La denuncia dei mali del capitalismo

Rapporti Sociali n. 29 - marzo 2002 (versione Open Office / versione MSWord)

 

Recentemente il Collettivo Antinebbia, operante nella zona del Valdarno in Toscana, pur affermando di considerare interessante e condivisibile la proposta avanzata dal Fronte Popolare per la ricostruzione del partito comunista (FP - rpc), pensa che una propria adesione a tale organismo necessiti di un’ulteriore riflessione. In attesa che ciò si compia il Collettivo procede su una linea di intervento che consiste nel denunciare le devastazioni che l’imperialismo opera, a livello internazionale e a livello locale. I compagni del Collettivo dicono di rendersi conto che questo è un limite. Sulla questione è il caso di riflettere, perché si tratta di temi che riguardano l’intero panorama delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista.

Innanzitutto va detto che quando ci si rende conto che una cosa è un limite, tale limite è già superato. È un modo di dire quello di chi afferma di conoscere i propri limiti, e con ciò giustifica il suo restare fermo come fosse avere senso della misura. Questa che si pretende come saggezza non è una reale conoscenza. Facciamo un esempio. L’orizzonte è il limite del nostro campo visivo: lo vediamo, ma non si può dire che lo conosciamo. Per conoscerlo dobbiamo andare lì e al momento che saremo lì, quello non sarà più il nostro orizzonte e il nostro limite. È vero che limitarsi alla denuncia è un limite, ma se compagni e compagne dell’Antinebbia affermano di conoscere tale limite non dicono il giusto.

In effetti limitarsi alla denuncia dei mali del capitalismo è un grande limite, grande perché segna una linea di confine che separa il dire dal fare, e che pone in un campo la gran parte delle FSRS, al di là del modo in cui si distinguono. Limitarsi alla denuncia significa dire “No all’imperialismo” senza dire “Sì al comunismo”. La denuncia così intesa è quella di cui parla Lenin: “Non la nuda negazione, non la negazione irriflessa, non la negazione scettica, l’esitazione, il dubbio, sono caratteristici ed essenziali nella dialettica, - la quale contiene indubbiamente in sé l’elemento della negazione e, per giunta, come suo elemento più importante, - ma la negazione come momento della connessione, come momento di sviluppo, con la conservazione del positivo, cioè senza alcuna esitazione, senza alcun eclettismo.”.(1) Le parole di Lenin sono importanti e leggendo questo passo breve troviamo esposti tutti gli elementi che  ci interessano.

 

1. Lenin, Quaderni Filosofici, Ed Riuniti, Roma 1971, p. 210.

 

La negazione dell’esistente è il primo passo del movimento rivoluzionario. La “negazione irriflessa” però rappresenta una deviazione di questo movimento. Diventa negazione scettica, dubbio ed esitazione.

Negazione scettica è quella che dalla critica al capitalismo deduce la critica a tutto ciò che esiste: vede il male di fronte a sé e lo imputa non ad una particolare fase del percorso evolutivo che riguarda l’umanità, dominata dal modo di produzione capitalista. Lo imputa alla “natura umana”. Capita a tutti noi di sentirci dire che non c’è niente da fare, che “l’uomo è fatto così…”. La contraddizione di questi discorsi sta nel fatto che chi denuncia l’uomo è un uomo, e non si capisce perché chi denuncia è libero dai difetti di chi sta denunciando. La natura umana, se esiste qualcosa del genere, appartiene ad ogni uomo, se è difettosa ogni uomo è difettoso, e quindi non si vede da che pulpito qualcuno possa denunciare qualcun altro. Lo scetticismo ha infatti questa contraddizione fondamentale: si dice che non c’è nulla di vero, ma se è cosi allora non è vero nemmeno quello che stiamo dicendo, cioè non è vero che non c’è nulla di vero.

