Analizzare i conflitti

Rapporti Sociali n. 9/10, settembre 1991  (versione Open Office / versione MSWord )

 

Contributo di un gruppo di lettori di Rapporti Sociali

 

 

Premessa

 

Gli obiettivi di questo documento sono:

- esporre sinteticamente e in forma divulgativa i criteri metodologici che contraddistinguono il materialismo storico e che fondano il suo carattere scientifico. Questi criteri possono essere applicati nell’indagine non solo delle guerre, ma di qualsiasi altra realtà, sia essa naturale o sociale.

- Illustrare sinteticamente alcuni caratteri fondamentali del modo di produzione oggi assolutamente dominante in tutto il mondo, il capitalismo, giunto nella sua fase imperialista, mostrando attraverso ciò quali possibilità di guerra sono intrinseche allo stesso capitalismo imperialista, ossia sono contenute oggettivamente nella sua natura.

È invece estraneo a questo documento (anche se esso nell’auspicio dell’autore vorrebbe esserne premessa e strumento) l’intento di analizzare un conflitto concreto.

 

Apparenza ed essenza

 

La guerra è un oggetto di indagine che si presenta come una totalità complessa, fatta di molti aspetti e rapporti particolari, come una massa apparentemente caotica di fenomeni particolari.

La scienza non si limita a “descrivere” i fenomeni, ma vuole “capirli”.

La differenza tra descrivere e capire risulta chiara quando apriamo un giornale: vi leggiamo una sequenza di “fatti”. A stento dopo qualche giorno ci ricordiamo ciò che abbiamo letto. Ciò che è privo di un contesto a cui connettersi non resta impresso nella memoria, perché non possiamo capirlo.

“Capire” significa dunque spiegare i vari fenomeni nella loro connessione (storica e sociale, nel nostro caso), comprendendoli nel contesto in cui sono inseriti, e mettendone in luce le linee di sviluppo, cioè il loro movimento.

Per fare ciò è necessario andare oltre le apparenze immediate dei fenomeni, perché queste rivelano sì l’essenza delle cose, ma non sono l’essenza, quindi “ingannano”. Prendiamo un esempio semplice tratto dalle scienze naturali: per migliaia di anni gli uomini hanno creduto che il sole girasse attorno alla terra. Questa era (ed è) l’apparenza sensibile, e questa veniva presa per “verità” indiscutibile. Oggi noi sappiamo che la terra ruota intorno al sole ed anche intorno a sé stessa, e ciò genera il fenomeno del giorno e della notte e l’apparente moto del sole attorno alla terra. La scienza ha scoperto l’esistenza di uno stato di cose che agisce in modo non immediatamente e direttamente visibile dietro i fenomeni apparenti e che è la vera causa di quei fenomeni, la loro “essenza”.

Essenza e apparenza dei fenomeni spesso non coincidono: se coincidessero, non ci sarebbe alcun bisogno della scienza, non sarebbe necessario spiegare, ma solo descrivere. È così, per fare un altro esempio, che il volo di un aereo – oggetto più pesante dell’aria – sembra contraddire la legge di gravità, mentre al contrario quest’ultima mantiene la sua validità ed il volo dell’aereo è spiegabile col concorso di altre circostanze, che interferiscono con la legge di gravità (“si mediano” con essa), producendo un effetto che la nasconde ad una osservazione superficiale.

Ciò che si è detto per l’analisi dei fenomeni naturali vale anche per l’indagine dei fenomeni sociali. La sola differenza consiste nel fatto che quest’ultimi non si ripetono con la regolarità che contraddistingue i primi, si presentano come di pendenti dalla volontà dell’uomo che è una componente di essi e non sono riproducibili in laboratorio. Si tratta di fenomeni più complessi, che variano nello spazio e nel tempo, che sono cioè storicamente determinati.

Anche nel caso dei fenomeni sociali l’analisi scientifica richiede che si proceda oltre le apparenze immediatamente percepibili. Per fare un esempio, l’osservazione di un uomo che zappa la terra non può soddisfare la nostra curiosità di saperne esaurientemente sul suo conto: l’osservazione superficiale ci informa sul processo lavorativo immediato (il contenuto: cioè l’atto di zappare la terra), ma nulla ci dice sul rapporto sociale di produzione (cioè la forma) entro cui l’uomo in questione esercita la sua attività. Dovremo pertanto spingere la nostra indagine fino a comprendere aspetti che non sono visibili, ma non per questo sono meno reali della zappa che tiene in mano: dovremo cioè capire se si tratta di un coltivatore diretto, di un mezzadro, di un fittavolo, di un bracciante o altro... Soltanto allora avremo appreso quanto di essenziale ci può interessare sul ruolo di quell’uomo nella società.

 

Astratto e concreto

 

Il metodo scientifico che il materialismo applica allo studio dei fenomeni sociali, e quindi anche ai conflitti, procede dall’astratto al concreto.

Bisogna capire bene che cosa si intende per astratto e per concreto, poiché qui si dà a queste parole un significato diverso da quello corrente, di tutti i giorni.

Ogni fenomeno oggettivo, compresi i fenomeni sociali, rivela innumerevoli aspetti, caratteristiche, rapporti connessi tra di loro ed agenti gli uni sugli altri.

Questa unità di molteplici lati e proprietà (determinazioni), avente una esistenza oggettiva, cioè indipendente dalla nostra comprensione, è ciò che il materialismo chiama il concreto sensibile.

Il nostro pensiero ha la capacità di analizzare il concreto sensibile, cioè di individuare le diverse determinazioni di un oggetto, astrarle (cioè isolarle) dalle altre con cui nell’oggetto sono unite, prescindendo dai rapporti che nella realtà esse hanno con altro.

Ciascuna determinazione, considerata in sé, nella sua unilateralità, costituisce un aspetto “astratto”, uno dei molti lati di una unità più complessa. È un aspetto astratto, ma sempre oggettivo, cioè dato nella realtà.

Ogni oggetto presenta innumerevoli aspetti, per cui l’astrazione può continuare all’infinito. Ogni concreto sensibile è infinitamente divisibile.

Il nostro pensiero ha anche la capacità di sintetizzare, cioè, una volta individuati i rapporti che le varie determinazioni di un oggetto hanno tra loro, di ricomporle nella loro unità, costruendo nella nostra coscienza quello che Marx chiama un “concreto di pensiero”.

Che relazione c’è tra i concreti di pensiero, soggettivi e i concreti sensibili, oggettivi?

I primi si approssimano ai secondi senza però mai coincidere con essi; ne costituiscono un riflesso mediato, un’immagine scientifica.

La relazione tra il concreto sensibile e il concreto di pensiero può essere paragonata a quella che intercorre tra un territorio e una sua fotografia scattata dall’aereo, o una sua rappresentazione cartografica. La foto e la carta geografica non sono il territorio, ma una sua rappresentazione. Inoltre esse ne indicano solo alcuni tratti, trascurandone altri. La rappresentazione può “avvicinarsi infinitamente” all’oggetto rappresentato, ma non coincide mai con esso. La conoscenza è infinita, ogni oggetto è infinitamente conoscibile.

 

Contraddizioni e linee di tendenza

 

 Ogni oggetto reale, come è in rapporto con altri, così è in continua trasformazione, movimento. La sua immagine immobile è anch’essa un’astrazione. Il concreto di pensiero si approssima un po’ più al concreto sensibile se include anche il suo movimento.

Ogni oggetto reale si trasforma a causa delle contraddizioni tra gli elementi che lo compongono e delle contraddizioni con gli altri oggetti che assieme ad esso sono gli elementi costitutivi di un oggetto superiore.

Se vogliamo studiare una certa realtà nel suo divenire, nel suo movimento, dobbiamo analizzarne le cause, le forze intrinseche di sviluppo (le contraddizioni) e la direzione.

Potremo così mettere in luce la legge di tendenza che esprime lo sviluppo della realtà che stiamo esaminando. Arriveremo alla legge riproducendo nel pensiero l’azione che le contraddizioni svolgono nell’oggetto in esame.

L’analisi di questo processo nei suoi diversi stadi di sviluppo rappresenta un modello dinamico che ci permetterà di spingere lo sguardo oltre il presente, per cogliere la forma divenuta dell’oggetto del nostro studio. La previsione teorica sarà, inoltre, per noi una preziosa guida per l’azione.

Così come il modello teorico, anche la legge di tendenza riflette nel pensiero la realtà oggettiva solo nei suoi tratti essenziali, generali, necessari. Sappiamo che il fenomeno (la realtà oggettiva) è sempre più “ricco” della legge, in quanto è determinato, oltre che dalla contraddizione principale, anche da altre contraddizioni particolari, più o meno accidentali e secondarie. Dobbiamo prima spogliarlo di queste contraddizioni particolari se vogliamo capirne l’essenza e la tendenza e non soltanto descriverlo così come si manifesta.

