Tribuna libera

Rapporti Sociali n. 25 - giugno 2000 (versione Open Office / versione MSWord )

 

**** Manchette

In queste pagine la redazione di Rapporti Sociali ospiterà interventi firmati (se del caso con pseudonimi) di compagni dei CARC, di compagni di altre FSRS, di lettori e in generale di tutti quelli che vorranno portare il loro contributo all’elaborazione del Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano. Riflessioni, critiche e proposte verranno pubblicate integralmente e portate a conoscenza di tutti i lettori, in modo da promuovere un lavoro collettivo per verificare e rafforzare le idee giuste e smascherare ed estirpare le idee sbagliate, migliorare l’analisi della fase, arrivare a una comprensione più profonda della lotta di classe in corso nel nostro paese e nel mondo, tirare le conclusioni più giuste per rafforzare e condurre alla vittoria la lotta della classe operaia e delle masse popolari per il socialismo.

A più di un anno dalla pubblicazione del Progetto di Manifesto Programma il dibattito si sta sviluppando. Alla SN sono pervenuti diversi interventi che non possono essere pubblicati su questo numero della rivista. Le pagine a disposizione per questo dibattito sono già insufficienti e questo ci costringe a pubblicare solo estratti, a rimandare la pubblicazione di alcuni interventi e alla pubblicazione a puntate.

Per permettere lo sviluppo di un più ampio e immediato dibattito sul Manifesto Programma la Segreteria Nazionale dei CARC lancia un appello alle altre FSRS singole e organizzate per la costituzione di una redazione che pubblichi un Bollettino di discussione. Una rivista che ha l’obiettivo di sviluppare il dibattito sul Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano tramite la raccolta e la pubblicazione di interventi di organismi, singole FSRS, rivoluzionari prigionieri (non dissociati), esuli e latitanti (non dissociati).

I singoli compagni e gli organismi interessati a lavorare su questo progetto possono scrivere o telefonare alla SN di Edizioni Rapporti Sociali, via Bruschetti n. 11 - 20125 Milano tel/fax 026701806

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Una lettera dal gruppo di studio marxista leninista sardo Antonio Gramsci

 

Ai compagni della SN dei CARC

Come gruppo di studio marxista-leninista che vive e lotta in Sardegna vorremmo chiarire alcuni passaggi che sono stati toccati dall’O.I.R. (Organizzazione Indipendentista Rivoluzionaria) riguardo al punto 10 del Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano: “Assoluta libertà di lingua e di cultura per le minoranze nazionali e linguistiche. Misure per sviluppare la cultura tradizionale e assicurare la vita delle minoranze in ogni campo”.

Noi siamo convinti che le loro tesi sono poco chiare e sbagliate per una serie di ragioni che cercheremo di esporre in questo intervento. La base che permette ai comunisti di affrontare e risolvere il problema dell’oppressione nazionale è ben comprendere i concetti di internazionalismo proletario e di autodeterminazione dei popoli, oltre ad avere una chiara posizione politica.

Nel numero 23/24 di Rapporti Sociali i patrioti dell’O.I.R. scrivono: “Noi siamo comunisti e siamo sardi, ed è assolutamente consequenziale che se non esiste lo stato sardo dobbiamo assumerci l’onore e l’onere di dirigere la lotta d’indipendenza del nostra popolo per creare la Repubblica Popolare Socialista Sarda”. Non abbiamo ben capito in che modo arriveranno a creare la R.P.S.S.: forse attraverso la guida di un fronte di liberazione nazionale oppure attraverso la guida del P.C.S. (Partito Comunista Sardo) o del n.P.C.I.?

Anche noi siamo un gruppo di proletari sardi e comunisti, ma non siamo indipendentisti, perché per noi la lotta per i diritti nazionali è legata in modo indissolubile agli interessi generali della classe operaia e quindi alla lotta per la rivoluzione socialista. In questa fase il compito principale dei comunisti è la ricostruzione del Partito Comunista Italiano ed è in questo che impegneremo tutte le nostre forze perché l’unica classe che può abbattere il capitalismo e quindi abolire l’oppressione nazionale è la classe operaia con i suoi alleati e il suo Partito Comunista. Infatti, facendo propria la questione nazionale, la classe operaia conferisce alla lotta nazionalista il carattere internazionalista. “Il nazionalismo borghese e l’internazionalismo proletario sono due parole d’ordine inconciliabilmente avverse, che corrispondono a due grandi schieramenti del mondo capitalista e che esprimono due linee politiche (di più: due concezioni del mondo) nella  questione nazionale.” (Lenin, Osservazioni critiche sulla questione nazionale); “Organizzandosi sulla base delle nazionalità, gli operai si chiudono nel loro guscio nazionale, divisi l’uno dall’altro da barriere organizzative. Si mette in rilievo non ciò che vi è di comune tra gli operai, ma ciò che li distingue l’uno dall’altro (...). Perciò l’organizzazione di tipo nazionale è la scuola della ristrettezza e del particolarismo nazionale.” (Stalin, Il marxismo e la questione nazionale).

Noi non neghiamo il diritto del popolo sardo a lottare per la propria autodeterminazione, ma crediamo che in questa fase il compito dei comunisti che vivono e lottano nel territorio sardo assuma come obiettivo principale la lotta rivoluzionaria socialista condotta da tutto il proletariato italiano unito nel nuovo Partito Comunista Italiano per abbattere lo stato capitalista e non viceversa la creazione di organizzazioni in Sardegna che conducano la lotta contro il capitalismo imperialista italiano separatamente. Non neghiamo, in linea di principio, l’obiettivo della lotta di liberazione nazionale del popolo sardo, si tratta solo di collocarla al posto giusto.

Per noi comunisti, il socialismo è la trasformazione dei rapporti di produzione e del resto dei rapporti sociali promossa e diretta dalla classe operaia che in essa trova la propria emancipazione. Nella fase attuale (società imperialista anticamera del socialismo) il salto dalla società capitalista al socialismo ha come obiettivo l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione dello Stato della classe operaia attraverso la rivoluzione proletaria. È chiaro che, affermando questo, è fuori da ogni dubbio che esiste un rapporto stretto tra l’obiettivo della liberazione sociale e quello della liberazione nazionale, ma è altrettanto vero che oggi, cioè nella fase imperialista del capitale, è altamente improbabile che possa avvenire la liberazione di una o più nazioni di uno stesso Stato borghese senza la contemporanea trasformazione dei rapporti sociali ed economici che sono alla base dello sfruttamento e della oppressione. “(...) Ancora una volta: le condizioni storiche concrete, come punto di partenza; l’impostazione dialettica della questione, come unica impostazione giusta; questa è la chiave per la soluzione della questione nazionale.” (Stalin, Il marxismo e la questione nazionale). Dicevamo prima che la nostra lotta ha carattere socialista e che solo il socialismo può dare ai popoli oppressi uno stato di cose di autentica libertà; quindi è indiscutibile che la lotta di liberazione del popolo sardo è legata alla lotta rivoluzionaria del proletariato e delle altre masse lavoratrici italiane per l’abbattimento dello Stato imperialista italiano per l’instaurazione della Dittatura del Proletariato.