La negazione scettica favorisce l’opportunismo di coloro che dicono di non voler fare perché tanto non ne vale la pena. In realtà fare (2) è necessario, e se qualcuno si rifiuta di intervenire allora qualcun altro dovrà farlo, per sé e per chi si tira indietro. Opportunista è chi del tirarsi indietro fa una professione. Tale professione può giustificarsi oltre che con lo  scetticismo anche con il dubbio. Il dubbio è una variante della negazione scettica. Il dubbioso non si spinge fino ad affermare che non esiste nulla di vero. Ciò di cui dubita è quello che gli sta dicendo colui che ha di fronte al momento. Se cerchiamo di coinvolgere lo scettico nel lavoro di ricostruzione del partito, questo ci risponderà che è un lavoro inutile. Il dubbioso invece si rifiuterà di intervenire manifestando sfiducia nel nostro modo particolare di affrontare il lavoro, e se è un opportunista si rifiuterà di intervenire a fronte di ogni modo particolare proposto, esponendo i suoi infiniti dubbi. Sfugge alla contraddizione dello scettico, perché non dice che è tutto inutile, però ogni volta che gli si propone qualcosa dice che quella è inutile. Il dubbioso, visto che anche lui è oppresso dallo stato di cose presente ed esprime la propria denuncia, va posto con le spalle al muro in questo modo: se non gli va bene ciò che proponiamo, proponga lui qualcosa, non si limiti alla negazione ma si prenda la responsabilità di affermare una pratica.

 

2. Fare significa lavorare, per ciò che riguarda l’attività in generale. Significa ricostruire il partito comunista italiano, per ciò che riguarda i compiti delle forze soggettive della rivoluzione socialista in Italia.

 

 

Anche chi esita sta ancora interamente in terreno negativo. Tra terreno positivo e terreno negativo c’è un salto di qualità: perciò si manifestano tutte queste resistenze nel compierlo. Si possono comprendere le esitazioni ma aspettando troppo ciò che si ha di buono si perde. In generale, ad esempio, scetticismo, dubbio, esitazione sono giustificabili per un giovane, non lo sono per una persona matura. In generale mantenersi fermi alla negazione dell’esistente significa non assumersi responsabilità. Non a caso in molti centri sociali, dove si fa professione di negare tutto, ci si vanta “di non avere capi né responsabili”.

"Negazione irriflessa” è termine che indica il carattere unilaterale della negazione. La negazione se ne sta senza niente di fronte, senza aver di fronte a sé, riflessa, una negazione che le si oppone. Se l’avesse, a fronte di essa dovrebbe terminare, e trasformarsi. Due negazioni che si oppongono danno un’affermazione. E non si tratta solo del passaggio dal dire no al dire sì, ma del passaggio dal dire al fare, perché se si dice sì sul serio poi bisogna agire di conseguenza. Il limite sta nel passaggio dal dire al fare, dal limitarsi alla denuncia all’entrare nel vivo del processo di ricostruzione del partito. Ma è un salto di qualità: è no, oppure sì, e in mezzo, tra l’uno e l’altro, non ci sta nulla. Perciò il limite di cui si parla effettivamente non esiste.

È no, e allora bisogna farsi carico di tutte le conseguenze negative che comporta il restare in questo terreno: mantenersi nell’astratto, perché manca l’esperienza pratica; credere di essere qualcosa di diverso rispetto alle masse popolari soltanto perché “ci si rende conto”, e pensare che la propria attività consista nell’elevare la coscienza delle masse, quando le masse si aspettano non qualcuno che insegni loro ciò che già sanno, ma qualcuno che si prenda qualche responsabilità; rischiare ad ogni passo di scivolare nell’opportunismo; rodersi nella convinzione di essere incompresi dalle masse, ed imputare ad esse la colpa della propria impotenza; abbandonare il campo, vinti dalla depressione; andare fuori di testa per la contraddizione tra ciò che noi pensiamo sia giusto e ciò che concretamente avviene, in contrasto con tutte le nostre aspirazioni. Oppure è sì, e allora si comincia a lavorare da subito. Si assume un dato compito, lo si porta avanti, si riguadagna a poco a poco la fiducia e magari l’entusiasmo, perché già ci pensa la borghesia a porre tutte le condizioni per rattristarci.

