsistenza delle tesi che sostengono che il capitale in generale può trovare la via d’uscita alla sua crisi in mercati “esteri” (attualmente, a secondo degli autori, i paesi socialisti dell’Europa  Orientale, l’URSS, la Cina, i paesi del Terzo Mondo o una qualche combinazione di questi) in cui collocare le sue merci prodotte in sovrabbondanza rispetto al mercato “interno”. Lenin in quei suoi lavori dimostra che il capitale, finché l’accumulazione procede, crea esso stesso il suo mercato.(13) La sovrabbondanza generale di merci, l’impossibilità di realizzare sul mercato interno le merci prodotte, è essa stessa solo un indice che l’accumulazione non procede più al ritmo adeguato, che una parte troppo esigua del plusvalore prodotto (oggettivato nelle merci) viene trasformata in capitale.(14)

Dal libro II di Il capitale, travisandolo, avrebbero attinto argomenti anche quanti promuovevano la sottomissione del proletariato alla borghesia e predicavano alla borghesia il buon comportamento, in una parola gli esponenti del riformismo. I riformisti usarono le argomentazioni del libro II come dimostrazione

- che l’accumulazione del capitale poteva felicemente ed ordinatamente proseguire a tempo indeterminato se solo si fossero rispettati quei determinati rapporti tecnici e di valore;

- che i mali della società borghese derivavano sostanzialmente dalla sua anarchia;

- che le sue crisi economiche derivavano sostanzialmente dalla mancanza di proporzionalità tra le parti costitutive delle sue attività economiche e dalla mancanza di coordinamento tra i suoi protagonisti (i capitalisti imprenditori);

- che la pianificazione, cioè l’imposizione, per via amministrativa o per manovra consapevole di leve economiche (credito, tasso d’interesse, misure fiscali, manovre monetarie, in breve le varie misure di politica economica) o per accordi di cartello, del rispetto dei rapporti tecnici e di prezzi aggregati, avrebbe rimediato alle evidenti disfunzioni della società borghese mostrate dalle sette crisi periodiche dei primi settanta anni del secolo XIX, dalla lunga depressione del periodo 1873-1895 con le punte acute del 1882-1884 e del 1890-1893, dalle crisi successive (1900, 1907, 1913-14).(15)

 

(13). Lenin mise in luce anche che i sostenitori della tesi che i mercati esteri sono un rimedio adeguato alla crisi del capitale erano portavoce (consapevoli o no) delle pretese imperialiste della borghesia del proprio paese. È notevole il fatto che il partito bolscevico, formato sulla teoria elaborata da Lenin, fu l’unico partito della II Internazionale che nella guerra imperialista del 1914-1918 seppe non lasciarsi influenzare dalla borghesia del proprio paese e sfruttare al contrario il movimento da questa scatenato per ritorcerglielo contro.

 

(14). Questa affermazione nulla toglie alla realtà del fatto che singole crisi, crisi di sproporzionalità tra settori, crisi di singoli capitali o di capitali di vari settori siano state effettivamente risolte mediante la conquista di nuovi mercati di smercio.

 

(15). Sulla governabilità del movimento economico delle società capitaliste da parte degli Stati o di altre associazioni di capitalisti si veda I fatti e la testa pagg. 30-33 e Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte) pagg.1-19.

La creazione di una gran quantità di forme antitetiche dell’unità sociale (vedasi Rapporti Sociali n. 4 pagg. 20- 22) è il modo in cui nelle società imperialiste la borghesia cerca di governare il movimento economico delle stesse, conciliando il carattere collettivo delle forze produttive di esse con la sopravvivenza della proprietà individuale capitalista. Il risultato così ottenuto è quello di ostacolare e rallentare i movimenti distruttivi della contraddizione senza poter impedire il dispiegarsi di essi.

 

In sostanza essi assumevano le tesi del libro II unilateralmente, contrapponendole alle tesi che Marx aveva enunciato nel libro III (anche se gli appunti riuniti nel libro III erano stati scritti prima di quelli riuniti nel libro II). Questi nel libro II aveva messo in luce le condizioni che si verificavano finché l’accumulazione del capitale procedeva e aveva quindi anche messo in luce la precarietà di questo procedere; gli incidenti di percorso, le scosse, le perturbazioni e gli squilibri attraverso cui necessariamente si verificava. In quella sede Marx non affrontava il problema di quanto tempo e fino a quale livello l’accumulazione del capitale (alias la diminuzione del saggio del profitto) poteva procedere. I riformisti distorcevano le affermazioni di Marx in questo preciso senso: siccome egli aveva illustrato le condizioni che si verificavano fino a che l’accumulazione del capitale procedeva (cioè, in altre parole, le condizioni necessarie  dell’accumulazione), essi proclamarono che Marx aveva dimostrato che l’accumulazione del capitale poteva procedere illimitatamente se solo erano rispettate quelle condizioni. Surrettiziamente attribuivano a Marx la tesi che quelle condizioni necessarie dell’accumulazione erano anche condizioni sufficienti di essa.(16)

 

(16). I riformisti facevano con Marx l’operazione sapiente che farebbe uno che, di fronte a un fisiologo che afferma che un uomo per vivere deve ingerire ogni giorno una quantità adeguata di alimenti aventi caratteristiche ben definite, sostenesse che il fisiologo ha affermato che un uomo può vivere illimitatamente purché ingerisca ogni giorno una quantità adeguata di alimenti aventi caratteristiche ben definite.

 

Alcuni esponenti rivoluzionari della II Internazionale negarono invece validità alle argomentazioni del libro II di Il capitale di cui davano la stessa interpretazione dei loro avversari riformisti (e che anch’essi contrapponevano al libro III della stessa opera). Il più celebre di essi fu Rosa Luxemburg.

Marx nel libro II aveva sostenuto e dimostrato che il plusvalore prodotto, a determinate condizioni poteva essere trasformato in nuovo capitale. E che l’accumulazione del capitale fosse avvenuta ed avvenisse non poteva essere negato da nessuno, semmai doveva essere spiegato come avvenisse.

Marx aveva però sostenuto nel libro III

- che il saggio di profitto del capitale doveva diminuire, ossia che il capitale, man mano che cresceva, avrebbe prodotto un plusvalore complessivo proporzionalmente minore (e questo lo abbiamo già visto);

- che il capitale non poteva produrre un plusvalore complessivo continuamente crescente sia pure meno che proporzionalmente alla crescita del capitale stesso (ed è questo che andremo a vedere nella quarta parte di questo scritto);

- che era questa paralisi dell’accumulazione che scatenava una concorrenza mortale tra i capitali (e non era quindi la concorrenza - alias l’anarchia - che produceva la paralisi, come avrebbero sostenuto i pianificatori e in generale i riformisti).

Prima di procedere nell’esposizione analitica di queste tesi, conviene sgomberare il campo da un equivoco che è quello su cui Rosa Luxemburg costruì la sua grande opera L’accumulazione del capitale. Il problema di cui stiamo trattando consiste nella possibilità per il capitale di produrre un plusvalore complessivo illimitatamente crescente. Non consiste nella possibilità di produrre quantità illimitatamente crescenti di beni (e questo dovrebbe essere già scontato per chi ci ha seguito fin qui). Non consiste neanche nella possibilità di realizzare (ossia convertire in danaro) una quantità crescente di merci. Rosa Luxemburg e i suoi seguaci ridussero invece il problema dell’accumulazione illimitata di capitale a questo.