La pratica dell’internazionalismo proletario e la lotta per il socialismo sono un tutt’uno e non escludono la lotta per i diritti nazionali; al contrario, lottando insieme con il proletariato e le altre masse lavoratrici italiane sotto la direzione del n.P.C.I., il proletariato con le altre masse lavoratrici sarde sarà cosciente di lottare non solo contro lo sfruttamento e l’oppressione di classe, ma anche contro l’oppressione e il colonialismo dell’imperialismo della borghesia italiana nel territorio della Sardegna.

Noi siamo certi che, in questa fase, la cosa più importante per il proletariato dello Stato italiano è la lotta contro la borghesia italiana e l’abbattimento del suo Stato; soltanto quando questa contraddizione sarà risolta, anche la questione dell’autodeterminazione del popolo sardo sarà realizzata. “Gli interessi della classe operaia e la sua lotta contro il capitalismo esigono piena solidarietà e l’unità più stretta degli operai di tutte le nazioni, esigono che si opponga resistenza alla politica nazionalista di qualsiasi nazionalità.” (Lenin, Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione).

Con l’acuirsi delle contraddizioni sociali e politiche, in alcuni paesi europei il problema delle oppressioni nazionali diventa un problema che tocca vari strati di popolazioni, generando in tal modo una serie di movimenti che hanno come obiettivo la lotta di liberazione nazionale. Le organizzazioni che dirigono questi movimenti hanno come teoria la concezione della lotta di liberazione nazionale come l’unico modo per arrivare al socialismo. Affermare questo senza tenere presente la fase attuale (cioè fase imperialista e quindi fase della rivoluzione socialista), significa di fatto far tornare la storia indietro alla fase delle rivoluzioni democratiche borghesi o, peggio ancora, equiparare le realtà sociali e politiche con tutte le contraddizioni presenti delle nazionalità oppresse europee a quelle di colonie o paesi semi feudali o dipendenti. Queste teorie, che di fatto dividono il proletariato secondo le proprie nazionalità dentro uno stesso Stato, non han no nulla a che vedere con il concetto di internazionalismo proletario (per quanto loro lo pretendono). Secondo noi infatti, il lavoro dei comunisti della nazione che opprime deve avere come contenuto una propaganda con caratteristiche che diano risalto alle differenti nazionalità dentro lo stesso Stato e all’esistenza dell’oppressione nazionale, l’educazione delle masse a una concezione internazionalista basata sul rispetto delle diverse nazionalità così come al diritto di scegliersi il proprio destino in quanto nazioni, cioè il diritto a separarsi, il diritto a costituirsi in Stato indipendente. Altresì i comunisti delle nazioni oppresse devono dare contenuto internazionalista e di classe al loro lavoro rivoluzionario, affermando con chiarezza, nella loro lotta di agitazione e propaganda, che solo abbattendo lo Stato capitalista e attraverso la rivoluzione socialista si potrà effettivamente realizzare l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, dirigendo la lotta verso una più salda e fraterna unità del proletariato di tutte le nazionalità contro il nemico comune, la borghesia e il suo Stato, e con la ricostruzione del PCI unico. “(...) La socialdemocrazia, quale partito del proletariato, si pone come compito concreto e principale l’appoggio all’autodecisione non dei popoli e delle nazioni, ma del proletariato in ogni nazionalità. Noi dobbiamo tendere sempre e incondizionatamente alla più stretta unione del proletariato di tutte le nazionalità (...)”.(Lenin, La questione nazionale nel nostro programma).

Inoltre, rispetto al rapporto con i compagni indipendentisti, l’ostacolo maggiore a una più stretta collaborazione è il fatto che nel confronto essi pongono come discriminante non il marxismo (da loro rivendicato), ma l’indipendenza della Sardegna, il feticcio del confine dunque, questo sì retaggio della cultura borghese. A queste condizioni è palese come per questi compagni sia prioritaria la questione nazionale rispetto alle tematiche economiche, che sono invece il reale fondamento del colonialismo, e quindi il nodo cruciale da sciogliere per il superamento dello stesso. È indubbio che limitare il confronto politico al punto indipendenza sì/no produca nell’immediato una divisione dei comunisti sardi che da un lato agevola le correnti nazionaliste sarde (non proprio propense alla creazione di una R.S.S.), dall’altro favorisce il capitalismo (sardo e italiano) e le sue forme di repressione.

Soprattutto la libertà e il rispetto fra i popoli non si risolvono essenzialmente nella coincidenza Stato = nazione, perché le etnie esistono e si legittimano prescindendo dai confini nazionali.

Gruppo di studio marxista sardo Antonio Gramsci

 

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ALCUNE CONSIDERAZIONI DEL CARC DI ABBADIA SAN SALVATORE (1)

1. Ogni piccola zona del territorio nazionale è controllata dalla borghesia imperialista. Ogni piccola zona del territorio nazionale deve essere analizzata dal particolare al generale dai comunisti. Vi sono sfumature per l’analisi classe che ci aiutano a comprendere meglio l’essenza di quegli elementi dell’analisi e dell’inchiesta che possono servire al partito comunista nel lavoro di comprensione della composizione di classe delle masse popolari.

 

Con il procedere della crisi economica si manifestano tra le masse popolari due aspetti. Il primo, sicuramente più avanzato, sta nella constatazione del peggioramento delle condizioni di vita, nella sfiducia sempre più manifesta dei lavoratori nei confronti della borghesia imperialista. I peggioramenti in campo economico, politico e culturale coinvolgono tutti gli strati sociali, dal lavoratore dipendente pubblico e privato al commerciante, all’artigiano fino al piccolo e medio imprenditore.

Il lavoratore non conosce le cause della crisi economica, cioè l’origine dei suoi mali, però vive tutto questo materialmente. Bisogna tener conto che una stessa famiglia spesso è composta dal pensionato, dallo studente, dal lavoratore, dal disoccupato, ecc. I problemi e le difficoltà sono conosciuti e viene sempre meno la tendenza indotta dalle concezioni borghesi a contrapporsi ad altri lavoratori, a credere, insomma, che l’erba del vicino sia sempre più verde e che il vicino se la voglia mantenere tale per mero egoismo. Assistiamo al peggioramento delle condizioni di alcuni settori di lavoratori e vediamo che ciò non comporta miglioramenti in altri settori, ma un ulteriore peggioramento generale.

 Qui entra prepotentemente in gioco il partito comunista dirigendo le masse popolari al fine di risolvere definitivamente la crisi economica, dirigendo le lotte rivendicative (che ci sono comunque anche in assenza del Partito) e trasformandole in lotta politica, facendo prevalere la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari sulla mobilitazione reazionaria che la borghesia imperialista cerca di imporre.