Doppia negazione significa, nel nostro caso, che neghiamo senso a chi dice di limitarsi alla negazione. Ai compagni e compagne dell’Antinebbia che ritengono possibile limitarsi alla denuncia, rispondiamo che non è possibile, o meglio non è possibile farlo per un tempo infinito o indeterminato, così come non è possibile rifiutarsi di crescere.

Limitarsi alla denuncia è la professione di fede della cultura borghese di sinistra.(3) Questa cultura trova uno dei suoi fondamenti nel “marxismo critico” della Scuola di Francoforte, un’ideologia che rivendica con tutta la presunzione degli intellettuali il diritto di criticare ogni cosa senza per questo doversi assumere la responsabilità di dire qualcosa di positivo.

 

3. La cultura borghese di sinistra dice che il capitalismo reca danno all’umanità, ma nega nei fatti la  possibilità di sostituirlo con qualcosa di meglio. La cultura borghese di destra dice che il capitalismo è quanto di meglio l’umanità abbia prodotto, e sostituirlo con qualcosa di meglio non è né possibile né necessario. Le due forme di cultura si differenziano tra loro per il giudizio morale, sono identiche sul piano pratico.

 

La cultura borghese di sinistra inquina tutto il movimento di opposizione, il movimento rivoluzionario e le forze soggettive della rivoluzione socialista. È l’ideologia del PRC: questo partito decidendo di limitare la propria azione alla denuncia dei mali del capitalismo si garantisce i privilegi che la borghesia dà a coloro che pur chiamandosi comunisti menano il cane per l’aia, e d’altro lato si nega qualsiasi possibilità di arrivare alla ricostruzione del partito comunista, tradendo così il proprio nome. Fosse un’impresa edile il PRC si vedrebbe tolto l’appalto dopo un giorno, e giustamente.

Non a caso il PRC è il punto di riferimento più o meno ufficiale di tutti coloro che si pongono in alternativa al regime, primi fra tutti i sindacati alternativi ai sindacati dei regime. Si tratta di sindacati che non si qualificano in positivo: spesso manifestano come qualità l’essere indipendente da ogni organizzazione politica, e disinteresse e indifferenza verso il processo di ricostruzione del partito comunista. Si tratta di qualità negative. Altrettanto negativa è la qualità principale di questi organismi, che si definiscono come differenti rispetto ai sindacati di regime, e in particolare verso la CGIL, il sindacato che raccoglie consensi tra le masse popolari che si dichiarano di sinistra. Questi sindacati (COBAS, CUB, RdB, eccetera) hanno raccolto e raccolgono tante più adesioni quanto più avanza la crisi economica e peggiorano le condizioni delle masse popolari, e quanto più si accentua il tradimento dei sindacati di regime nei confronti della classe operaia. Tuttavia sono strategicamente condannati alla sconfitta, perché non hanno alcuna strategia, né alcuna tattica. Agiscono nell’immediato, rispondono nell’immediato a una piccola parte degli attacchi che la borghesia sferra contro le masse, per quanto numerosi sono sempre deboli sia di fronte alla borghesia sia rispetto alla vasta area di consenso su cui poggiano i sindacati di regime, e perciò ad ogni attacco immediato segue nella gran parte dei casi la sconfitta. Tale sconfitta poi non l’attribuiscono a se stessi, alle proprie incapacità, ma o alla prepotenza della borghesia, o al fatto che i sindacati di regime sono venduti, o al fatto che le masse non li seguono, o a tutte le cose insieme.

Questi sindacati alternativi dunque non sanno cos’è l’autocritica. Condividono questa ignoranza con il resto del mondo che riduce la propria azione alla denuncia dei mali del capitalismo. È un errore di dialettica. Quando ci si confina al di qua della negazione si segna un confine: di qua sta la ragione, di là il torto, e perciò di qua l’autocritica non può entrare. Abbiamo due opposti che non comunicano, che non si trasformano l’uno nell’altro: da un lato coloro che si pretendono rivoluzionari (che perciò si qualificano come “giusti”, “eroi”, eccetera) hanno una considerazione delle masse del tutto fuori dalla realtà, dall’altro le masse spesso o quasi sempre ignorano anche l’esistenza di questi che si pretendono rivoluzionari.

