Indice delle Edizioni Rapporti Sociali

 

Atti preparatori al Convegno contro la repressione 30-31 maggio 1981

Palazzina Liberty - Milano

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Intervento del

COMITATO GIULIANO NARIA

 

1. Toni Negri, ovvero del soggettivismo e del gradualismo

 

1.1 Innocentismo e pentimento

Può sembrare inutile occuparci oggi del “pensiero di Toni Negri”. Da quando è passato dall’università al carcere, Negri sostiene che l’attività da lui svolta negli anni scorsi non ha avuto alcuna importanza e alcuna conseguenza ideologica e politica nel movimento rivoluzionario, che si è trattato di una attività puramente accademica e letteraria e ha sconfessato i contenuti politici del movimento che alle sue teorie si richiamava. Negri si è quindi politicamente liquidato per quanto riguarda il movimento rivoluzionario.

“L’innocentismo è la forma nobile del tradimento, il pentimento è quella plateale” scrive un articolista di Controvento (n. 5/6, dicembre 1980), in altri tempi non insensibile al fascino del professore di Padova e che ancora oggi non ha ripudiato completamente quella concezione del mondo di cui il professore ha fatto una esposizione organica.

L’arroccamento individuale di dirigenti e intellettuali su posizioni innocentiste è stato ed è rovinoso per i loro più o meno occasionali compagni di strada. Quelli hanno sfruttato la particolarità della loro collocazione di classe e si sono chiamati fuori, si sono scaricati, di fronte al movimento, di ogni responsabilità politica, hanno sconfessato come impropria la traduzione politica delle loro parole e dei loro scritti e hanno costruito una linea di difesa giuridica che forse per loro potrebbe essere pagante (se l’obiettivo principale che lo stato si ripromette dalla loro carcerazione non fosse quello di terrorizzare le masse, di “prosciugare il mare per togliere l’acqua al pesce”; se la borghesia non avesse in questa fase il bisogno di soffocare il dissenso anche al proprio interno, di fare quadrato e imporre il black-out anche nelle sue file, per cui i primi a volare sono gli stracci). I “compagni di strada” che invece, per posizione sociale, non erano in condizione di fare altrettanto, si ritrovano spiazzati e sconfessati, quando non denigrati dai loro ex compagni intellettuali e a questo punto alcuni fanno passi avanti, mentre alcuni si danno alla “forma plateale” del tradimento.

La sensazione di essere stati traditi dagli intellettuali viene abilmente sfruttata da giudici e poliziotti, assieme a lusinghe e minacce. Ed ecco dei “pentiti” pieni di livore contro tutti quanti un tempo consideravano compagni, che fanno a gara nel coinvolgere tutti, chi c’entrava e chi non c’entrava, trovandosi in ciò in perfetta armonia con la linea dei loro carcerieri di “prosciugare il mare”.

Non solo. Non è solo la linea processuale innocentista, ma è il contenuto stesso del pensiero di Negri e C. che viene sottoposto a verifica e impietosamente criticato dalle vicende politiche di questi mesi.

- La teoria dei bisogni individuali e della volontà di “riappropriazione della vita” come forze motrici ultime della rivoluzione, nella stretta delle sevizie delle carceri di stato e delle promesse dei carcerieri, si rivela un invito alla delazione, alla collaborazione con i carcerieri, al “pentimento attivo”, alla diserzione e all’abbandono della lotta - tanto quanto in altre circostanze era un invito alla “spesa proletaria”, alla ribellione a ogni disciplina rivoluzionaria o reazionaria che fosse, a ridurre la rivoluzione a rivoluzione nei comportamenti, all’individualismo.

- La teoria dell’operaio sociale, del “nuovo soggetto rivoluzionario” che portava al rifiuto di ogni discriminante di classe nell’organizzazione e nella lotta ideologica si rivela ora come la concezione che ha inquinato di figli di papà in cerca di emozioni e in ribellione generazionale una parte del movimento, ha intralciato la critica ideologica, la lotta per la concezione proletaria del mondo, la formazione politica dei militanti, ha favorito la diffusione di concezioni e pratiche militariste, cioè di una concezione secondo cui l’esito di una guerra di classe dipende principalmente dalla capacità militare dei corpi armati e dalle azioni militari anziché dalla mobilitazione delle masse, ha ostacolato la  formazione di una giusta gerarchia di classe all’interno del movimento: tutte cose che oggi, sotto i colpi della controffensiva della borghesia costituiscono altrettanti elementi di debolezza del movimento, ma che proprio la controffensiva della borghesia illumina nella loro giusta luce.

- La negazione della base materiale, economica della rivoluzione proletaria, la sua riduzione ad una generica lotta per una generica libertà ha reso nebuloso e ha vanificato nella coscienza di molti compagni ogni riferimento materiale, collettivo, di classe per la strategia e la tattica. Ha cioè tolto al singolo militante un termine di riferimento, un metro con cui decidere, verificare e misurare la sua attività. L’avanguardia della lotta del proletariato decide e verifica la sua attività in riferimento ai movimenti del proletariato, sa che l’elemento decisivo dell’esito della lotta è la classe, che il suo compito è servire alla mobilitazione e all’organizzazione della classe e delle masse popolari. Tutto ciò che è coscienza immediata dell’avanguardia trova nella classe il suo termine di paragone e la sua verifica. Adeguarsi alle leggi del movimento economico della società e alle leggi secondo le quali questo movimento materiale si riflette nelle coscienze è ben diverso che proclamare rivoluzionaria ogni coscienza immediata degli individui.

La negazione del carattere oggettivo e in definitiva necessario delle leggi del capitalismo comporta la convinzione che l’evoluzione dei rapporti politici e sociali dipenda dalle arbitrarie decisioni di individui, che non vi sia prima e come fonte delle decisioni e delle aspirazioni degli individui una realtà di rapporti produttivi sul cui svolgimento, nel modo di produzione capitalista, la volontà e le scelte e la intelligenza dei singoli capitalisti e di gruppi di capitalisti non può in definitiva nulla. Ne segue che la lotta tra le classi è ridotta a lotta tra intelligenze, tra politiche. Allora nel momento in cui la borghesia coglie dei successi, ciò sembra la sanzione della sua vittoria almeno per questa fase. Negare la tendenza inevitabile della società borghese alla crisi economica e alla distruzione come soluzione della crisi e sostenere che la crisi è una manovra oculata dei capitalisti per mantenere il loro dominio, comporta non capire ciò che costituisce la base della possibilità di vittoria del proletariato, e quindi lasciare via libera allo scoraggiamento e alla diserzione.

Di fronte a questa critica pratica, sul campo, del pensiero di Negri e C. sembra del tutto superfluo e una perdita di tempo farne la critica teorica, sembra che questo pensiero non debba avere più alcun rilievo politico, almeno nel movimento rivoluzionario. Ma non è così.

 

1.2. Operaismo, soggettivismo e gradualismo

Negri è stato l’esponente più chiassoso, più loquace, più impegnato politicamente, più popolare della corrente “operaista”. Una scuola di pensiero che inizia con i Quaderni Rossi nel 1961 ed ha avuto e ha numerose ramificazioni editoriali, accademiche e politiche, ognuna delle quali si caratterizza per gli elementi su cui pone l’accento. Ma al di là della varietà delle versioni e delle figure assunte, delle beghe e delle scelte politiche, la scuola mantiene una sua identità che si riscontra in Negri come in Bologna, Asor Rosa, Cacciari, Tronti, per limitarci ai personaggi più noti, come pure si riscontra nei riferimenti teorici di gruppi diversi come il gruppo del Manifesto, di Lotta Continua, di Potere Operaio e i vari gruppi della Autonomia.

Criticare il pensiero di Negri è criticare questa scuola, in quanto revisione e deformazione del marxismo in chiave soggettivista e gradualista.

 

a) soggettivista

Alla domanda “quali sono i fattori ultimi e irriducibili che determinano lo sviluppo della moderna società borghese” i marxisti e gli operaisti danno risposte diametralmente opposte.

Secondo i marxisti in ultima analisi il movimento della società è determinato dai rapporti sociali di produzione che nella società borghese sono rapporti alienati e reificati, cioè sottratti all’ambito delle decisioni degli individui ai quali si impongono con la stessa ineluttabilità delle leggi naturali. Anche le classi non sono insiemi di individui uniti da una coscienza comune, da sentimenti comuni, da abitudini comuni, da opinioni comuni, ecc. (che è il criterio con cui i  sociologi borghesi dividono e raggruppano gli individui - analisi sociologica delle classi); le classi sono insiemi di individui uniti dal ruolo che svolgono, dal posto che occupano nel sistema della produzione sociale. Diceva Marx: “anche le classi sono a loro volta una parola priva di significato, se non conosco gli elementi sui quali esse si fondano. Ad esempio il lavoro salariato, il capitale, ecc... Questi presuppongono lo scambio, la divisione del lavoro, i prezzi, ecc.”. La coscienza degli individui, i loro gusti, sentimenti, bisogni, desideri, il maggiore o minore sviluppo della loro capacità di pensare hanno, in definitiva, la loro origine, la loro spiegazione e la causa della loro evoluzione nella pratica sociale in cui gli individui sono inseriti. E i rapporti di produzione sono la base di tutta la pratica sociale. I marxisti infatti sostengono che ai fini degli effetti che produrrà non è importante tanto quello che un movimento pensa di essere, ma quello che esso realmente è.

Secondo gli operaisti invece il movimento della società è determinato dagli individui o dalle classi con le loro decisioni, i loro sentimenti, i loro bisogni, i loro desideri. Dice Tronti: “valore-lavoro vuoi dire prima la forza-lavoro poi il capitale; vuoi dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale”. (Operai e Capitale, ed. Einaudi 1977, p. 224).

E Negri si domanda: “in che senso lo sviluppo (del capitale) imposto dalle lotte, questa storia di dittatura operaia sullo sviluppo (del capitale) che abbiamo registrato in questi anni, ben prima della dittatura formale e statuale degli operai.... non abbia modificato in maniera radicale le condizioni del passaggio al comunismo”. (33 Lezioni su Lenin, Libri Rossi 1977, p. 164).

E, ancora, Negri sostiene che le classi sono distinte per “i comportamenti, i bisogni e i livelli di coscienza politica” (33 Lezioni su Lenin, p. 28). Quindi gli operaisti capovolgono le tesi del marxismo: non è l’essere che determina la coscienza, ma la coscienza che determina l’essere. Essi cercano di spiegare la complessità del reale con le caratteristiche soggettive degli individui e delle classi. Da Hegel a Marx e ritorno a Hegel! Da ricordare che “fu proprio in seguito a questa rottura con l’idealismo e con Feuerbach, che Marx andò a ricercare il motore delle formazioni sociali ad un livello più basso e oggettivo della lotta di classe: al livello della struttura economica che determina la costituzione delle classi” (Lape e il comunista, p.196).

È ovvio che gli individui e le classi agiscono in ogni dato momento in base alla loro coscienza e ai loro sentimenti del momento. Ma, sostengono i marxisti, se la coscienza e il sentimento che dominano in un individuo o in una classe in un determinato momento riflettono fedelmente il loro ruolo nella produzione e, in generale, la loro pratica sociale (e non quella di altri individui e di altre classi), questa coscienza e questo sentimento determineranno azioni che raggiungeranno il loro scopo e quindi confermeranno e rafforzeranno quella coscienza e quel sentimento. In caso contrario il fallimento dell’azione intrapresa determinerà, in ultima analisi, anche il deperimento di quella coscienza e di quel sentimento e la loro sostituzione con altro. La coscienza non è che un riflesso dell’essere: se è adeguata diventa, siccome guida le azioni, una forza che agisce sull’essere e lo modifica; se non è adeguata, gli individui che agiscono secondo questa coscienza si romperanno le corna contro la realtà. Quindi le idee e i sentimenti derivano in definitiva dalla pratica e vengono modificati dalla pratica.

Il contenuto della coscienza e del sentimento di un individuo proviene quindi in ultima analisi dalla pratica. Ma da quale pratica? Dalla pratica sua e della sua classe o dalla pratica di altre classi? La coscienza dei comunisti proviene dalla pratica della lotta contro il capitalismo e l’operaio produttore di plusvalore occupa nella produzione un posto che lo contrappone direttamente al capitale, giorno per giorno, in ogni aspetto della pratica produttiva e quindi è nella posizione migliore perché si formi in lui una coscienza comunista. La coscienza che concretamente un dato individuo ha in un dato momento è il frutto dell’azione che di fatto hanno giocato tutti i vari fattori che confluiscono a formare la coscienza, perché la coscienza non è un riflesso immediato della realtà, come l’immagine di una cosa riflessa nello  specchio. Ma è un riflesso che si forma con la mediazione di svariati fattori (la comunicazione di altri individui, il patrimonio di idee ricevuto, le verifiche e le smentite del reale, la riflessione, il bilancio dell’esperienza, ecc.). Ma spiegare la coscienza con la coscienza, anziché con i rapporti reali, porta a penose cantonate. I numerosi fattori che agiscono come mediatori tra la realtà e la coscienza possono spiegare molti modi concreti di essere della coscienza della realtà, possono spiegare perché e come l’immagine riproduce più o meno fedelmente, o deforma completamente la cosa; ma non si potrà mai capire una coscienza se non partendo dalla cosa di cui è il riflesso e ricostruendo i passaggi intermedi della formazione della coscienza.