Dato che tutto il valore è valore di prodotti, anche la parte di esso costituente il plusvalore è il valore di prodotti. Si può allora, idealmente, separare una quota del prodotto complessivo dal resto e considerare tutto il valore di queste merci come plusvalore dell’intera società. La realizzazione, la trasformazione in denaro di questo arbitrario gruppo di merci, separato dagli altri solo idealmente (e chiamato a volte anche “plusprodotto”), pone gli stessi identici problemi che pone la realizzazione del resto. Finché la produzione capitalista prosegue, esso si trasforma, come il resto, in denaro che poi si ritrasforma in merci che entrano, secondo la loro natura, in una delle destinazioni che hanno in generale i prodotti (in una società composta solo di capitalisti e operai: o nel consumo dell’operaio, o nel consumo del capitalista, o a costituire il nuovo capitale costante, o a reintegrare il capitale costante consumato).

Rosa Luxemburg e altri hanno invece ridotto il problema dell’accumulazione del capitale al problema della realizzazione del “plusprodotto” e hanno ridotto ulteriormente questo problema al problema: da dove viene la merce-denaro (l’oro) contro cui deve essere scambiato il “plusprodotto” per realizzarlo al pari del resto del prodotto?

In questi termini, il problema è doppiamente mal posto.

Che tutto il prodotto, quindi anche il “plusprodotto”, debba trasformarsi in denaro è indubbio (salvo il caso del tutto  secondario del prodotto impiegato dallo stesso produttore: es. il carbone che alimenta la centrale termica della miniera di carbone). Ma è un arbitrio senza alcun fondamento economico separare una parte del prodotto e attribuire ad essa l’onere di oggettivare il plusvalore. Ed essendo questa un’operazione del tutto immaginaria, se la si assume come un’immagine fedele della realtà, su di essa non si può costruire che una fantasticheria senza senso.

In secondo luogo, per quanto riguarda la realizzazione di tutto il prodotto, la realizzazione è per il produttore la sua trasformazione in denaro, una trasformazione che si attua nell’ambito della circolazione semplice delle merci M - D - M’. Ma quando è che il denaro deve avere un valore intrinseco (essere cioè costituito da una merce particolare)? La materia del denaro deve essere una merce particolare (oro) solo quando e dove esso cessa di circolare, cioè di fungere da mezzo di scambio, cioè quando la catena M - D - M’ si interrompe. Storicamente la materia del denaro fu costituita da una merce particolare (oro) finché la sua circolazione fu precaria. Dove e quando il denaro circola con continuità adempiendo alle sue funzioni di mezzo di scambio e di mezzo di pagamento, la materia del denaro può essere (e quindi è) solo simbolo (segno, buono) della merce particolare (oro) che ha il ruolo, socialmente oggettivo e storicamente determinato, di equivalente universale, di merce particolare contro cui in quella società data, ogni venditore scambia la sua merce particolare. Ma c’è di più. Quando e dove il modo di produzione capitalista ha raggiunto uno sviluppo sufficiente, esso ha formato a sua immagine la società sicché le sue forme hanno raggiunto la solidità dei pregiudizi popolari. Qui e finché il movimento del capitale scorre regolarmente, il denaro è capitale potenziale, può accrescersi. Quindi il denaro che non è impiegato nella circolazione, che cioè non è usato come mezzo di scambio o di pagamento, deve fruttare un interesse.

Di conseguenza, a questo livello di sviluppo del modo di produzione capitalista, anche per il denaro che non funge né da mezzo di scambio né da mezzo di pagamento, la materia adeguata cessa di essere una merce particolare (oro) e diventa il titolo di credito che frutta un interesse.

Scompare quindi completamente la necessità che la materia del denaro sia una merce particolare (oro)? Nient’affatto! Come succede in generale, una forma più sviluppata supera ma non elimina la forma primitiva che continua ad esistere in misura ed ambiti secondari e balza in primo piano con prepotenza, sorprendendo i dotti e i pedanti, e riacquista un ruolo principale quando crollano le condizioni sociali che avevano generato e fatto prevalere la forma superiore. Quello che si pone Rosa Luxemburg quando si chiede: “da dove viene il denaro-oro con cui viene realizzato il plusvalore?” (L’accumulazione del capitale ed. Feltrinelli p. 80 e in generale il cap. V) è quindi un falso problema.

Il capitale non è denaro, ma è il movimento D - M - L - M’ - D’ (Denaro - Merci per la produzione - Lavorazione - Merci prodotte - Denaro in quantità maggiore) ripetentesi con continuità. L’accumulazione del capitale è l’ampliamento di questo movimento, è questo movimento che si ripete più in grande. Nel movimento, D compare come mezzo di scambio e, in forma derivata, come mezzo di pagamento. La materia del denaro che compare in questo movimento quindi non occorre sia una merce particolare (oro).

Il movimento D - M - L - M’ - D’ genera come sua sovrastruttura ed escrescenza il capitale finanziario. Quindi il denaro che non partecipa direttamente al movimento D - M - L - M’ - D’ può esistere ed esiste come titolo di credito.

È solo quando il movimento D - M - L - M’ - D’ cessa, quindi quando “cessa” il capitale, nella crisi, che il rapporto di denaro non ha più la sua espressione adeguata né nei titoli di credito né nei segni (buoni) di una merce particolare (oro). Allora si vedono grandi finanzieri e managers in corsa con risparmiatori e rentiers per trasformare in oro il denaro che detenevano come titoli di credito o come banconote. Le febbri dell’oro che sono spuntate periodicamente in questo lungo periodo di accumulazione e sviluppo che abbiamo avuto dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono sintomi che la demonetizzazione dell’oro è un mito. Ed esse sono solo un pallido annuncio di quello che vedremo.

Ma allora, nella crisi, il problema non è più “da dove viene il denaro-oro con cui viene realizzato il plusvalore”. Il problema è: da dove viene il denaro-oro con cui ogni produttore vuole realizzare in generale il suo prodotto? Non è solo  una quota del prodotto (il “plusprodotto”) che non trova i suoi acquirenti, ma una quota ben più ampia. Ma è quindi chiaro che la sua realizzazione non è più principalmente una questione monetaria (che ci sia la quantità di denaro-oro o altro per comperarla). Se così fosse le cure monetarie delle crisi sarebbero efficaci: cosa che in generale non è.

Al di fuori di queste contingenze di crisi, è solo dove non arriva il movimento D - M - L - M’ - D’ che non il “plusprodotto”, ma tutto il prodotto scambiato deve essere scambiato con denaro-merce particolare (oro). È il commercio con i paesi che sono al di fuori del sistema capitalista mondiale che deve essere saldato con oro a scadenze più o meno ravvicinate a seconda delle condizioni creditizie stabilite.

Non è quindi la mancanza di oro che impedisce di comperare, tanto è vero che paesi interi con uno sviluppato commercio internazionale hanno scorte ridicolmente piccole d’oro (vedasi ad esempio la RFT), ma per alcuni paesi lo scarso carattere capitalista delle attività economiche e per altri la crisi economica.