È uno scontro diretto tra borghesia imperialista e classe operaia. È uno scontro che vedrà vittoriosa la classe operaia. Comunque vadano le cose, con tutti i possibili rallentamenti ed arretramenti, che lo si voglia o no, questa lotta cesserà solo con la vittoria del socialismo sul capitalismo (vedi Progetto di Manifesto Programma, pag. 62).

Analizzando bene la situazione attuale ci rendiamo conto dell’enorme ritardo nella ricostruzione del partito. Le masse popolari invece sono molto avanti e lo manifestano in mille modi, molti dei quali non immediatamente rilevabili ma ugualmente importanti. I lavoratori tendenzialmente vanno verso il partito, ne sentono il bisogno, ne cercano la direzione. Ciò è indotto dalla disciplina del lavoro cui sono sottoposti e dal bisogno di comprendere la situazione in modo da risolvere la crisi. Fanno questo non a livello personale,(2) ma a livello collettivo, di classe. Il partito riuscirà non solo a soddisfare le aspettative cosiddette “materiali”, ma attraverso di esse e con l’arma del materialismo scientifico e dialettico saprà soddisfare anche le aspirazioni spirituali e prenderà in mano ogni aspetto, non solo quello politico, della vita delle masse.

 

2. Il livello personale è quello in cui la borghesia con i suoi servi cerca di relegarli.

 

Il processo di ricostruzione del partito innescato con la costituzione della Commissione Preparatoria del congresso di fondazione del (nuovo)Partito comunista italiano (CP) e la pronta risposta della borghesia con l’azione del 19 ottobre hanno ulteriormente contribuito a mettere in luce il secondo aspetto, tipico di alcuni che si definiscono comunisti, di gruppi, gruppetti, forze soggettive e appartenenti a partiti della sinistra borghese come la base dei DS, i cossuttiani e alcuni del PRC. Costoro rappresentano una estrema minoranza, ma sono ugualmente pericolosi in quanto sono utilizzati dalla borghesia per rallentare e per deviare, anche momentaneamente, l’attenzione delle masse dal processo di ricostruzione del partito. Questi elementi parlano di comunismo come se si potesse attuare nella società capitalista. Non pensano ad una società diversa, dove la classe operaia si impossessa della macchina dello Stato e la dirige. Non pensano a estirpare di colpo la dittatura borghese. Pensane che questa dittatura sia compatibile con le esigenze dei poveri. Immaginano che si possa imporre una sorta di giustizia astratta, dove verrebbero magari prima gli oneri e i doveri, quindi i piaceri. Costoro intendono attuare una specie di clericalismo bigotto, imposto a forza usando lo Stato come strumento repressivo.

Anche costoro non conoscono la natura della crisi e non la vogliono nemmeno conoscere. La loro è una concezione ultrasinistra tesa a costringere i ricchi egoisti (artigiani, commercianti) a pagare le tasse e a obbligare tutti a fare sacrifici. Questi pseudocompagni non analizzano la situazione e le condizioni reali e parlano in base alle proprie idee che non sono nemmeno tanto originali perché sono dettate dalle concezioni borghesi. Quando arrivano a fare i conti con la dura realtà, il loro settarismo diventa opportunismo. È emblematico l’articolo apparso su La nostra lotta (pag. 3, n. 8, dicembre ’99), intitolato: “Le tasse le devono pagare i capitalisti e i ricchi”. Questi critici del PRC che partono da Marx arrivano a Henver Hoxa via Stalin ripudiando il maoismo come revisionismo e si uniscono al coro dei deviazionisti di varia natura, come quelli che dividono empiristicamente il materialismo scientifico e dialettico come teoria di Marx, Lenin, Stalin, Mao, considerando ognuna di queste figure come entità a sé stanti e la teoria come un’astrazione composta di parti dissimili l’una dall’altra. Non vedono l’uniformità ideologica nel percorso storico della lotta di classe. Vedono il materialismo scientifico senza la dialettica, perciò non riescono a esaminare la storia in senso evolutivo e rivoluzionario. Per loro lo schiavo dell’antica Grecia è lo stesso dell’operaio FIAT (vedi pag. 1 dello stesso giornale). Per avvalorare le loro tesi assumono veste di rivoluzionari, ma come provano a fare un minimo di analisi, il loro settarismo non li  salva dall’opportunismo. Per ironia della sorte danno ragione a Mao quando afferma che gli ultrasinistri settari finiscono per collaborare con la borghesia tradendo la classe operaia. Mao nei suoi scritti porta vari esempi di ultrasinistri che, scontrandosi con la dura realtà, affibbiano alla classe operaia la targa di classe arretrata e così quelli di La nostra lotta arrivano agli stessi risultai degli operaisti trotzkisti che militano nel loro criticato PRC. Nello scritto citato affermano: “Noi comunisti sosteniamo che si devono pagare le imposte, ma che lo deve fare chi ha sufficienti risorse per farlo”. E ancora: “Grandi e piccoli imprenditori, professionisti e commercianti... versano un contributo economico quasi nullo in relazione alla loro capacità economica”.

Vorremmo fare alcune osservazioni in merito sulla base della nostra esperienza politica. Certe argomentazioni possono condurre ad affermazioni tese alla difesa della Costituzione, o ad ammettere che i sacrifici sono giustificati e che non dobbiamo essere “egoisti”.(3) Bisogna chiarire la natura della crisi, capire se è dovuta a elementi egoisti che non vogliono fare sacrifici e che non vogliono pagare le tasse, o se è una crisi prodotta dallo stesso capitalismo.

 

3. Si legga al riguardo l’articolo di M.M. “Anzitutto facciamo pulizia nella nostra testa” Rapporti Sociali n. 23/24.

 

A proposito delle tasse facciamo un esempio concreto. Guardiamo la situazione del Monte Amiata e delle zone limitrofe. È un territorio dove la borghesia imperialista non è presente direttamente, ma indirettamente è presente con le banche, con le forze della repressione e con l’apparato burocratico. Il fatto che non sia presente fisicamente in zona ha determinato il mancato sviluppo economico dell’area: infatti non sono stati costruiti, dal dopoguerra ad oggi, tutte quelle infrastrutture come strade, ferrovie, ecc. di cui solitamente si dota il capitalismo per permettere non solo di sviluppare la produzione, ma anche una facile distribuzione delle merci.

Nella zona le strade sono sempre quelle medioevali, tortuose, strette, con ponti a schiena d’asino. Ci si deve passare non solo con le auto ma anche con i mezzi pesanti, e quindi con difficoltà, in mezzo a paesi, frazioni e borghi. L’unica ferrovia esistente, la stazione di Monte Amiata, è stata tra le prime ad essere chiuse dall’infame progetto “rami secchi” di Craxi & C.