L’individuo proletario è un prodotto del capitale e della negazione del capitale; in esso (nel suo corpo e nella sua psicologia) si ritrovano sia il marchio impresso dal capitale (merce in concorrenza con altre merci, alla caccia della sua realizzazione, cioè della sua trasformazione in denaro); sia il segno dei rapporti sociali che urgono per venire alla luce. Erigere l’individuo proletario nella sua interezza a parametro al comunismo equivale a negare il comunismo, negare la rivoluzione, per attestarsi sulla illusoria rivendicazione della soddisfazione per tutti dei bisogni e delle aspirazioni create dai rapporti contradditori del capitale, cioè sulla illusoria e generica rivendicazione di eguaglianza e libertà per tutti.

Questo elevare l’individuo immediato a misura di tutto sottintende la negazione della distinzione tra “classe in sé” e “classe per sé”, cioè tra una classe in quanto esiste oggettivamente e una classe in quanto ha una coscienza e svolge una attività politica e culturale a partire dal suo essere oggettivo.

 

b) gradualista

Le tesi della “autovalorizzazione del proletariato”, della “autonomia del politico”, della “dittatura operaia sullo sviluppo (dittatura) che abbiamo registrato in questi anni, ben prima della dittatura formale e statuale degli operai”, a parte gli elementi che le differenziano tra loro, hanno in comune questo: la negazione dell’antagonismo, della rottura e della lotta tra stato borghese e stato della dittatura del proletariato, tra rapporti di produzione capitalistici e germi di comunismo, tra il prima e il dopo la rivoluzione proletaria. Con queste tesi in definitiva gli operaisti postulano che stiamo già oggi andando verso il comunismo (nonostante che la borghesia mantenga il dominio statale, economico, culturale, ecc.), che il comunismo si viene producendo o può essere prodotto sotto la crosta o nell’ambito della dominazione politica ed economica borghese, senza il bisogno di una preliminare rottura rivoluzionaria dell’ordinamento esistente. E in ciò si mostrano i loro legami (in termini di concezione del mondo) con gli squallidi teorici della socialdemocrazia, con i Saragat che esaltavano gli USA come il più grande paese socialista, con gli Anderlini che proclamano (Corriere della Sera 5.1.81, p. 2) che “le socialdemocrazie serie (Scandinavia, RFT) rappresentano, nel bene e nel male, la capacità egemonica della classe lavoratrice dei loro paesi”!, con i Berlinguer della “introduzione di elementi di socialismo nella società attuale”, ecc. ecc... In poche parole tutto il pattume della transizione pacifica e graduale dal capitalismo al socialismo, dello scivolamento inavvertito dell’uno nell’altro, caro ai professori keynesiani “di sinistra” e, per molti aspetti, allo stesso padre fondatore, Keynes. (1)

Gli operaisti, nel sostenere queste tesi, presuppongono tacitamente la riduzione dell’oggetto della lotta tra le classi alla “giusta” ripartizione del reddito (rapporti di distribuzione) e in generale alla “giusta” politica economica dello stato (preso in generale senza qualificazioni di classe): dato che essi presuppongono (e qui si saldano gradualismo e soggettivismo della scuola) che nell’ambito del capitalismo si sia formata una direzione cosciente degli uomini sul loro stesso movimento economico, che nell’ambito del capitalismo il movimento economico della società sia diretto o possa essere diretto dalle decisioni delle autorità statali o altre che siano.

Marx, già nel lontano 1857, aveva mostrato che la borghesia tentava di superare, restando sul terreno della produzione per lo scambio e del capitalismo, le conseguenze più rovinose di tale rapporto di produzione, creando una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, cioè momenti di direzione soggettiva e cosciente del movimento economico della  società che però partivano e restavano nell’ambito dì una economia sociale basata su interessi antagonisti (e quindi in questo senso antitetiche) che si cercava in qualche modo, in dati frangenti, di conciliare (adeguandosi con ciò, in qualche misura, alla reale unità della produzione sociale).

Marx aveva già fin d’allora mostrato:

1) che la creazione da parte della borghesia di questi momenti di direzione soggettiva e cosciente indicava la possibilità di andare oltre il capitalismo, indicava che gli uomini avevano riunito le condizioni materiali e spirituali necessarie per governare il grandioso sistema mondiale di ricambio materiale della società che il capitalismo aveva costruito nella forma della cieca e necessaria sottomissione degli individui di tutto il mondo agli stessi rapporti sociali esistenti in forma di cose. Che la stessa borghesia (della cui esistenza la direzione cosciente e generale del movimento economico è la negazione) fosse costretta in dati frangenti e in una certa misura a fare tentativi di direzione, era il segno che il superamento dei rapporti di produzione capitalisti era maturo e necessario, che altri rapporti di produzione erano possibili e necessari.

2) che il carattere antitetico di questi momenti di direzione, il loro essere conciliazione momentanea e transitoria di interessi inconciliabili (che tali devono restare perché in ciò sta non solo il loro limite, ma anche il loro aspetto positivo), il loro carattere di riparo costruito per fare fronte alle conseguenze più disastrose dello sviluppo “libero” delle tendenze proprie e necessarie del modo di produzione capitalista (riparo che non elimina l’esistenza di queste tendenze), tutto ciò insomma non poteva essere eliminato, superato mediante una tranquilla metamorfosi: donde il loro continuo nascere, rompersi e riproporsi e la loro efficacia solo relativa (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, ed. Einaudi, p. 90-93).

Dal 1857 la massa di forme antitetiche della unità sociale si è molto ampliata. L’imperialismo è la fase suprema del capitalismo, l’anticamera del socialismo, proprio perché “la sostituzione del monopolio alla libera concorrenza è il tratto economico fondamentale, l’essenza dell’imperialismo” (Lenin, Opere, vol. 23, ed. Riuniti 1965, p. 103).

Il predominio del capitale finanziario, la crescita di monopoli mondiali, le grandi società multinazionali, gli organismi finanziari internazionali, la fitta rete di accordi commerciali internazionali, la concentrazione in poche Borse delle transazioni relative alle merci economicamente decisive e al capitale-denaro sono elementi di quella tendenza che Marx aveva messo in luce e le loro vicissitudini mostrano ambedue gli aspetti sopra accennati. Basta seguire anche solo superficialmente le questioni dell’acciaio, della produzione agricola e delle fibre tessili della CEE per convincersi del significato storico delle forme antitetiche della unità sociale nonché dell’antagonismo degli interessi sottostanti che ne limitano l’efficacia e la vita.

Secondo la scuola operaista invece (preceduta in ciò da Kautsky Neue Zeit, 30.4.1915 - con la sua ipotesi del superimperialismo, per la critica della quale rimandiamo a Lenin, Opere, vol. 22, Ed. Riuniti 1965, p. 107 e segg.) la tranquilla metamorfosi che Marx dimostrava impossibile è avvenuta, il capitalismo ha superato se stesso, ha superato la sua base materiale (il rapporto di valore, il fatto che “la connessione generale e la universale dipendenza degli individui tra loro nella produzione e nel consumo si sviluppano solo di pari passo con l’indipendenza e l’indifferenza reciproca dei consumatori e dei produttori”) ed è approdato al “piano del capitale” o almeno alla possibilità di un “piano del capitale” (per dirla con Kautsky, alla unione mondiale dei magnati del capitale in un unico trust mondiale, che sostituirà la competizione e la lotta dei capitali finanziari statalmente separati con un capitale finanziario internazionale unificato).

“E pensabile, dentro la società capitalista,” si chiede Negri quasi parafrasando Kautsky (33 Lezioni, p. 171) “una forma di gestione dei mezzi di produzione tale che l’interesse privato, e tutte le forme di reddito non direttamente fondate sulla produzione industriale (sic!), vengano meno, che la stessa divisione del lavoro, in quanto tradizionale divisione del lavoro intellettuale dal lavoro fisico, venga meno: non esiste nessuna difficoltà logica (sic!) a che questa situazione sia data. Tutto il riformismo capitalistico pur dentro la crisi cui è sottoposto all’interno dello scontro fra le classi, comporta  un perfezionamento permanente di questo processo”.

Come dire che vi può essere società capitalista senza poliziotti, magistrati, carcerieri, ecc.; e che nel capitalismo riformismo e distruzione non si succedono necessariamente (cioè negare il carattere necessario della crisi).

Del capitalismo è rimasto solamente l’involucro politico, l’ideologia e le “cattive” abitudini di un ceto dominante che si tratta di sostituire, con le buone (Tronti e... Magri) o con le cattive (Negri e C. prima del 7 aprile).

Gli esponenti della scuola operaista sono rimasti abbagliati dagli strumenti nazionali e internazionali di direzione economica messi in campo dai capitalisti dopo la grande crisi del 1929 e, ancora più, dopo la seconda guerra mondiale; essi hanno attribuito principalmente alla efficacia di questi strumenti i quasi trent’anni di sviluppo economico succeduti alle grandi distruzioni e ai grandi sconvolgimenti economici e politici prodottisi nella seconda guerra mondiale che furono proprio essi invece le premesse principali di quel periodo di sviluppo. Essi hanno in conclusione dato veste teorica pseudomarxista e pseudosinistra alla tesi della propaganda borghese e della illusa coscienza borghese (tesi corrente negli anni ‘60), che il capitalismo aveva oramai superato il bisogno fisiologico di crisi e di guerra, aveva imparato a governare le proprie contraddizioni e a smussarle prima che avessero effetti catastrofici, era diventato capace di integrare pacificamente gli antagonismi che si generano al suo interno. Ne conseguiva che i conflitti erano ridotti a conflitti di idee e di coscienze, di cui gli intellettuali ovviamente erano i principali protagonisti. Gli “uomini che sanno” diventavano (nelle loro teste) gli unici antagonisti di un sistema di valori culturali e morali che non presentava più lacerazioni rivoluzionarie nella sua base economica.

In ciò quindi il soggettivismo e il gradualismo della scuola operaista.

 

1.3. Origini di classe delle teorie operaiste

Negri è stato fra i pochi esponenti della scuola che hanno cercato di svolgere una attività politica autonoma, che sono scesi dalla comoda posizione dell’intellettuale, del “maestro di pensiero”, per impegnarsi in un movimento politico. In lui quindi il patrimonio teorico della scuola si è tradotto in parole d’ordine, in obiettivi politici, in criteri organizzativi e quindi si è rivelato meglio nei suoi contenuti di classe.

Pensare che la scuola teorica operaista finisca con il naufragio dei movimenti pratici che ha teoricamente influenzato o con il fallimento politico dei suoi esponenti, significa non vedere l’origine materiale, sociale della scuola stessa, significa non capire che essa è l’espressione intellettuale di concreti rapporti sociali. Quali?

Con lo sviluppo del modo di produzione capitalista e con l’enorme sviluppo della produttività del lavoro che esso ha comportato, è enormemente aumentata la massa di plusvalore che non diventa a sua volta capitale. Valore che non viene impiegato produttivamente, cioè per accrescersi, ma viene impiegato come reddito perché quando il capitale raggiunge un certo livello (storicamente determinato) di accrescimento, l’ulteriore suo accrescimento comporta una composizione organica tale da ridurre la massa del plusvalore complessivo prodotto. A questo punto entrano necessariamente in azione tendenze contrarie all’accrescimento del capitale, controtendenze che portano ad accrescere la quota di plusvalore che è impiegata non come capitale ma come reddito: sia come reddito personale dei capitalisti e dei loro scagnozzi; sia come valore impiegato in fondazioni, istituzioni “culturali”, di beneficenza, di vigilanza, ecc.; sia come spesa statale e spesa pubblica in generale alimentata dal plusvalore nella veste dì imposte e tasse e nella veste di credito alla pubblica amministrazione. E una delle controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto. E enormemente aumentata anche la massa di plusvalore che diviene sì capitale, ma capitale impiegato in condizioni di valorizzazione particolari, nel senso che non entra in concorrenza con altri capitali per essere impiegato al massimo profitto, ma cerca di ricavare il maggior profitto possibile nell’ambito del settore in cui opera stabilmente per motivi istituzionali (è ciò che si verifica tipicamente in aziende pubbliche e di infrastrutture). È un’altra delle controtendenze alla caduta tendenziale del saggio del profitto.

Nella società borghese moderna milioni di individui ricevono la loro quota di reddito attraverso questi due canali. Per  un verso essi sono proletari: non hanno altra fonte di reddito che la vendita della loro capacità lavorativa; non è loro possibile alcuna attività di produzione dei beni che entrano nel loro consumo al di fuori della vendita della loro capacità lavorativa; nella vendita della loro capacità lavorativa essi entrano in concorrenza con tutti gli altri lavoratori; la quota di reddito ad essi attribuita assume, nell’attribuzione, le forme proprie del salario dei lavoratori produttivi di plusvalore (il rapporto con il tempo di lavoro, la tendenza del padrone a ridurre il salario al minimo, una regolamentazione del processo lavorativo analoga a quella vigente per i lavoratori produttivi di plusvalore, meccanismi di determinazione dell’ammontare del salario anch’essi analoghi).

Per questi versi, lavoratori impiegati per produrre plusvalore e lavoratori non impiegati per produrre plusvalore non si distinguono. Per un altro verso essi non sono inseriti direttamente nella produzione capitalistica o lo sono in condizioni particolari. Sono milioni di individui che, a differenza della piccola borghesia del periodo in cui il modo di produzione capitalista era in via di formazione (base sociale dell’anarchismo), per molti aspetti vivono rapporti simili a quelli dei lavoratori dipendenti direttamente dal capitale, ma per altri se ne distinguono.