Venendo ad una questione di questi anni, sostenere che i paesi socialisti sono un potenziale mercato per i gruppi imperialisti, stante la domanda insoddisfatta di valori d’uso ivi esistente, significa ignorare che per comperare bisogna anche vendere, non basta desiderare valori d’uso. Sostenere che l’Unione Sovietica è un potenziale grande mercato per i gruppi imperialisti stante l’abbondanza di materie prime nel paese, significa ignorare che non è la mancanza di materie prime che soffoca attualmente le società imperialiste, che al contrario affogano nella sovrapproduzione di esse. Ne segue che i gruppi capitalisti in cerca di compratori per le loro merci che la sovrapproduzione di capitale fa produrre in misura superiore a quanto essi stessi ne comperano, potranno trovare nei paesi del Terzo Mondo o nei paesi socialisti clienti che non anno accumulato tesori (ma chi in questi paesi ha accumulato tesori li ha già trasformati in investimenti sul mercato finanziario dei paesi imperialisti) solo prendendo, a pagamento delle loro merci, le condizioni di lavoro dei lavoratori di quegli stessi paesi, quindi solo se quegli stessi paesi entreranno a pieno titolo nel sistema capitalista mondiale e i lavoratori di quei paesi accetteranno di diventare o ridiventare salariati. L’allargamento del movimento D - M - L - M’ - D’ che ne deriverebbe, con la sussunzione nel capitale di decine e centinaia di milioni di nuovi lavoratori (nei loro paesi se le condizioni politiche locali saranno affidabili o trasferendoli nei paesi imperialisti) risolverebbe per alcuni anni la crisi di sovrapproduzione di capitale perché un nuovo largo spazio sarebbe aperto all’accumulazione di capitale.

Ma può un processo di questo genere, che sarebbe il rinnegamento dell’indipendenza per i paesi del Terzo Mondo e il rinnegamento degli elementi acquisiti di socialismo per i lavoratori dei paesi socialisti e, in ambedue i gruppi di paesi, il sovvertimento di tutti i loro attuali ordinamenti e costumi, realizzarsi pacificamente, per di più senza essere sconvolto dalla concorrenza sfrenata che si faranno i gruppi imperialisti con 1’ausilio dei loro Stati e in nome del “buon diritto nazionale” dei popoli da essi sfruttati? Questa è una domanda a cui risponderà il corso degli eventi che ci stanno di fronte. La risposta sarà il risultato della lotta tra le classi e i gruppi coinvolti negli eventi.

 

4. Gli sviluppi cui la riduzione del saggio di profitto avrebbe dato luogo

 

Ritorniamo alla risposta data da Marx nel 1865 circa gli effetti della diminuzione del saggio del profitto (ossia dell’accumulazione del capitale) e circa il limite dell’accumulazione del capitale (ossia della diminuzione del saggio del profitto). La esporremo usando il più possibile le sue stesse parole prese dal capitolo 15 del libro III di Il capitale.

“Con lo sviluppo del modo di produzione capitalista, il saggio del profitto (p=PV/C) diminuisce, ma l’aumento del capitale C complessivamente messo in opera tende a far crescere il profitto complessivo (che per il capitale complessivo è eguale al plusvalore PV di cui si è appropriato il capitale stesso)”.

“L’accumulazione è allora determinata dalla quota del profitto complessivo che è convertita in nuovo capitale ∆C , che è l’incremento del capitale (∆C = kPV, con k minore di 1)”.

“Quindi dato il saggio del profitto, l’incremento del capitale (∆C = kPV) dipende dalla grandezza del capitale esistente.  D’altro lato, data la grandezza del capitale esistente, la proporzione secondo cui il capitale cresce (il saggio del suo incremento) dipende dal saggio del profitto”.

A parità di altre circostanze, la capacità di una nazione di risparmiare sui suoi profitti è proporzionale al saggio del profitto: è grande quando questo è elevato, minore quando questo è basso. Ma quando questo saggio declina le altre circostanze non si mantengono invariate (...) Di fatto un basso saggio di profitto è comunemente accompagnato da una rapida accumulazione rispetto all’entità della popolazione, come in Inghilterra (...) mentre un elevato saggio del profitto dà un’accumulazione più lenta relativamente alla popolazione, come per es. in Polonia, in Russia, nelle Indie, ecc. (...) Malgrado la diminuzione del saggio del profitto, le occasioni e la capacità di accumulazione si accrescono:

1) perché si ha accrescimento della sovrappopolazione relativa;

2) perché con il progresso della produttività del lavoro aumenta la quantità dei valori d’uso rappresentata da un medesimo valore di scambio, quindi aumentano anche gli elementi materiali del capitale;

3) perché i rami di produzione si moltiplicano;

4) perché lo sviluppo del sistema creditizio, delle società per azioni, ecc., permettono agli individui di trasformare il denaro in capitale senza diventare essi stessi dei capitalisti industriali;

5) perché si accrescono i bisogni e il desiderio di ricchezza;

6) perché si fanno dei forti investimenti di capitale fisso, e così via”.

“Così, astraendo dal deprezzamento del capitale esistente causato dall’aumento della produttività del lavoro, la corrente del capitale (o la sua accumulazione) continua a crescere con un impeto che dipende dalla forza che già possiede (cioè dalla grandezza del capitale già accumulato) e non dal saggio del profitto”.

“Presupponendo dati i mezzi di produzione necessari, vale a dire un’accumulazione sufficiente di capitale, la produzione di plusvalore trova il suo unico limite nella quantità della popolazione operaia, se il saggio del plusvalore, ossia il grado di sfruttamento del lavoro, è determinato; oppure nel grado di sfruttamento del lavoro, se la quantità della popolazione operaia è data”.

“L’appropriazione di questo plusvalore costituisce il processo di produzione immediato che, come già detto, non ha altri limiti oltre quelli sopra menzionati. Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere si trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di produzione capitalista, la produzione immediata. Il capitale ha assimilato una quantità determinata di lavoro non pagato. Contemporaneamente allo sviluppo del processo di produzione, che si esprime in una diminuzione del saggio del profitto, si gonfia il plusvalore così prodotto”.

 

4.1. L’effetto dell’aumento della produttività sulla velocità di incremento del capitale

- L’effetto diretto

“L’aumento della produttività del lavoro (che, come già detto, determina sempre una diminuzione del valore del capitale già esistente) può determinare direttamente un aumento dell’incremento ∆C secondo cui cresce il capitale (inteso come grandezza di valore), solo se, causando un aumento del saggio del profitto, aumenta, in valore, la parte del profitto annuo che può essere convertita in nuovo capitale.

Per quanto concerne la produttività del lavoro, questo può accadere (dato che la produttività del lavoro non ha nulla a che vedere direttamente con il valore dell’insieme del prodotto annuo) solo se l’aumento della produttività del lavoro determina o un aumento del plusvalore relativo o una diminuzione del capitale costante (in valore), quindi solo se determina o una diminuzione del valore delle merci che entrano nella riproduzione della forza-lavoro oppure una diminuzione del valore delle merci che costituiscono gli elementi del capitale costante. (...)”.

“Ma i due casi considerati determinano anche una diminuzione di valore del capitale esistente, e una riduzione  contemporanea del capitale variabile in rapporto al costante. Quindi ambedue provocano anche una diminuzione del saggio del profitto, mentre d’altro lato ne rallentano la caduta”.

- Gli effetti indiretti

“Indirettamente l’aumento della produttività del lavoro contribuisce ad aumentare l’incremento del capitale (∆ = kPV). Infatti l’aumento della produttività del lavoro accresce la quantità e la varietà dei valori d’uso che corrispondono ad un medesimo valore di scambio e che formano il substrato materiale, gli elementi concreti del capitale, gli oggetti materiali, che costituiscono direttamente il capitale costante e, almeno indirettamente, il capitale variabile. Con lo stesso capitale ed il medesimo lavoro viene creata una maggiore quantità di beni, che possono essere riconvertiti in capitale (astrazion fatta dal valore di scambio che non muta); beni che possono servire ad assorbire lavoro addizionale e per conseguenza a produrre plusvalore addizionale e formare così del capitale addizionale. Infatti la quantità complessiva di lavoro che il capitale può comandare non dipende dalla grandezza di valore del capitale stesso, ma dalla quantità di materie prime ed ausiliarie, del macchinario e degli altri elementi del capitale fisso, dei mezzi di sussistenza di cui esso è composto, qualunque possa esserne il valore.