Oggi viviamo in un’epoca di grandi trasformazioni planetarie, segnata da nuovi e spesso violenti conflitti: crollo dei regimi dell’Est, guerra del Golfo... Questi sono fatti. Di quale processo fanno parte, di quale processo costituiscono degli anelli? Queste sono le domande che deve porsi chi vuole capire cosa sta succedendo e quindi chi vuole svolgere un ruolo di avanguardia.

I meccanicisti e i deterministi sostengono che data una cosa, essa può trasformarsi solo in un’altra, e si trasforma necessariamente e fatalmente in quest’altra.

Al contrario, i materialisti dialettici sostengono:

- che ogni realtà è contraddittoria e si trasforma grazie alle contraddizioni che la animano e che la lacerano: “l’uno si divide in due”;

- che queste contraddizioni definiscono alcune linee di tendenza, pongono cioè alcune trasformazioni come possibili, mentre ne escludono altre (un uovo può trasformarsi solo in un alimento, in un pulcino o in un grumo di materia in putrefazione; non può trasformarsi in una palla da biliardo, quali che siano i desideri e gli sforzi soggettivi in questo senso);

- che il prodursi effettivo di una, piuttosto che di un’altra, fra le trasformazioni possibili, il quando e il come una trasformazione si effettua, è il risultato delle “mediazioni” fra la natura della cosa (le sue contraddizioni) e le circostanze esterne.

Perciò i materialisti dialettici di fronte ad ogni avvenimento:

- anzitutto cercano che cosa ha reso possibile il suo prodursi;

- in secondo luogo, e solo alla luce del primo risultato, ricostruiscono quali circostanze lo hanno fatto effettivamente venire alla luce e crescere;

- a questo punto ricercano quali sviluppi di esso sono possibili, di quali eventi esso è gravido;

- e infine, e solo alla luce del risultato precedente, definiscono quali attività svolgere affinché si produca, tra tutti gli eventi possibili, quello che essi vogliono.

Ogni attività di individuo o di gruppo tesa a far avvenire un evento la cui possibilità non sia già potenzialmente nella realtà di oggi, è un agitarsi a vuoto e uno spreco di energia.

 I materialisti dialettici riconoscono, così, sia l’importanza determinante delle cause accidentali, dell’azione cosciente degli uomini e dei gruppi, sia i limiti entro i quali azione cosciente e volontà possono influire sui processi in corso.

 

Teoria e pratica

 

Oggi più che mai vanno di moda gli empiristi, è il loro momento di gloria. Ogni fatto è chiaro in sé, è immediatamente comprensibile. Scienza e teoria sono inutili. Se una cosa funziona, può funzionare; se non funziona, non può funzionare. Tutto pare semplice.

“Ricercare la verità nei fatti”: questo principio venne enunciato dai materialisti contro quanti sostenevano verità “rivelate”, verità ultraterrene, metafisiche ed extraterrestri, teologiche, misteriose e spirituali, non verificabili; contro quanti descrivevano un mondo che gli uomini non potevano né verificare né modificare: dovevano solo accettarlo e subirlo.

I materialisti sostennero che il mondo era fatto nel modo che gli uomini andavano via via scoprendo mettendo assieme le loro esperienze, riflettendo su di esse, connettendo l’uno all’altro in rapporti di causa-effetto i vari elementi dell’esperienza, ricostruendo nel loro pensiero la natura di ogni cosa in base alle sue varie manifestazioni, verificando nella pratica se si producevano effettivamente le manifestazioni conseguenti alla natura dei fenomeni quale era stata ricostruita nel pensiero: in una parola, facendo il bilancio dell’esperienza. La pratica, nel campo delle scienze naturali, significa soprattutto esperienza di laboratorio; nelle scienze sociali significa partecipazione all’attività produttiva e alla lotta politica.

In ogni caso, lo scopo è quello di conoscere per agire con successo. Si agisce secondo dei piani e dei metodi che sembrano adeguati al raggiungimento degli scopi che ci si è prefissi. L’esperienza pratica ci dice che è giusto ciò che riesce, che dà i risultati previsti; sbagliato ciò che fallisce. Si tratta dunque di imparare dalle esperienze (altrui e proprie), provando e riprovando, cioè passando più volte dalla pratica alla conoscenza e poi ancora da una conoscenza superiore a una nuova pratica, ogni volta individuando ed eliminando gli errori.

Gli uomini ricevono la conferma della verità della loro conoscenza solo dopo che nel corso del processo della pratica sociale (dall’attività produttiva alla sperimentazione scientifica, ai conflitti sociali e politici) hanno raggiunto i risultati previsti. Se l’uomo vuole riuscire in un’attività, cioè arrivare ai risultati previsti, deve conformare le sue idee alle leggi del mondo oggettivo esterno; in caso contrario, nella pratica, fallirà. Se fallisce, ne trarrà insegnamento, correggerà le sue idee e le conformerà alle leggi del mondo esterno, trasformando così l’insuccesso in successo; è questo il significato delle massime: “la sconfitta è madre del successo” e “sbagliando s’impara”.

Non vi sono altri mezzi per provare la verità, cioè per verificare la giustezza di una teoria: “per conoscere una mela bisogna mangiarla”.

Concludendo e riassumendo: chi vuole comprendere, deve elaborare le esperienze derivandone una teoria e quindi verificare la teoria in nuove esperienze: pratica-teoria-pratica.

 

Contro l’empirismo

 

“Ricercare la verità nei fatti” implica che il fatto non è ancora la verità. Per i nostri empiristi invece il fatto è già chiaro in sé. Ciò che è, è! Chi ha avuto successo doveva vincere! Chi comanda ha ragione! Ogni fenomeno è e basta. La teoria è ridotta alla constatazione di un dato, dell’ultimo dato.

In ogni campo che abbia un minimo di complessità, si possono trovare dati a conferma di tesi contrastanti e incompatibili. Quindi gli imbonitori di turno sono, nel loro mestiere, del tutto liberi dai vincoli della dura realtà e i loro discorsi sono semplici e brillanti, irresistibili e pieni di “sano buon senso”.

 Che il dirigibile che si alza verso il cielo e il sasso che cade a valle – due fatti contrastanti – siano entrambi espressioni e manifestazioni della gravitazione universale, non turba il sonno degli empiristi, ma offusca tutta la loro comprensione della realtà.

Che la spinta data ad una persona per farla cadere in un precipizio e una spinta data a una persona per salvarla da un masso che le cade addosso siano due atti del tutto simili, ma dai risultati opposti, può anche non turbare il sonno degli empiristi, ma denota però l’inconsistenza della loro concezione.

Nessun fatto esiste isolato da ciò che lo ha generato, dalle “mediazioni” di cui è il risultato e dagli effetti che genererà. Gli empiristi compiono l’operazione del tutto arbitraria di isolarlo dal tutto. L’isolamento del fatto, l’estrapolazione di un fatto dalla catena genetica nella quale si produce: questa è l’operazione arbitraria e soggettiva degli empiristi. Il loro apparente rispetto per l’esperienza è in realtà manipolazione arbitraria e interessata dell’esperienza.

Anche i materialisti dialettici elaborano, manipolano l’esperienza. Non c’è scienza senza di ciò. Nel senso che per costruire una scienza occorre sia l’esperienza che l’elaborazione dell’esperienza.

Molte persone hanno una ricca esperienza, ogni uomo ha un’esperienza multiforme: è un aspetto necessario della vita.

Ma la maggior parte degli uomini, in ogni società divisa in classi, mancano delle condizioni e degli strumenti per elaborare la loro esperienza, per farne il bilancio, per ricavarne una scienza della realtà e una guida per l’azione.

Milioni di uomini videro mele cadere dall’albero, senza derivare da ciò la teoria dell’attrazione dei gravi.

I materialisti dialettici elaborano e manipolano l’esperienza secondo le leggi della realtà stessa, connettendo un fenomeno all’altro secondo i loro stessi “rapporti genetici”, fino a ricostruire nella loro mente il processo reale.

Secondo i materialisti dialettici “le apparenze ingannano”, nel senso che le cose non sono come appaiono... È anche vero, però, che le apparenze rivelano la realtà, cioè sono sintomi e indizi da cui si può, con determinati strumenti e procedure, risalire all’essenza (o natura) delle cose.