La nostra è un’esatta fotografia di come la borghesia imperialista sia totalmente disinteressata agli affari, agli interessi, alle esigenze, alle aspirazioni e alle necessità delle classi subalterne, non solo della classe operaia ma anche della piccola e media borghesia locale, che spesso ha dovuto trasferire i suoi impianti per poter lavorare meglio. Altro che sviluppo del territorio di cui vanno blaterando i politicantetti locali! Il disinteresse riguarda anche la nostra salute e la nostra incolumità: infatti sono molti i morti per incidenti stradali (4) a causa delle condizioni precarie delle strade e molti sono stati i bambini falciati da automobili sull’uscio di casa.

 

4. L’uso stesso dei mezzi di locomozione privati incentivati e imposti dalla borghesia imperialista va a discapito della nostra salute e incolumità, ma anche in questo caso il disinteresse della nostra classe dominante è totale.

 

Una splendida immagine la offrono per contro i centri dove la borghesia imperialista ha avuto necessità di fare in tempi brevi ferrovie, strade, ecc. Nel Mugello l’alta velocità è stata costruita a tempo di record, mentre a Monteroni d’Arbia, 15 Km a sud di Siena, per costruire uno svincolo di 3,8 Km di lunghezza sono occorsi circa 15 anni. Alla fine s’è fatto perché la gente ha manifestato a lungo e duramente occupando la strada e interrompendo il traffico molte volte. Questo alla luce del fatto che il progetto stradale della Firenze - Roma era stato approvato nell’immediato dopoguerra, costruendo nella seconda metà degli anni ’60 il tratto Firenze - Siena e solo recentemente il tratto Viterbo - Roma (Cassia - bis).(5)

 

5. Qualcuno potrebbe obiettare che son stati migliorati altri tratti di strada. Sono state eliminate ad esempio le orribili curve dei tratti S. Quirico - Torrenieri. Qui però la questione è diversa. La strada passa vicino a Montalcino e infatti è stato fatto un opportuno svincolo. La realizzazione dell’opera a metà degli anni ottanta è avvenuta nel periodo in cui gli imperialisti USA, a braccetto con il Vaticano, hanno investito capitali nel “Brunello” di Montalcino. Quelle curve erano  per loro troppo scomode e le hanno fatte togliere. Ma quel tipo di attività e quelle collaterali (turistiche, agrituristiche e termali) non abbisognavano di ulteriori lavori. Anzi, certe stradine sono pittoresche e gratificano gli occhi dei ricchi sfaccendati che vogliono trascorrere il loro tempo libero senza troppi rumori per le loro orecchie delicate.

 

Senza dilungarci oltre su particolari tediosi è importante comprendere e, soprattutto in questo caso, far comprendere che gli interessi della borghesia imperialista non sono quasi mai quelli delle masse popolari. Questa classe ha la proprietà dei mezzi di produzione, è l’unica classe che dirige le funzioni dello Stato e lo fa a suo uso e consumo. Quando qualcuno prova a rinfacciarle questa situazione, la borghesia dichiara che la natura dell’uomo è così: nessuno fa niente per nulla e tutti siamo egoisti. Estendono i propri vizi a peccati “originali” dell’intera umanità, tacciando il comunismo come mera e fastidiosa utopia (vedi Rapporti Sociali 23/24 “Contro le caricature del marxismo”).

Con quanto detto finora non vogliamo affermare che la borghesia imperialista si disinteressa e abbandona quest’area. Le forme economiche e in particolare quelle commerciali del capitalismo funzionano da noi come in ogni altra zona e il territorio è condizionato e controllato. Il controllo avviene in varie forme, ma quella più esemplare è la forma dei famosi stanziamenti statali per le attività più disparate, anche le più inutili. Valga ad esempio lo stanziamento di 20 miliardi di lire effettuato dal governo Craxi per rimettere a posto la rocca di Radicofani (quella di Ghino di Tacco). Più recentemente ci sono stati i 30 miliardi spesi ad Abbadia per il museo minerario. Non parliamo poi della “riconversione industriale” degli anni ’80, in cui erano previsti interventi arditi tipo il surgelamento del pesce. In montagna questo tipo d’intervento viene meglio soprattutto d’inverno; peccato che, dopo aver speso un po’ di miliardi, non ne hanno fatto più nulla. Ma quello che a noi interessa è che attraverso questo tipo di attività (spesso al limite della legalità) la borghesia mantiene il controllo del territorio foraggiando un esercito di burocrati e galoppini che a vari livelli fanno il suo interesse. La borghesia imperialista non può e non vuole abbandonare a se stesse queste aree e perciò ne mantiene il controllo economicamente e politicamente, creando entro la classe operaia un’aristocrazia che ha realizzato lo scopo borghese di distogliere le masse dalla rivoluzione socialista, di corrompere e distruggere il partito e il sindacato, di mettere masse contro masse.

Nasce a questo punto un altro fraintendimento o una deviazione a proposito della natura dello Stato, quella che confonde tra statalizzazioni, privatizzazioni e società socialista. È una confusione indotta anche da cinquant’anni di revisionismo moderno, il quale ha affermato che attraverso le statalizzazioni si accedeva pacificamente alla società socialista.

La borghesia imperialista ha statalizzato aziende e servizi. Tutto questo è stata una conquista per la classe lavoratrice, conquista ottenuta con le lotte operaie guidate dal suo partito. È stato però anche utile per la stessa borghesia, utile ai suoi bisogni, a facilitare, cioè, l’accumulazione di capitale. Attualmente c’è la crisi economica e la borghesia privatizza per lo stesso motivo. Questo non vuol dire che lo Stato non è presente, che non s’interessa più dell’economia delle aziende e delle banche. Tutt’altro. Oggi lo Stato della borghesia imperialista interviene ancora più massicciamente di prima per tutelare gli interessi di questo o quel gruppo borghese. Ciò si evidenzia nei momenti di crisi, dove, in nome della salvaguardia dei posti di lavoro, si stanziano a migliaia i miliardi. Poi i lavoratori finiscono in mezzo alla strada e i soldi nelle tasche di questa o quella fazione della borghesia, generando litigi sulla spartizione del bottino, alla faccia dei nostri operaisti ed economicisti.

Per società socialista si intende la società dove il potere è in mano alla classe operaia. Si legga in proposito il Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano della Segreteria Nazionale dei CARC.

Abbiamo portato un piccolo esempio particolare. Si dimostra anche qui, però, che il pagare le tasse non ha la funzione che sembra logico attribuirgli. Le entrate e le uscite di una nazione non possono esser paragonate a quelle della famiglia o della piccola azienda individuale. Si tratta di un’ulteriore estorsione di plusvalore, come avviene per il pagare le multe, con l’aggravante che, non essendo un’estorsione di plusvalore nell’ambito della riproduzione capitalista, non rallenta né risolve la crisi per sovrapproduzione di capitale, anzi aggrava le sofferenze dei lavoratori e foraggia le tasche della classe dominante, la quale, se non trova consistenti resistenze interne, tende ad accentuare le contraddizioni intercapita liste (tra USA, Europa e Giappone) e la tendenza alla guerra imperialista.