Da questo deriva un aumento della quantità di lavoro impiegato e di conseguenza del pluslavoro prodotto. Quindi un aumento del valore del nuovo prodotto e del plusvalore in esso contenuto”.

“Inoltre, nella misura in cui l’accrescimento del saggio del profitto provoca un aumento della domanda di lavoro, l’aumento della produttività indirettamente influisce sull’aumento della popolazione operaia, vale a dire della materia sfruttabile, senza la quale il capitale non è capitale”.

- Conclusione

“Ma questi due momenti (aumento del numero di lavoratori impiegati dal capitale e aumento del capitale riprodotto come grandezza di valore) inerenti al processo di accumulazione, non devono essere considerati solo nella loro tranquilla coesistenza (...): essi contengono una contraddizione, che si manifesta in tendenze e fenomeni contrastanti: agiscono nello stesso tempo l’uno contro l’altro.

Contemporaneamente alle tendenze verso un aumento effettivo della popolazione operaia, che provengono dall’aumento della parte del prodotto complessivo sociale che funziona da capitale, agiscono i fattori che creano una sovrappopolazione relativa. Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto, cresce il capitale complessivo (come grandezza di valore) già accumulato e al tempo stesso si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente, che frena la caduta del saggio del profitto e tende ad accelerare l’accumulazione del capitale (come grandezza di valore).

Contemporaneamente all’aumento della produttività del lavoro aumenta anche la composizione organica del capitale: la parte variabile diminuisce rispetto alla parte costante ”.

 

4.2. Gli effetti della circolazione sulla produzione di plusvalore

Contemporaneamente a queste pressioni contrastanti, sulla produzione di plusvalore agiscono anche le pressioni derivanti dalla circolazione.

“La quantità complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta. Qualora questa vendita non abbia luogo, o avvenga solo in parte oppure a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni modo, non si tramuta in un profitto per il capitalista e può dar luogo ad una realizzazione nulla o parziale del plusvalore estorto, ed anche a una perdita parziale o totale del suo capitale. Le condizioni dello sfruttamento immediato del lavoro e quelle della realizzazione del suo prodotto non sono identiche; esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo, ma anche della sostanza.

 Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società.

La capacità di consumo della società, a sua volta, non è determinata né dalla forza produttiva assoluta né dalla capacità di consumo assoluta. Essa è determinata dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica, che limita il consumo della grande massa della società ad un livello che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa è inoltre limitata dall’impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale ed ottenere delle quantità sempre più forti di plusvalore. Si tratta di una necessità per la produzione capitalista, determinata dalle incessanti rivoluzioni nei metodi di produzione, dal deprezzamento continuo del capitale esistente che ne è la conseguenza, dalla concorrenza generale ed infine dalla necessità di perfezionare la produzione ed allargarne le dimensioni, al semplice scopo di conservarla ed evitare la rovina. Il mercato di conseguenza deve essere costantemente ampliato, cosicché i suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre più al loro controllo. La contraddizione interna cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo esterno della produzione. Ma quanto più la forza produttiva del lavoro si sviluppa, tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. E non vi è nulla di inspiegabile nel fatto che su questa base piena di contraddizioni, un eccesso di capitale sia collegato con un eccesso crescente di popolazione; e quantunque il plusvalore di cui complessivamente si approprierebbe l’intero capitale della società risulterebbe aumentato nel caso si assorbisse l’eccesso di popolazione con l’eccesso di capitale, si accentuerebbe con ciò il conflitto fra le condizioni in cui questo plusvalore è prodotto e quelle in cui esso invece è realizzato”.

 

4.3. Crisi periodiche e crisi per sovrapproduzione di capitale

“L’azione di queste influenze contraddittorie si manifesta tanto simultaneamente nello spazio, quanto successivamente nel tempo. Periodicamente il conflitto fra le forze contrastanti erompe in crisi, le quali sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato.

La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalista racchiude una tendenza verso lo sviluppo illimitato delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso valore contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona. Nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del capitale esistente (inteso come grandezza di valore) e la sua massima valorizzazione (vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore). Per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore. Fra i passaggi attraverso i quali persegue questo scopo sono inclusi: la diminuzione del saggio del profitto, il deprezzamento del capitale esistente, lo sviluppo di nuove forze produttive a spese delle forze produttive già esistenti.

Il periodico deprezzamento del capitale esistente è un mezzo immanente del modo di produzione capitalista per arrestare la diminuzione del saggio del profitto ed accelerare l’accumulazione del capitale (inteso come grandezza di valore) mediante la formazione di nuovo capitale. Ma esso turba le condizioni date in cui si compie il processo di circolazione e di riproduzione del capitale, e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione.

La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante che si verifica parallelamente allo sviluppo della forza produttiva del lavoro, stimola l’accrescimento della popolazione operaia mentre crea di continuo una sovrappopolazione. L’accumulazione di capitale, inteso come grandezza di valore, è rallentata dalla diminuzione del saggio del profitto che invece accelera la crescita della produzione di valori d’uso, mentre questa a sua volta accelera l’accumulazione del capitale inteso come grandezza di valore (perché permette l’aumento della popolazione operaia).

 La riproduzione capitalista tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.

Il vero limite che la produzione incontra nell’ambito del modo di produzione capitalista è il capitale stesso. Il limite consiste in questo:

- che il capitale e la sua valorizzazione appaiono come punto di partenza e anche come punto d’arrivo, come causa determinante e anche come scopo della produzione;

- che la produzione è solo produzione per il capitale e i mezzi di produzione non sono, per la società dei produttori, dei semplici mezzi per una continua espansione del processo vitale della loro società.

La valorizzazione del capitale si fonda sull’espropriazione e sull’impoverimento della grande massa dei produttore.(17)

 

(17). L’impoverimento della gran massa dei produttori di cui Marx qui parla, non è la diminuzione dei beni consumati dai produttori né la decadenza delle loro condizioni di vita (per quanto nella società capitalista e ancor più nella fase imperialista, anche nei periodi floridi, vi sia anche questo: vedasi quanto detto sopra al punto 2.4., la condizione dei lavoratori immigrati, degli ambienti marginali, vedasi la condizione delle masse dei paesi del Terzo Mondo che sono parte integrante e complementare del mondo imperialista - cosa che la cultura borghese ammette e sbandiera solo quando rivolgimenti politici nel Terzo Mondo mettono in discussione “interessi nazionali vitali” del mondo imperialista). L’impoverimento della gran massa dei produttori di cui Marx qui parla è la riduzione della quota del valore complessivo del prodotto di un paese che va a costituire reddito delle masse (salari, pensioni, ecc.). Infatti qui Marx non parla delle condizioni di vita e di lavoro dei produttori, ma della realizzazione del valore prodotto o riprodotto, quindi della massa dei produttori in quanto titolare di mezzi di scambio per questa realizzazione. Che questo impoverimento della gran massa dei produttori sia continuato anche nel lungo periodo di accumulazione del capitale e di boom economico che abbiamo vissuto dopo la seconda guerra mondiale è affermato anche dalle statistiche compilate dagli Stati borghesi circa la distribuzione del reddito nazionale tra le varie classi di reddito.

