TRIBUNA LIBERA - Sulla questione dell’analisi di classe
A proposito dell’intervento di D.S. pubblicato su Rapporti Sociali n. 23/24 (pagg. 42 - 43)

Rapporti Sociali n. 26/27 - gennaio 2001 (versione Open Office / versione MSWord )

 

****Manchette

In queste pagine la redazione di Rapporti Sociali ospiterà interventi firmati (se del caso con pseudonimi) di compagni dei CARC, di compagni di altre FSRS, di lettori e in generale di tutti quelli che vorranno portare il loro contributo all’elaborazione del Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano. Riflessioni, critiche e proposte verranno pubblicate integralmente e portate a conoscenza di tutti i lettori, in modo da promuovere un lavoro collettivo per verificare e rafforzare le idee giuste e smascherare ed estirpare le idee sbagliate, migliorare l’analisi della fase, arrivare a una comprensione più profonda della lotta di classe in corso nel nostro paese e nel mondo, tirare le conclusioni più giuste per rafforzare e condurre alla vittoria la lotta della classe operaia e delle masse popolari per il socialismo.

 

Per permettere lo sviluppo di un più ampio e immediato dibattito sul Manifesto programma la Segreteria Nazionale dei CARC lancia un appello alle altre FSRS singole e organizzate per la costituzione di una redazione che pubblichi un Bollettino di discussione. Una rivista che ha l’obiettivo di sviluppare il dibattito sul Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano tramite la raccolta e la pubblicazione di interventi di organismi, singole FSRS, rivoluzionari prigionieri (non dissociati), esuli e latitanti (non dissociati).

I singoli compagni e gli organismi interessati a lavorare su questo progetto possono scrivere o telefonare alla SN c/o Edizioni Rapporti Sociali, via Tanaro, 7- 20128 Milano tel/fax 02 26 30 64 54.

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L’analisi di classe della società italiana esposta nel Progetto manifesto programma del nuovo partito comunista italiano (PMP) (pagg. 89 - 93) costituisce una delle parti più importanti dello stesso PMP. Le ragioni di ciò le indica bene D.S. La lotta tra le classi è ciò che trasforma la società. Per dirigere la lotta della classe operaia occorre anzitutto conoscere la classe operaia stessa, le altre classi della società, le loro relazioni, i loro interessi e contrasti. I comunisti non possono impostare una lotta politica senza avere, almeno a grandi linee, compreso la composizione di classe della società e le relazioni tra le classi che si scontrano nella attuale e concreta società italiana. Quindi ben vengano interventi come quello di D.S., in modo che alla conclusione del dibattito in corso il nuovo PCI possieda una analisi di classe giusta e sufficientemente dettagliata.

Gli articoli dedicati all’inizio del 2000 da Resistenza n. 1 (La borghesia imperialista: un gigante dai piedi di argilla e Le giornate di Seattle insegnano), n. 2 (Il primato della classe operaia e le altre classi delle masse popolari), n. 3 (La direzione della classe operaia) alla politica di classe rendono ancora più evidente l’importanza politica dell’analisi che il PMP ha impostato.