A differenza della piccola borghesia di un tempo che era distrutta dall’estendersi del modo di produzione capitalista, questi settori di lavoratori sono prodotti dal modo di produzione capitalista. Ma il prodotto del loro lavoro (beni materiali o servizi che siano) non è venduto né è prodotto per la vendita: il valore impiegato per il loro lavoro (mezzi di lavoro e denaro) non entra in concorrenza con le altre frazioni di valore per l’impiego al più alto profitto e quindi non concorre alla formazione del saggio medio del profitto; di conseguenza la concorrenza non impone in questi settori come necessità esterna le leggi proprie del capitale: un aumento di produttività del lavoro realizzato in un punto non obbliga gli altri punti ad adeguarsi o a chiudere, per cui nello stesso settore convivono produttività del lavoro diversissime; l’aumento della produttività del lavoro non comporta aumento di plusvalore, ma solo risparmio della quantità di valore impiegata in quel settore.

Per chi concentra la propria attenzione sulla ripartizione del reddito (sui rapporti di distribuzione) questi settori valgono tanto quanto i settori capitalistici: ed è il caso degli esponenti della scuola operaista che in ciò si allinea con le varie scuole borghesi di economia politica. Ma dal punto di vista dei rapporti di produzione questi settori non hanno nulla a che vedere direttamente con il capitale. Trascurare questa mancanza di relazione diretta porta completamente fuori strada: vale la pena di ricordare il vecchio Marx che a quanti obiettavano che indirettamente tutti i lavoratori erano produttori di plusvalore, rispondeva che, alla stessa stregua, dato che il giudice è produttore di giustizia e che il giudice non può produrre giustizia se non mangia, anche il contadino che produce cibo per il giudice sarebbe un produttore di giustizia!

In ogni società vi è un rapporto sociale dominante che trasforma tutti gli altri rapporti in modo da renderli funzionali a

se stesso; esso, per così dire, proietta la propria luce su tutto il resto. Confondere tutto in una cosa sola impedisce però di capire alcunché.

Orbene, gli esponenti della scuola operaista rispecchiano e cristallizzano in una teoria i rapporti sociali in cui sono inseriti questi lavoratori, elaborano a teoria la loro coscienza immediata, spontanea. Proprio perché si tratta di lavoratori che non si contrappongono direttamente al capitale, la loro opposizione alla società borghese è ambigua e non possono essere alla testa della lotta per il comunismo.

Gli esponenti della scuola operaista hanno invece cercato, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, di porre queste categorie di individui, con le loro contraddizioni, come nuovo soggetto rivoluzionario, di presentare la loro coscienza spontanea come scienza proletaria della società e come teoria del proletariato rivoluzionario.

Siccome l’esistenza di questi lavoratori, le condizioni del loro lavoro e la loro remunerazione dipendono essenzialmente da decisioni soggettive e (entro ampi limiti) arbitrarie, politiche e solo indirettamente sono influenzati dalle leggi di sviluppo proprie del capitale, gli esponenti della scuola operaista hanno elaborato una concezione soggettivista dei  rapporti sociali.

Per queste ampie masse (e anche in parte per i lavoratori dei settori produttivi di plusvalore, tramite istituti come la moneta manovrata, i sussidi di disoccupazione, il sistema assicurativo, la cassa integrazione guadagni, le pensioni di invalidità, i vari istituti dello “stato del benessere” o “stato assistenziale”) non esiste alcuna connessione immediata tra lavoro e prodotto (ma se la realtà si desse immediatamente alla conoscenza non occorrerebbe alcuna scienza!)

La sovrapproduzione generale e il commercio internazionale creano le premesse materiali per non fare apparire la connessione lavoro-prodotto.

Le masse “emarginate” dal lavoro produttivo di plusvalore sono “dominate” dai capitalisti. A differenza degli individui che un tempo non erano ancora stati sussunti all’interno del modo di produzione capitalista e vivevano ancora su altri modi di produzione, le masse “emarginate” di oggi sono un prodotto del modo di produzione capitalista e del suo massimo sviluppo e ad esse il rapporto di capitale appare (viene percepito immediatamente, superficialmente) come dominio arbitrario e soggettivo dei capitalisti: se il signor ministro passa il decreto avremo la borsa di studio, il sussidio, la pensione, l’incarico; cioè avremo cibo, casa, vestiti, spettacoli, giornali, ecc. (che la sovrapproduzione generale fa già esistere da qualche parte in quantità esorbitante, dati i rapporti di distribuzione); se il ministero stanzia i contributi, se la banca concede il prestito, se le partecipazioni statali intervengono, continueremo ad avere un salario e ciò che ne consegue.

La politica economica, lo stato nell’economia, il capitalismo monopolistico di stato, il capitale finanziario, il sistema finanziario internazionale: tutto appare come dipendente dalla volontà soggettiva di alcuni uomini di stato, di alcuni banchieri, finanzieri, industriali. Come se l’alienazione e la reificazione dei rapporti sociali fossero spariti per incanto.

E questi studenti “proletarizzati”, medici “proletarizzati”, infermieri “proletarizzati”, insegnanti “proletarizzati”, impiegati “proletarizzati”, intellettuali vari “proletarizzati”, ecc. hanno una coscienza immediata dei rapporti sociali che deriva dalla loro particolare collocazione nella società borghese attuale e che i teorici della “maturità del comunismo” rispecchiano e cristallizzano tal quale, esaltandone gli aspetti illusori e superficiali e in questo senso contrapponendoli, per quanto è nelle loro forze, agli operai (vedasi come espressione compiuta di questa operazione, A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, ed. Feltrinelli).

Ancora una volta, ciò che è espressione contraddittoria del capitale viene proclamato come nuova fase raggiunta e consolidata.

Ma proprio perché le tesi della scuola operaista non sono un’invenzione di alcuni fortunati professori e scrittori, ma riflettono la coscienza immediata che milioni di individui hanno di se stessi, esse esistono ed operano al di là delle disavventure politiche e della fine ingloriosa dei loro esponenti e la loro influenza nel movimento rivoluzionario continuerà o nella forma di nuovi esponenti che, forti di un nuovo prestigio, le riesumeranno, o nella forma di un influsso diffuso, subito passivamente e inconsapevolmente come si subisce l’influsso dei luoghi comuni e delle “verità ovvie”. Tutto ciò a meno che tale influenza sia contenuta e limitata da una lotta attiva, cosciente e dichiarata per lo smascheramento del loro contenuto di classe e per l’egemonia della teoria marxista-leninista.

 

1.4. Gli antecedenti teorici della teoria operaista

Proprio perché le teorie operaiste non sono una “invenzione” dei nostri operaisti, ma il riflesso nella testa di individui, reso organico dai membri della scuola, delle condizioni materiali di strati sociali che l’imperialismo ha prodotto e produce, viene ovvio pensare che teorie analoghe siano sorte e fiorite anche negli altri paesi imperialisti, anzi prima che in Italia.

Abbiamo già richiamato le teorie di Kautsky del 1915 sul superimperialismo, ma altrettanto a buon diritto potremmo richiamare tutti i teorici della socialdemocrazia tra le due guerre mondiali, accomunati sulla tesi di governare il capitalismo, il ché presuppone che il capitalismo sia governabile (ma direzione consapevole degli uomini sulle proprie  relazioni economiche è negazione del capitale, come l’analisi di Marx ha dimostrato e gli avvenimenti storici di questo secolo hanno confermato).

Siccome la definizione e la conduzione di una politica economica, il rafforzamento del capitalismo di stato sono la toppa cui tutte le società borghesi devono ricorrere nell’illusorio tentativo di eliminare la crisi, e con il risultato reale di modificarne tempi e modi di manifestarsi, gran parte della “scienza” economica borghese di questo secolo assume il punto di vista dello stato borghese che “governa” le relazioni economiche o auspica ciò, dandone per scontata la possibilità. In campo teorico W. Rathenau (La nuova economia), Wicksell, Myrdal, Kalecki; in campo pratico nazismo, fascismo, New Deal si muovono in questo ambito. Ma l’“intellettuale organico” per eccellenza della direzione dello stato borghese sull’economia capitalista è Keynes.

Se ora, a questa fede che il capitalismo sia diventato un sistema di relazioni economiche governabili, non più dominato quindi da leggi oggettive necessarie che ne determinano crisi e sviluppo, aggiungiamo la “preoccupazione per gli interessi dei lavoratori” abbiamo i keynesiani di “sinistra” e con essi il retroterra culturale, teorico e ideologico dei nostri operaisti. Studiare Joan Robinson e C. per verificare.

Le teorie dei keynesiani hanno avuto in questo secondo dopo guerra condizioni sociali favorevoli per affermarsi. Le distruzioni materiali e il rivoluzionamento delle relazioni politiche ed economiche internazionali prodotti dalla seconda guerra mondiale avevano aperto un nuovo periodo di sviluppo del capitalismo.

La tesi che le politiche economiche degli stati e delle organizzazioni economiche internazionali (Fondo Monetario Internazionale (FMI), Generai Agreement on Tarifs and Trade (GATT), Banca Mondiale, Piano Marshall, Comunità Europea Carbone e Acciaio (CECA), Comunità Economica Europea (CEE), ecc.) avevano domato le tendenze squilibranti del capitalismo, che la inevitabilità delle crisi economiche e delle guerre era superata e tutta l’altra paccottiglia apologetica del capitalismo, avevano negli anni ‘50 e ‘60 qualche parvenza di verità.

I teorici operaisti, come gli altri keynesiani di “sinistra” hanno accettato queste premesse, hanno accettato la tesi che l’evoluzione dei rapporti economici capitalisti dipendesse dalle scelte dei governi e delle altre autorità, pur denunciando le conseguenze negative di queste scelte per tutti o parte dei lavoratori.

Siccome gli stati e le organizzazioni economiche internazionali fanno delle politiche economiche, teorici operaisti e gli altri keynesiani di “sinistra” si sono dimenticati della alienazione e della reificazione dei rapporti sociali di produzione; siccome la moneta è manovrata e il reddito degli individui e dei gruppi è gestito in qualche modo dagli stati, hanno perso di vista il sottostante processo di creazione del valore da parte dei lavoratori produttivi; e per tutte queste ragioni si sono impantanati in una concezione soggettivista dell’economia, dello stato e delle classi.

Essi infine hanno perso di vista in sostanza la contraddittorietà oggettiva della attuale fase del rapporto di capitale, credono ingenuamente e ciecamente che gli stati borghesi e le loro organizzazioni internazionali governino effettivamente il movimento generale dei rapporti economici mondiali e chiamano “messi di sventura e di morte” quanti ricordano che gli unici esiti possibili di questi anni sono o la rivoluzione proletaria o la guerra, quali che siano le tappe che la politica economica degli stati borghesi può approntare per procrastinarne l’esito.

 

2. Critica di alcune tesi della scuola operaista

 

La pubblicazione di A. Negri La fabbrica della strategia - 33 Lezioni su Lenin (1973), ed. Libri Rossi 1977, è una esposizione organica e “ragionata” di alcune delle principali tesi della scuola operaista, tesi che si ritrovano, esposte in forma diversa o sottintese, in tutta la pubblicistica operaista. La prendiamo quindi come riferimento bibliografico principale delle nostre critiche e da essa sono attinte le citazioni che seguono, a meno che esplicitamente si dica qualcosa di diverso.

 

2.1. La teoria del valore-lavoro

 Dice Negri (p. 156) “distruzione... esasperazione... della legge del valore”. Ma che cosa è la legge del valore? Una legge, una istituzione statale? Una normativa che gli individui applicano più o meno rigorosamente?

Come Negri dice esplicitamente in passi successivi delle lezioni 23, 24 e 25 (p. 156-176), secondo lui la legge del valore è una regola di ripartizione del reddito (vedi ad es. p. 170), la “regola di dare a ciascuno secondo il proprio lavoro”, regola che avrebbe una “ingiusta (sic!) applicazione” nel capitalismo (p. 171) e che invece avrebbe dovuto essere applicata “giustamente” nel socialismo, nella fase di transizione.

La conclusione da trarre da ciò è che Negri non ha capito nulla della teoria marxista del valore. Egli intende il valore nel senso dell’economia borghese di “giusto prezzo” delle merci, al modo di quella miriade di accademici borghesi (sedicenti marxisti o antimarxisti) che da decenni si sono impelagati in statistiche e calcoli per dimostrare o confutare la eguaglianza tra prezzo relativo delle merci e rapporto tra i tempi di lavoro spesi per la loro produzione (cioè la tesi che se un’auto costa 6 milioni e un mobile costa 2 milioni, quindi 3 è il prezzo relativo dell’auto rispetto al mobile, ciò è perché nella produzione complessiva dell’auto è impiegato un tempo di lavoro triplo di quello impiegato per la produzione del mobile).

Negri poi di conseguenza intende la legge del valore come “regola dell’eguaglianza” (p. 162), come regola applicata o meno nella “distribuzione del reddito” (p. 163).

Secondo Marx e i marxisti invece il valore è un rapporto sociale di produzione che si presenta come una qualità dei prodotti del lavoro (rapporto sociale alienato e reificato). Ed esattamente è il rapporto che vige tra individui che dipendono l’uno dall’altro per la produzione e per la riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza, ognuno dei quali però opera come se fosse indipendente e trova poi nello scambio dei prodotti la verifica sociale del proprio operare. Per una esposizione più dettagliata della cosa sì veda ad es. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica ed. Einaudi, p. 87-107.

Riassumendo: il capitalismo crea per la prima volta nel mondo una dipendenza reciproca reale nella produzione e riproduzione delle condizioni materiali della propria esistenza, tra individui non legati tra loro da vincoli “naturali” (famiglia, clan, ecc.), da vincoli di immediata vicinanza o di dipendenza personale, tra individui indifferenti l’uno all’altro, che si ignorano a vicenda, tra i quali non sussiste alcun legame o relazione personale.