 

La conservazione e la valorizzazione del valore capitale possono attuarsi solo nei limiti che da ciò derivano.

Questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo. Questi perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto - la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalista è quindi un mezzo storico per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti sociali di produzione che corrispondono questo compito”.

“Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto aumenta il minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera del lavoro con profitto, tanto per il suo sfruttamento in generale come anche affinché il tempo di lavori corrisponda al tempo necessario per la produzione delle merci e non oltrepassi la media di lavoro socialmente necessario alla loro produzione.

Nello stesso tempo si accentua la concentrazione del capitale perché, oltre certi limiti, un grande capitale con un basso saggio del profitto accumula più rapidamente di un capitale piccolo con un elevato saggio del profitto. Questa crescente concentrazione provoca a sua volta, non appena ha raggiunto un certo livello, una nuova diminuzione del saggio del profitto.

La massa dei piccoli capitali frantumati viene espulsa dalle attività produttive e viene trascinata sulla via delle avventure: speculazione, imbrogli creditizi e azionari, crisi.

Quando si parla di pletora di capitali ci si riferisce sempre o quasi sempre

- alla pletora di capitali per i quali la caduta del saggio del profitto non è compensata dall’aumento della sua grandezza assoluta - e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata;

- oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di operare per proprio conto, mettono, sotto forma di credito, a  disposizione dei dirigenti delle grandi imprese.

Questa pletora di capitale è determinata dalle medesime circostanze che provocano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altra”.

“Sovrapproduzione di capitale, non sovrapproduzione di merci - quantunque la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci - significa semplicemente sovraccumulazione di capitale. E per comprendere che cosa sia questa sovraccumulazione (la sua analisi più particolare viene fatta in seguito) basta presupporla assoluta. In quali circostanze la sovrapproduzione di capitale si può considerare assoluta, e cioè tale da non estendersi a questo, a quello, o ad alcuni importanti rami della produzione, ma da essere assoluta nella sua estensione stessa e comprendere quindi tutti i rami della produzione? Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale addizionale da impiegarsi nella produzione capitalista fosse uguale a zero (...) Dunque si avrebbe sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale rispetto alla popolazione operaia, che il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione potrebbe essere prolungato, il tempo di pluslavoro relativo potrebbe essere esteso (questa ultima eventualità non sarebbe d’altro lato possibile nel caso in cui la domanda di lavoro fosse così forte da determinare una tendenza al rialzo dei salari). Dunque si avrebbe sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale accresciuto producesse complessivamente un plusvalore soltanto equivalente od anche inferiore a quello prodotto prima del suo accrescimento. Allora il capitale accresciuto C + ∆C non produrrebbe un profitto maggiore o produrrebbe un profitto minore di quello dato dal capitale C prima del suo incremento ∆C.

In ambedue i casi si verificherebbe una diminuzione forte e improvvisa del saggio generale del profitto, causata questa volta dalla modificazione della composizione di capitale, che non proviene dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro, ma da un aumento del valore monetario del capitale variabile (in conseguenza dell’aumento dei salari) e dalla diminuzione corrispondente nel rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario.

Nella realtà le cose si svolgerebbero in modo tale che una parte del capitale resterebbe interamente o parzialmente inattiva (perché per potersi valorizzare essa avrebbe dovuto prima soppiantare il capitale già in funzione), mentre l’altra parte verrebbe valorizzata ad un saggio del profitto ridotto in seguito alla pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo. Non altererebbe per nulla questo stato di cose il fatto che una parte del capitale supplementare si sostituisse ad una parte del capitale già in funzione e viceversa: si avrebbe sempre da un lato un determinato capitale in funzione e dall’altro un determinato capitale supplementare inattivo.

Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto, si verificherebbe questa volta una diminuzione assoluta del profitto complessivo poiché, secondo l’ipotesi fatta, la quantità di forza-lavoro messa in opera e il saggio del plusvalore non potrebbero essere aumentati, cosicché non potrebbe essere aumentato neppure il plusvalore di cui si appropria l’intero capitale della società. E questo profitto diminuito dovrebbe essere riferito ad un capitale complessivo accresciuto.

Ma anche supponendo che il capitale in funzione continui ad essere valorizzato all’antico saggio del profitto, e che il profitto complessivo rimanga dunque inalterato, esso dovrebbe pur sempre essere riferito ad un capitale complessivo accresciuto e ne deriverebbe di conseguenza una caduta del saggio del profitto.

Quando un capitale complessivo di 1000 che produce un profitto di 100 viene accresciuto a 1500, e dopo il suo aumento produce ancora un profitto di 100, nel seconde caso al capitale di 1000 corrisponde solo un profitto di 66.7. La valorizzazione dell’antico capitale sarebbe diminuita in senso assoluto. Un capitale di 1000 non produrrebbe nelle nuove condizioni un profitto maggiore di quello prodotto nelle condizioni di prima da un capitale di 666.7”.

 

4.4. La concorrenza come conseguenza della caduta del saggio del profitto

 “È tuttavia chiaro che questa effettiva diminuzione del valore dell’antico capitale non potrebbe aver luogo senza conflitto e che il capitale supplementare ∆C non potrebbe operare come capitale senza sostenere una lotta. Il saggio del profitto non diminuirebbe quindi a causa della concorrenza derivante dalla sovrapproduzione di capitale: al contrario la concorrenza entrerebbe ora in gioco in quanto caduta del saggio del profitto e sovrapproduzione di capitale provengono dalle stesse cause. La parte di ∆C che si trovasse nelle mani degli antichi capitalisti verrebbe da essi lasciata più o meno inoperosa, al fine di non provocare essi stessi una diminuzione di valore del loro capitale originario o una riduzione della sua attività nel campo di produzione: oppure potrebbe essere messa da essi in opera, anche con una perdita momentanea onde riversare sui nuovi intrusi e in generale sui loro concorrenti, l’inattività dei capitali supplementari.

La parte di ∆C che si trovasse in nuove mani, cercherebbe di conquistarsi il suo posto a spese dell’antico capitale, e vi riuscirebbe parzialmente quando riducesse all’inattività una parte dell’antico capitale, che sarebbe costretto a cedergli il suo posto di capitale attivo e prendere esso il posto di capitale supplementare parzialmente o totalmente inattivo.

In ogni caso, una parte dell’antico capitale dovrebbe essere lasciata inattiva, inoperosa nella sua essenza stessa di capitale, che deve operare come capitale e dare un profitto. Ed è la concorrenza che decide quale aliquota di esso debba in particolare essere condannata all’inoperosità. Fino a che gli affari vanno bene, la concorrenza esercita, come si è visto a proposito della formazione del saggio generale del profitto (libro III, cap. 9 e cap. 10), un’azione di fratellanza sulla classe dei capitalisti che praticamente si ripartisce il bottino comune, in proporzione del rischio assunto da ognuno. Appena non si tratta più di ripartire i profitti ma di suddividere le perdite, ciascuno cerca di ridurre il più possibile la propria parte di perdita, e di riversarla sulle spalle degli altri. La perdita per la classe nell’insieme è inevitabile, ma quanto di essa ciascuno debba sopportare, in quale misura debba assumersene una parte, diventa allora questione di forza e di astuzia, e la concorrenza si trasforma in una lotta tra fratelli nemici. L’antagonismo fra l’interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe dei capitalisti si manifesta allora nello stesso modo come nel periodo di prosperità si era praticamente affermata, per mezzo della concorrenza, l’identità di tali interessi”.