Anzitutto la definizione di classe operaia data nel cap. 2.1. del PMP (pag. 60) “La classe operaia è costituita dai collettivi delle unità produttive capitaliste” può prestarsi ad equivoci quanto a quello che si vuol dire (per le parole da usare se qualcuno ne ha di più efficaci deve suggerirle), solo se non è considerata alla luce dei cap. 3.2.2.1 (pag. 91). Qui si dice che per proletari si intendono i lavoratori il cui reddito proviene almeno per la parte principale dalla vendita della propria forza-lavoro (o in altre parole, persone che per vivere sono costrette a vendere la propria forza-lavoro). Poi si dice che per operai si intendono i lavoratori (meglio sarebbe a questo punto dire i proletari) che sono assunti dai capitalisti per valorizzare il loro capitale producendo merci (beni o servizi). Queste definizioni forniscono a mio parere in modo esauriente “quegli elementi di qualificazione che precisano ulteriormente l’appartenenza di classe” che D.S. sollecita. Infatti se si tengono presenti tutte queste definizioni, non ci possono essere dubbi ad es. che secondo il PMP i proletari che nelle aziende capitaliste sono addetti alla manutenzione e al magazzino fanno parte della classe operaia.  Non solo, ma vorrei fosse chiaro a D. S. e agli altri lettori che secondo il PMP fanno parte della classe operaia anche tutti gli altri proletari che lavorano nelle aziende capitaliste (per essere chiari: anche gli impiegati) con l’unica eccezione, indicata a pag. 93 (cap. 3.2.2.2), dei “lavoratori dipendenti che nelle aziende (capitaliste) svolgono il lavoro di quadri di livello inferiore e quindi in parte partecipano ai ruoli propri dei capitalisti (indice grossolano: reddito annuo netto compreso tra 50 e 100 milioni)”. Questo criterio risolve, secondo il PMP, anche la questione degli “ingegneri e tecnici”. Secondo il PMP alcuni di essi fanno parte della classe operaia (quelli che non hanno mansioni dirigenti di alcun genere, sono semplicemente lavoratori specializzati), altri costituiscono una classe popolare non proletaria (quelli il cui lavoro è principalmente esecutivo, ma hanno un reddito elevato perché in realtà sono proprietari di una forza lavoro particolarmente qualificata e venditori di essa - è una questione di salto dalla quantità alla qualità), altri fanno parte della borghesia imperialista (quelli il cui lavoro è principalmente dirigente). Nelle grandi aziende dei paesi imperialisti molti tecnici e anche individui che hanno la qualifica di dirigente in realtà non dirigono alcunché. Quindi D.S. non se la può cavare dicendo (Rapporti Sociali n. 23/24 pag. 43, colonna 1) che “direttori e ingegneri [sono] figure che tuttavia, per il ruolo di rappresentanti degli interessi del capitalista che svolgono i primi o come organizzatori del processo lavorativo i secondi, non possono certo essere compresi nella classe operaia”. É così poco “certa”, scontata la cosa, che secondo gli estensori del PMP a certe condizioni fanno parte persino della classe operaia. Semmai D.S. dovrebbe spiegare dove sta l’errore del PMP. Perché secondo lui è certa la non appartenenza alla classe operaia di nessun laureato (il discorso non può valere solo per gli ingegneri!)? Perché gli basta aver stabilito che non appartengono alla classe operaia, senza sentirsi in dovere di dire a quale classe appartengono (visto che non esistono solo le due classi fondamentali)? Ma su questo tornerò più avanti.

A me pare che D.S. trova equivoca la definizione di classe operaia data nel cap. 2.1. del PMP (pag. 60) perché egli intende per “unità produttive capitaliste” ogni singolo reparto di uno stabilimento, mentre dall’insieme del PMP risulta che per “unità produttiva capitalista” il PMP intende (e io credo che sia giusto intendere) una unità (capitalista) produttrice di merci (ciò che in italiano si indica anche con i termini impresa o azienda), una entità capitalista che compra merci, lavora e vende merci (cosa che non fa il singolo reparto di uno stabilimento e a volte neanche il singolo stabilimento: un reparto riceve in assegnazione - non compera - dalla direzione dell’azienda manodopera, macchine e materiali e consegna - non vende - a un altro reparto prodotti corrispondenti a determinate specifiche tecniche). La ripartizione tecnica del lavoro nell’ambito dell’azienda capitalista (tra stabilimenti, tra reparti, tra gruppi di lavoratori, tra singoli lavoratori) non crea altrettante “unità produttive capitaliste” quante sono le parti tra cui viene ripartito il lavoro. Come ben cita D.S. “il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata” nell’azienda capitalista (che il PMP indica con il temine - ovviamente sostituibile con uno più adatto se qualcuno lo suggerisce - di “unità produttiva capitalista”).