Antecedentemente al capitalismo, anche gli individui sudditi di un unico sovrano non dipendevano l’uno dall’altro per la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza (si parla della condizione dominante). La loro unità non era “reale”, ma posta dall’esterno a loro (dal sovrano, ecc.), era un’unità “dal punto di vista dell’osservatore”, non una unità della cosa stessa, una unità da cui nessuno di loro può prescindere, la cui rottura significa la morte o nel migliore dei casi uno sconvolgimento del normale processo di riproduzione materiale, come succede ora quando per un qualsiasi motivo si rompe il normale corso degli scambi.

Il legame reale, necessario che nel capitalismo viene creato tra gli individui si stabilisce attraverso cose. Il legame tra gli individui esiste come scambio di prodotti tra di essi e come produzione di prodotti per lo scambio. I rapporti sociali sono venuti quindi alla luce come rapporti tra cose, cioè reificati e alienati. Man mano che questi rapporti si sono formati, essi hanno assegnato una corrispondente forma sociale alle cose che in essi rapporti fungono come intermediari, essi quindi si sono formati come cose e come rapporti tra cose.

I legami personali (nella produzione e riproduzione) prima esistenti e relativi a piccoli ambiti sono stati spezzati e sostituiti da rapporti di compravendita di merci. I legami nuovi stabiliti tra individui (prima estranei l’uno all’altro per quanto riguarda produzione e riproduzione) sono nati come rapporti di compravendita di merci, come rapporti di denaro, come compravendita di forza-lavoro. La produzione è diventata produzione di merci, di valori; in seguito produzione capitalistica.

Ciò non è stato né la degenerazione, né la deformazione in cose di già esistenti rapporti universali tra individui, ma fu il  modo, la veste in cui sono venuti al mondo i nuovi mai prima esistiti rapporti universali tra individui nella produzione e riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza, donde l’assurdità del concetto di riappropriazione. Tale concetto è chiaramente una confusione teorica reazionaria. Implica che gli uomini vivessero felici e contenti (il paradiso terrestre versione Negri), che qualcuno abbia sottratto questa felice condizione e che la lotta del proletariato per il comunismo consista nella riconquista di questa fantasiosa condizione felice. Vi è implicita la negazione del materialismo storico, una concezione idealistica e statica della “natura umana” e una profonda, inconfessata nostalgia reazionaria per il felice passato.

Le cose che sono reificazione di rapporti sociali (che cioè hanno acquistato una particolare forma sociale) fanno assumere agli individui che ne sono possessori un determinato ruolo sociale, impongono il loro essere e le loro leggi di movimento alle persone, determinano il ruolo svolto dalle persone nella società e il loro comportamento.

Si ha quindi il duplice processo di reificazione dei rapporti tra individui e di personificazione delle cose (vedi Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli 1976, p. 18-25).

In questo processo gli individui vengono raggruppati in classi, che Lenin definiva “quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i rapporti (per lo più sanzionati e fissati da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e quindi per il modo e la misura in cui godono della parte di ricchezza sociale di cui dispongono” (definizione ben diversa da quella data da Negri a p. 28).

Questa è la legge del valore-lavoro esposta da Marx, che quindi chiarisce anzitutto un rapporto qualitativo tra le cose e tra gli individui. Il rapporto tra i lavori degli individui e quindi tra individui (se li si considera nella produzione) nasce e si presenta come rapporto tra valori di cose.

Secondo Marx la legge del valore-lavoro si presenta anche come rapporto quantitativo secondo cui una merce viene scambiata contro un’altra merce (ad es. 100.000 kg di ferro contro 1 kg d’oro), ma solo come categoria semplice per sviluppo dialettico della quale si generano le categorie rappresentative della realtà più complessa e concreta (per questo punto, v. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, ed. Einaudi, p. 26-29).

Engels nelle “Considerazioni supplementari” premesse al libro 3° del Capitale dirà che solo nella produzione mercantile semplice (produzione di merci senza capitale) il prezzo oscilla attorno al valore. Marx sostiene che la legge del valore-lavoro si realizza interamente in tutti i suoi aspetti nel modo di produzione capitalista non nel senso che i prezzi corrispondono al valore delle merci (che anzi Marx dimostra a più riprese che non vi corrispondono e non possono corrispondervi - v. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, ed. Einaudi, p. 39 e segg.; v. Il Capitale, Libro 3°, sez. 2°), ma nel senso che nel modo di produzione capitalista si sviluppano e vengono via via alla luce tutte le potenzialità implicite nel rapporto di valore.

 

2.2. Estinzione della legge del valore già nel capitalismo

Dunque Negri e gli operaisti travisano la teoria marxista del valore accettando la versione della teoria del valore data dagli economisti borghesi vecchi (Ricardo e C.) e nuovi. Su questa base Negri e gli operaisti sostengono che la legge del valore è già stata superata dal capitalismo stesso.

Questa tesi è parente prossima della tesi della fabbrica diffusa e della tesi dell’operaio sociale: la ricchezza borghese non deriva dallo sfruttamento dei lavoratori produttivi di plusvalore, cioè dei lavoratori impiegati direttamente dal capitale operante come tale, ma dal dominio dei capitalisti sul complesso della società, cioè, indifferentemente, dallo sfruttamento di tutti quelli che non sono capitalisti (ma che cosa è il capitale secondo Negri e C.? Se non c’è valore, come può esistere capitale che è “valore che si valorizza”? E se non c’è capitale, chi sono i capitalisti? I cattivi?).

Conclusione degli operaisti: siamo tutti proletari. Da ricordare i temi di Potere Operaio anni ‘60 sulla proletarizzazione degli studenti, sulla proletarizzazione degli insegnanti, ecc. ecc..

 La tesi della estinzione della legge del valore nel capitalismo è sostenuta e attribuita a Marx stesso sulla base di un passo dei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), cavallo di battaglia da sempre degli operaisti. Il passo fu pubblicato in Italia per la prima volta in Quaderni .Rossi n. 4 (p. 288-300) con il titolo “Frammento sulle macchine”, nel 1964. Lo si ritrova nelle edizioni italiane dei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Nuova Italia p. 399-402; Einaudi p. 714-719).

Negri e gli operaisti danno una interpretazione pacifista, gradualista, storicista di Marx.

Nel passo in questione in sostanza Marx dice che quando il capitalismo arriva allo sviluppo della grande industria basata sull’impiego sistematico delle macchine, “in questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve lo sviluppo dell’individuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza” (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, ed. Einaudi, p. 717), mentre il modo di produzione capitalista, all’interno del quale si genera questa situazione, resta fondato, come legge che regola tutto il suo movimento (i rapporti di produzione, distribuzione, circolazione, consumo e i loro riflessi sovrastrutturali), sul “furto di tempo di lavoro altrui”. E ciò costituisce una ulteriore contraddizione generata dallo sviluppo capitalista, contraddizione che ne decreta la fine come sistema che si afferma sugli altri, storicamente, come promotore di sviluppo delle forze produttive.

Marx scrive queste cose nel 1857/58. Cosa dice Marx nel passo in questione?

Marx indica il crescere della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici. Con lo sviluppo della grande industria, la produzione della ricchezza reale (cioè di valori d’uso) viene a dipendere sempre meno dal tempo di lavoro immediato e sempre più invece dalla potenza dei mezzi di produzione impiegati e la potenza relativa dei vari mezzi di produzione impiegati non è in alcun rapporto con i diversi tempi di lavoro immediato che costa la loro produzione (cioè se un tornio automatico sorvegliato e servito da un operaio produce 500 pezzi all’ora, mentre lo stesso operaio con un tornio elettrico produce 10 pezzi eguali all’ora, non è che la produzione di un tornio automatico richieda 50 volte il tempo di lavoro necessario per la produzione di un tornio elettrico), ma dipende dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia.

Alcune osservazioni:

In primo luogo Marx afferma che questa tendenza è una tendenza del modo di produzione capitalista: è una espressione del bisogno del capitale di ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario (ricerca del plusvalore relativo). Negri invece la pone come un risultato delle lotte operaie e della egemonia del proletariato e quindi nega la base materiale della tendenza e la contraddizione che essa genera nel modo di produzione capitalista e che all’interno di esso non può essere risolta.

Ciò che Marx enuncia come contraddizione nel modo di produzione capitalista che si svolge sulla sua propria base, e che costringe in un sistema dato di rapporti di produzione-distribuzione circolazione-consumo, una realtà che è ormai andata oltre ed è oramai contraddittoria con questo sistema, ebbene Negri lo trasforma in un risultato pacificamente acquisito dal modo di produzione capitalista maturo. E proclama che nel capitalismo maturo è caduta la legge del valore-lavoro.

Ma al di là della deformazione pacifista di Marx, Negri non spiega come mai nella cruda realtà i capitalisti si battono ancora oggi strenuamente per “rubare tempo di lavoro altrui”, nei settori produttivi di valore in particolare e di riflesso in tutti i settori (con un processo di trasferimento analogo a quello per cui il reddito redistribuito ai lavoratori non produttivi assume anch’esso la forma di salario). Dalla FIAT che si lagna a gran voce che “l’operaio FIAT lavora 393 minuti (sic!) al giorno mentre l’operaio automobilistico tedesco ne lavora 453 minuti e, inoltre, a un ritmo più veloce del 15 per cento” (Repubblica, 17/1/80, p. 25), alle lotte sui ritmi e orari di lavoro, all’industriale che stabilisce e  controlla i minuti che l’operaio può passare al cesso!

L’unica spiegazione che può dare Negri di questo comportamento generale dei capitalisti è la... malvagità dei capitalisti. Dalla critica dei rapporti di produzione alla morale! La lettura complessiva delle “33 Lezioni” conferma che questa è l’opinione di Negri.

In secondo luogo Negri, partendo da Marx, fa vari voli retorici che sono determinanti per le sue conclusioni: dove Marx dice che la creazione della ricchezza reale “viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro che dalla potenza ecc.”, parla di “enorme sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto”, indica il divenire della “creazione di ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa”, afferma che “il lavoro in forma immediata cessa di essere la grande fonte della ricchezza” (nel senso di valori d’uso), ecc. (v. citazioni di Marx riportate da Negri a p. 165 e 166) - e solo della potenza dei nuovi mezzi di produzione dice che “non è minimamente in rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione” - Negri invece (p. 170) dice che le nuove forze produttive rendono “totalmente insignificante il rapporto con il lavoro vivo”, parla di “sproporzione totale”, ecc...

Ciò che Marx indica come contraddizione in sviluppo gravida di rivoluzione, Negri lo dà come nuova situazione pacificamente acquisita dal modo di produzione capitalistico.

Fatto il volo retorico, ne consegue che il lavoro vivo non ha più alcun ruolo nella produzione, donde da una parte parole d’ordine come “abolizione del lavoro” diventano ovvie; dall’altra ne viene la negazione del rapporto di valore, del carattere di valore assunto dai prodotti e la riduzione del rapporto di capitale a semplice dominio soggettivo (p. 167) e l’esortazione (almeno fino al 7 aprile) a ribellarsi e a liberarsi dai tiranni: ciò che a questo punto resta l’unico contenuto della rivoluzione proletaria,

Quindi, riassumendo, Negri e C. anzitutto riducono la teoria del valore-lavoro a una teoria dei prezzi e, addirittura, a principio della legislazione dei prezzi; in secondo luogo fanno dire a Marx che con la nascita della grande industria fondata sulla applicazione delle scienze naturali alla produzione, il lavoro vivo non c’entra più con la produzione delle merci.

E, più precisamente, Negri argomenta dunque che oggi non è più possibile distinguere con sicurezza la quota di ricchezza prodotta da ogni singolo lavoratore (in realtà non lo è da quando il capitalismo ha introdotto la cooperazione semplice - cioè da due secoli circa), che la ricchezza prodotta oramai non si può più misurare in termini di lavoro effettivamente prestato per produrla (il che avviene in un certo senso da quando il capitalismo ha introdotto il macchinario e in generale la applicazione della scienza nella produzione, cioè da quando si ha la sussunzione non solo formale ma reale del lavoro nel capitale, cioè da più di un secolo e mezzo); che là potenza relativa delle condizioni (mezzi) della produzione di ricchezza non è più proporzionale al tempo di lavoro effettivamente speso per la loro produzione (ciò che avviene da più di un secolo e mezzo, da quando il capitalismo inizia a introdurre nella produzione le “invenzioni”).

 

2.3. Non necessità - impossibilità del socialismo come periodo di transizione dal capitalismo al comunismo. La teoria della maturità del comunismo

A p. 162 Negri passa a chiarire le “condizioni che permettono il passaggio al comunismo”. Anzitutto: le cose oggi non stanno più come le avevano viste Marx (nella Critica al programma di Gotha -1875) e Lenin (Stato e Rivoluzione - 1917) perché “oggi le anticipazioni (di Marx nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, 1857-58) si sono fatte realtà” (p. 169).

A parte il problema temporale (Marx nel 1875 non terrebbe conto di quanto aveva “anticipato” nel 1857), e a parte che Marx nel 1857 non ha l’aria di anticipare nulla, ma di descrivere una cosa in via di realizzazione (la formazione della grande industria con il ruolo predominante della macchina, la creazione di una massa di forme antitetiche dell’unità  sociale, ecc.), veniamo al dunque.