 

4.5. La distruzione di mezzi di produzione e la distruzione di capitale come grandezza di valore

“Come si appianerà questo conflitto e come si ristabiliranno condizioni favorevoli ad un movimento “sano” della produzione capitalista? La soluzione si trova già racchiusa nella semplice esposizione del conflitto che si tratta di appianare. Essa richiede l’inattività e anche una parziale distruzione di capitale, per un ammontare corrispondente al valore di tutto il capitale supplementare ∆C o di una parte di esso. Tale perdita per altro, come già appare dalla semplice enunciazione del conflitto, non colpisce affatto in uguale misura i diversi capitali particolari; la sua ripartizione viene invece decisa in una lotta di concorrenza nella quale la perdita, in relazione ai vantaggi particolari o a posizioni già acquistate, si ripartisce molto inegualmente e con manifestazioni assai diverse, cosicché un capitale viene lasciato inattivo, un secondo distrutto, un terzo subisce solo una perdita relativa o una diminuzione di valore temporanea e così via.

Ma in tutti questi casi, per ristabilire l’equilibrio, si renderebbe necessario lasciare inattiva o anche distruggere una quantità più o meno grande di capitale.

Questo processo si estenderebbe in parte alla sostanza materiale del capitale. Un parte dei mezzi di produzione, del capitale fisso e del capitale circolante, cesserebbe di funzionare, di agire come capitale. Un parte delle imprese produttive già in azione verrebbe lasciata inoperosa. E dato che il tempo intacca tutti i mezzi di produzione (eccettuata la terra) e li deteriora, si verificherebbe, a causa dell’interruzione nel funzionamento del sistema produttivo, un distruzione assai più forte ed effettiva dei mezzi di produzione di quanto avviene normalmente. L’effetto principale, sotto questo punto di vista, sarebbe tuttavia che questi mezzi di produzione cesserebbero di funzionare come tali; si avrebbe una distruzione più o meno lunga della loro funzioni di mezzi di produzione.

 La distruzione di capitale come grandezza di valore avrebbe però carattere ancora più grave e dimensioni maggiori.

1. La parte del valore-capitale che rappresenta semplicemente dei buoni su un’aliquota del plusvalore futuro, ossia del profitto, in realtà semplici obbligazioni sulla produzione sotto forme diverse, i vari titoli di credito, si trova subito deprezzata in seguito alla caduta dei redditi, in base ai quali essa è calcolata.

2. Una parte di oro e di argento monetato rimane inattiva, non opera più come capitale.

3. Una parte delle merci a disposizione si mercato può completare il suo processo di circolazione e di riproduzione solo mediante una enorme contrazione del suo prezzo quindi mediante deprezzamento del capitale che essa rappresenta.

4. Allo stesso modo gli elementi del capitale fisso risultano più o meno deprezzati.

5. A questo si aggiunge che il processo di riproduzione dipende da determinate, presupposte condizioni di prezzo e quindi verrà a trovarsi in una situazione di ristagno e di disorganizzazione a causa della diminuzione generale dei prezzi. Tale ristagno e tale disorganizzazione paralizzano la funzione del denaro come mezzo di pagamento - funzione che si è venuta determinando contemporaneamente allo sviluppo stesso del capitale e che dipende da quelle condizioni di prezzo presupposte. Tale ristagno e tale disorganizzazione spezzano in cento punti la catena dei pagamenti che scadono a date fisse, vengono ulteriormente aggravati dall’inevitabile collasso del sistema creditizio sviluppatosi contemporaneamente al capitale, e portano a delle crisi burrascose e gravi, a deprezzamenti improvvisi e violenti, ad una effettiva paralisi e perturbazione del processo di riproduzione e di conseguenza ad una reale contrazione della riproduzione.

Ma altri fattori avrebbero nel frattempo fatto sentire la loro influenza

1. Il ristagno della produzione avrebbe reso disoccupata una parte della classe operaia ed avrebbe in conseguenza costretto la parte occupata ad accettare una riduzione di salario anche al di sotto del valore della forza-lavoro: operazione che avrebbe rispetto al capitale lo stesso identico effetto di un aumento di plusvalore assoluto o relativo, con un valore della forza-lavoro rimasto invariato. Il periodo di prosperità avrebbe favorito i matrimoni fra gli operai e diminuito la mortalità infantile, circostanze queste che, quantunque possano provocare un aumento reale della popolazione, non determinano per se stesse un aumento effettivo della popolazione operaia e pur tuttavia esercitano nei rapporti fra capitale e lavoro un effetto analogo a quello che si verificherebbe in seguito ad un aumento di numero degli operai effettivamente in funzione.

2. La diminuzione dei prezzi e la lotta di concorrenza avrebbero d’altro lato incoraggiato ogni capitalista a ridurre - mediante l’impiego di nuove macchine, di nuovi metodi perfezionati di lavoro, di nuove combinazioni - il valore individuale del suo prodotto complessivo al di sotto del valore sociale, ossia lo avrebbero incoraggiato ad accrescere la forza produttiva di una determinata quantità di lavoro, a diminuire la proporzione del capitale variabile rispetto al costante, ed in conseguenza a licenziare degli operai; in breve, a creare una sovrappopolazione.

3. Inoltre, il deprezzamento degli elementi del capitale costante costituirebbe esso stesso un fattore che provocherebbe un aumento del saggio del profitto. Il capitale costante (inteso come mezzi di produzione e materie prime) impiegato sarebbe accresciuto rispetto alla quantità di forza-lavoro, ma il valore del capitale costante potrebbe essere diminuito. Il rallentamento sopravvenuto nella produzione avrebbe preparato - entro i limiti capitalistici - un ulteriore aumento della produzione.

E così il circolo tornerebbe a riprodursi. Una parte del capitale, il cui valore era diminuito in seguito all’arresto della sua funzione, riguadagnerebbe il suo antico valore. Ed a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata”.

“Anche nell’ipotesi spinta all’estremo che abbiamo fatto prima, la sovrapproduzione assoluta di capitale, non è una sovrapproduzione assoluta in generale, una sovrapproduzione assoluta di mezzi di produzione. Essa è solo sovrapproduzione di mezzi di produzione in quanto questi operano come capitale e devono, perciò, in proporzione al  valore accresciuto che deriva dall’aumento della loro quantità, valorizzare questo valore, creare un valore supplementare. E tuttavia si tratterebbe sempre di sovrapproduzione, perché il capitale sarebbe incapace di utilizzare il lavoro a quel grado di sfruttamento che è richiesto dallo sviluppo “sano”, “normale” del processo capitalista di produzione, a quel grado di sfruttamento che se non altro accresce, parallelamente alla crescita del valore del capitale impiegato, la grandezza assoluta del profitto e non consente che il saggio del profitto diminuisca nella stessa misura in cui il capitale cresce, o che la diminuzione del saggio del profitto sia più rapida dell’aumento di capitale.

Sovrapproduzione di capitale non è altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione - mezzi di lavoro e di sussistenza - che possono operare come capitale, ossia essere impiegati nello “sfruttamento degli operai ad un grado determinato”, poiché la diminuzione del grado di sfruttamento al disotto di un livello determinato provoca delle perturbazioni e delle paralisi nel processo capitalista di produzione, crisi, distruzione di capitale.