L’empirista pretende di attenersi ai fatti; in realtà prescinde da tutto, tranne da quello che gli fa comodo. L’empirismo non è un metodo della scienza, ma della demagogia e della propaganda. Esso erige l’esistenza di oggi a prova dell’eternità di ciò che oggi esiste.

Ma i fatti non sono solo fatti. Hanno anche la testa dura e procedono per la loro strada incuranti delle dicerie sparse sul loro conto e dell’uso a cui imbonitori e parolai li hanno piegati…

Essi generano altri fatti secondo la loro natura e smentiscono le chiacchiere con i loro risultati.

Ogni fatto è, certamente! Ma anche “non è”: nel senso che non esisteva ed è stato generato; nel senso che non esisterà perché da esso saranno nati altri fatti che prenderanno il suo posto. Il ruolo che esso ha nel movimento d’insieme, il suo significato, può essere compreso solo da chi comprende il processo del quale il fatto è un anello, un segmento. Ogni fatto è compreso nel suo significato solo alla luce della teoria del processo a cui appartiene, della teoria della cosa di cui è manifestazione.

Non è un caso che da quando è iniziato il declino della borghesia, la cultura borghese rifugge dalla teoria, dallo studio della natura delle cose ed hanno acquistato grande rilievo nella cultura corrente varie procedure che riducono la scienza a correlazione di fenomeni, a correlazione quantitativa di un fenomeno con un altro nella trattazione matematica dei processi, senza preoccuparsi di comprendere, attraverso i fatti, la natura e l’essenza delle cose e a volte anzi negando agnosticamente che sia possibile o abbia un qualche interesse la conoscenza dell’essenza delle cose.

Nel campo del metodo scientifico, questa tendenza si manifesta come operazionismo nelle scienze fisiche e comportamentismo nelle scienze sociali.

Si tratta di forme di empirismo positivista che, eliminando dall’orizzonte del pensiero e del discorso ogni concetto che non sia descrivibile in termini di operazione o comportamento, rappresentano il riscontro accademico di forme di pensiero diffusissime tra la gente comune: nell’espressione di questi abiti mentali la tensione tra apparenza e realtà, fatto e  fattore, sostanza e attributo tende a scomparire. Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinnanzi alla designazione, all’asserzione, all’imitazione. Elementi magici, autoritari e rituali permeano la parlata e il linguaggio. Dalla pubblicità alla politica, il linguaggio ha perso valore cognitivo e serve solamente per richiamare un fatto fuori discussione, fisso, statico, fuori da ogni contraddizione e perciò da ogni storia: “Libertà”, “Giustizia”, “Democrazia”, “Pace”, “Progresso” diventano parole di proposizioni magico-rituali, il cui effetto ipnotico mira ad impedire che vengano alla luce i fattori che produssero i fatti e con essi i possibili contenuti sovversivi della memoria.

 

Economia e politica

 

Una buona comprensione del movimento economico della società attuale e delle tendenze che in esso si manifestano, è condizione indispensabile per un’analisi corretta di ogni fenomeno sociale (perciò anche dei conflitti armati) e, quindi, in definitiva anche per poter disporre di un’efficace guida per l’azione nell’intervento pratico teso a modificare la realtà sociale e politica.

Capire il movimento economico della nostra società non basta ovviamente per avere una linea politica. Il movimento economico non porta mai ad una situazione che abbia una sola via di uscita possibile: ogni situazione ne presenta sempre più d’una. Ragione per cui la lotta politica è un’arte.

Un’arte che però può svilupparsi solo sulla base della comprensione della vita economica.

Il ruolo specifico dell’iniziativa politica pratica in ogni situazione definita, sta nel riunire e mobilitare le forze motrici di una delle soluzioni possibili in contrapposizione alle altre.

Ma è il movimento economico della società che genera nel suo corso, in ogni situazione concreta, sia gli obiettivi possibili dell’attività politica che le forze con cui raggiungerli.

Procurarsi le condizioni materiali dell’esistenza è l’occupazione principale e la forza motrice dell’attività della stragrande maggioranza degli uomini; essa determina l’ambito entro cui si svolge, nelle sue molteplici varianti, la vita di tutti gli individui e il divenire dell’intera società; essa rappresenta la causa principale rispetto alla quale tutto il resto si pone come interferenza accidentale o derivata.

In tutta la storia umana da noi conosciuta l’attività svolta per procacciarsi i mezzi di esistenza è stata l’attività principale, condizionante, che ha segnato e contraddistinto i gruppi umani e ne ha determinato tutte le altre attività, ponendosi come condizione necessaria e preliminare di queste.

D’altra parte, il movimento economico della nostra società è abbastanza complesso, essendo difficile, e a volte impossibile, distinguere manifestazioni effimere da tendenze di lungo periodo, fenomeni in crescita da fenomeni in decadenza e, in generale, penetrare la reale natura di un singolo fenomeno se non si capisce il movimento storico di cui esso fa parte, se non lo si colloca nella sua propria intrinseca connessione con il corso degli avvenimenti nel quale si produce.

Di qui la difficoltà, se non l’impossibilità, di pervenire ad una conoscenza scientifica del movimento economico attuale se si prescinde dal suo retroterra storico, cioè dagli elementi generali che caratterizzano l’epoca attuale, la fase imperialista del capitalismo: l’avvenuta spartizione del mondo tra gruppi e Stati capitalisti, il ruolo dirigente del capitale finanziario, del monopolio e dell’esportazione di capitali nell’indirizzare la vita economica mondiale, le prime controverse esperienze di transizione dal capitalismo al comunismo.

Il ruolo reale di ogni avvenimento sta nel suo rapporto con questi fattori principali ed è solo mettendosi dal loro punto di vista che può essere capito.

 

Movimento politico e analisi di classe

 

 L’analisi delle classi è l’anello di congiunzione tra struttura economica della società (il suo movimento economico) e la struttura politica e culturale di essa (il suo movimento politico e culturale).

L’obiettivo diretto dell’analisi di classe è sostituire alla massa complessa, caotica, contraddittoria e babelica delle iniziative, delle volontà, dei programmi e delle idee di milioni di individui – così come si mostra a chiunque si affacci ad osservare la vita politica di un paese – il sistema delle “relazioni genetiche”, ossia degli anelli intermedi che legano queste svariate manifestazioni alla contraddizione fondamentale tra gli interessi economici delle classi in cui è divisa la società.

È solo grazie all’individuazione di queste classi che il movimento politico della società cessa di apparire caotico e frutto di casuali iniziative individuali e delle caratteristiche casuali degli individui. Esso appare allora quello che è: un flusso di mediazioni tra gli interessi economici contrapposti delle classi e il contesto storicamente determinato in cui ognuno di essi cerca di farsi valere. Risulta allo stesso tempo chiaro come le caratteristiche dei singoli individui trovino in questo il terreno per esplicarsi, perché nello scontro ogni classe “cerca” e innalza gli individui più adatti, per le loro caratteristiche specifiche, a personificarne gli interessi.

Se fosse vero che a fare la storia è solo o prevalentemente la scelta soggettiva, l’imbroglio, l’illusione, la propaganda, la pubblicità, la manipolazione delle coscienze, la libera volontà, la capacità degli individui o dei gruppi, non solo il materialismo dialettico andrebbe messo in soffitta, ma vi andrebbe messa anche ogni pretesa di costruire una scienza del movimento della società, o al più essa si ridurrebbe a scienza del sorgere e del dispiegarsi delle capacità e abilità degli individui, alla psicologia, all’ingegneria genetica, all’eugenetica o a scienze ad esse affini.

Secondo gli idealisti moderni (anche di coloro che si pretendono marxisti) “all’inizio era il Verbo”: all’inizio del movimento della società è l’idea, la comunicazione, la suggestione, la coscienza. Secondo costoro la coscienza manipolata e la “coscienza di classe” distinguono le forze contrapposte e determinano il loro agire.

Questi idealisti moderni non fanno altro che trasporre “a sinistra” le teorie del consenso e della guerra psicologica che hanno permesso alle classi dominanti di vincere alcune battaglie, ma non hanno impedito che perdessero varie guerre.

In generale ogni teoria che pone le idee come causa del movimento della società è una teoria (illusoria) di conservazione dello status quo, dato che le idee dominanti non possono che essere quelle della classe dominante.

Il cemento connettivo della società borghese non sono le idee (e nemmeno la forza delle armi), bensì il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza, nella forma di produzione di merci e di plusvalore. Qui sta il segreto dei suoi periodi di stabilità e il suo ineliminabile tallone d’Achille.

 

Forze produttive e rapporti di produzione: la struttura sociale

 

Finché l’accesso ai beni necessari alla vita corrente non sarà diventato per tutti un fatto scontato, l’attività economica per produrre e procacciarsi questi beni, cioè l’attività diretta a produrre e riprodurre le condizioni materiali dell’esistenza, resta la base condizionante, la struttura portante di ogni società umana.