Ma da quello che D.S. dice nel contesto e che ho sopra indicato è evidente che tra ciò che intende D.S. e ciò che dice il PMP la differenza non si riduce ad un equivoco: vi sono differenze sostanziali. Per evitare malintesi, preciso che secondo il PMP gli impiegati appartengono alla classe operaia (salvo quanto detto in cima a pag. 93, cap. 3.2.2.2 e già citato). Il PMP non lega la definizione di classe operaia alle sue forme storiche transitorie, ai comportamenti, ai vestiti, al salario a ore, a giorni, a mese, a cottimo, al lavoro alla catena o alla singola macchina, al lavoro a gruppo o isolato, alla particolare divisione del lavoro della manifattura, della fabbrica taylorista o della fabbrica toyotista, al contratto week-end o interinale, a tempo indeterminato o a tempo determinato, in nero o a libretti, all’aria aperta o in ufficio open space, in ufficio monoposto o in un capannone, ecc. ecc. Insomma a nessuna delle singole forme fenomeniche che la classe operaia ha assunto nei sei - sette secoli di vita del modo di produzione capitalista. Il PMP rompe con la definizione di tipo sociologico, con quella di tipo politico-idealista e con quella relativa al contenuto del lavoro: definizioni correnti nella letteratura borghese. Il PMP ancora la definizione di classe operaia unicamente ai rapporti di  produzione concretamente esistenti nel paese e ai contrasti di interessi materiali che ne derivano. É d’accordo D.S. sulla definizione di classe operaia data dal PMP? Se non è d’accordo, perché la ritiene sbagliata e quale definizione propone?

E qui passo al problema delle definizioni. In cosa consiste una giusta definizione delle classi? Alla giusta definizione delle singole classi presenti in una società si arriva tramite l’analisi della società, non tramite il significato dei nomi delle classi (operaio, proletario, piccolo-borghese, ecc.) desunto dai vocabolari o comunque preso acriticamente dall’uso corrente. La letteratura corrente è piena di lamenti che si riducono alla constatazione che le categorie usate cento anni fa non valgono più, che non esistono più le stesse figure sociali, gli uomini in tuta blu e con le mani sporche di grasso, gli operai sindacalizzati degli anni ‘70, i manovali che a mezzogiorno mangiavano pane e salame col fiasco di vino, ecc. Solo che gli autori invece di costruire categorie conformi alla realtà di oggi, invece di studiare gli operai di oggi, si limitano a piangere sulla scomparsa delle vecchie figure. Un caso esemplare sono le lagne sulla scomparsa della classe operaia: se si va a ben vedere ogni lacrimante piange la scomparsa dell’immagine desunta dai suoi libri o dai suoi ricordi d’infanzia, la scomparsa della classe operaia come lui se l’immagina o con le caratteristiche comportamentali, politiche, sindacali, ecc. abituali di 30 anni fa. Con un po’ di senso storico, si capirebbe facilmente che anche l’operaio di 50 anni fa aveva poco in comune, in termini comportamentali, politici, culturali, sindacali (sociologici = di cui si occupa la sociologia accademica) con l’operaio di 150 anni fa. Eppure nessuno 50 anni fa si sognò di dire che la classe operaia era scomparsa. Perché? Perché politicamente 50 anni fa la classe operaia (il movimento comunista) era una potenza mondiale, faceva paura alla borghesia imperialista e ai suoi portavoce e incuteva stima, rispetto, ammirazione anche a quei tipi di intellettuali che ora piangono la sua morte.