 

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Sul Progetto di Manifesto Programmi del Nuovo partito comunista italiano

Seconda parte

(La prima parte dell’intervento è stata pubblicata a pag. 47 del n. 23/24)

 

Il parlamentarismo è “politicamente superato”? Questa è un’altra questione. Se fosse cosi, la posizione della “sinistra” sarebbe salda. Ma ciò deve ancora essere dimostrato per mezzo della più accurata analisi. Ma i radicali non sono capaci di passare all’analisi.(...) Anzitutto i tedeschi della “sinistra” fin dal gennaio 1919, come è noto, ritenevano che il parlamentarismo fosse “politicamente superato”, malgrado l’opinione di capi politici così eminenti come Rosa Luxemburg e Carlo Liebnecht. È noto che i “sinistri” hanno sbagliato. (...) Per i comunisti in Germania il parlamentarismo, s’intende, è “politicamente superato”; ma si tratta precisamente di NON ritenere come superato PER LA CLASSE, PER LE MASSE ciò che è superato soltanto PER NOI. E qui vediamo di nuovo che i “sinistri” non sanno ragionare, non sanno comportarsi come partito DELLA CLASSE, come partito DELLE MASSE. Voi siete in dovere di non scendere al livello delle masse, degli strati arretrati della classe. Questo è incontestabile. Voi avete il dovere di dir loro l’amara verità. Voi avete l’obbligo di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratici borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete l’obbligo di considerare ponderatamente lo stato EFFETTIVO della coscienza e della maturità della classe tutta intera (e non soltanto dell’avanguardia comunista), di tutte quante le MASSE lavoratrici (e non soltanto di singoli elementi avanzati). Anche se non delle “legioni” ma semplicemente una minoranza abbastanza importante di operai industriali segue i preti cattolici e una minoranza importante dei lavoratori agricoli segue i proprietari terrieri e i contadini ricchi, ciò dimostra già IN MODO INDUBITABILE che il parlamentarismo in Germania NON È ANCORA superato politicamente, che la partecipazione alle elezioni parlamentari e alla lotta dalla tribuna parlamentare è OBBLIGATORIA per il partito del proletariato rivoluzionario, PRECISAMENTE al fine di educare gli strati arretrati della PROPRIA CLASSE. Finché voi non siete in grado di sciogliere il parlamento borghese e le istituzioni reazionarie di ogni altro tipo, voi avete L’OBBLIGO di lavorare nel seno di tali istituzioni APPUNTO perché colà vi sono ancora degli operai inebetiti dai preti e dall’ambiente dei piccoli centri sperduti; altrimenti rischiate di non essere che dei chiacchieroni”. Seguendo interamente le indicazioni di Lenin, il II Congresso dell’Internazionale comunista (luglio 1920) approvò la risoluzione “Il partito comunista e il parlamentarismo”, nella quale si sottolinea come nell’epoca dell’imperialismo si sia modificato il ruolo del parlamentarismo, giacché, mentre nell’epoca precedente (ossia prima del passaggio al capitalismo “della nuova economia del capitale monopolistico”) “il parlamento, strumento del capitalismo in via di sviluppo ha, in un certo senso, lavorato per il progresso storico”, nelle nuove condizioni “caratterizzate dallo scatenamento dell’imperialismo, il parlamento è divenuto uno strumento di menzogna, di frode, di violenze, di distruzione, di atti di brigantaggio”, per cui “le riforme parlamentari, sprovviste di spirito di continuità e di stabilità e concepite senza piano d’insieme, hanno perduto ogni importanza politica per le masse lavoratrici”. Nella stessa risoluzione si afferma poi che “il centro di gravità della vita politica attuale è completamente uscito dal parlamento”, ma si aggiunge che “d’altra parte, la borghesia è obbligata, per i suoi rapporti con le masse lavoratrici e anche a seguito dei rapporti complessi esistenti in seno alle classi borghesi, a fare approvare in diversi modi certe sue azioni dal parlamento” e che (...) “lo stato maggiore rivoluzionario della classe operaia è d’altronde profondamente interessato ad avere nelle istituzioni parlamentari della borghesia degli osservatori che faciliteranno la sua opera di distruzione (di tali istituzioni, n.d.r)”. Ecco quindi come sono definiti, in tale storico documento leninista il ruolo e i compiti dei partiti comunisti a fronte delle istituzioni della democrazia parlamentare borghese: “Non può esservi questione dell’UTILIZZAZIONE delle istituzioni di governo borghesi che in vista  della loro distruzione” (il maiuscolo è nostro). (...) “Nella lotta di massa (...) il partito dirigentedel proletariato deve in regola generale RINFORZARE TUTTE LE SUE POSIZIONI LEGALI, farne dei PUNTI DI APPOGGIO secondari della sua azione rivoluzionaria. (...) La tribuna del parlamento borghese è UNO DI QUESTI PUNTI DI APPOGGIO secondari. NON SI PUÒ INVOCARE CONTRO L’AZIONE PARLAMENTARE LA QUALITÀ BORGHESE DELL’ISTITUZIONE STESSA. (...) Questa azione parlamentare consiste soprattutto nell’usare la tribuna parlamentare ai fini di agitazione rivoluzionaria. (…) La campagna elettorale deve essere condotta non nel senso dell’ottenimento del massimo dei mandati parlamentari, ma in quello della mobilitazione delle masse.” (Il maiuscolo è nostro). Abbiamo voluto riprodurre tale lunga serie di citazioni, poiché ci sembra che, nel loro insieme, definiscano in modo esemplare, ed assai meglio di quanto noi stessi non saremmo in grado di riuscirci, la posizione che i comunisti dovrebbero assumere in ordine alle istituzioni democratico-borghesi. Va d’altra parte tenuto presente che le tesi di Lenin e del III Congresso dell’Internazionale comunista sul parlamentarismo risalgono ad un periodo di estrema crisi politica e - per quanto riguarda la fase del primo dopoguerra - generalmente rivoluzionario. Pur trovandoci oggi in un periodo storico oggettivamente più avanzato (date le più estese dimensioni raggiunte dalla crisi sistemica del capitalismo), la situazione politica attuale è incomparabilmente più arretrata rispetto a quella che ebbe il suo coronamento nella rivoluzione di Ottobre e nella nascita della III Internazionale. Facendo un bilancio del reale sviluppo della lotta di classe dopo quegli eventi, risulta chiaro che, per il proletariato dei paesi capitalisti avanzati, la via del potere si è rivelata assai più ardua e complessa del previsto. L’analisi della reale dinamica delle classi sociali e dell’esperienza politica concreta del movimento operaio in questi paesi ci ha condotto a ritenere che il bandolo, il nodo principale da sciogliere per aprire al proletariato dei paesi imperialisti la strada del potere, la strada della vittoria rivoluzionaria e del socialismo, è essenzialmente rappresentata dalla cosiddetta questione delle alleanze, strettamente connessa a quella dell’utilizzo delle contraddizioni interne della borghesia, onde poter indebolire progressivamente e quindi abbattere un nemico di classe dimostratosi molto più potente ed agguerrito di quanto fosse possibile prevedere. Gramsci, Stalin e Mao Tse-tung ben compresero, del resto, l’importanza fondamentale di tale questione, sviluppando coerentemente le indicazioni strategiche e tattiche essenziali in materia consegnateci da Lenin, pur attenendosi agli stessi principi di fondo che le ispiravano, innestati sulla teoria del materialismo dialettico marxista. Il fatto che la borghesia imperialista sia divenuta, nell’epoca odierna, ancor più reazionaria, il fatto che si sia accentuata la sua tendenza storica a soppiantare le tradizionali istituzioni rappresentative della democrazia politica, sostituendole con forme di potere sempre meno democratiche e sempre più autoritarie, non può essere considerato un motivo valido per desistere dalla difesa di tali istituzioni, fintantoché ciò può risultare utile alla classe operaia e fintantoché vasti strati della popolazione lavoratrice continuano, quantunque erroneamente, a farvi affidamento.