Il rapporto tra l’uomo e il mondo esterno (la natura) è sostanzialmente diverso da quello che caratterizza gli altri animali. Il lavoro umano, considerato in generale, è un’attività conforme allo scopo: l’uomo infatti possiede la capacità di definire i propri scopi.

Per realizzare i suoi scopi attraverso il lavoro, egli crea i mezzi di lavoro adatti: l’uomo è un animale che fabbrica strumenti, sia materiali (utensili, macchine, computer, ecc.), che mentali (concetti, teorie, modelli, linguaggi... i segni in genere, che gli permettono di simulare il mondo esterno attraverso immagini adeguate).

Gli strumenti mentali, come quelli materiali, hanno una loro storia. L’uomo produce le condizioni materiali della sua esistenza solo impadronendosi di questi mezzi, socializzandoli e socializzandosi attraverso di essi.

Producendo e riproducendo la propria esistenza, l’uomo produce e riproduce innanzitutto sé stesso come essere sociale.

 L’attività produttiva è pertanto fondamentale nel definire i bisogni materiali e spirituali degli uomini, cioè la loro fisionomia sociale, intesa come processo sociale che si sviluppa storicamente, conoscendo forme e stadi diversi.

Il concetto di attività economica, o “produzione in generale”, che abbiamo definito come “attività conforme allo scopo”, ci esprime ciò che di comune hanno tutte le epoche della produzione. È un concetto “astratto” che isola la determinazione comune. Ma, se vogliamo comprendere il movimento concreto di una società concreta, non possiamo ignorare le differenze storiche, cioè le determinazioni specifiche che caratterizzano i diversi stadi e forme dell’attività economica. Questa, infatti, è una totalità complessa, fatta anche di molteplici determinazioni storico-sociali. La loro analisi ci consente di individuare i modi di produzione fondamentali.

Modo di produzione è la maniera storicamente determinata con la quale e nella quale gli uomini producono e riproducono la loro vita immediata: ad esempio schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ecc.

Ogni modo di produzione implica una duplice serie di rapporti:

- degli uomini con la natura: parleremo allora di livello delle forze produttive;

- degli uomini tra di loro: parleremo allora di rapporti di produzione.

Nella produzione, infatti, gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente la propria attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali. Si tratta di rapporti “necessari”, cioè indipendenti dalla loro volontà e perfino dalla loro consapevolezza, che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali (cioè del patrimonio scientifico, tecnologico, di esperienza, ecc.).

L’unità dialettica (cioè l’unità e contemporaneamente il contrasto) tra forze produttive e rapporti di produzione è il motore del movimento di ogni società, interno ad essa.

Nell’ambito di un dato sistema di rapporti di produzione gli uomini sviluppano le loro forze produttive e, a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze si erano fino ad allora mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.

Ad esempio, i mezzi di produzione e di scambio, sulla cui base si era costituita la borghesia, erano stati generati in seno alla società feudale: ad un certo grado dello sviluppo, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate; quelle condizioni, invece di favorire la produzione, là ostacolavano, si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate. Subentrò ad esse la libera concorrenza, con una costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio economico e politico della classe borghese.

 

Struttura e sovrastruttura

 

Proseguiamo ora la nostra marcia di avvicinamento alla realtà concreta esaminandone ulteriori determinazioni (aspetti, lati particolari). A questo scopo bisogna prendere in considerazione, oltre ai rapporti di produzione, anche tutti gli altri rapporti sociali, che nel loro insieme prendono il nome di sovrastruttura.

Ma in cosa consiste esattamente la sovrastruttura?

Essa è data da tutto il complesso delle idee, delle istituzioni, delle relazioni giuridiche, politiche, ideologiche, artistiche, religiose, ecc., che formano un sistema complesso e in continuo movimento.

La categoria di formazione economico-sociale esprime sinteticamente l’interazione organica, i rapporti reciproci, tra  struttura economica e sovrastruttura.

Quello che i materialisti dialettici si sforzano di far capire è che la storia non è la materializzazione dell’”Idea”; che quello che accade è risultato della lotta degli uomini con la natura e della lotta tra gli uomini, tra le classi sociali. Le ideologie, le forme della coscienza, non sono il motore delle trasformazioni sociali. Non perché i sistemi di idee nella testa degli uomini non abbiano rilevanza nel determinare il comportamento sociale, ma perché i sistemi di idee non sono altro che la razionalizzazione concettuale della propria collocazione oggettiva, involontaria, nella rete dei rapporti sociali esistenti. In altri termini: i rapporti tra gli uomini sono in primo luogo “necessari”, non frutto di una libera scelta (come vorrebbero farci credere i padroni quando, ad esempio, fanno girare la voce che i disoccupati non sono altro che gente che non ha voglia di lavorare!).

In definitiva, l’insieme dei rapporti sociali di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina – in ultima analisi – la loro coscienza.

Tuttavia come è sbagliato ridurre l’analisi della società alla sola struttura economica, è altrettanto sbagliato pensare che la sovrastruttura sia determinata dalla struttura direttamente ed univocamente.

Si tratta ora di intenderci: la nostra convinzione della validità del paradigma sopra enunciato, così come in generale del metodo scientifico del materialismo storico-dialettico, non può diventare – come spesso è diventato nella testa di tanti pseudo-marxisti – il parametro di sé stesso, prova di verità in quanto ripetizione catechistica dello schema metodologico di partenza: questa impostazione tabernacolare del materialismo è stata particolarmente grave e dannosa. Troppo spesso, invece di analisi concrete della realtà concreta, gruppi di sinistra hanno prodotto scopiazzature rimasticate di Il Capitale o di quant’altro capitava sottomano. Troppo spesso la visione del mondo elaborata era simile a una teologia terrena con sintomi di manicheismo consolatorio. Troppa l’ignoranza coltivata sotto le comode vesti dell’estremismo. E allora? Allora bisogna finalmente imparare ad usare il metodo e le categorie marxiste, finora idolatrate quanto appena balbettate e ricostruire nella nostra mente i passaggi (gli anelli intermedi, le “mediazioni”) attraverso cui la struttura, per cause intrinseche e per concreto effetto dei dati estrinseci posti dalla natura e dall’eredità storica, genera una concreta sovrastruttura.

 

Le classi

 

La struttura economica della società capitalista divide i suoi membri in classi che hanno nella vita della società ruoli nettamente distinti.

Più in particolare, chiamiamo classi quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i rapporti, per lo più sanzionati e fissati da leggi, con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e quindi per il modo e la misura in cui usano la parte di ricchezza sociale di cui dispongono.

La divisione in classi è una divisione “‘formale”, vale a dire è una divisione che deriva ed è determinata dalla forma del processo produttivo, cioè dal rapporto di produzione: è la personificazione dei ruoli individuati dal rapporto di produzione, ovvero ogni classe è l’insieme delle persone che svolgono lo stesso ruolo nel rapporto di produzione.

La divisione in classi non è determinata dalla diversità dei contenuti delle varie attività lavorative: le classi non coincidono con l’insieme delle persone che fanno lo stesso mestiere, non c’entrano con la divisione in categorie professionali o in settori produttivi. In particolare, il proletariato non coincide con l’insieme di persone che svolgono lavori manuali.

In altre parole, l’analisi delle classi non discende dal processo lavorativo immediato, che può anche essere comune a va rie classi: ad esempio, il bracciante agricolo e il coltivatore diretto svolgono spesso lo stesso lavoro; così pure un commesso di negozio e un dettagliante in proprio, un artigiano e un operaio dell’industria.

La contraddizione tra la divisione della società in classi e la proprietà privata dei mezzi di produzione da un lato e il carattere sociale delle forze produttive (creato dallo stesso capitalismo) e la conseguente reale unità della società dall’altro lato è la chiave per comprendere il movimento della società attuale e gli schieramenti politici e culturali, anche se questi, di regola, non si identificano immediatamente e univocamente con le classi.

Ricostruire gli anelli della catena genetica che corre dalle classi ai concreti schieramenti politici e culturali mal si adatta alla pigrizia mentale sia dei dogmatici ripetitori di “formule marxiste”, sia dei succubi della cultura borghese, perché richiede ricerca concreta e verifica sperimentale nella pratica sociale e politica. Ma proprio qui sta la scuola dove si imparano le leggi del movimento della società e, quindi, si impara ad usare queste stesse leggi a vantaggio di una linea politica.