Negri argomenta che oramai il proletariato non può più impadronirsi dello stato borghese (sic! p. 163, r. 4, concetto confermato anche dai passi di p. 158, r. 17 e p. 159, r. 13 - Dove è finita la distruzione dello stato borghese che Marx e Lenin contrappongono allo “impadronirsi dello stato borghese” sostenuto dai socialisti riformisti delle relative epoche?) per fargli applicare giustamente le regole del valore nella distribuzione del reddito, perché lo stato borghese non la applica più e non può più applicarla neanche ingiustamente dato che non c’è più rapporto tra tempo di lavoro e quantità di ricchezza prodotta. Queste baggianate farebbero ridere se non si pensasse al sussiego con cui sono state esposte, al rispetto con cui sono state ascoltate e al danno che hanno provocato!

Oramai, prosegue Negri, lo stato distribuisce reddito unicamente in funzione della fedeltà e della utilità del destinatario ai fini della perpetuazione del dominio dello stato stesso (p. 170, r. 19). Tema che Negri svilupperà estesamente in Il dominio e il sabotaggio (1978) per incitare alla contrapposizione dei lavoratori “non garantiti” contro gli operai di fabbrica.

Negri distorce la teoria di Marx e Lenin sulla fase di transizione dal capitalismo al comunismo. Secondo Negri, Marx e Lenin concepivano il socialismo come fase in cui il modo di produzione è ancora capitalista, lo stato è ancora borghese ma la classe operaia si è fatta stato ed ha l’egemonia, applica “giustamente” la “regola del valore”, cioè della ripartizione del reddito secondo il lavoro (inutile obiettare: ma allora chi è che accumula e impone l’accumulazione se il reddito del lavoro è distribuito con decisione consapevole secondo il lavoro? E quanto è prodotto nella forma di mezzi di produzione che fine fa e chi ne decide l’ampiezza?), sviluppa le forze produttive, sviluppo che crea “le condizioni materiali che permettono il passaggio al comunismo” (questa tesi ora si chiama “teoria delle forze produttive” e se ne parlò parecchio in Cina durante la Rivoluzione Culturale), condizioni che nei passi successivi Negri chiarirà affermando che sono quelle che il capitalismo maturo ha oramai già creato, salvo poi concludere che il soggetto rivoluzionario deve distruggerle (queste condizioni materiali che permettono il passaggio al comunismo) perché esercitano una “colossale pressione... contro la liberazione del lavoro vivo, contro la forza invenzione proletaria, contro la capacità rivoluzionaria della prassi collettiva, contro ogni possibilità di sviluppare nuove forme di vita” (pag. 174) ... con il ché siamo approdati a Bifo e a Radio Alice!

Negri inventa che Marx e Lenin pensassero che nel socialismo si ha applicazione della legge del valore. Inventa:

l) sia perché secondo Marx e Lenin la legge del valore-lavoro non è una legge che gli uomini “applicano”, ma una legge che in date condizioni sociali si impone agli uomini come una legge di natura;

2) sia perché Marx parla nella Critica al programma di Gotha di distribuzione dei beni di consumo (e solo dei beni di consumo, quindi solo di una parte del prodotto) “a ciascuno secondo il suo lavoro” solo come una delle varie misure da applicare (ora sì da “applicare” perché si parla di una società di individui che ha preso in mano e dirige consapevolmente le condizioni della produzione e della riproduzione delle condizioni materiali della propria esistenza - di una comunità reale che non esiste nelle condizioni del capitalismo, salvo che nelle chiacchiere imbonitrici - “siamo tutti nella stessa barca”, la “economia nazionale”, ecc. - dei Lama, degli Andreotti e di altri imbroglioni del genere), da applicare, si diceva, durante il socialismo (o prima fase del comunismo) senza alcun riferimento alla legge del valore-lavoro, riferimento che sarebbe privo di senso alcuno;

3) sia perché la trovata della “giusta applicazione della legge del valore” nel socialismo non è né di Marx né di Lenin, ma dei socialisti utopisti (Proudhon in testa), aspramente criticati da Marx (v. ad es. Lineamenti fondamentali di critica all’economia politica, ed. Einaudi, p. 39 e segg.) ed è riproposta in edizione moderna da uno degli economisti borghesi keynesiani “amici dei lavoratori” alla cui scuola si sono abbeverati gli esponenti della scuola operaista, la ineffabile signora Joan Robinson (An Essay on Marxian Economics, 1949. Per una disamina delle sue idee di rattoppamento del capitalismo che la Robinson mette “gentilmente” in bocca a Marx, vedi Rosdolsky, Genesi e struttura del Capitale di  Marx, cap. XXXIII).

Come procede Negri per far dire a Lenin ciò che Lenin era lungi dal dire?

Negri cita (p. 156) un passo in cui Lenin dice che “tutta la teoria di Marx è un’applicazione al capitalismo moderno della teoria dello sviluppo nella sua forma più conseguente, completa, approfondita e ricca di contenuto”. La “teoria dello sviluppo” richiamata nella citazione di Lenin è la dialettica materialistica. Lo stesso passo nella traduzione degli Editori Riuniti (Opere, vol. 25, 1967 p. 430) suona “teoria dell’evoluzione” e alcune pagine più avanti (p. 442, r. 18) Lenin dice che Marx “applica conseguentemente anche qui la dialettica materialista, la teoria dell’evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si sviluppa dal capitalismo”.

La precisazione è necessaria per evitare il gioco all’equivoco che Negri fa successivamente basandosi sul termine “sviluppo” inteso invece come crescita delle forze produttive o, indifferentemente, come sviluppo del rapporto di capitale.

Infatti a p. 157 Negri approda alla “volontà (del soggetto rivoluzionario) di egemonizzare in forma antagonista questo (del capitalismo) sviluppo”. Marx e i marxisti hanno ampiamente mostrato che il proletariato come soggetto rivoluzionario (il proletariato “per sé”) mira e non può che mirare a eliminare il rapporto di capitale. Negri al contrario introduce un “soggetto rivoluzionario” che aspira a egemonizzare, cioè a dirigere lo sviluppo del rapporto di capitale e che stabilisce “un qualche” rapporto di forza con il comando e la organizzazione dell’accumulazione capitalista (p. 157): tesi che è la sorella gemella della tesi della “autonomia del politico” (Tronti) e della tesi della “classe operaia che si fa stato” (Berlinguer).

Kautsky prima e poi Liu Sciao-ci e Teng Siao-ping (per Stalin la questione non si pose mai chiaramente) hanno sostenuto che il proletariato si impadroniva dello stato e dirigeva lo sviluppo del capitalismo. Mao Tse-tung, coerentemente con Marx e Lenin, sostenne di contro che il capitalista non è altri che chi dirige lo sviluppo del rapporto di capitale, chi impersonifica il capitale, chi è funzionario del capitale (2). Negri che crede che il capitalista sia invece il cattivo, il ladro, l’imbroglione (“la proprietà privata è un furto” diceva già Proudhon!), pensa invece ad un proletariato che dirige “giustamente” lo sviluppo del capitale!

Poi Negri si scatena in giochi di frasi equivocando tra sviluppo delle forze produttive e sviluppo del rapporto di capitale, per concludere che la fase di transizione tra capitalismo e comunismo illustrata da Marx e Lenin è una fase di “egemonia sullo sviluppo (del rapporto di capitale) da parte della classe operaia” o egemonia operaia sullo sviluppo del modo di produzione capitalistico.

In queste argomentazioni di Negri - a meno che egli, seguendo i giornalisti borghesi, non identifichi capitalismo e industria, capitale e mezzi di produzione - balzano agli occhi due contraddizioni (nel senso della logica formale):

Se il socialismo è ancora modo di produzione capitalistico, in che senso è transizione dal modo di produzione capitalistico al comunismo?

Egemonia della classe operaia sullo sviluppo del rapporto di capitale è una espressione che, parafrasata, significa “direzione della classe operaia sulla direzione (reificata, tramite cose) dei capitalisti sulla classe operaia”: un bel guazzabuglio!

Proseguendo, la versione negriana della teoria della transizione diventa ancora più problematica: “questo stato borghese vive ancora, pur senza che la borghesia sia il soggetto dominante,... anche se le regole dello stato borghese sono spinte a fondo a trasformarsi in regole di eguaglianza e in norme contro il dominio borghese” (p. 158).

Quindi, (secondo Marx e Lenin interpretati da Negri) nella fase di transizione il modo di produzione è capitalistico, lo stato è borghese... vi è davvero una transizione!!

Sono cambiati gli uomini al governo e la legge è applicata giustamente, con imparzialità: non è (a parte la veste declamatoria e agitatoria) il programma di “amministrazione onesta” o “governo degli onesti” del PCI?

 Da notare che la frase di Lenin riportata da Negri a p. 174 suona sì eguale alla affermazione di Negri, ma letta nel contesto (Opere, vol. 25, ed. Riuniti 1967, p. 442) ha un significato diverso: Lenin ritiene inevitabile “il mantenimento dell’angusto orizzonte giuridico borghese nella prima fase del regime comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la distribuzione dei beni di consumo, suppone pure necessariamente uno stato borghese, perché il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere alla osservanza delle sue norme” e segue la frase citata da Negri: “ne consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese ma anche lo stato borghese, senza borghesia!”.

A questo punto Negri ha posto le basi per le sue conclusioni sull’argomento. Il socialismo era “verifica, realizzazione della legge del valore” (p. 170), come regola di giusta distribuzione del reddito; la legge del valore era la regola della distribuzione del reddito sulla cui “ingiusta applicazione” era basata la divisione del lavoro (p. 171); le moderne forze produttive rendono inutile il lavoro e quindi impossibile una “giusta” distribuzione del reddito secondo il lavoro.

E tutto il resto che il lettore può seguire sulle pagine di Negri.

Da rilevare solo l’ultima grossa contorsione del futuro autore di Dominio e sabotaggio. Dopo aver argomentato che i capitalisti hanno perso la base materiale del loro comando, che ciò che resta del capitalismo è “la regola del comando piantata sull’autoconservazione della produzione capitalista” ecc. ecc., Negri scopre che questo dominio non si esercita semplicemente da persona a persona, ma si esercita attraverso il lavoro morto, che posa sull’“accumulo intero di lavoro morto - che comprende sì il macchinario ma anche la forma di cervello che gli uomini hanno dovuto forgiarsi a contatto della scienza capitalistica e della necessità della riproduzione del modo di produzione capitalistico” (p. 173). Quindi anche questi due da distruggere ai fini della “distruzione di ogni forma di comando, la liberazione della classe, la liberazione dal lavoro - e cioè dalla legge del valore” (p. 171) - (Ma la legge del valore non era già stata distrutta dal capitalismo maturo?)

Dopo aver argomentato che restava solo da rovesciare il tiranno che governava “secondo norme che sono semplicemente politiche, norme di comando” (p. 170) (cioè non determinato nelle sue azioni da alcuna forza materiale), dopo aver argomentato che si trattava di distruggere una idea, Negri conclude che si tratta di distruggere tutto.

Tutto questo miscuglio di giochi di parole e di fraintendimenti di cui abbiamo dato un saggio, serve quindi a Negri per “dimostrare” che il socialismo di cui parlavano Marx e Lenin non era che capitalismo diretto dagli operai e che non poteva essere che così data la arretratezza del capitalismo di allora, concludendo che invece ora, data la maturità del capitalismo di oggi, non occorre più una fase transitoria tra capitalismo e comunismo, ma è possibile il passaggio diretto dal capitalismo al comunismo (maturità del comunismo).

Ed è così che Negri viene a trovarsi in compagnia di quel fior fiore di “rivoluzionari” di Rossanda, Magri, Garaudy e... Kruscev che nel 1958 propose il suo “piano ventennale di passaggio al comunismo”.

Da queste tesi segue poi coerentemente la non necessità della dittatura del proletariato come forma dello stato nella transizione: non c’è un modo di produzione da trasformare, dei rapporti sociali da modificare. È pacificamente abolita la tesi di Marx “che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società”. (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Ed. Riuniti 1977, p. 29).

Non vi è insomma da trasformare un mondo soggettivo che si trasforma solo in dialettica con la trasformazione di rapporti oggettivati, ma solo una tirannide da abbattere.

Il rapporto coscienza-materia che Marx aveva rimesso sui suoi piedi materiali, viene da Negri rimesso a testa in giù.

 Di conseguenza non necessità del partito come avanguardia ideologica, teorica, politica, organizzativa. La contraddizione avanguardia-masse non è una contraddizione storicamente determinata, con proprie leggi di sviluppo, secondo Negri. Al più il partito è una avanguardia organizzativa, di quelli che svolgono alcuni delicati compiti pratici.

 

2.4. Carattere puramente soggettivo dei rapporti sociali

Dalla negazione della legge del valore, Negri passa a gonfie vele a parlare dei rapporti sociali come rapporti puramente soggettivi, non alienati né reificati. Dalla parte dei capitalisti è lo spirito di dominio, la volontà di potenza, ecc. che ne determinano il comportamento. Dalla parte del proletariato, è il suo amore di libertà ed eguaglianza, il suo “bisogno di comunismo”. Negri non si attarda a spiegare se questi diversi patrimoni sentimentali dei capitalisti e dei proletari sono innati (e ciò costituirebbe una riedizione della teoria metafisica di una “natura umana” data al di fuori della storia, immutabile: anzi di due nature umane!), o se sono retaggi, sopravvivenze sentimentali residuate dall’epoca precedente.

Analogamente l’analisi di classe, la “composizione politica del proletariato” (per dirla alla Negri) diviene analisi basata non sul ruolo svolto nella produzione di valore, ma sui “comportamenti, i bisogni e i livelli di coscienza politica” (p. 28).