In conclusione, la cosa che è scomparsa è la classe operaia come potenza politica mondiale: cioè siamo in un periodo di difficile passaggio politico (la vecchia potenza politica della classe operaia è crepata e la nuova potenza politica della classe operaia non è ancora sorta). Gli intellettuali della borghesia di sinistra, da buoni idealisti educati alla “analisi politica di classe” degli operaisti alla Toni Negri & C., confondono la (momentanea) scomparsa politica della classe operaia con la sua scomparsa come classe oggettiva, come classe in sé. Il che giustifica ogni abbandono del lavoro politico necessario per ricostruire la potenza politica della classe operaia, per la rinascita del movimento comunista, cioè giustifica ogni opportunismo e ogni tradimento.

Si tratta di intendere come si deve la “definizione” di ogni singola classe. Chi prende la definizione in termini idealisti, cerca di far derivare il contenuto dal termine. Cos’è un operaio? I vocabolari ne danno definizioni diverse e ci si può scannare sopra. Se noi ci poniamo il problema in modo giusto, se consideriamo il problema che ci interessa, ci chiederemo invece: “Quali sono le grandi divisioni che gli interessi materiali creano e mantengono tra la popolazione del nostro paese? Quali sono gli scontri di interessi reali, economici, pratici, che spiegano il movimento politico e culturale dei nostro paese? Quali sono gli scontri di interessi il cui occultamento è la fonte della corruzione della lotta politica attuale?”. Se ci poniamo queste domande, allora le risposte non possono essere “cosa intendo io per classe operaia”, “cosa si deve intendere per classe operaia”, ecc. I nomi possono cambiare, ma comunque li chiamiate troverete sempre in definitiva i dipendenti da capitale, gli altri proletari, i lavoratori autonomi, ecc. Come ci sono lavoratori autonomi apparenti in realtà dipendenti, così vi sono dipendenti apparenti in realtà lavoratori autonomi. Quali sono le classi in un paese, dipende dalla struttura economica del paese. Il PMP parla dell’Italia (ma per quanto riguarda le grandi divisioni la cosa vale per la maggior parte dei paesi imperialisti - ma non per gli ex paesi socialisti né per la maggior parte dei paesi semicoloniali) e dice che, se si guarda alla struttura economica e ai contrasti oggettivi di interessi economici:

- l’attuale società italiana è divisa in due campi contrapposti: borghesia imperialista e masse popolari;

- il campo delle masse popolari è diviso in due grandi parti: proletariato e lavoratori autonomi;

- il proletariato è diviso in due grandi parti: classe operaia e il resto del proletariato.

 Quindi quattro grandi raggruppamenti, ognuno dei quali contiene ulteriori importanti divisioni su cui il PMP non insiste perché reputa che queste quattro siano sufficienti a fondare una linea politica. Questi quattro grandi raggruppamenti non corrispondono, che io sappia, a nessuno degli assiemi indicati nelle raccolte statistiche (dell’ISTAT e di altri istituti di rilevazione). Da qui la difficoltà di quantificarli e precisarli, che il PMP risolve nel modo espressamente indicato.

Il PMP in conclusione dice che se si vuole capire il movimento della società italiana, occorre partire da questi grandi divisioni, dagli interessi di questi grandi raggruppamenti e dallo scontro tra questi interessi. Questo è quanto il PMP sostiene e propone. Su questo occorre pronunciarsi, questo occorre verificare. Questo fonda la linea di condotta, l’orientamento di lotta politica proposto dal PMP.