Alla borghesia conviene, invece, una volta esaurita la sua funzione rivoluzionaria e iniziata la fase della sua decadenza, negare la divisione in classi e promuovere la collaborazione delle classi soggette, concependo l’attuale società come un “sistema” unico e articolato in parti funzionali, moderna versione dell’antico apologo di Menenio Agrippa.

Quanto più gli effetti distruttivi del modo di produzione capitalista diventano profondi e universali – dalla distruzione dell’ecosistema al deterioramento della salute, dalla diffusione di una “cultura di morte” alla distruzione di uomini e cose prodotta non dai limiti dello sviluppo, ma dallo sviluppo stesso – tanto più essi si presentano e vengono spacciati come “problemi universali”, genericamente umani.

Non siamo forse tutti vittime dello stesso destino crudele? Non siamo tutti sulla stessa barca?

A questo punto alcuni acuti “saggi” si sono messi a gridare che dunque la divisione in classi non esiste più, è assurda, superata.

 

L’unità sociale creata dal capitalismo

 

La scoperta delle due categorie (forze produttive e rapporti di produzione), della loro unità e della loro contraddizione, è la scoperta che fonda il materialismo storico, che ha permesso di gettare luce sulla storia dell’uomo, di capire la concatenazione causale di eventi che prima apparivano accostati casualmente e di cui venivano date le spiegazioni più varie e arbitrarie.

Le società che producono e riproducono le condizioni materiali della loro esistenza in modo capitalista hanno dovuto e devono sviluppare forze produttive aventi carattere sempre più fortemente collettivo, ossia forze produttive che possono essere create e fatte operare solo da uomini associati, capaci di decisioni, volontà e azioni comuni e tra loro coordinate.

La società borghese ha enormemente aumentato e diversificato le condizioni materiali di cui si alimenta la vita, anche spirituale, degli uomini e questa nuova moltitudine di condizioni materiali è la base necessaria e irrinunciabile della sopravvivenza e di ogni cultura e civiltà.

Per la produzione e riproduzione di queste condizioni materiali dell’esistenza gli uomini di vari paesi e zone dipendono ormai l’uno dall’altro e i vari individui possono svolgere il loro contributo parziale solo se sono riunite condizioni che non dipendono da nessun singolo individuo in particolare.

In altre parole, la produzione è diventata il risultato di un organismo sociale mondiale: questo si intende per carattere sociale della produzione e delle forze produttive.

La capacità di lavoro del singolo al di fuori di questo organismo è inutile e impotente. Il prodotto del lavoro cessa di essere attribuibile all’attività di un lavoratore specifico, cessa di essere un prodotto individuale (com’era invece in larga misura prima del capitalismo).

 D’altra parte però il modo di produzione capitalista comporta che la necessaria cooperazione tra individui e unità produttive non si attui in base ad un accordo preliminare in cui a ognuno vengano assegnati compiti definiti e vengano attribuiti i mezzi necessari per assolverli: nel capitalismo ciò avviene soltanto tra le unità di uno stesso complesso produttivo, ad esempio tra reparti o sedi staccate di una stessa impresa. In generale la cooperazione sociale produttiva si attua come subordinazione di ogni singolo individuo e unità produttiva al denaro, al mercato, al profitto e come risultato dell’antagonismo degli interessi (tra venditore e compratore, tra produttore e consumatore, dei produttori tra di loro, tra borghesi e proletari, ecc.).

La società capitalista è composta da milioni di individui che non sono consapevoli di essere inquadrati, nella loro attività produttiva, come articolazioni individuali di una unitaria macchina produttiva sociale: ma è proprio ciò che fa di essi il mercato, a loro insaputa, in modo tanto più inesorabile, impersonale e casuale proprio perché inconsapevole e spontaneo, lasciandoli ad imprecare contro le stelle o il destino per le disgrazie che questo comporta loro.

Il capitalismo comporta che ogni individuo decida e regoli la sua iniziativa e attività economica come se la connessione e la necessaria combinazione con una miriade di altri individui non esistessero: in ciò consiste l’iniziativa economica privata e la proprietà privata delle forze produttive. Per ogni individuo e gruppo, l’attività economica di altri esiste solo come previsione e probabilità su cui speculare.

 

Le forme antitetiche dell’unità sociale

 

È tuttavia impossibile comprendere il movimento economico e politico delle società moderne senza la comprensione delle “forme antitetiche dell’unità sociale”.

La crescita del carattere sociale delle forze produttive si manifesta già nell’ambito del modo di produzione capitalista con lo sviluppo di svariate istituzioni, economiche e politiche, “private” e “pubbliche”, che esprimono il tentativo di dirigere il movimento economico delle società eliminando gli effetti più distruttivi del rapporto di capitale, restando tuttavia nell’ambito di questo stesso rapporto. Si tratta cioè di espressioni dell’unità economica della società nell’ambito di rapporti che tuttavia negano questa unità sociale e che continuano a dividere la società in tanti elementi contrapposti quanti sono gli individui adulti che la compongono.

Ignorare le forme antitetiche dell’unità sociale significa privarsi dello strumento per comprendere la dialettica reale tra i tentativi di governare l’economia, che si fanno forti del carattere sociale delle forze produttive (cioè del contenuto del processo produttivo), e l’azione delle leggi oggettive del rapporto di produzione capitalista basato sull’appropriazione individuale delle forze produttive (cioè sulla vecchia forma del processo produttivo).

Cosa sono le forme antitetiche dell’unità sociale? Nel seno della stessa società borghese, sul terreno dell’indifferenza e interdipendenza reciproca dei produttori, si formano come manifestazione necessaria dell’unità sociale (cioè dell’universale dipendenza reciproca), le pratiche e le istituzioni che cercano di porre rimedio e di prevenire le conseguenze dell’universale estraniazione: i capitalisti si associano, il capitale che esisteva in tanti singoli capitali individuali tenta di diventare collettivo, i capitalisti tentano di dominare i rapporti sociali, di farli diventare un risultato della propria conoscenza e volontà. Banche centrali in ogni paese, banche mondiali (come il Fondo Monetario Internazionale), politiche economiche dei governi, legislazioni dei singoli Stati e loro coordinamenti, politiche sociali, accordi e convenzioni internazionali, codici di comportamento, Borse: queste sono alcune delle forme in cui i capitalisti esistono come classe soggettiva, cioè come sapere e volere riflessi, come gruppi capaci di decisioni e di sforzi coerenti per attuarle, come associazioni generali aventi propri organi sociali.

I capitalisti dunque si associano fino a costituire dei sistemi di capitalismo monopolistico di Stato, a dimostrazione del carattere sociale raggiunto dalle principali forze produttive già nel capitalismo.

 Il gruppo dirigente del PCI dopo la Seconda Guerra Mondiale ha fatto di tutto per contrabbandare la creazione di forme antitetiche dell’unità sociale come via verso il socialismo. Operazione politica che, nel contesto del lungo periodo di sviluppo economico del secondo dopo-guerra, ha avuto successo innestandosi sulla tradizione di un movimento operaio europeo che era imbevuto delle idee sul “socialismo di Stato” (da Louis Blanc a Proudhon, a Lassalle), cioè sul superamento del capitalismo tramite imprese produttive statali o cooperative sostenute dallo Stato, e che è andato avanti a chiedere le municipalizzate, le industrie nazionali e la nazionalizzazione delle industrie non come rivendicazioni economico-pratiche, ma come via al socialismo, come introduzione di “elementi di socialismo”. In Italia l’operazione dei revisionisti moderni si è giovata poi anche della tradizione feudale rappresentata politicamente dalla Chiesa romana antiliberista e favorevole alla regolazione statale o corporativa dell’economia. Essi hanno cercato di far credere alle masse che esiste una contraddizione fondamentale tra “settore economico privato” e “settore economico pubblico”, confondendo una differenza giuridica con una differenza strutturale.

La classe dei capitalisti ha esistenza soggettiva nella vasta gamma delle “associazioni di capitalisti”: da quelle strettamente private fino alle vere e proprie forme antitetiche dell’unità sociale, alcune delle quali si estendono ad abbracciare tutto il mondo. Ma la classe dei capitalisti ha esistenza soggettiva solo entro limiti storicamente determinati e non eliminabili completamente, perché il capitale esiste e può esistere solo nella forma di molti capitali tra loro concorrenti.

Ogni sistema di capitalismo monopolistico di Stato appena costituito si scontra dunque con i suoi limiti, che sono costituiti precisamente sia dall’esistenza di molti capitali (proprietà individuale e privata del capitale) sia dagli altri sistemi di capitalismo monopolistico di Stato, in quanto nel suo costituirsi esso esclude da sé e quindi contrappone a sé il resto del mondo (con cui d’altra parte costituisce economicamente un tutt’uno, stante proprio il carattere sociale raggiunto dalle forze produttive).