Con il ché, sia detto per inciso, la aristocrazia del pensiero, del consumo, della politica si autocostituisce in classe separata dal “rozzo” operaio nostrano e tanto più da quello del “terzo mondo”. Insomma una ridefinizione della categoria di classe fatta su misura per esaltare la “falsa coscienza” dello studente-intellettuale rivoluzionario comportamentista e del lavoratore politicizzato sradicato.

I rapporti sociali di produzione non sono più, secondo Negri, né alienati né reificati, ma solo dominio di alcuni (i capitalisti) su altri.

 

2.5. La abolizione del lavoro

Gli operaisti su questa questione falsificano addirittura Marx. In effetti Marx, a proposito del ruolo del lavoro nella futura società, parla di “aufheben”. Aufheben è un termine tipico, gergale di Hegel, sul cui significato il traduttore italiano della “scienza della Logica” di Hegel dice (ed. Laterza 1974, p. XXV nota 28): “Qui e in seguito adotto la più consueta traduzione di aufheben con “togliere” (piuttosto che “risolvere” o “superare”) avvertendo che si tratta di una traduzione di ripiego, inidonea a esprimere il duplice significato di “negare” e “conservare”, e inoltre quello di “innalzare”, proprio dell’uso tecnico hegeliano del termine tedesco (vedi, tra gli altri luoghi, Scienza della Logica, I, p. 121-122).

Che a Marx fosse estranea ogni tesi di “abolizione del lavoro” è evidente da tutta la sua opera. In uno scritto significativo sul significato della teoria del valore egli ad esempio dice: “Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma solo può cambiare il suo modo di apparire, è evidente. Le leggi di natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma con cui quelle leggi si impongono. E la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti” (Lettera a Kugelmann del 11.7.1868).

A riprova si può leggere anche la Critica al programma di Gotha (1875) in cui Marx si addentra nei temi della fase di transizione (socialismo o prima fase del comunismo) e della società comunista, parlando delle modificazioni che subirà il lavoro, del diverso ruolo che esso rivestirà nella vita degli uomini.

Gli operaisti affrontano anche questo problema al modo in cui è immediatamente accessibile a quegli individui che già il capitalismo relega a svolgere lavori superflui per la conservazione della vita della società, la abolizione dei quali  lavori si presenta quindi come la cosa più ovvia. In questo modo essi però sabotano un importante tema di lotta politica, rendendolo incomprensibile al proletariato.

Il capitalismo ha riunito le condizioni di produttività del lavoro umano adeguate affinché il lavoro necessario per la riproduzione della società cessi di essere la occupazione principale degli uomini, affinché il lavoro necessario per la riproduzione della società venga ad assorbire una frazione sempre più piccola delle capacità lavorative degli uomini e diventi una frazione trascurabile del tempo complessivo degli uomini.

Ciò si avvera già nel capitalismo, ma al modo del capitalismo, cioè nell’unica forma possibile data la costrizione del rapporto di valore e del rapporto di capitale. Cioè riducendo la frazione della popolazione che svolge lavoro necessario alla riproduzione della società; ponendo il tempo non dedicato al lavoro come pausa, come tempo dedicato al superfluo, come perdita sociale, come concessione del “capitalista laborioso” alle tendenze oziose del lavoratore; ponendo come lavoro necessario anche attività proprie di tutti gli uomini da cui, stante il rapporto sociale capitalista, il proletariato deve essere escluso e che quindi la società borghese mantiene o crea come attività esclusive di alcuni individui (le attività politiche, culturali, sportive, creative e ricreative); facendo di tali attività superflue o generalmente umane la condizione necessaria per lo svolgimento regolare del lavoro (nell’ambito della società borghese, quindi dei rapporti di valore e di capitale, se cessano queste attività superflue o generalmente umane e il reddito che vi è connesso, ne risulta sconvolto e impossibile anche il lavoro necessario alla normale conservazione e riproduzione della società).

La riduzione del tempo socialmente dedicato al lavoro necessario alla conservazione e riproduzione della società, fino a mutare il ruolo che questo lavoro necessario ha nella vita degli uomini, è non solo un tema di lotte rivendicative dei lavoratori contro i capitalisti, ma anche una questione importante praticamente e teoricamente in riferimento alle formazioni sociali socialiste e socialcapitaliste. Se da una parte non esiste una muraglia cinese che divide il livello di produttività del lavoro incompatibile con il comunismo da quello compatibile, dall’altra è vero che in quanto la riproduzione delle condizioni materiali della vita della società continua ad essere normalmente un problema ed un assillo, intanto la divisione di classe (e lo stato) sono ineliminabili.

La durata della giornata di lavoro è uno degli indici universali del cammino compiuto verso il comunismo (e quindi verso l’estinzione delle classi e dello stato). Vale però la pena di notare che il problema non può che essere posto nel contesto mondiale, pena altrimenti l’accodarsi al carro dell’imperialismo. La liberazione dal lavoro della popolazione di un paese, mentre altri popoli (cui questo paese è legato nel movimento economico generale) lottano per sopravvivere, non può che essere partecipazione allo sfruttamento imperialista e in definitiva l’elemento di conservazione della società borghese e prodromo di guerra. Non è un caso che l’internazionalismo non è mai stato un tema caro agli operaisti e affini, come non lo sono stati l’imperialismo e la guerra.

Considerando la fase del socialismo, si deriva oramai anche dalla osservazione empirica che, essendo ivi gli elementi di capitalismo progressivamente regolamentati (come via alla loro limitazione e alla loro eliminazione), viene meno la spinta (interna al capitale in generale) e la imposizione economica dall’esterno (tramite la concorrenza tra capitali) a ogni singola frazione di capitale di sviluppare la produttività del lavoro. La riduzione del tempo che gli individui devono dedicare al lavoro necessario per la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali della propria esistenza diventa e deve diventare quindi la molla principale del progresso tecnologico, cioè dell’aumento della produttività del lavoro.

È una constatazione universale che più il capitalismo è regolamentato e quindi impedito nella esplicazione dei suoi bisogni, più lento diventa anche lo sviluppo della produttività del lavoro. Capitalismo regolamentato e vincolato dalla creazione di una massa di forme antitetiche dell’unità sociale ed estinzione dei “germi di comunismo” sono alle origini della lentezza dello sviluppo della produttività del lavoro nelle società socialcapitaliste, lentezza tanto e tanto vanamente deplorata da Breznev e soci, cioè dagli esponenti del capitalismo più concentrato e regolamentato finora  comparso sulla faccia della terra.

 

2.6. La divisione del lavoro

Anche in questo campo i teorici della scuola operaista sotto veste estremistica (quindi apparentemente di sinistra) confluiscono con i destri.

Gli esponenti del PCI, della Triplice Sindacale e in particolare della FLM, in collaborazione e concorrenza con gli uffici personale e organizzazione del lavoro padronali, da anni si affannano a dire che la ribellione degli operai alla borghesia è dovuta alla monotonia del lavoro, alla parcellizzazione del lavoro, alla ripetitività, alla “mancanza di job motivation” dicono assieme Agnelli e Lettieri. E suggeriscono, escogitano ed esperimentano diverse forme di “ricomposizione delle mansioni”, isole produttive, ecc. per rendere gratificante il lavoro, cioè far sì che gli operai siano presi dal loro lavoro ed abbiano con esso un rapporto di soddisfatto asservimento.

I teorici della scuola operaista, analogamente, sostengono la “abolizione della divisione del lavoro”.

Marx e C. sostenevano la “scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico” (Marx, Critica al programma di Gotha, cap. I punto 3). Subordinazione asservitrice che scompare non in quanto tutti fanno tutti i lavori necessari per la propria vita (ciò che in pratica significa ritorno alla età della pietra e rottura del carattere sociale, collettivo, della attività produttiva esteso dal capitalismo a livello mondiale, che è la condizione prima dello sviluppo della produttività del lavoro), ma in quanto:

il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della società è ridotto al minimo, grazie all’aumento della produttività del lavoro e in conseguenza della eliminazione del rapporto di capitale, rapporto che comporta l’illimitato aumento della produzione di beni d’uso come supporto materiale del bisogno del capitale di aumentare oltre ogni limite raggiunto;

ogni singola prestazione di lavoro è socialmente riconosciuta come frazione necessaria del fondo di lavoro sociale e i rapporti sociali generali sono mutati in conformità; riconoscimento che non è qualche frase d’occasione sull’importanza insostituibile del lavoro del minatore, dello spazzino, ecc., ma che si traduce in misure concrete come ad es. individui che fanno il loro servizio di lavoro (limitato nel tempo) in un dato settore dove poi vengono sostituiti da altri individui e prestano il loro successivo servizio di lavoro in altri settori; come ad esempio la derubricazione dal novero dei lavori di quelle attività come la politica, la cultura, ecc. che solo l’oppressione di classe ha posto (e doveva porre) come lavori particolari accanto agli altri, ma che nelle nuove condizioni sociali sono attività svolte da ogni individuo.

La divisione del lavoro e la indifferenza del lavoratore per il contenuto del suo specifico lavoro (al lavoratore non interessa se la attività cui è addetto è volta alla produzione di biro o di rotaie, ma quanto prende di salario) prodottesi nel capitalismo a livello di massa sono viste da Marx e C.

1) come via che rende possibile sostituire le macchine all’uomo: “ma non è questa (cioè analisi e applicazione delle leggi meccaniche e chimiche derivanti direttamente dalla scienza) la via per cui è sorto il macchinario nel suo insieme e men che meno la via per cui esso si sviluppa in dettaglio. Questa via è l’analisi, attraverso la divisione del lavoro, che già trasforma sempre più in operazioni meccaniche le operazioni degli operai, cosicché ad un certo punto il meccanismo può prendere il loro posto” (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Ed. Einaudi, p. 716).

2) come via per l’emancipazione dell’uomo dal “soddisfatto asservimento al lavoro” e dal lavoro stesso: ciò che rende possibile all’operaio, a differenza dell’artigiano medioevale, di diventare uomo universale per attitudini, gusti, consumi, capacità e interessi.

 

2.7. La autovalorizzazione del proletariato

In sintesi è la tesi che il proletariato si emancipa appropriandosi di una parte via via crescente di beni di consumo, aumentando cioè con lotte di vario genere il valore della forza lavoro. Basta enunciare la tesi per renderne chiara la  insensatezza. Ancora una volta è la modificazione dei rapporti di distribuzione invece che di quelli di produzione che è posta in primo piano. È poi una lezione della storia che, per quanto il proletariato in certe fasi riesca a modificare a proprio favore i rapporti di distribuzione, questi, se non vengono cambiati i rapporti di produzione, ritornano a capovolgersi al contrario non appena il capitale entra in periodo di crisi e getta sulla strada milioni di disoccupati, sia pure più o meno assistiti. Ciò vale sia che la riduzione del salario reale avvenga tramite un abbassamento del salario monetario, sia che avvenga tramite l’inflazione. È ciò che avviene in questi giorni: riduzioni dei salari reali, doppio e triplo lavoro, lavoro nero, straordinario, intensificazione dei ritmi, ecc.

Entra in questa tesi anche il “rifiuto del lavoro”, dove la cassa integrazione viene vista come liberazione dal lavoro, cioè come soddisfazione del bisogno di non lavoro, e l’“assenteismo” inteso come “riappropriazione di tempo libero” da parte dell’“operaio sociale”.

Ora, come è chiaro che il “piacere” della cassa integrazione è funzionale ai licenziamenti futuri (in quanto funge da freno alle lotte), è altrettanto chiaro che l’“assenteismo” non esce dagli schemi del mercato delle merci.

Ad evitare equivoci, non si vuole qui condannare l’assenteismo come una delle forme di lotta economico-pratica derivanti dal rapporto antagonista lavoro-capitale. Quando la borghesia si scatena nella condanna morale e nella repressione pratica del lavoratore “assenteista”, va osservato che questo lavoratore non fa che comportarsi come si comporta ogni industriale o commerciante di successo: vendere alle condizioni più vantaggiose, dare il meno possibile in cambio del più possibile. Ogni benpensante il cui alto senso morale è scandalizzato dalle “pretese” dell’operaio, della domestica e dell’artigiano, assumerebbe subito alle sue dipendenze il venditore che fosse capace di fare altrettanto a suo favore e applaude al dott. Carli quando questo lestofante intona inni alla “legge della domanda e dell’offerta”.

La tesi della “autovalorizzazione del proletariato” è una riedizione dell’“obiettivo economico non integrabile” che gli operaisti proponevano nei primi anni ‘60 ad ogni scadenza contrattuale, il tentativo di rendere la lotta economico-pratica direttamente politica, l’illusione di “far crollare” il sistema con richieste economiche elevate: ciò che è crollato non è il sistema, ma l’operaismo!

La parola d’ordine della “autovalorizzazione del proletariato” che a prima vista sembra una pura e semplice assurdità di pensiero, rivela invece tutta la sua “razionalità” se se ne ricerca e trova il significato di classe. Il proletario che vuole emanciparsi “autovalorizzandosi” non è che il proletario che accetta i rapporti sociali di produzione borghesi come naturali ed eterni e cerca, all’interno di essi, di migliorare la sua condizione.

Quindi, ben analizzata, la tesi dell’“autovalorizzazione del proletariato” proposta come via all’emancipazione del proletariato, non è che utopismo egualitario, come dire: capitalisti sì, ma allora tutti! Ed ha il valore teorico e politico che hanno le proposte benpensanti di emancipazione dei lavoratori tramite l’azionariato popolare o la compartecipazione del lavoro al capitale e tutto l’altro ciarpame corporativo.

 

2.8. Sullo stato

Nella concezione di Negri sullo stato vengono alla luce tutte le contraddizioni che abbiamo precedentemente evidenziato.