Da qui l’importanza dei movimenti democratici, in difesa delle istituzioni rappresentative e delle libertà democratico-borghesi, minacciate dalla borghesia imperialista. Solo la classe operaia, guidata dal ricostruito partito comunista, potrà dare forza ed efficacia a detti movimenti, spingendoli a dirigersi contro lo strapotere dei gruppi monopolistici e contro l’imperialismo, grazie all’intreccio che potranno determinare tra l’utilizzo antagonistico delle istituzioni democratico-borghesi e le forme di autorganizzazione proletaria e popolare che saranno in grado di far crescere. In tal modo, il ricostruito partito comunista della classe operaia potrà “raggruppare la maggioranza del popolo” attorno a sé, sfruttando le contraddizioni esistenti nel campo della borghesia, apprestando quindi le condizioni sociali e politiche più propizie per l’assalto risolutivo contro il dominio capitalista. “I comunisti - diceva Lenin nel già citato scritto “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” - devono fare tutti gli sforzi per incanalare il movimento operaio e lo sviluppo sociale in genere sulla via più diritta e più rapida verso la vittoria mondiale del potere sovietico e della dittatura del proletariato. Questa è una incontestabile verità. Ma basta fare un piccolo passo più lontano - anche se sembrasse un passo nella medesima direzione perché la verità si cambi in errore. Basta dire, come dicono i comunisti di sinistra tedeschi ed inglesi,  che noi riconosciamo soltanto una via, quella diritta. (...) Il dottrinarismo di sinistra si impunta nella negazione assoluta di determinate vecchie forme, e non vede che il nuovo contenuto si apre la strada attraverso ogni e qualsiasi forma, che il nostro dovere come comunisti è di acquistare la padronanza di tutte le forme (di lotta, n.d.r.), di apprendere a completare con la massima rapidità una forma per mezzo di un’altra, a sostituire una forma con l’altra, ad adattare la nostra tattica ad ogni simile sostituzione non causata dalla nostra classe, né dai nostri sforzi”. Purtroppo gli autori del “Progetto” tendono verosimilmente a riconoscere “soltanto la via diritta”. Essi giungono infatti ad assumere come modello di riferimento strategico e tattico (seppure “riveduto e corretto”) “l’iniziativa pratica” delle BR, ritenendo IN SOSTANZA che il “movimento di lotta armata da esse “impersonato” possa costituire la forma principale di lotta, non solo in una fase realmente rivoluzionaria, ma già in “una fase culminante della lotta delle masse per strappare conquiste nell’ambito della società borghese”, fase che sarebbe esistita in Italia negli anni ’70 (Paragrafo 3.1.3/Capitolo III). Tale orientamento trae presumibilmente origine dall’idea che l’effettiva tendenza dominante della borghesia imperialista a trasformare lo “Stato della democrazia borghese” in “Stato della controrivoluzione preventiva” sia ormai divenuta un fatto COMPIUTO (cfr. pag. 68 del Paragrafo 2.2./Cap. II, già citato) e non sussistano perciò sostanzialmente più spazi di democrazia politica (borghese) da utilizzare per la lotta rivoluzionaria. Risulta così del tutto negletta l’importanza delle forme legali di lotta, l’importanza dei movimenti democratici in difesa di questi spazi e, per conseguenza, in difesa delle stesse istituzioni rappresentative della democrazia borghese, insidiate dai circoli dirigenti del capitale finanziario e monopolistico (i quali non hanno peraltro interesse a liquidare definitivamente tali istituzioni, fintantoché queste possono assicurare al sistema una base sufficientemente larga di consenso, atta a favorire maggiore stabilità al loro predominio). Vogliamo al riguardo fare notare i gravi rischi derivanti dalla tendenza - purtroppo manifesta nelle posizioni degli autori del “Progetto” - a sostituire, già in questa fase, l’attività legale e nelle istituzioni democratico-borghesi con l’attività illegale o meramente extraparlamentare. Già Lenin, nello stesso scritto del 1920 già citato, cercò di mettere in guardia i comunisti da tali rischi (sebbene in una fase politicamente ben più avanzata, come si è detto, rispetto a quella attuale), in base agli ammaestramenti desunti dall’esperienza del partito bolscevico: “Il rapido avvicendamento del lavoro legale ed illegale, al quale era connessa la necessità di “nascondere” in modo particolare (...) proprio lo stato maggiore, proprio i capi, produsse talvolta, da noi, dei fenomeni particolarmente pericolosi. Il peggiore di questi fu che, nel 1912 un provocatore, Malinovsky, poté entrare nel comitato centrale dei bolscevichi. Egli fece scoprire decine di compagni tra i migliori e più devoti, facendo prendere loro la via della galera ed affrettando la morte di parecchi. Per guadagnarsi la nostra fiducia, Malinovsky, come membro del comitato centrale del partito e come deputato alla Duma doveva aiutarci a pubblicare dei giornali quotidiani legali (...). Mentre con una mano mandava in galera e alla morte decine dei migliori bolscevichi, Malinovsky doveva contribuire con l’altra mano a formare, per mezzo della stampa legale, decine e decine di nuovi bolscevichi (...). In molti paesi, compresi anche i paesi più progrediti, la borghesia fa penetrare indubbiamente molti provocatori nelle file dei partiti comunisti. Uno dei mezzi per lottare contro questo pericolo è un’intelligente combinazione del lavoro legale e illegale”. Gli autori del documento in oggetto sembrano ignorare queste raccomandazioni di Lenin (le quali, per altro, coincidono con gli ammaestramenti facilmente desumibili dall’intera esperienza del movimento comunista), laddove sostengono che l’allargamento necessario della lotta delle masse debba condurre a “trasformarla in un problema di ordine pubblico”, introducendo perciò disinvoltamente l’equazione: problema politico = problema “di ordine pubblico”.