La possibilità delle guerre mondiali è posta appunto quando questo carattere sociale delle forze produttive cresce fino a diventare mondiale.

Questa crescita ha messo a contatto e fuso in un tutt’uno i processi di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza degli uomini di ogni angolo della terra, processi che per millenni si erano svolti separatamente.

La premessa affinché una cosa accada è che essa sia possibile. Quindi ai fini della comprensione del movimento che produce le guerre mondiali è anzitutto necessario comprendere ciò che le rende possibili. Solo su questa base preliminare si possono comprendere gli eventi che hanno concretamente determinato le guerre mondiali.

 

Processo produttivo e valorizzazione del capitale

 

Abbiamo visto come nel modo di produzione capitalista l’attività economica di singoli e gruppi non sia il risultato di un accordo preventivo tra tutti i protagonisti, accordo che potrebbe, salvo errori e accidenti, garantire la necessaria combinazione e connessione tra le singole attività.

Non solo, ma nel modo di produzione capitalista gli unici che possono dare inizio alla produzione di beni e servizi riunendo e combinando gli ingredienti necessari, cioè i capitalisti, non vi danno inizio mossi dall’utilità del bene o servizio prodotto, ma solo come mezzo per produrre profitto: a loro non interessa il valore d’uso di ciò che producono, ma soltanto il suo valore di scambio.

Il movimento, la tendenza interna di ogni capitale, è quello di valorizzarsi sempre più, cioè di aggiungere nuovo valore (denaro) al precedente: questo movimento prende il nome di accumulazione (o valorizzazione, o riproduzione allargata) del capitale. Nel capitalismo il processo lavorativo è soltanto un mezzo del processo di valorizzazione, allo stesso modo che il valore d’uso è solo un supporto del valore di scambio.

Produzione di beni e servizi (cioè delle condizioni materiali dell’esistenza umana) e valorizzazione del capitale (cioè  produzione di profitto) sono due processi condannati, nel modo di produzione capitalista, a svolgersi contemporaneamente, nello stesso atto: il prodursi dell’uno è condizione necessaria perché si produca l’altro. In particolare, non si ha produzione di beni e servizi e quindi dei mezzi per la conservazione e riproduzione della vita umana se essa non è anche fonte di profitto per il capitalista.

La sete di profitto è stata il movente che ha fatto moltiplicare e ampliare la quantità e il tipo di beni e servizi di cui si alimentano le espressioni materiali e spirituali della vita umana, ha sprigionato meraviglie di energia e di ingegno. Non c’è viceversa, quindi, niente di misterioso nel fatto che ogni bene sia negato, in questa società, dovunque e ogniqualvolta non possa essere veicolo di produzione di profitti, per cui l’epoca del massimo sviluppo della produttività del lavoro umano e della ricchezza materiale e spirituale è anche l’epoca delle più grandi carestie e della maggiore miseria materiale e spirituale.

Nessuno Stato, nessuna organizzazione, nessun genio può far coesistere permanentemente e regolarmente processo produttivo e valorizzazione del capitale, impedire che le due cose condannate a camminare insieme, ognuna delle quali ha però sue proprie e distinte leggi di movimento e incidenti di percorso, divergano di tanto in tanto, rompendo la fruttuosa collaborazione e sconvolgendo periodicamente e in mille modi lo svolgersi regolare della produzione, distribuzione, circolazione e consumo dei beni e servizi.

 

Unità economica mondiale e imperialismo

 

Nell’epoca capitalista è stata creata, per la prima volta nella storia, l’unità reale degli uomini di tutto il mondo. Per la prima volta l’umanità ha cessato di essere un’astrazione (ciò che di comune i vari individui mostravano all’osservatore), per diventare una realtà: individui connessi tra loro da rapporti da cui nessuno di essi può prescindere per la produzione e riproduzione delle condizioni della sua esistenza.

In questa situazione nessun gruppo di individui, società, nazione o paese può “procedere per conto suo” oltre un determinato limite: le condizioni della sua esistenza dipendono in modo essenziale da quel che succede al di fuori di esso e dai suoi rapporti con l’esterno. Dunque ogni volontà e azione di individui non può che esercitarsi nel contesto di un’ormai raggiunta unità economica mondiale.

Nell’unità mondiale creata dal modo di produzione capitalista vi è un contenuto (la dipendenza reciproca nella produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza) e una forma (i rapporti nell’ambito dei quali questa dipendenza si attua). Anche in questo caso, contenuto e forma costituiscono una unità contraddittoria.

Consideriamo ad esempio la questione delle materie prime. Stante la forma mercantile e capitalista delle relazioni economiche internazionali, ogni gruppo di capitalisti cerca di assicurarsi il monopolio delle materie prime per ricavarne il massimo della rendita. Stante il contenuto del processo produttivo, senza alcune materie prime che provengono dalle più diverse parti del mondo, allo stato attuale della tecnologia in nessun paese il processo di ricambio materiale della società può procedere regolarmente. Allora controllare gli Stati dei paesi da dove provengono le materie prime diventa un obiettivo “vitale” sia economico che politico.

Ogni mutamento politico di qualche rilievo in questi paesi, suscettibile di alterare il flusso esistente delle materie prime e il reciproco flusso di altre merci, ha ripercussioni politiche ed economiche che alterano i rapporti reciproci di forza sia tra le singole imprese capitalistiche che tra gli Stati. Quindi ogni mutamento politico di uno di questi Stati è combattuto da alcuni e favorito da altri, diventa, cioè, oggetto di conflitto tra imprese capitalistiche e tra Stati.

L’esigenza del ricambio materiale della società fa sì che si presentino come “oggettivamente” necessari, indipendentemente dalla forma dei rapporti di produzione, misure di dominio e di sfruttamento atte a garantire la continuazione delle relazioni economiche mondiali rese precarie e rotte proprio dalla forma dei rapporti di produzione. E questo retroterra di  relazioni economiche antagoniste alimenta e si nutre di tutti gli antagonismi sovrastrutturali vecchi e nuovi: culturali, razziali, nazionali, politici, religiosi, ecc.

L’apparire di società multinazionali, che pongono il mondo intero come campo della loro azione, induce significative trasformazioni dei regimi politici dei paesi borghesi: mano a mano che gruppi borghesi di un paese acquisiscono interessi all’estero, essi utilizzano lo Stato per conservare e ampliare le loro conquiste. Lo Stato viene trasformato per adeguarlo a questo compito. Vengono promossi la formazione e l’insediamento nei posti chiave del potere statale di un ceto politico imperialista; vengono promossi, finanziati, appoggiati circoli, istituzioni, associazioni, lobbies, ecc. che determinano una “pubblica opinione” favorevole all’impegno dello Stato (“della nazione”) nel far valere sul terreno delle relazioni politiche internazionali i “diritti” acquisiti nel mondo dai gruppi borghesi. I maggiori Stati capitalisti diventano Stati imperialisti. Con il duplice effetto:

- all’interno, di avviare un processo di trasformazione del regime politico borghese, con l’abbandono progressivo o lo svuotamento delle forme “liberali” e “democratiche” perseguite nella fase ascendente della borghesia, sostituite con forme adeguate al nuovo assetto materiale della società (regolamentazione statale e irreggimentazione della vita sociale, svuotamento degli istituti rappresentativi, prevalenza del potere esecutivo su quello legislativo, ecc.);

- all’esterno, di accentuare la tendenza a risolvere, con l’uso dimezzi politici (diplomazia e forze armate), i contrasti di interessi economici tra gruppi di capitalisti.

La guerra è l’ancora attuale sostitutivo di uno Stato mondiale: con la guerra il borghese impone nel mondo l’ordine che all’interno delle frontiere impone con lo Stato.

Qui non ci interessa una teoria delle cause delle guerre in generale. Gli uomini facevano la guerra ben prima della comparsa del capitalismo, questo è verissimo. È altrettanto vero che in ogni contesto sociale concreto gli uomini facevano la guerra per motivi specifici legati a quel contesto sociale. Una teoria delle cause delle guerre che si sviluppano in una data società che pretenda di trovarle indipendentemente dalle condizioni concrete e specifiche della società in esame, non può essere che una sciocca e arbitraria immaginazione; infatti ve ne sono per tutti i gusti: dal peccato originale alle macchie solari.

Pretendere di capire le cause di una cosa senza considerare le cause della cosa, porta al massimo alla descrizione superficiale della cosa.