La cultura borghese di sinistra è uno dei principali fattori di corruzione del movimento comunista, ed estende la sua influenza tra soggetti formalmente diversissimi tra loro. È stato uno dei fattori ideologici più importanti nel determinare la sconfitta delle organizzazioni combattenti comuniste in Italia, ad esempio. È l’ideologia che governa i centri sociali, combinandosi con l’anarchismo. In tutti questi ambiti si vede bene che l’attitudine principale sta nel dichiarare che questo mondo non ci va. Ugualmente quando in tutti questi ambiti si propone di iniziare a costruire altro, e in particolare oggi a costruire il partito, le porte si chiudono, le spalle si girano, gli utenti non sono più raggiungibili. O non è il momento, rispondono, o si riservano di esaminare cos’altro offre il mercato, o scivolano via in infiniti altri modi.

Abbiamo spiegato dal punto di vista teorico perché il limitarsi alla denuncia è sbagliato. Questo modo di agire tuttavia esiste, e quindi qualche fondamento lo deve avere. Lo ha, infatti, perché la denuncia dei mali del capitalismo è un elemento essenziale per la pratica dei comunisti, i quali sanno, anzi, che il capitalismo stesso è la malattia. È il limitarsi  alla denuncia che è sbagliato. Ma anche questo limitarsi ha un fondamento, o meglio, lo aveva. Aveva fondamento secondo l’ideologia dei revisionisti, nella fase di sviluppo economico tra la fine della guerra e gli anni Settanta. In quella fase i revisionisti dichiararono superata la strategia della conquista del potere da parte della classe operaia, affermando che si sarebbe arrivati a una società socialista attraverso una lotta svolta entro le norme stabilite dalla borghesia, cioè entro un sistema sociale dove i rapporti di produzione restavano invariati, dove la borghesia manteneva la proprietà privata dei mezzi di produzione. Quindi non si trattava di togliere la fabbrica dalle mani del padrone, ma di avanzare rivendicazioni al padrone, di denunciare, cioè, ciò che non andava pretendendo che questo e quest’altro venisse sistemato. La strategia dei revisionisti ebbe successo perché la borghesia, grazie al fatto che approfittò per trent’anni di uno sviluppo economico senza pari, aveva modo di cedere ciò che le masse popolari rivendicavano. I revisionisti promettevano riforme e mantenevano le promesse. Per questo ebbero successo. Ma oggi i trent’anni di sviluppo economico sono da un pezzo terminati, e coloro che continuano a promettere riforme sono ingenui o in malafede. Limitarsi alla denuncia, in questo senso, è quindi espressione di ingenuità o di malafede, cioè di arretratezza o di opportunismo. L’arretratezza si supera imparando, accettando di imparare, nella teoria e nella pratica. Imparare oggi in Italia è cosa che si fa all’interno della ricostruzione del partito comunista italiano. L’opportunismo si supera con la lotta, con l’autocritica e con la critica. L’opportunismo oggi in Italia si manifesta come opposizione coperta o dichiarata rispetto alla ricostruzione del partito comunista.

La denuncia si rivolge alle masse. Per lo scopo dei revisionisti ha la funzione di stimolare le masse a rivendicare qualcosa. Per lo scopo dei rivoluzionari ha la funzione di mobilitare le masse ai fini della conquista del potere. In questo caso bisogna dichiarare alle masse che il fine è questo. Pretendere di mobilitare le masse denunciando il caso particolare, celando, trattando a parte il fine generale, da un lato indica incomprensione e sottovalutazione nei confronti delle masse, dall’altro indica non l’arretratezza delle masse, ma la propria. Indica infatti la nostra incapacità di intendere il nesso tra particolare e generale. Riguardo alla denuncia e al modo esatto di utilizzarla va letto il Che fare? di Lenin, un documento rispetto al quale c’è poco da aggiungere.

In conclusione, abbiamo detto che determinate posizioni non hanno fondamento. Non lo hanno dal punto di vista teorico e soprattutto non lo hanno dal punto di vista pratico. L’evoluzione della crisi impone scelte. Ricostruire il vero partito comunista è una necessità, scegliere di farlo è libertà nella forma più alta.

 

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