Quanto al metodo con cui da tutta la massa dell’esperienza sensibile e anche dai dati statistici delle più o meno scalcagnate statistiche si è arrivati alla conclusione illustrata nel PMP, questo metodo è quello marxista. Per quanto ne so io l’esposizione più chiara e organica del metodo marxista dell’analisi di classe è data da Marx nel capitolo “Il metodo dell’economia politica” (Grundrisse, pagg. 24-34 edizione Einaudi e pagg. 33-41 del vol. 29 delle Opere Complete di Marx-Engels degli Editori Riuniti). Qui Marx spiega chiaramente il “metodo scientificamente corretto” (Marx-Engels, vol. 29, pag. 34) dell’analisi di classe. Ovviamente l’analisi di classe della nostra attuale società non può essere condotta facendo riferimento a una società capitalista pura, conforme alla descrizione che Marx dà di essa [Marx in Il capitale, parte quasi sempre dall’ipotesi: società in cui esistono solo capitalisti e operai, oppure capitalisti, operai e proprietari terrieri (rendita) e banchieri (interesse)]. Descrizione che è valida per ogni tempo e paese proprio perché è astratta, astrae quindi anche dalle determinazioni concrete della società italiana del 1998 (data di stesura del PMP), ma anche dalle società per azioni, dal capitale finanziario, dal sistema coloniale, dall’imperialismo, dalla rivoluzione proletaria e dalle forme antitetiche dell’unità sociale (FAUS). Egli considera solo il capitalismo che si svolge sulle proprie basi e si riproduce in forma allargata. La descrizione della società capitalista pura, delle classi che la compongono e delle relazioni esistenti tra esse ci serve come indispensabile punto di partenza per compiere quel percorso dal semplice al complesso, dall’astratto al concreto di cui Marx dice “quest’ultimo è evidentemente il metodo scientificamente corretto”. A conferma di quanto dico vorrei indicare l’analisi di classe della Germania del 1875 inserita da F. Engels nella Prefazione a La guerra dei contadini in Germania (Marx-Engels, vol. 10, pag. 666 e segg.), l’analisi degli elementi fondamentali della struttura economica della Russia indicata da Lenin nel 1918 (come fonte indico il riassunto che egli ne dà nella sua relazione al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, Opere vol. 33, pag. 385, oppure la descrizione che ne dà nel “Rapporto sul programma del partito” all’ottavo congresso del PC(b)R, Opere vol. 29 pagg. 147-151), l’analisi delle classi della società cinese indicata da Mao Tse-tung nel 1926 (Opere, vol. 2, pagg. 47-55). Nessuno di questi esempi (ma si potrebbero citarne anche altri) si ferma all’analisi della società capitalista pura. Ognuno scende nel concreto della concreta formazione economico-sociale di cui si occupa e ne derivano una configurazione della popolazione, delle classi e dei loro antagonismi di interessi materiali, che è la base su cui costruisce la linea politica. Che provi D.S. a fare l’analisi di classe della società sovietica degli anni 50 o della società cinese del tempo della Rivoluzione Culturale con i suoi criteri. Non riuscirà: ebbene io credo che non riuscirà neanche a fare l’analisi di classe dell’attuale società italiana. Il perché lo vedremo dopo che D.S. avrà tentato.

Resta che noi dobbiamo indicare quali classi si scontrano e lottano nella società italiana attuale, non nella società di cento anni fa e tanto meno nella società capitalista pura.

A me pare che D.S. non parta dal semplice e dall’astratto per avanzare fino al concreto, ma ci resti. Questo lo porta ad esempio a introdurre “i fondi dello Stato ... costituiti principalmente con il prelievo fiscale” che egli distingue giustamente dal capitale, ma di cui non indica il legame con il capitale per cui nella sua esposizione essi restano come una cosa a parte e a se stante. Di conseguenza nella esposizione di D.S. (ma non nella realtà) restano sospese per aria, come cose a se stanti anche le classi ad essi corrispondenti, mentre nella realtà sono classi sia relazionate sia distinte dal  resto della popolazione. Ciò porta D.S. anche a dire che “un operaio dipendente da un’amministrazione comunale, pur svolgendo mansione da operaio [e qui D.S. silenziosamente adopera la categoria operaio nel senso corrente di lavoratore manuale, di “colletto blu”, di qualifica salariale, senso del tutto differente da quello in cui il termine è usato nel PMP], non solo non appartiene alla classe operaia [ora D.S. usa il termine nel senso usato anche dal PMP], ma nemmeno appartiene al proletariato”. Non appartiene, concediamolo pure per un momento: ma allora D.S. ci dica a cosa appartiene? E ciò a cui appartiene che relazione ha con il proletariato e con le altre classi della nostra società? D.S. dovrebbe spiegare chiaramente la sua affermazione, perché nel senso usato dal PMP, di cui sta discutendo, il dipendente comunale in generale (cioè salvo che lavori per hobby o che sia un quadro di livello inferiore) è un proletario. E il PMP lo indica chiaramente (pag. 92, altre classi proletarie).

