Lettera a Rapporti Sociali
Una teoria di moda tra le ONG

Rapporti Sociali n. 25 - giugno 2000 (versione Open Office / versione MSWord )

 

Cari compagni,

ho visto che nell’ultimo numero (il 23/24) avete pubblicato l’articolo di M. Martinengo (M.M.) che criticava la tesi esposta nell’editoriale del n. 22 de Il futuro. L’editorialista de Il futuro sosteneva che, con le loro rivendicazioni economiche, gli operai dei paesi imperialisti collaborerebbero con la borghesia imperialista a rapinare i lavoratori dei paesi coloniali. Nel suo articolo di critica M.M. ha mostrato che la tesi de Il futuro si basa su una concezione del mondo che non ha nulla a che fare con la concezione comunista. Nonostante questo, Il futuro (n. 23, Sulla crisi capitalista e sul ruolo del “movimento rivendicativo”) ha ribadito la sua tesi, mostrando così che non si trattava di affermazioni fatte alla leggera, ma di convinzioni precise dei suoi redattori. Resta che si tratta di una tesi assolutamente contraria ai fatti e politicamente filopadronale. Non parlo delle intenzioni dei redattori de Il futuro, ma delle conclusioni politiche della loro teoria sbagliata. È infatti di questo che la rivista parla ai suoi lettori e non delle buone intenzioni e delle eventuali buone azioni filooperaie dei suoi redattori.

Credo che quindi sia opportuno analizzare come stanno le cose relative al reddito dei lavoratori, usando le categorie con cui i marxisti analizzano l’economia capitalista, visto che anche redattori de Il futuro si professano marxisti.

Il valore del prodotto del lavoro compiuto da un operaio in un anno è la somma del valore del capitale costante (materie prime, materiale ausiliario e quota dei mezzi di produzione logorata nell’anno), del valore della forza-lavoro dell’operaio (che per semplicità assumiamo eguale al suo salario) e del plusvalore (la parte del valore prodotto di cui si appropria il capitalista). Ciò si esprime sinteticamente con l’espressione algebrica c’ = c+v+pv.

Se la tesi dell’editorialista de Il futuro fosse vera, nei paesi imperialisti l’operaio dovrebbe portare a casa un salario (v) tale che pv sarebbe non solo nullo ma addirittura negativo: il capitalista non ricaverebbe niente facendo lavorare l’operaio dei paesi imperialisti, anzi, andrebbe a lui una parte di quello che il capitalista è riuscito a portare via ai popoli delle colonie e delle semicolonie.

Io sostengo che in Italia gli operai mediamente portano a casa meno (probabilmente molto meno) del 20% di quello che essi stessi producono. Non posso dare in una lettera la dimostrazione dettagliata della mia affermazione, ma spero che i lettori di Rapporti Sociali mi faranno credito. Probabilmente ciò corrisponde anche a loro osservazioni empiriche o a loro studi statistici. Un riscontro semplice lo si ha confrontando quello che un addetto alla manutenzione di impianti si trova in busta paga con quello che l’azienda da cui dipende chiede a una azienda dove lo manda a lavorare in trasferta. In caso di contestazioni posso comunque mostrare in dettaglio come arrivo a queste conclusioni approssimative (il ragionamento che faccio reggerebbe tuttavia anche se la percentuale fosse doppia o tripla di quella da me calcolata o anche maggiore), elaborando dati statistici e combinandoli con l’osservazione di fatti accessibili a chiunque. Assumiamo dunque per ipotesi che portino a casa il 20%. La situazione negli altri paesi imperialisti è analoga a quella dell’Italia. È dunque chiaro che la concezione difesa dai redattori de Il futuro è sbagliata: non potranno mai dimostrare che, mediamente, gli operai dei  paesi imperialisti ricevono un salario superiore al valore di quello che producono, cioè che “vivono al di sopra dei loro mezzi” (come spesso i padroni dicono per frenare le rivendicazioni).

È sicuro che, mediamente, gli operai delle colonie e delle semicolonie portano a casa una percentuale ancora minore. Per ipotesi assumiamo che, mediamente, portino a casa il 10% di quello che producono. Probabilmente è meno. I salari delle colonie e delle semicolonie sono molto meno della metà di quelli dei paesi imperialisti: è il motivo per cui i capitalisti nostrani dislocano le aziende nelle colonie e nelle semicolonie.

Perché questa grande differenza? Abbiamo già visto che la risposta “gli operai dei paesi imperialisti partecipano allo sfruttamento dei popoli coloniali e semicoloniali” è sbagliata. La risposta giusta è “gli operai dei paesi imperialisti hanno una migliore organizzazione di lotta contro i capitalisti, frutto di una più lunga esperienza”. Da ciò viene che la via attraverso cui l’operaio delle colonie e semicolonie può migliorare la sua condizione è una lotta più efficace contro i capitalisti. Ne viene anche che, se l’operaio dei paesi imperialisti lotta più e meglio contro i capitalisti (che in larga misura sono gli stessi che sfruttano anche i lavoratori delle colonie e semicolonie), indebolisce i nemici dell’operaio delle colonie e quindi lo aiuta.

Conclusione rivoluzionaria della nostra teoria giusta: non è l’astinenza, l’austerità o l’elemosina dell’operaio dei paesi imperialisti che aiutano l’operaio delle colonie e semicolonie, ma la sua lotta contro i capitalisti. Il suo aiuto è tanto maggiore quanto più energica ed efficace è la sua lotta. Non le ONG (Organizzazioni Non Governative), le missioni e gli “aiuti umanitari”, ma la lotta condotta dai comunisti aiuta gli operai delle colonie a sollevarsi dallo sfruttamento e dall’oppressione. È questo che serve loro e non “maggiori capitali, maggiori investimenti, maggiori aiuti dagli Stati e dai gruppi imperialisti”.

Naturalmente anche l’operaio delle colonie e delle semicolonie aiuta l’operaio dei paesi imperialisti: lottando contro gli imperialisti e i loro agenti locali (borghesia compradora, borghesia burocratica e residui feudali). Ogni successo, ogni passo avanti che egli compie su questo terreno è anche un aiuto per l’operaio dei paesi imperialisti.

Questo è l’internazionalismo che i comunisti hanno propagandato e praticato con grandi risultati nel secolo appena finito. È questo che promuoveranno anche nel nuovo secolo.

 

M.C (Palermo)

 

 

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