Se si parte, come fa l’autore, da una concezione restrittiva della transizione socialista:

“Egemonia sullo sviluppo da parte della classe operaia significa infatti socialismo, significa cioè che le regole fondamentali del processo capitalistico di produzione e riproduzione permangono, salvo l’introduzione di un criterio di eguaglianza e l’instaurazione delle forme politiche del “democraticismo” in quanto affermazione della dittatura della maggioranza del popolo (il proletariato) su tutti gli altri strati o classi sociali ...” (A. Negri - La fabbrica della strategia - pag. 157), ne discende che, caduta la legge del valore già durante il capitalismo, ed esercitandosi la “dittatura operaia nello sviluppo (del capitalismo n.d.r.)... ben prima della dittatura formale e statuale degli operai”, il socialismo non è più necessario, la tappa di transizione si è ridotta ad un “atto”; cioè dei tre tempi: “lo spezzare, il socialismo, il  comunismo”, il secondo è già consumato e il primo dovrà coincidere con il processo di estinzione dello stato (maturità del comunismo). Quindi la transizione al comunismo è scomparsa e lo spezzare (dello stato borghese) si è sovrapposto all’estinguersi dello stato della dittatura del proletariato. (A. Negri - La fabbrica della strategia - p. 157).

C’è qui una grande confusione: distruzione ed estinzione sono due cose ben distinte. Distruzione dello stato borghese, estinzione dello stato in generale: questo ha senso. Il resto invece è una cortina fumogena stesa sullo stato borghese e sulle classi: è anarchismo. Quando Negri dice “la critica leninista dello stato è infatti critica del socialismo” evidentemente si riferisce ancora allo stato in generale. Lenin infatti mostra che anche lo stato della dittatura del proletariato sarà, come ogni stato, violenza organizzata, “un apparato speciale, una macchina speciale per la repressione” (citazione di Lenin riportata a p. 160 del testo di Negri). È la critica dello stato in generale (e quindi anche dello stato della dittatura del proletariato) che è anche critica del socialismo.

All’origine di questa confusione sta la “soppressione” del carattere oggettivo dei rapporti economici propri del modo di produzione capitalista. Negri e in generale gli operaisti presentano i rapporti di produzione come rapporti puramente soggettivi, come rapporti di “dominio” e di comando di alcuni individui su altri, e lo stato come distributore di reddito solamente in funzione della perpetuazione di questo dominio e comando.

Il socialismo “vecchia maniera” è visto solo come sviluppo delle forze produttive. Dei rapporti di produzione propri del capitalismo, che non mutano spontaneamente soltanto con la presa del potere, né con l’abolizione giuridica della proprietà privata dei mezzi di produzione, non si parla mai. Né si parla della lotta di classe, acuta, rivoluzionaria per cambiarli e il cui esito non è affatto scontato (vedi fase attuale della rivoluzione cinese).

Negri è quindi costretto, quando porge un formale omaggio a Mao e alla Rivoluzione Culturale cinese, a distorcerne le tematiche centrali (p. 158), come pure ad ignorare gli scritti di Lenin più illuminanti su questi nodi teorici (La grande iniziativa, in Opere, vol. XXIX, p. 373 e seg.).

Stretto nel groviglio di contraddizioni in cui si è cacciato, deve tuttavia concludere che “il momento dello spezzare non si rivolge solo contro l’accumulo di lavoro morto - che comprende sì il macchinario ma anche la forma di cervello (sic!) che gli uomini hanno dovuto forgiarsi a contatto della scienza capitalistica...” (p. 173).

Ma la “forma di cervello”, cioè la coscienza, discende dal posto che ogni individuo occupa nella produzione, dalle sue condizioni materiali di vita, dalla sua pratica. Tutto questo vale per milioni di uomini, proletari compresi.

Se non vogliamo ipotizzare una distruzione totale, i rapporti materiali e la coscienza degli uomini mutano con la lotta di classe. Lo stato della dittatura del proletariato è appunto lo stato che rende possibile, favorisce, legalizza questa lotta guidata dalla parte più cosciente della classe operaia e reprime la borghesia vecchia e nuova che vi si oppone. Favorisce il crescere e lo svilupparsi dei “germi di comunismo”, cioè dei nuovi rapporti sociali.

Questo diceva Lenin, questo è stato tentato su scala di massa durante la Rivoluzione Culturale cinese. Altro che “barbarie anarchica del leninismo”! (p. 169)

 

2.9. Sulla crisi

Strettamente collegato ai concetti dell’estinzione della legge del valore come sviluppo del capitalismo, come capacità del capitale di autoregolamentarsi, del socialismo impossibile perché già “consumato” nella fase del capitalismo avanzato, della maturità del comunismo, concetti su cui ci siamo già soffermati, è il tentativo di Negri di dimostrare la natura strumentale, politica, soggettiva della crisi economica.

Coerentemente agli assunti teorici sopra accennati, Negri afferma che: “... la crisi è voluta come riorganizzazione capitalistica, ulteriore salto in avanti sia nella composizione organica del capitale, sia - soprattutto oggi - nel sistema dei controlli amministrativi e pianificatori del mercato. Con la crisi non diminuisce ma aumenta il grado di sovradeterminazione statale del capitale, si incrementa la natura del dominio capitalistico sulla società e sulla lotta di classe”.

 E ancora: “In questa fase dello sviluppo capitalistico, la crisi è a tal punto controllata dal capitale da apparire solo come strumento della manovra di controllo del movimento di classe e di tutte le sequenze da esso messe in moto, piuttosto che disgrazia o incidente che comunque capita ai padroni. Dal ‘29, e cioè da un cinquantennio, le crisi si susseguono senza alcun effetto catastrofico”. (A. Negri, Politica di classe: il motore e la forma, le cinque campagne oggi, Machina Libri, Milano, p. 15).

Nella sua foga contro “i rivoluzionari gonzi”, Negri dimentica che dal ‘29 ad oggi il capitale si è nutrito di enormi sconvolgimenti come il secondo conflitto mondiale con le sue terribili distruzioni e ne ha tratto l’impulso per un nuovo sviluppo su scala mondiale.

Anche in questo campo gli operaisti non fanno che ripetere ancora oggi la tesi corrente nella cultura borghese degli anni ‘60 (keynesiani in testa) che il capitalismo aveva ormai superato l’inevitabilità della crisi.

Marx ha dimostrato che la crisi è una inevitabile tendenza insita nella natura stessa del modo di produzione capitalista. Gli sforzi di economisti e “studiosi” di tutte le tendenze e al servizio dei più svariati interessi (tranne quelli del proletariato) per dimostrare il contrario non fanno altro, come osserva Marx, che confermare la insanabilità di quelle contraddizioni che essi si sforzano di appianare nella loro fantasia.

Qui vogliamo soffermarci sulla crisi attuale, cioè sulla crisi di sovrapproduzione di capitale e metterne in luce la natura oggettiva, necessaria.

Partiamo da un capitale C che si valorizza producendo un plusvalore PV. Ora il nuovo valore C + PV deve a sua volta nuovamente valorizzarsi. Ciò richiede o nuove iniziative (sviluppo in estensione) o una crescita della composizione organica nei vecchi campi di applicazione del capitale, sulla base della crescita della composizione tecnica (sviluppo intensivo). Il nuovo capitale C’ = C + PV deve quindi valorizzarsi producendo un nuovo plusvalore PV’.

Se il nuovo capitale si impiega grazie a una più alta composizione tecnica e organica, occorre esaminare come va la produzione di plusvalore. Si possono avere situazioni profondamente diverse:

il caso 1. è il primo ciclo di valorizzazione. I numeri sono posti a caso.

I casi 2.1, 2.2, 2.3, 2.4 sono tutti e quattro possibili casi di secondo ciclo di valorizzazione, tutti con un capitale complessivo di 200 e diverse composizioni organiche.

Supponiamo che nel caso 1. il capitale impieghi 10 operai che lavorano 5 ore come lavoro necessario e 5 come pluslavoro.

Il caso 2.1 può essere il risultato del capitale di 200 che impiega 4 operai che lavorano ore 3 + 3/4 come lavoro necessario e 6+1/4 come pluslavoro.

Il caso 2.2 può essere il risultato del capitale di 200 che impiega 8 operai che lavorano ore 3 + 3/4 come lavoro necessario e 6 +1/4 come pluslavoro.

Il caso 2.3 può essere il risultato del capitale di 200 che impiega 10 operai che lavorano ore 3 +3/4 come lavoro necessario e 6 + 1 /4 come pluslavoro.

Il caso 2.4 può essere il risultato del capitale di 200 che impiega 12 operai che lavorano ore 3 + 3/4 come lavoro necessario e 6 +1/4 come pluslavoro.

 

 

 

c

v

pv

p

 

 

 

1.

 

100

+         50         +

50         =

200

p’ =

33.3%

s = 100%

2.1

 

185

+         15         +

25         =

225

p’ =

12.5%

s = 166%

2.2

 

170

+         30         +

50         =

250

p’ =

25   %

s = 166%

2.3

 

1625

+         37.5     +

62.5      =

262.5

p’ =

31.2%

s = 166%

2.4

 

155

+         45         +

75         =

275

p’ =

37.5%

s = 166%

dove:

c

=

capitale costante

 

 

 

 

 

 

v

=

capitale variabile

 

 

 

 

 

 

pv

=

massa di plusvalore

 

 

 

 

 

 

p

=

valore complessivo del

prodotto

 

 

 

 

 

p’

=

saggio del profitto

 

 

 

 

 

 

s

=

saggio del plusvalore

 

 

 

 

 

 

Se la nuova composizione organica porta ad un ciclo di valorizzazione come il 2.4, nessun problema: aumentano saggio del profitto, saggio del plusvalore e massa del plusvalore.

Se la nuova composizione organica porta ad un ciclo di valorizzazione come il 2.3 nascono problemi dal fatto che il saggio del profitto diminuisce. Ma stante che la massa del plusvalore aumenta, tutto il nuovo valore viene usato come capitale. La concorrenza tra capitali si accentua.

Se la nuova composizione organica portasse a un ciclo di valorizzazione come il 2.2 o peggio come il 2.1, il valore prodotto nel primo ciclo, C + PV, non può impiegarsi tutto come capitale nel successivo ciclo di valorizzazione, in quanto nessun capitalista accetterà di impiegare un capitale maggiore per ricavare una massa di plusvalore minore o eguale a quella che ricava impiegando un capitale minore. Ovviamente qui parliamo delle condizioni di valorizzazione del capitale complessivo.

Qui si riscontra quindi sovrapproduzione di capitale: è stato prodotto (nel ciclo precedente) più valore di quanto ne possa essere impiegato come capitale nel ciclo successivo.

Marx dice espressamente “quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore soltanto equivalente o anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta (cioè estesa a tutti ì rami della produzione) di capitale; ossia il capitale accresciuto C + ΔC non produrrebbe un profitto maggiore o produrrebbe un profitto minore di quello dato dal capitale C prima del suo aumento ΔC” (Il capitale, L. III , Cap. 15).

Consideriamo ora due questioni;

Situazioni quali quelle rappresentate dai casi 2.1 e 2.2 si verificano necessariamente?

Quali sviluppi si hanno al verificarsi di queste situazioni?

1) Si verificano necessariamente. Infatti a ogni aumento della composizione organica, il capitale riduce la massa di lavoro che mette in moto a parità di quantità di valori d’uso prodotta.

Nel caso 1. il capitale mette in moto 10 x (5 + 5) = 100 ore di lavoro.

Nel caso 2.1 il capitale mette in moto 40 ore di lavoro; nel caso 2.2, 80 ore di lavoro.

Conviene considerare anche il caso

c v pv p

86 + 14 + 56 = 256

risultato di 7 operai che lavorano ore 2 come lavoro necessario e ore 8 come pluslavoro. La massa di plusvalore è qui maggiore che nel caso 1., ma la massa di lavoro messa in moto è 70 ore contro le 100 ore del caso 1.

Questa è una tendenza costante e necessaria del capitale. La massa di lavoro messa in moto dal capitale (a pari quantità di valori d’uso prodotta) tende a zero. Il valore conservato tende continuamente a crescere rispetto alla quantità di nuovo valore prodotto.

Né vale obiettare che la massa di lavoro espulsa dalla produzione verrà in definitiva (cioè tra convulsioni e contraddizioni, nel lungo periodo) impiegata nella produzione dei nuovi e più potenti mezzi di produzione. Sia perché un nuovo mezzo di produzione viene adottato dal capitale solo se il risparmio di lavoro vivo pagato è superiore alla quantità di lavoro (pagato e non pagato) che serve a produrre il nuovo mezzo di produzione; sia perché (come già faceva osservare Marx più di 120 anni fa) l’efficacia o potenza dei nuovi mezzi di produzione non è in alcuna misura proporzionata alla quantità di lavoro immediato richiesta per la loro produzione, ma dipende piuttosto dall’impiego nella produzione del patrimonio scientifico e culturale accumulato dagli uomini.

 È vero che, ad ogni aumento della composizione organica, il capitale riduce anche il lavoro necessario (e quindi aumenta il pluslavoro) rispetto alla massa di lavoro messa in moto. Ma l’aumento del pluslavoro, per quanto proceda, non può che avvenire entro limiti ben determinati. Se la giornata lavorativa è di 10 ore (ma allo steso risultato si arriverebbe anche se fosse di 24 ore) la massa di pluslavoro che il capitale può estorcere a ogni singolo operaio non può che essere inferiore, per quanto ci si avvicini, a 10 ore al giorno.