Quello che qui si afferma è che le cause di guerra nel mondo capitalista sono diverse dalle cause di guerra nel mondo primitivo o nel mondo feudale, perché diverse sono le condizioni generali che le rendono possibili. Sono queste condizioni generali, intrinseche al modo di produzione capitalista, quelle che qui si vuole sommariamente illustrare, e pertanto si conferma che l’intento di questo scritto non è quello di analizzare uno specifico e determinato conflitto, non è cioè quello di fare un’analisi concreta di una situazione concreta, bensì il tentativo di fornire una traccia metodologica utile a successive analisi.

 

L’analisi materialista dialettica delle guerre

 

Una giusta linea politica discende da una corretta comprensione delle caratteristiche fondamentali di ogni epoca storica, individuando innanzitutto quale classe ne determina il contenuto e la direzione fondamentale di sviluppo e interpretando, in questo quadro generale, i caratteri particolari di ogni singolo paese.

Soltanto la valutazione oggettiva di tutto l’insieme dei rapporti reciproci di tutte le classi di una data società, senza eccezione e, per conseguenza, anche la considerazione del grado di sviluppo oggettivo di quella società e dei rapporti reciproci fra essa e altre società, possono servire di base per una giusta tattica.

Inoltre tutte le classi e tutti i paesi devono essere considerati non in una situazione statica, ma dinamica, ossia non in  stato di immobilità, ma in movimento (movimento le cui leggi derivano dalle condizioni economiche di esistenza di ogni classe).

A sua volta il movimento non dev’essere considerato solo dal punto di vista del passato, ma anche da quello del futuro, e non secondo il volgare intendimento degli “evoluzionisti”, che scorgono soltanto le trasformazioni lente, ma dialetticamente, sapendo cogliere le discontinuità e le rotture della storia: “venti anni contano un giorno nei grandi sviluppi storici, ma vi possono essere giorni che concentrano in sé venti anni”.

Considerare il contenuto oggettivo (sviluppo delle forze produttive, lotta di classe) del movimento storico e quale classe ne è la molla fondamentale. Applicato alle guerre questo principio consiste in questo: la guerra è semplicemente la continuazione della politica con altri mezzi e precisamente con mezzi violenti.

Questa definizione è dovuta a Karl Von Clausewitz (1780-1831), uno dei maggiori scrittori di storia e teoria militare, le cui idee erano state fecondate dalla lettura di Hegel:

“La guerra di comunità – nazioni intere e specialmente nazioni civili – nasce sempre da una situazione politica e viene provocata solo da uno scopo politico: costituisce dunque un atto politico.

Se essa fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza, quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione, allora, dall’istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe ad essa come alcunché di assolutamente indipendente, la eliminerebbe, non seguendo più che le proprie intrinseche leggi, come l’esplosione di una mina non è più suscettibile di essere guidata dopo che si è appiccato il fuoco alla miccia. [...]

[La guerra, ndr.] è un atto che conduce più o meno prontamente allo scopo, ma che dura sempre abbastanza perché nel suo corso consenta influenze atte ad imporgli questa o quella direzione: così da restare insomma sottoposto alla volontà di una intelligenza direttrice. Se consideriamo ora che la guerra procede da uno scopo politico, è naturale che questo motivo primo che le ha dato vita continui a costituire elemento precipuo per la sua condotta.[...]

La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma è un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. Quindi, quanto alla guerra rimane di proprio non si riferisce che alla natura particolare dei suoi mezzi. [...] il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi” (K. Von Clausewitz: Della Guerra, ed. Mondadori, 1978, pp. 37-38).

 

Le possibilità di guerra intrinseche all’imperialismo

 

Dalla fine del secolo scorso il modo di produzione capitalista assoggetta a sé tutto il mondo. Tutta la storia di questo secolo, per quanto riguarda il capitale, è storia del “dominio reale” del capitale stesso, cioè della trasformazione, adattamento e produzione di uomini e istituzioni ad esso più adeguati, cioè più adeguati alla produzione di plusvalore.

La produzione di plusvalore avviene da allora prevalentemente come produzione di plusvalore relativo. Con il nuovo secolo iniziano anche le crisi generali per sovrapproduzione assoluta di capitale.

La prima crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale copre gran parte della prima metà del secolo e venne risolta attraverso le grandi distruzioni di uomini e cose e gli sconvolgimenti politici e sociali della seconda Guerra Mondiale: sconvolgimenti tali da permettere al capitale di ricominciare la propria corsa allo sviluppo. Nella crisi per sovrapproduzione di capitale, esso è come un animale che soffoca perché è ingrassato troppo, ma la cui vita consiste nell’ingrassare. Le due guerre mondiali sono state la “cura dimagrante” che il capitale ha fatto a sé stesso.

L’intervento dello Stato teso a creare domanda di merci elargendo redditi sotto forma di spesa pubblica e sussidi ai disoccupati, cioè la politica keynesiana degli anni ‘20 e ‘30, non risolse la crisi, dato che il calo della domanda era anch’esso un effetto e non la causa della crisi. Esso tutt’al più servì a limitarne gli effetti catastrofici e a prevenirne le conseguenze politiche, in quanto limitava la caduta del consumo ed era utile ai fini dell’ordine pubblico, ma non elimi nava la causa che aveva tolto slancio agli investimenti di capitale.

Nei trent’anni di sviluppo capitalista (1945-1975) seguiti alla seconda Guerra Mondiale il capitale ha ricostruito e accumulato per ritrovarsi ora al punto di partenza e la guerra si ripresenta puntualmente come un’adeguata valvola di sfogo delle contraddizioni proprie di questo modo di produzione.

Essa infatti realizza due obiettivi apprezzabili per i capitalisti:

- distrugge e quindi apre la strada per un nuovo periodo di sviluppo;

- apre un campo d’azione ancora più vasto alla borghesia vincitrice e ogni borghesia conta di vincere.

La guerra non è solo una possibile valvola di sfogo per il capitalismo in crisi, ad un certo punto diventa anche l’unica, necessaria valvola di sfogo.

Ovviamente le guerre in genere non sono frutto di congiure preparate a tavolino con la consapevolezza e l’intenzione di preparare la “cura di ringiovanimento” del capitalismo. Quando “le cose” spingono in una direzione, le congiure o non esistono affatto o sono poco più del vano agitarsi delle mosche cocchiere.

In realtà, come dicono in questi casi gli storici e i politici borghesi, “gli eventi sfuggono di mano”. Nonostante le illusioni loro, dei loro seguaci e dei loro avversari, non sono gli Hitler o i Bush che portano alla guerra, ma, al contrario, quando una società è gravida di guerra, quando mille cose spingono in quella direzione o almeno hanno nella guerra una qualche possibilità di sviluppo, essa porta al potere più o meno adeguati “ostetrici”.

La concorrenza tra capitalisti, ognuno per la sua sopravvivenza, coinvolge gli Stati borghesi. Man mano che si riduce la torta del plusvalore da dividersi, cresce la rissa tra capitalisti per avere nella spartizione ognuno una fetta più grande.

E questa rissa, la guerra economica e commerciale che i capitalisti si fanno tra loro, si trasforma inevitabilmente, prima o poi, in guerra tra Stati, in una politica aggressiva tra Stati borghesi.

Gli Stati hanno il potere di imporre coercitivamente tariffe doganali, contingentamenti alle importazioni, facilitazioni fiscali e rimborsi alle esportazioni, tributi sulle merci che circolano entro i loro confini, tributi ai capitalisti che operano nei confini. Gli Stati hanno il potere di diminuire o di aumentare con provvedimenti legislativi i costi di produzione dei capitalisti che operano nei loro confini, di assumere come “spesa pubblica” una parte più o meno consistente dei costi di alcuni capitalisti operanti nel paese, di rendere più o meno oneroso il credito a ogni singolo capitalista, di passare commesse più o meno grandi e più o meno di favore ai singoli capitalisti, di regolare in un modo più o meno limitativo i trasferimenti di moneta e di titoli finanziari tra residenti e non residenti, di imporre sanzioni economiche e boicottaggi commerciali contro produttori di altri paesi, di ottenere tramite accordi commerciali o compensazioni di altro genere (come il sostegno politico e militare) da altri Stati trattamenti di favore per i propri capitalisti rispetto ad altri, di imporre ai lavoratori nel territorio da essi dominato condizioni salariali più o meno pesanti, di imporre ai propri lavoratori e alle masse in generale una disciplina più o meno rigida.

Tutti questi poteri coercitivi sovrani che ha lo Stato interferiscono pesantemente, in certi casi in modo decisivo, sulle dimensioni della torta di plusvalore che va ad ogni singolo capitalista. Più la lotta tra capitalisti attorno alla spartizione diventa accanita, più ogni capitalista vuole che il suo Stato e gli Stati sul cui comportamento egli può influire sostengano lui a danno dei suoi concorrenti. Perciò più aggressivi e antagonisti diventano tra loro gli Stati borghesi.