Essi tendono quindi a privilegiare le iniziative di lotta fuori della legalità istituzionale, senza fare alcun riferimento ai reali rapporti di forza esistenti, al momento dato, senza manifestamente preoccuparsi se, alla lunga, tali iniziative possano, in assenza di una guida rivoluzionaria, di un partito comunista già formato e capace di mettersi alla testa delle masse, replicare fenomeni di ricorso alle “P 38” o di “lotta armata”, in un periodo ancora relativamente lontano da una ripresa effettiva del movimento di classe e tanto più da una situazione effettivamente prerivoluzionaria o rivoluzionaria  (cfr. pagg. 86 - 87). Del resto, questa posizione si inscrive in un prospettiva strategica di lotta armata, collocata, come si è visto, in una fase di ascesa della lotta di classe, ma non ancora prerivoluzionaria o rivoluzionaria. È pertanto ovvio che, impegnandosi in forme di lotta di tale tipo, i comunisti sarebbero costretti a dare prematuramente la priorità anche a forme organizzative di tipo illegale, con le conseguenze negative già da Lenin segnalate, come sopra ricordato. Questa stessa posizione si riallaccia d’altronde al giudizio critico formulato nel “Progetto” (cfr. pag. 31) sulla politica dei partiti comunisti occidentali, nel periodo tra il primo e il secondo dopoguerra (1918 - 1945), giudizio sostanzialmente giusto, a nostro parere, con riferimento all’influenza esercitata su tale politica dalle “correnti di destra”, ma errato ed arbitrario con riferimento alle effettive concezioni della “sinistra” in quel periodo. Si tratta di un giudizio e di una posizione che si ricollegano alla teoria della cosiddetta “situazione rivoluzionaria in sviluppo” (arbitrariamente mutuata da Mao Tse-tung). Riferendosi in sostanza a detta teoria, gli autori del “Progetto” la innestano sulla tesi - in sé accettabile, a nostro parere - che la nostra epoca storica, l’epoca dell’imperialismo, sia dominata da lunghi periodi di crisi generale della società capitalista (economica, politica e culturale) e che, per conseguenza, le crisi cicliche ed i cicli economici alterni del sistema, inserendosi nel contesto di detta crisi generale, avrebbero quanto meno assunto una portata ed un’incidenza più ridotta che nell’epoca preimperialista. Ma ne evincono erroneamente che sia cessato del tutto - non solo su scala storica, bensì anche sul terreno politico immediato - l’avvicendamento di forme democratiche (quantunque limitate) e di forme oligarchiche o fasciste di potere, da parte della borghesia imperialista. In altre parole, stando al “Progetto”, la tendenza all’oligarchia ed al fascismo non sarebbe ormai più una tendenza STORICA, senza dubbio immanente ed irrevocabile, dell’imperialismo, ma una realtà POLITICA, di fatto definitiva o in via di essere posta in essere definitivamente. L’accumulazione delle forze rivoluzionarie - secondo gli autori del “Progetto” - dovrebbe pertanto unicamente procedere “SUSCITANDO (il maiuscolo è nostro) contro di sé una controrivoluzione potente, solo vincendo la quale le forze rivoluzionarie diventano capaci di fondare la nuova società” (pag. 31). Dato che gli stessi autori del documento in oggetto ipotizzano un orientamento generale delle borghesia imperialista verso la “controrivoluzione preventiva” - ciò che ci trova, del resto, sostanzialmente consenzienti - “il movimento di lotta armata” che essi prospettano - collocandolo in una fase futura, ma non ancora realmente prerivoluzionaria o rivoluzionaria - si configurerebbe come un percorso volto a sviluppare una sorta di “rivoluzione anticipata”, che dovrebbe precedere lo scatenamento della “controrivoluzione preventiva”. In altri termini, alla classe operaia ed al partito comunista spetterebbero il compito di “giuocare d’anticipo” rispetto alla borghesia imperialista. In tale contesto risulta evidente che ogni processo di lotta democratica, di ogni lotta in difesa delle istituzioni parlamentari, insidiate dalle forze della borghesia monopolistica, non potrebbe essere altrimenti considerato che come inutile e diversivo, suscettibile di ritardare lo sviluppo della lotta di classe (anziché, in realtà aiutarlo), distogliendola dal traguardo della conquista del potere da parte del proletariato. Per chi conosce la storia del movimento comunista internazionale balzano agli occhi per altro verso, le analogie tra le idee espresse dagli autori del “Progetto” e quelle formulate nel 1921 dai settari di sinistra del partito comunista tedesco, sostenitori della concezione avventurista dell’“offensiva proletaria” (secondo la quale, il partito comunista dovrebbe sempre condurre “combattimenti d’avanguardia”, fino all’offensiva armata, indipendentemente dalle condizioni obiettive contingenti, CREANDO situazioni rivoluzionarie; concezione condannata da Lenin e dal 3° Congresso della III Internazionale), nonché la parentela di quelle stesse idee con le posizioni assunte negli anni ’20 e ’30 da Bordiga e dalla sua corrente (il cui “astensionismo” pregiudizialmente antiparlamentare fu nettamente criticato da Lenin, e che sosteneva la contrapposizione DIRETTA, senza soluzioni di continuità, o fasi transitorie, tra rivoluzione comunista e controrivoluzione fascista, giudicando quest’ultima come una scelta politica ormai definitivamente irreversibile della borghesia). Ma soffermiamoci ancora sul concetto che appare sotteso alla prospettiva strategica delineata nel “Progetto” e che abbiamo designato di “rivoluzione anticipata”. Esso implica, in definitiva, a nostro parere, il proposito sconsiderato di FORZARE le tappe del processo rivoluzionario, attraverso la sollecitazione di atti di rivolta di una parte ancora limitata delle masse proletarie e popolari,  prima che le condizioni sociali e politiche obiettive siano effettivamente e sufficientemente maturate per poter consentire un’effettiva espansione dell’azione antagonistica avviata dalle forze d’avanguardia delle masse stesse. Ciò non potrebbe sortire altro effetto che quello di isolare tali forze dalla maggioranza della popolazione lavoratrice e pertanto di fare il giuoco dei partiti opportunisti e “legalitari”, fautori dell’ordine e della pace sociale, di fare il giuoco, in definitiva, della borghesia imperialista, la quale potrebbe così circoscrivere facilmente l’iniziativa antagonistica delle avanguardie di massa (senza per altro dover necessariamente abolire le forme istituzionali e le libertà democratico-borghesi fondamentali, ma tutt’al più limitandosi a contemperarle con qualche legge eccezionale, come avvenuto in Italia negli anni ’70-80), sfruttando l’emergenza per promuovere un cambiamento complessivo dei rapporti di forza a suo favore e a svantaggio della classe proletaria nel suo insieme. Diversa potrebbe invece essere la situazione in cui verrebbe a trovarsi la borghesia imperialista qualora si sviluppassero forti lotte di massa democratiche ed antimperialiste, capaci di coinvolgere, a fianco della classe operaia, vasti strati della popolazione lavoratrice (compresi necessariamente quelli del ceto medio), essendo indirizzate - in una prima fase - non contro l’assetto costituzionale della democrazia borghese, ma a sua difesa, col dichiarato intendimento di tradurre in atto i suoi principi più avanzati (che, in Italia, implicano addirittura - in quanto imposti a seguito della Resistenza antifascista - una fuoriuscita dal regime capitalista), contemplando altresì, a tale scopo, un incremento delle forme di autorganizzazione extraistituzionale, create dalle masse, a livello d’azienda e di territorio, in grado di dare un senso effettivamente antimonopolistico alle lotte stesse (senza tuttavia contrapporsi - in detta prima fase di ascesa del movimento di classe - alle forme rappresentative della democrazia istituzionale borghese, ma intrecciandosi utilmente con queste ultime). Di fronte a lotte di massa di tale natura e portata, la borghesia imperialista non potrebbe verosimilmente mancare di reagire, prima che queste possano mettere in pericolo la stabilità del sistema e la sua propria egemonia, non esitando a porre in atto operazioni o colpi di forza di tipo autoritario o fascista. Ma se ciò avvenisse in presenza di uno schieramento antagonista sufficientemente ampio, come quello sopra ipotizzato, potrebbero accentuarsi le contraddizioni all’interno della borghesia nel suo complesso e dello stesso Stato borghese. La necessità della lotta armata, a difesa delle istituzioni e delle libertà democratico-borghesi, ma anche soprattutto delle posizioni di potere conquistate dalle masse in lotta, aggredite dalle forze della borghesia imperialista, la necessità della lotta armata antifascista, potrebbe allora essere compresa anche da quella parte della popolazione lavoratrice rimasta sotto l’influenza dei partiti conciliatori della sinistra borghese e pseudoperaia, come del resto già verificatosi in passato. In tali circostanze, potrebbero più agevolmente formarsi “gruppi di combattimento” popolari, promossi, appoggiati e guidati dal ricostruito partito comunista, restando naturalmente inteso che essi dovrebbero operare in funzione dell’obiettivo della conquista del potere da parte del proletariato, sottraendosi ad ogni eventuale intento di usarli - come accaduto in passato in Italia ai combattenti della Resistenza - per ripristinare le forme della democrazia borghese, ossia della dittatura “democratica” della borghesia. Occorre, d’altra parte, considerare il fatto che la classe operaia, quale classe attualmente SUBALTERNA, non dispone né di un precostituito apparato di coercizione e di repressione, altamente attrezzato e sofisticato, né di un precostituito apparato mediatico di consenso, estremamente articolato ed affinato, di cui è invece dotata l’attuale classe dominante borghese, la quale, grazie ad esso, è in grado di porre in atto efficaci operazioni controrivoluzionarie preventive. Il proletariato può fare in primis affidamento soltanto sulla sua grande forza SOCIALE - derivante dalla sua collocazione nel sistema produttivo capitalistico - e, grazie a questa, sulla sua forza d’attrazione nei riguardi dei restanti strati sociali subalterni. Ma sappiamo che questa grande forza, pur esistendo obiettivamente, allo stato potenziale, non ha modo di esprimersi nella sua forma “attuale” o cinetica, se non quando il proletariato AGISCE come classe per sé, organizzandosi in partito politico, esprimendo il suo reparto d’avanguardia, “armato di una teoria d’avanguardia” (Lenin), portatore della coscienza di classe del proletariato.