Non esiste nessuna contraddizione nel fatto che questa sovrapproduzione di capitale sia accompagnata da una sovrappopolazione relativa più o meno grande. Poiché le medesime circostanze che hanno accresciuto la forza produttiva del lavoro, ampliato i mercati, accelerato l’accumulazione di capitale come condizioni della produzione e come valore, e diminuito il saggio del profitto, hanno creato una sovrappopolazione relativa e creano continuamente una sovrappopolazione di operai che non possono venire assorbiti dal capitale in eccesso, perché il grado di sfruttamento del lavoro che solo consentirebbe il loro impiego, non è abbastanza elevato, o almeno perché il saggio del profitto che essi produrrebbero a questo determinato grado di sfruttamento è troppo basso.

Quando il capitale è inviato all’estero, questo non avviene perché sia assolutamente impossibile impiegarlo nel paese, ma perché all’estero esso può venire utilizzato ad un saggio di profitto più elevato. Ma questo capitale è effettivamente superfluo riguardo alla popolazione operaia occupata e a quel determinato paese in generale: come tale esso sussiste accanto ad un relativo eccesso di popolazione e fornisce un esempio di come questi due fenomeni coesistano e siano interdipendenti fra loro”.

 

4.6. Ancora sulla concorrenza come conseguenza della caduta del saggio del profitto

“D’altro lato la caduta del saggio del profitto, provocata dall’accumulazione, genera necessariamente la concorrenza. Soltanto il capitale complessivo sociale ed i grandi capitalisti già saldamente installati trovano una compensazione alla caduta del saggio del profitto nell’aumento del profitto come grandezza assoluta. Il nuovo capitale addizionale che funziona per proprio conto non trova tale compensazione, deve cominciare a conquistarsela lottando. È dunque la caduta del saggio del profitto che genera la concorrenza fra i capitali e non, inversamente, la concorrenza che genera la caduta del saggio del profitto. Tale concorrenza è sempre accompagnata da un aumento temporaneo del salario, e quindi da un’ulteriore caduta temporanea del saggio del profitto. Essa si manifesta anche nella sovrapproduzione dei prodotti, nella saturazione dei mercati. Poiché il capitale non ha come fine la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto, e poiché può realizzare questo fine solo usando dei metodi che regolano la quantità dei prodotti secondo la scala della produzione e non inversamente, si deve necessariamente venire a creare un conflitto continuo fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche e una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato. Inoltre il capitale si compone di merci e quindi la sovrapproduzione del capitale comporta una sovrapproduzione di merci. Da qui deriva il bizzarro fenomeno che quegli stessi economisti, che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci, l’ammettono invece per il capitale”.

 

4.7. Le obiezioni alla tesi della sovrapproduzione assoluta di capitale

“Quando si afferma che non si tratta di una sovrapproduzione generale, ma di una mancanza di proporzione fra i diversi rami di produzione, si dimentica semplicemente che la mancanza di proporzione è un aspetto permanente della  produzione capitalista. Infatti nella produzione capitalista la proporzionalità tra i diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione: poiché nella produzione capitalista il nesso interno della produzione complessiva si impone agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge che, compresa e dominata dal loro intelletto associato, sottometta il processo di produzione al loro comune controllo.

Con quella affermazione si pretende inoltre che quei paesi in cui il modo di produzione capitalista non è sviluppato, consumino e producano nella misura che si addice ai paesi aventi una produzione capitalista.

Quando si afferma che la sovrapproduzione è solamente relativa, questo è perfettamente esatto; ma tutto il modo di produzione capitalista è solo un modo di produzione relativo, i cui limiti non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso. Come sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli operai del proprio paese solo la media dei mezzi di sussistenza necessari? Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalista, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale.

Infine, quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e consumare essi stessi i loro prodotti, si perde completamente di vista la natura della produzione capitalista e si dimentica che il suo scopo è la valorizzazione del capitale e non il consumo.

In breve, tutte le obiezioni che vengono mosse contro i fenomeni tangibili della sovrapproduzione (fenomeni che per altro si verificano indipendentemente da queste obiezioni), si riducono in ultima analisi all’affermazione che, siccome i limiti della produzione capitalista non sono limiti inerenti alla produzione in generale, in conseguenza non sono neanche limiti dello specifico modo di produzione capitalista. Ma la contraddizione esistente nel modo di produzione capitalista, consiste proprio nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e solo entro le quali può muoversi.

Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario se ne producono troppo pochi per soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione.

Non vengono prodotti troppi mezzi di produzione, in relazione a quelli necessari per poter occupare la parte di popolazione capace di lavorare. Al contrario.

1. Si crea innanzitutto una parte troppo grande di popolazione che effettivamente non è atta al lavoro, ed è costretta dalle sue particolari condizioni a sfruttare il lavoro altrui o ad eseguire dei lavori che possono essere considerati tali solo in un modo di produzione assolutamente miserabile.(18)

2. In secondo luogo non si producono sufficienti mezzi di produzione, perché tutta quanta la popolazione capace di lavorare possa farlo nelle circostanze più produttive, in modo che il suo tempo di lavoro assoluto venga ridotto dalla quantità e dall’efficienza dei mezzi di produzione impiegati durante il tempo di lavoro.(19)

 

(18). Questo fatto è in crescita nelle società imperialiste. Anche nelle più ricche di esse, dagli USA al Giappone, le persone in qualche modo mantenute cronicamente dalle elargizioni della “sicurezza sociale”, della “pubblica assistenza” e delle “opere pie”, le persone che campano svolgendo mestieri di ripiego che si svolgono silenziosamente e furtivamente nelle pieghe della società, le persone senza capacità lavorativa alcuna e senza attitudine ad alcun lavoro, le persone la cui sopravvivenza è indissolubilmente dipendente da una “situazione particolare” e che non hanno alcun mercato su cui vendere alcuna capacità lavorativa, sono venute nel loro insieme a costituire una frazione importante della popolazione che vive in condizioni di emarginazione economica dal mercato, di arretratezza culturale e di dipendenza politica.

 

(19). Basti pensare ai mezzi di produzione primitivi ancora usati, anche nei paesi imperialisti tecnologicamente più progrediti, da una gran quantità di lavoratori autonomi, di dipendenti da piccole imprese, di improvvisati lavoratori del “fai da te”. Questi lavoratori in generale combinano il carattere primitivo degli utensili impiegati con la nocività del materiale di lavoro reperibile sul mercato, creando  un risultato peggiore di quello che subivano i loro antenati. La situazione è ancora peggiore nei paesi del Terzo Mondo.

Quanto ai paesi socialisti, è nota la stagnazione del progresso tecnologico instaurata nel lungo periodo in cui questi paesi sono stati diretti dai revisionisti moderni. Questa stagnazione caratterizza l’azione condotta dai revisionisti moderni contro la transizione dal capitalismo al comunismo, così come la caratterizzarono

- l’abbandono del movimento per la riduzione della durata della giornata lavorativa (si ricordi che, all’opposto, in Unione Sovietica nel periodo 1929-1940, nonostante le difficoltà del periodo la giornata lavorativa era stata ridotta a 7 ore, con una misura allora unica in tutto il mondo),

- l’abbandono del movimento per la riduzione della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e impiegatizio (si pensi ai milioni di “colletti bianchi”: funzionari, impiegati e intellettuali vari costituitisi nei paesi socialisti negli ultimi quarant’anni come corpo separato dai lavoratori manuali a loro volta sempre più ricondotti al ruolo di pura manodopera esecutrice di ordini che è proprio degli operai nei paesi capitalisti).