Quindi se il capitale man mano che cresce impiega (a pari quantità di valori d’uso prodotta) un numero decrescente (con limite zero) di lavoratori, ma non può accrescere la quantità di pluslavoro estorto a ogni singolo lavoratore oltre la quantità data dalla durata della giornata lavorativa (durata che, a parte i limiti storici, politici e sociali, ha comunque il limite massimo delle 24 ore), ne risulta necessariamente che si arrivi a un punto a partire dal quale una ulteriore crescita del capitale comporterebbe la diminuzione della massa del plusvalore estorto, data dal prodotto del numero dei lavoratori impiegati per il plusvalore estorto al singolo lavoratore.

Ciò si spiega col fatto che l’impiego del plusvalore come capitale rivoluziona e deve rivoluzionare anche le condizioni di impiego del vecchio capitale. Determina una più alta composizione organica di tutto il capitale, cioè un rapporto più elevato tra il valore del capitale costante e il valore del capitale variabile, un diverso saggio del plusvalore.

2) Quali sviluppi si hanno al verificarsi di queste situazioni? Molteplici sviluppi che enunciamo senza preoccuparci della loro importanza relativa e dei fattori (creditizi, finanziari, politici, culturali, ecc.) che favoriscono o esaltano uno sviluppo piuttosto dell’altro: essendo tutti aspetti della crisi generale del modo di produzione capitalista.

a) Nessun capitalista investe, si diceva, più capitale per ricavare un plusvalore minore di quello che ricava investendo meno capitale. Quindi nessun capitalista fa le scarpe a se stesso, e perciò frena lo sviluppo delle forze produttive.

Ma ogni capitalista, proprio perché non può investire nel suo campo il plusvalore che ha estorto, cercherà di investire nel campo dove operano altri capitalisti.

Infatti, in questo nuovo campo le rovinose conseguenze per il capitale già ivi operante create dal nuovo investimento, a lui non interessano affatto. Proprio perché lui investe nel campo nuovo (per lui) con la più alta composizione tecnica (e quindi organica) possibile, quindi con una più alta produttività del lavoro rispetto ai capitali ivi già operanti, egli ha la possibilità di conquistare la sua parte di mercato a spese dei capitalisti che già vi operano. Il fatto che il capitale che lui investe nel campo nuovo gli rende un profitto più basso (investe cioè a un saggio di profitto minore) di quello che gli rende il vecchio capitale, per lui è motivo di afflizione, ma non lo fa desistere dall’iniziativa, perché l’alternativa è lasciare inoperoso il plusvalore che ha estorto (o usarlo come reddito).

Se il plusvalore di cui lui è in possesso non è quantitativamente sufficiente a intraprendere la produzione nel campo nuovo su scala adeguata, nessun problema insormontabile: saranno proprio gli altri capitalisti (compresi quelli operanti nel campo che lui va a invadere rovinandoli) a fornirgli i mezzi che gli mancano: essi infatti sono in possesso di plusvalore che anch’essi non possono impiegare come capitale nel loro campo e quindi lo confidano al sistema creditizio a cui lo attinge il nostro capitalista.

Ciò ovviamente non esclude che un altro capitalista stia facendo a lui lo stesso servizio che egli si prepara a fare agli altri. Insomma, un casotto generale, da cui si sprigionano sia intralci allo sviluppo delle forze produttive, sia concorrenza accanita (non per migliorare le condizioni di valorizzazione ma per sopravvivere), sia distruzione di capitali e di valore.

b) Le attività di speculazione finanziaria si gonfiano, diventano preminenti rispetto alle attività del capitale impegnato nella produzione e nella circolazione e le sconquassano con i loro rapidi e violenti movimenti. Una massa enorme di valore nella forma di denaro tenta in ogni modo di trovare un “impiego fruttuoso”, di valorizzarsi, di operare cioè in qualche modo come capitale (i mercati dell’eurodollaro e altri sistemi del genere).

c) Lo sforzo di ogni singola frazione di capitale di appropriarsi, a spese delle altre frazioni di capitale, di una quota  adeguata della massa di plusvalore decrescente, diventa spasmodico. L’inflazione è un risultato adeguato di questo sforzo, risultato che, nascendo sul terreno del monopolio, non trova limiti al suo esplicarsi, ma contemporaneamente, come è chiaro da quanto abbiamo premesso, non è una cura dei casini che lo generano. Stagnazione e inflazione (questo spettro dalle due facce entrambe terrificanti per il capitalista, di cui sono popolati gli incubi degli accademici borghesi, degli “esperti” di politica economica, dei banchieri e dei politicanti) sono un risultato ovvio e inevitabile della situazione fin qui descritta. Qui si ha un aumento della massa di capitale impiegato nella circolazione e per la circolazione e della relativa occupazione di lavoratori improduttivi di plusvalore.

d) Lo sfruttamento dei lavoratori (la intensificazione del lavoro, la riduzione all’osso del numero dei lavoratori impiegati, ecc.) assieme alla devastazione delle condizioni ambientali sono spinti da ogni capitalista al massimo, come condizioni per la sua salvezza, per la valorizzazione della sua quota di capitale. Anche se in realtà sono condizioni che fanno ulteriormente sprofondare nella crisi tutto il capitale e quindi anche ogni sua singola quota. Come degli individui impantanati nelle sabbie mobili, ognuno dei quali cerca di (e riesce per un momento a) restare a galla e sollevarsi un po’ facendo leva sui suoi compari di sventura, ma che proprio con il loro agitarsi affrettano il loro affondamento.

e) Una parte crescente di plusvalore non diventa capitale, ma viene impiegata come reddito:

- sia come reddito personale del capitalista e dei suoi scagnozzi, come lusso e sfarzo di cose e di servitù, di gorilla, di leccaculo, ecc... Qui si ha aumento di lavoratori improduttivi di plusvalore.

- sia come valore impiegato in fondazioni, istituti “culturali”, di beneficenza, di vigilanza, ecc. ecc., insomma una massa di valore impiegato non allo scopo diretto di valorizzarsi, cioè non come capitale. Qui si ha il corrispondente aumento dì lavoratori improduttivi di plusvalore.

- sia come spesa statale e spesa pubblica in generale. Qui si ha la conseguente crescita dell’impiego di una massa di lavoro improduttivo di plusvalore.

Il gonfiamento della spesa pubblica viene determinato, quanto al suo effettivo venire all’esistenza, alle dimensioni che assume, alle forme concrete che assume, (armamento, istruzione, pensioni, servizi sanitari, prebende e sinecure, burocrazia, servizi di assistenza, servizi di repressione, guerre, ecc.) dai concreti movimenti politici. Ma la sua possibilità è data nel movimento economico.

Gli operaisti capovolgono il movimento reale, lo mettono a testa in giù e gridano alle “lotte operaie che obbligano lo stato a gonfiare la spesa pubblica” oppure alle “lotte operaie che gonfiando la spesa pubblica o impedendone la riduzione mettono in crisi il sistema” (la lotta sulla spesa pubblica): essi infatti fanno propria l’analisi borghese della realtà. Loro e i teorici dichiaratamente borghesi sono d’accordo nell’analisi (la spesa pubblica come causa dell’inflazione, le esigenze e le pretese dei lavoratori come causa della spesa pubblica, ecc.), traendone conclusioni pratiche speculari. Andreatta e La Malfa strillano “ridurre la spesa pubblica per salvare il sistema”. Negri e Scalzone gridano “aumentare la spesa pubblica per far saltare il sistema”. (Vedi a questo proposito: A. Negri - Politica di classe: il motore e la forma, le cinque campagne oggi -Machina Libri, Milano - La campagna sulla spesa pubblica, p. 51).

f) Il valore impiegato in condizioni particolari di valorizzazione. Una parte crescente di valore viene impiegata come capitale ma in condizioni di valorizzazione particolari, nel senso che non entra in concorrenza con altri capitali per essere impiegato al massimo profitto, ma cerca di ricavare un maggior profitto nell’ambito del settore in cui opera stabilmente per motivi istituzionali (Il Capitale, L. III°, p. 317, ed. Riuniti 1965).

È il caso che si verifica tipicamente in aziende pubbliche e di infrastrutture. In Italia è quanto avviene anche nel settore degli Istituti di credito speciale.

Ad evitare equivoci, è bene chiarire che qui non si allude ai tanto strombazzati deficit delle aziende statali o a partecipazione statale. Queste “perdite” sono tutt’altra cosa: sono il risultato del fatto che per mille motivi economici e politici, una massa di capitalisti italiani, anziché investire i loro capitali direttamente nella società X li affida alle  istituzioni del mercato finanziario (banche o altro) le quali li prestano alla società X. La società X a fine anno realizza una massa di profitto 50, diciamo; deve versare 60 per interessi alle banche e agli altri istituti finanziari e 20 ai vari capitalisti (sotto forme e voci varie); quindi chiude brillantemente con una perdita di 30, che le banche e gli altri istituti finanziari sono ben lieti di coprire con un altro prestito che si aggiunge ai vecchi.

Resta da risolvere la riserva mantenuta nella argomentazione precedente: “a parità di quantità di valori d’uso prodotta”.

Il capitale, nel corso della sua storia e particolarmente nel periodo della sua decadenza (grosso modo dall’inizio di questo secolo), ha continuamente e enormemente aumentato la massa di valori d’uso prodotta, proprio perché questo era uno degli strumenti per prolungare la sua agonia, per aumentare quella parte del valore complessivo prodotto che poteva ulteriormente valorizzarsi.

Qui si fonda la necessità per il modo di produzione capitalista di aumentare continuamente la quantità di valori d’uso prodotta e quindi qui trovano la loro prima razionale spiegazione anche le varie forme concrete che questo aumento ha assunto (armamenti, corsa alla luna, consumismo, ecc.). Non è ovviamente necessario che le merci prodotte in misura crescente siano beni di consumo, di massa e non di massa, ma qui si dà la possibilità del consumismo, possibilità storicamente venuta all’esistenza nella maggior parte dei. paesi imperialisti.

Ma il consumismo, se da una parte, come le altre forme di aumento della quantità di valori d’uso prodotta, è una valvola di sfogo delle difficoltà del modo di produzione capitalista, dall’altra incontra limiti che è utile chiarire.

1. Alcuni consumi si possono aumentare di molto (quattro televisori per famiglia anziché uno), altri meno per ragioni naturali (un individuo non può mangiare più di una certa quantità di cibo) e per ragioni sociali. L’universalità dell’individuo nei consumi non è compatibile con la sua condizione di schiavo salariato. L’universalità nei consumi comporta l’universalità dei gusti, delle attitudini e degli interessi, che si forma solo con il tempo e con determinate condizioni sociali; l’universalità nei consumi richiede tempo per godere della ricchezza. L’universalità nei consumi presuppone e genera interessi, intelligenza, curiosità, autonomia, ecc. ecc., tutte cose rigorosamente disdicevoli nel lavoratore salariato: “voi siete pagato per lavorare, non per pensare; altri sono pagati per questo” (Taylor).

2. Per quanto il capitalismo faccia (spontaneamente) del consumo uno strumento di assoggettamento e instupidimento del lavoratore, arriva prima o poi il momento in cui il lavoratore, anziché consumare di più, sceglie di lavorare di meno e diventa quindi meno docile nello stesso periodo della produzione (assenteismo, instabilità della forza-lavoro, ecc.) e meno capace, fisicamente e psicologicamente, di sopportare l’intensificazione del lavoro e di lavorare in condizioni insalubri. Il capitale aveva concesso l’aumento del consumo come mezzo per far lavorare più e meglio il lavoratore, come misura di “politica interna”. Come carota da alternare al bastone. Ad un certo punto lo strumento di pace sociale si trasforma nel suo contrario.

3. Lo sviluppo del consumismo contrasta con la necessità del capitale di ridurre la quota di lavoro necessario e di aumentare la quota di pluslavoro. E la vecchia solfa: ogni capitalista vorrebbe frugale il suo operaio e pieno di soldi e spendaccione l’operaio altrui che gli si presenta come compratore. E l’aumento del pluslavoro estorto ad ogni operaio diventa tanto più necessario a ogni capitalista quanto più avanza la sovrapproduzione di capitale, come sopra si è visto.

Il consumismo ha limiti. Ma altre valvole di sfogo non ne hanno. La guerra è un’ottima valvola di sfogo: realizza due obiettivi apprezzabili: 1) distrugge e quindi apre la strada per un nuovo periodo di sviluppo; 2) apre un campo di azione ancora più vasto alla borghesia vincitrice e ogni borghesia conta di vincere.

La guerra ha solo un ostacolo e un inconveniente: la rivoluzione proletaria. Ma qui siamo già oltre l’argomento.

Comitato Giuliano Naria - Milano

 

 

  

NOTE

 

1) Se a qualche compagno quanto diciamo sembra una nostra forzatura del “pensiero” degli operaisti, lo invitiamo a leggere l’editoriale “Terrorismo e riformismo” di Metropoli (gennaio 1981) in cui due noti tipi, L. Pace e P. Virno, espongono candidamente ed ingenuamente le loro vedute sul “riformismo postcomunista”!

 

2) Chi vuole farsi una idea di prima mano di cosa pensava Lenin della dialettica antagonista tra rapporti di produzione capitalisti e rapporti di produzione comunisti nella fase di transizione (socialismo) può leggere alcuni dei numerosi scritti al riguardo compresi nei volumi da 24 a 33 delle Opere, in particolare lo scritto La grande iniziativa, vol. 29, p. 373 e segg.

Per Mao Tse-tung v. Note su Stalin e il socialismo sovietico, ed. Laterza; Rivoluzione e Costruzione, ed. Einaudi.