La crisi economica, accelerata dalla ristrutturazione, acuisce la lotta commerciale tra capitalisti che, attraverso il meccanismo prima descritto, diventa guerra commerciale tra Stati borghesi che si avvalgono di tutti i mezzi di cui dispongono. E mano a mano che la guerra commerciale diventa, con l’acuirsi della crisi, una questione di vita o di morte per i singoli capitalisti, più il ricorso alla guerra militare, pur con tutti i rischi che comporta, diventa un rischio “che vale la pena di correre”, o addirittura l’unica via di uscita. E in questo ambito tutti i vecchi contrasti (contese tra Stati per il dominio su territori, contrasti razziali, religiosi, culturali, dinastici, contrasti politici ed ideologici tra gruppi) vengono esaltati e usati per rendere “popolari” guerre che hanno la loro fonte reale nell’acuirsi della concorrenza tra capitalisti nel contesto  della crisi.

La guerra tra capitalisti per la spartizione del plusvalore estorto ai lavoratori viene ricoperta dal velo mistificatore di guerra per la democrazia, guerra per i diritti umani, guerra per riparare i torti subiti, guerra per difendere “interessi vitali”, ... non a caso preparata, scatenata e diretta da Stati che nei propri confini hanno negato la democrazia, i diritti umani e tutto il resto, mentre dicono di combattere per imporli in altri paesi.

 

Verso un superstato imperialista?

 

Secondo una certa corrente di pensiero, dopo la seconda Guerra Mondiale le contraddizioni antagoniste di interessi tra capitalisti e le difficoltà della loro direzione nei singoli paesi non possono più svilupparsi in contraddizioni tra Stati, ossia si sarebbe formato un sistema politico unificato a livello mondiale, una specie di unico Stato mondiale, in cui i residui Stati locali sono sopravvivenze e curiosità storiche, o diramazioni locali dell’unico superStato, allo stesso modo delle amministrazioni regionali di nostra esperienza.

La questione è di importanza troppo vitale per poterla eludere.

È innegabile che dopo la seconda Guerra Mondiale lo Stato della borghesia USA ha assicurato la persistenza o il ristabilimento del dominio delle classi borghesi in Europa occidentale, in Giappone e in buona parte delle colonie.

Di conseguenza, le borghesie dei paesi continentali dell’Europa occidentale e del Giappone non ebbero di meglio che accettare l’autorità dello Stato della borghesia americana per ristabilire il loro dominio in campo economico.

La borghesia USA aiutò la borghesia dei singoli paesi a ricostruire i propri Stati. Essa pose tuttavia molti limiti alla sovranità di alcuni dei nuovi Stati, in particolare il Giappone, la Germania, l’Italia, la Grecia, la Turchia, e anche alla sovranità degli Stati della borghesia britannica e dei “dominions” britannici, assicurandosi vari strumenti di controllo sulla loro attività e di intervento in essa.

Nei 40 anni successivi i contrasti tra questi Stati e lo Stato USA non hanno avuto un ruolo rilevante nello sviluppo del movimento economico e politico.

Basta questo per concludere che quindi è finita l’epoca delle guerre tra Stati imperialisti?

Finché gli affari sono andati bene, finché l’accumulazione del capitale si è sviluppata felicemente (e ciò è avvenuto fin quasi alla metà degli anni ‘70) non si sono sviluppate contraddizioni antagoniste tra Stati imperialisti.

Il problema si è posto solo negli ultimi anni e sta in questo: man mano che le condizioni di valorizzazione del capitale diventano più difficili, lo Stato USA continua ad essere il miglior garante degli affari della borghesia giapponese, tedesca, ecc.? Il capitalista giapponese, inglese, tedesco, ecc., può o no far valere i suoi interessi attraverso l’attività dello Stato USA, senza soffrire di discriminazioni “nazionali” a confronto con i capitalisti residenti negli USA e suoi concorrenti?

Alcuni affermano che le contraddizioni interimperialiste non possono più svilupparsi in contraddizioni tra Stati solo perché non vedono il rapporto pratico, reale, materiale tra borghesia e Stato e fanno di tutto ciò una descrizione mitica. Essi negano la democrazia borghese, cioè che gli interessi economici dei capitalisti si esprimono e si realizzano nell’attività dello Stato, per cui hanno una concezione ultraterrena dello Stato.

Posto con i piedi per terra, il problema, da teologico, diventa storico-sperimentale e la risposta ad esso può essere derivata solo dalla comprensione del movimento economico e politico delle società imperialiste.

La tranquilla sicurezza che le contraddizioni economiche tra capitali non possono più trasformarsi in contrasti politici tra Stati imperialisti si mostra allora per quello che è: frutto dell’essere abbagliati dalla potenza dello Stato USA, del considerare solo le cose che sono e non il loro divenire, le tendenze, le contraddizioni, i processi di trasformazione in corso.

 Vari aspetti dell’attuale movimento economico e politico mostrano che la lotta degli USA per la difesa dell’ordine internazionale è lotta per difendere gli interessi dei capitalisti USA e le condizioni della stabilità politica negli USA e ciò anche a scapito degli affari delle borghesie di altri paesi (diventando quindi un fattore di instabilità politica di altri paesi): dal contenzioso sul commercio CEE-URSS agli interventi in Medio Oriente e in Africa, dalle manovre sul dollaro al protezionismo commerciale.

Esiste però anche un’altra possibilità da considerare: c’è una tendenza da parte di esponenti delle borghesie imperialiste specie di paesi minori ad installarsi negli USA e vi sono gruppi di capitalisti che creano lobbies per orientare l’attività dello Stato federale USA e partecipano di fatto attivamente a determinarne l’orientamento. È quindi possibile che una frazione della borghesia imperialista mondiale riesca ad imporre un’unica disciplina a tutta la borghesia imperialista costruendo attorno allo Stato USA il proprio nuovo Stato “sovranazionale”. Già sono stati collaudati numerosi organismi (monetari, finanziari, commerciali) sovrastatali – le forme antitetiche dell’unità sociale a livello mondiale – e si è formato un personale politico, militare, culturale borghese a livello internazionale. Di conseguenza, il disegno della fusione dei maggiori Stati imperialisti in un unico Stato ha oggi maggiori basi materiali di quanto ne avessero gli analoghi disegni perseguiti nella prima metà di questo secolo.

Ma la realizzazione di un processo del genere, mentre avanza la crisi economica, difficilmente si realizzerebbe in maniera pacifica, senza che gli interessi borghesi lesi dal processo si facciano forti di tutte le rivendicazioni e i pregiudizi nazionali e locali. Il contrasto tra gruppi capitalisti si esprimerebbe, quasi inevitabilmente, in guerre civili.

Una maggiore comprensione delle dinamiche in atto non potrà che venirci da uno studio più approfondito del movimento economico e politico delle attuali società imperialiste. Qui basti per ora aver posto il problema sulle basi del rapporto tra il movimento economico e il ruolo politico della borghesia, sgombrando il campo dalle estrapolazioni del passato in una situazione mutata e dalla pigrizia mentale che permette di pensare solo ciò che è già pienamente dispiegato e palese.

 

Conclusioni

 

La propaganda pacifista, l’educazione alla non violenza è cosa sacrosanta se rivolta contro la politica di preparazione alla guerra degli Stati borghesi, se rivolta alle potenziali zone di reclutamento della borghesia.

È cosa iniqua se diretta a disarmare, a togliere spirito combattivo alle classi e ai popoli oppressi, in una situazione in cui comunque la borghesia, grazie al denaro, alle stesse convulsioni politiche e militari delle società borghesi, all’aumento della produttività del lavoro e alla conseguente espulsione di milioni di individui dal processo produttivo, può reclutare quanti mercenari e professionisti dello sterminio vuole.

Non abbiamo bisogno di educarci alla non violenza, ma di imparare a combattere e combattere non perché mandati alla morte dalla pistola di ordinanza dell’ufficiale o del plotone di esecuzione o dalla sottomissione gerarchica o ideologica alla classe dominante, ma solo per una causa giusta.

Questo è il succo del nostro pacifismo: combattere e combattere solo per una causa giusta. Perché è solo da ciò che può sorgere non la servile e piagnucolosa sottomissione di masse impotenti ai loro dominatori e la rassegnata partecipazione alle attività militari scatenate da questi, ma una comunità di uomini che, non dovendo più combattere per strappare ad altri ciò di cui vivere, non avrà più bisogno di guerre.

 

Aprile-Maggio 1991