Dalla definizione di proletariato data dal PMP non discende “una sorta di ‘distinguo’ tra classe operaia e altri classi proletarie”, ma un netto e dichiarato distinguo (distinzione) e anche la dichiarata e proclamata “collocazione all’interno del proletariato di lavoratori non sottomessi al processo di valorizzazione del capitale”. D.S. non confuta questa analisi del PMP, ma vi accosta tacitamente una sua analisi del tutto differente. In cosa consiste l’analisi di D.S.? Egli per proletariato intende quello che il PMP indica con il temine “classe operaia” (non è chiaro però se in esso egli include ad esempio anche gli impiegati delle aziende capitaliste, i lavoratori delle aziende capitaliste produttrici di servizi, ecc.: tutti lavoratori che il PMP include nella classe operaia). Invece per “classe operaia” D.S. intende solo “quella parte di proletariato che è collocata nel settore industriale”. Egli quindi introduce come criterio di divisione di classe il contenuto del processo lavorativo (lavorare nell’industria, piuttosto che nell’agricoltura, nei servizi, nei trasporti, nell’edilizia, nelle miniere, ecc.), un criterio che il PMP esclude apertamente e dichiaratamente (e a questo fine si richiama anche nella nota a fianco di pag. 92 a ben 4 articoli pubblicati su Rapporti Sociali). Infatti il PMP dice che la divisione in classi discende dai rapporti di produzione, non dal contenuto del processo lavorativo (tornitore, manovale, industria, agricoltura, muratore, ecc.). Seguendo D.S. si avrebbe, se ho ben capito il pensiero di D.S., una classe operaia che si distinguerebbe dal resto del proletariato perché lavora nell’industria (cioè per il contenuto del suo lavoro) e che sarebbe la parte più avanzata e la parte dirigente di tutto il proletariato per questo motivo oggettivo (lavoro nell’industria), benché D.S. nel contesto indichi anche altri fattori - esperienza di organizzazione, lotte condotte e conquiste strappate, coscienza raggiunta - che non dice in che legame stanno con l’elemento oggettivo e qualificante della classe operaia [come indicata da D.S.], che è costituito dal suo “essere collocata nel settore industriale”.

Io ritengo che l’analisi indicata da D.S., se l’ho ben capita, sia sbagliata. L’analisi di classe indicata dal PMP è esattamente raffigurata dal grafico pubblicato su Resistenza n. 9 (99) pag. 3 e ripreso da La Voce n. 2 pag. 44. Mi pare chiara. La spiegazione di quel grafico è data nel PMP stesso e negli articoli di Rapporti Sociali indicati nella nota a fianco a pag. 89 del PMP e negli articoli di Resistenza n. 1, 2 e 3 del 2000 di cui ho già detto sopra. In sintesi, si tratta di prendere la società italiana come è, col suo capitalismo di Stato, con la sua borghesia, la sua vasta piccola borghesia e la sua vasta “pubblica amministrazione” e di compiere nel pensiero quel processo di sintesi che ci fa giungere finalmente, di nuovo, alla popolazione intera, che ora però non è più quella rappresentazione caotica di un insieme (a cui accennano tutti quelli che liquidano con fastidio come “troppo complessa” la società attuale che lo sviluppo del capitale ha invece estremamente semplificato), ma una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni (per dire la cosa usando le parole di Marx, Marx-Engels, vol. 29 pag. 34).