Questo partito politico non può che essere il partito comunista, di cui la classe operaia è stata purtroppo deprivata, a seguito della sconfitta storica subita ad opera del revisionismo e dell’imperialismo, ma che sopravvive nella coscienza e  nella volontà delle forze comuniste, marxiste-leniniste, che si sono poste il compito della sua completa ricostruzione, come compito primario e centrale. Per assolverlo, per ricostruire il partito, per riportare la classe operaia sulla via della lotta per il potere, sulla via dell’azione rivoluzionaria, le forze comuniste debbono tuttavia saper calibrare i loro obiettivi sul livello di mobilitazione raggiunto da quella grande forza sociale, di cui la classe operaia è obiettivamente in possesso, ma per la cui messa in moto definitiva è indispensabile l’apporto del partito comunista.

Fintantoché i comunisti non saranno riusciti a conquistare ideologicamente e politicamente l’avanguardia del proletariato, fintantoché non saranno quindi riusciti ad acquisire un’effettiva influenza sull’orientamento delle masse - nel contesto necessario di una situazione realmente prerivoluzionaria o rivoluzionaria il ricorso alla lotta armata non potrebbe in effetti che risolversi in una tragica fuga in avanti, come l’esperienza storica ha esaurientemente dimostrato.

Aggiungiamo che “la controrivoluzione preventiva”, l’aggressione preordinata della borghesia imperialista contro le forze proletarie, onde impedire che possano sviluppare fino in fondo la loro lotta per il potere, non può essere impedita dal fatto che le forze proletarie passino per prime all’offensiva, precorrendo l’azione controrivoluzionaria della borghesia imperialista stessa. Questa ha purtroppo la possibilità di scegliere, seppur entro certi limiti, il momento più adatto per scatenarla. Il proletariato e il suo reparto d’avanguardia sono soltanto in grado di PREPARARSI all’attacco preventivo della borghesia monopolistica (tranne presumibilmente che a seguito di un conflitto imperialistico generalizzato, in cui le masse armate in rivolta, sotto la direzione del partito rivoluzionario, potrebbero mandare all’aria ogni piano controrivoluzionario della borghesia imperialista). È quindi loro compito spingere e guidare le masse alla lotta contro il regime dei monopoli e dell’imperialismo, preparandole nel contempo alla resistenza organizzata all’inevitabile attacco controrivoluzionario delle forze al servizio di questo regime, onde poter poi passare tempestivamente all’offensiva finale vittoriosa, volta al rovesciamento del potere politico della borghesia stessa. È del resto risaputo che le guerre non sono di solito mai vinte da chi ha sparato il primo colpo. Ciò che naturalmente non esclude la possibilità che, nella battaglia risolutiva, nella fase preinsurrezionale del processo rivoluzionario, la decisione di “sparare il primo colpo” sia presa dal partito del proletariato - postosi alla testa de “la maggioranza dei lavoratori politicamente attivi” (Lenin) - prevenendo in tal modo gli ultimi sussulti reazionari della borghesia capitalista, nonché i possibili estremi tentativi pompieristici dei conciliatori di turno.

F.G.

27 aprile 1999

 

***** Manchette

 

Il comunismo

 

Il comunismo è l’ordinamento della società in cui

- Gli uomini e le donne gestiscono come patrimonio collettivo le forze produttive (compresa la forza-lavoro degli individui) per soddisfare i loro bisogni,

- è superata la divisione sociale del lavoro (tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, tra uomini e donne, tra città e campagna, tra settori lavorativi, ecc.),

- ogni individuo contribuisce alla produzione secondo le sue capacità

- la distribuzione dei beni di consumo tra gli individui avviene secondo il principio a ognuno secondo i propri bisogni.

 

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