 

Ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza, perché possano essere impiegati come mezzo di sfruttamento degli operai a un determinato saggio di profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore e il plusvalore che esse contengono possano essere riconvertiti in nuovo capitale nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalista, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni.

Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitaliste, che hanno un carattere antitetico”.

“Il processo di produzione capitalista consiste essenzialmente nella produzione del plusvalore, rappresentato dal plusprodotto ossia dalla parte aliquota delle merci prodotte nelle quali è oggettivato un lavoro non pagato. Non si deve mai dimenticare che la produzione di questo plusvalore - e la riconversione di una parte di esso in capitale o accumulazione forma une parte integrante di questa produzione di plusvalore - costituisce lo scopo immediato ed il motivo determinante della produzione capitalista. Non si deve dunque mai rappresentare quest’ultima per ciò che non è, vale a dire come produzione avente come scopo immediato il godimento o la produzione di mezzi di godimento per il capitalista. Con ciò si astrae completamente proprio dal suo specifico carattere”.

 

4.8. Conclusioni

“Il limite del modo di produzione capitalista si manifesta nei fatti seguenti:

1. L’aumento della produttività del lavoro, determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge (la caduta del saggio del profitto) che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente all’ulteriore aumento delle produttività del lavoro e che deve quindi essere superata per mezzo di crisi.

2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni complessivi della società, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalista, in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto. Essa incontra quindi dei limiti quando lo sviluppo della produzione è giunto ad un certo grado che sembrerebbe viceversa inadeguato sotto l’altro punto di vista. Si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto. Quando il saggio del profitto diminuisce,

1. da un lato il capitale raddoppia i suoi sforzi, ed ogni singolo capitalista, impiegando metodi migliori, ecc., cerca di ridurre il valore individuale della sua merce particolare al di sotto del suo valore medio sociale, realizzando così, a dato prezzo di mercato, un sovrapprofitto;

2. d’altro lato, si verifica una spinta alla speculazione ed un generale incoraggiamento alla speculazione che si esprime in appassionati tentativi di nuovi metodi di produzione, di nuovi investimenti di capitali, nuove avventure, al fine di assicurare in qualsiasi modo un extraprofitto, indipendente dal profitto medio generale e ad esso superiore”.

 “L’aumento del numero assoluto degli operai, malgrado la diminuzione relativa del capitale variabile speso in salari, non si verifica in tutti i rami della produzione, né si manifesta con la medesima intensità. Nell’agricoltura la diminuzione degli elementi del lavoro vivo può essere assoluta. D’altro lato però è unicamente nel modo di produzione capitalista che si riscontra questo bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati, nonostante la loro diminuzione relativa.

In tale sistema le forze-lavoro sono già in eccesso dal momento in cui non sia più necessario occuparle dalle 12 alle 15 ore al giorno. Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione.

Si manifesta qui nuovamente il limite specifico contro cui urta la produzione capitalista e si dimostra chiaramente come essa non solo non rappresenti la forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive e della produzione della ricchezza, ma debba necessariamente, ad un certo punto, trovarsi in conflitto con questo sviluppo. Tale conflitto si palesa in parte in crisi periodiche, che provengono dal fatto che ora una parte, ora l’altra della popolazione operaia è resa superflua nel suo vecchio modo di occupazione. La produzione capitalista incontra un limite nel tempo superfluo degli operai. L’eccedenza di tempo che la società guadagna non le importa. Lo sviluppo della produttività del lavoro la interessa unicamente in quanto accresce il tempo di pluslavoro della classe operaia e non in quanto diminuisce in generale il tempo di lavoro per la produzione materiale; si muove quindi in un contrasto”.

“L’accumulazione implica una concentrazione crescente del capitale (la costituzione di frazioni di capitale sempre più grandi). Aumenta in tal modo la potenza del capitale, si accentua la personificazione nel capitalista delle condizioni sociali di produzione nei confronti del produttore reale. Il capitale si manifesta sempre più come potenza sociale, di cui il capitalista è agente, che ha oramai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo. Ma come una potenza sociale estranea, indipendente, che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale. La contraddizione fra questa potenza sociale generale alla quale si eleva il capitale e il potere individuale del capitalista sulle condizioni sociali della produzione, si va facendo sempre più stridente e deve portare alla dissoluzione di questo rapporto ed alla trasformazione delle condizioni di produzione in condizioni di produzione sociali, comuni, generali. Questa trasformazione è il risultato dello sviluppo delle forze produttive nel modo di produzione capitalista e della maniera in cui questo sviluppo si compie”.

 

4.9. Il carattere transitorio del modo di produzione capitalista

“Il saggio di profitto, ossia l’incremento del capitale in proporzione alla sua grandezza, è particolarmente importante per tutti i capitali di nuova formazione che s raggruppano indipendentemente. Noi appena la formazione di capitale diventasse monopolio di pochi grandi capitalisti già affermatisi, che trovassero, nella grandezza assoluta del profitto di cui si appropriano, un compenso alla diminuzione del saggio del profitto, si spegnerebbe il fuoco vivificatore della produzione e questa cadrebbe in letargo. Il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalista: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. Da qui l’angoscia degli economisti inglesi di fronte alla diminuzione del saggio del profitto. Il fatto che la sola possibilità allarma Ricardo, dimostra la sua profonda conoscenza delle condizioni della produzioni capitalista. Quello che è più significativo in lui è proprio quanto gli viene rimproverato, ossia di non dare alcuna importanza nel suo studio della produzione capitalista “agli uomini”, per attenersi esclusivamente allo sviluppo delle forze produttive, per quanto grandi siano i sacrifici in uomini e in capitale (inteso come grandezza di valore) che esso comporta. Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale costituisce la missione storica e la ragione d’essere del capitale: è appunto mediante tale sviluppo che inconsapevolmente esso crea le condizioni materiali di una forma più elevata di produzione. Quello  che inquieta Ricardo è che il saggio del profitto, forza motrice della produzione capitalista, condizione e stimolo al tempo stesso dell’accumulazione, sia compromesso dallo sviluppo stesso della produzione. Ed il rapporto quantitativo è tutto qui. Ma vi è in realtà alla base de problema qualche cosa di più profondo che egli appena sospetta. Viene qui dimostrata in termini puramente economici, cioè dal punto di vista borghese, entro i limiti della produzione capitalista stessa, che quest’ultima è limitata e relativa: che essa non costituisce un modo di produzione assoluto ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione”.

“Le tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalista sono:

1. La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, che cessano perciò di comparire come proprietà dei lavoratori diretti e si trasformano in potenze sociali della produzione, anche se in un primo tempo nella forma di proprietà privata dei capitalisti. Questi ultimi sono dei mandatari della società borghese, ma intascano tutti gli utili di tale mandato.

2. L’organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l’unione del lavoro con le scienze naturali.

In seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione ed all’organizzazione sociale del lavoro, il modo di produzione capitalista sopprime, sia pure in forme contrastanti, sia la proprietà individuale sia il lavoro privato.

3. La creazione del mercato mondiale.

L’enorme forza produttiva in relazione alla popolazione, quale si sviluppa in seno al modo di produzione capitalista e l’aumento parallelo, quantunque non nella stessa misura, del capitale (inteso come grandezza di valore, quindi non solamente dei suoi elementi materiali), che si accresce molto più rapidamente della popolazione, si trovano in contrasto sia con la base per cui lavora questa enorme forza produttiva che, relativamente all’accrescimento della ricchezza, diventa sempre più angusta, sia con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente. Da questo contrasto hanno origine le crisi”.

 

 

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