In che cosa l’analisi di classe della società italiana attuale indicata dal PMP non corrisponde alle relazioni reali, ai reali contrasti di interesse presi per grandi agglomerati (va da sé che all’interno di ogni classe, possono e ai fini politici devono essere compiute analisi di maggior dettaglio a cui il PMP stesso esorta, ma queste analisi di maggior dettaglio non contraddicono, bensì confermano le grandi divisioni già indicate dal PMP)? Quali sono i reali contrasti di interessi, qual è la reale struttura economica della società italiana attuale? A queste domande si dovrebbe dare una risposta netta e  chiara.

Infine l’uso del reddito per quantificare (non per definire o individuare) le classi. Le classi vanno individuate ragionando sui rapporti di produzione nell’attuale società italiana. Quanto al metodo ho già indicato quello che per quanto mi risulta è l’esposizione più organica sistematica. Riassumendo, i rapporti di produzione comprendono tre elementi: la proprietà delle forze produttive (compresa la forza-lavoro), i rapporti tra gli individui nella produzione (quindi le divisioni sociali del lavoro), la distribuzione del prodotto tra gli individui (i rapporti di distribuzione). L’uso dei reddito che viene fatto nel PMP per quantificare le classi, per segnalare le divisioni, ecc. è certamente il ricorso a un indice rozzo e grossolano. In base alle statistiche che io conosco, non credo che sia possibile trovare un indice migliore per le grandi divisioni di cui tratta il PMP. Ma se D.S. o altri possono indicare un indice migliore, ben venga. La discussione sul PMP si fa proprio per migliorare. Probabilmente un’analisi più dettagliata avrà come effetto secondario anche quello di rendere superfluo o meno importante il ricorso al reddito (una descrizione dettagliata dei rapporti di produzione renderà superfluo ad es. il ricorso al reddito per indicare il salto tra i proletari e i “lavoratori dipendenti che nelle aziende svolgono il lavoro di quadri di livello inferiore” e il salto tra questi e la borghesia imperialista (alcuni esponenti della quale sono inquadrati anch’essi nelle aziende come “dipendenti”). Vorrei invece che D.S. mostrasse, facendo concretamente l’analisi di classe della società italiana attuale, come entra in gioco la distinzione (che egli suggerisce di impiegare a questo fine) tra redditi primari e redditi secondari e in cosa differisce dall’uso che ne fa il PMP (quando distingue i proletari dipendenti dal capitale = classe operaia) dai proletari non dipendenti da capitale, il reddito di alcuni dei quali deriva da una distribuzione secondaria (sostanzialmente i dipendenti della pubblica amministrazione, una parte degli addetti ai servizi personali: domestici, ecc.), mentre il reddito di altri deriva dal lavoro in aziende piccolo-borghesi, che continuano ad esistere in ogni società imperialista, benché con caratteristiche diverse da quelle che avevano 150 anni fa (e che non fanno capo direttamente né alla distribuzione primaria né alla distribuzione secondaria del reddito prodotto nelle aziende capitaliste, perché anche nelle società imperialiste più marce e sviluppate il rapporto di produzione capitalista è quello dominante e dirigente - e ciò si riflette nell’analisi di classe che il PMP espone, ma non è l’unico modo di produzione esistente).

Credo che se D.S. accetterà la mia proposta, darà un contributo importante a una definizione più sicura di una parte importantissima di tutto il PMP, che è anche una delle parti in cui il PMP si stacca nettamente e positivamente sia dal piagnisteo e dalla confusione della cultura borghese di sinistra sul “carattere complesso del mondo attuale” che giustifica ogni inerzia e compromissione, sia dallo schematismo dei dogmatici che si adagiano nella descrizione della società puramente capitalista che Marx ha giustamente dato come astrazione necessaria alla comprensione di ogni concreta società moderna e si accontentano di relegare nel “limbo” delle classi intermedie ciò che è impossibile far entrare in quella astrazione. Come si può dirigere la lotta di classe senza conoscere a fondo le classi e le reciproche relazioni?

 

M.M.

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