I Comitati di Partito all’opera


Dall’individuo al collettivo - Lettera alla redazione


Cari compagni,

... Conducendo delle attività collettive nell’ambito dello sviluppo del movimento comunista in Italia ho iniziato ad analizzare alcuni ostacoli che nella pratica bisogna affrontare e superare per sviluppare la nostra attività. Per intenderci l’attività che conduciamo è nell’ambito legale, ma questo non toglie che le nostre energie e il nostro sviluppo siano dirette alla lotta rivoluzionaria. In questa prospettiva il lavoro delle organizzazioni legali, secondo me, dovrebbe porsi come primo obbiettivo quello di combattere l’influenza della cultura borghese tra le nostre fila. Questo significa in sintesi sviluppare un punto di vista e un’analisi comunista delle trasformazioni che la società subisce e sfruttare la trasformazione in favore della costruzione di un nuovo partito comunista rivoluzionario. Costruzione che è il risvolto pratico del porsi come obbiettivo la nascita di uno Stato socialista e l’avanzamento verso il comunismo.

Le nostre recenti esperienze di lavoro collettivo ci offrono alcuni esempi significativi di quale sia il compito e la lotta che noi adesso stiamo conducendo. Ultimamente alcuni dei nostri compagni sono regrediti e hanno ridotto il loro impegno nel collettivo adducendo come cause impegni di vario genere (familiari, di studio e di lavoro). Anche se in buona fede essi hanno nascosto al collettivo le cause reali del loro arretramento, le hanno nascoste anche a se stessi. Questi compagni hanno avuto un’esperienza simile che si riassume nel fatto che hanno dato molte energie e impegno, ma non hanno visto i frutti del loro lavoro: allora hanno fatto un bilancio personale (escludendo il collettivo) negativo della loro attività. Essi si sono scoraggiati e hanno perso slancio nel lavoro politico. È chiaro che il mancato “successo” è dovuto a dei limiti. Questi limiti sono stati senza alcun dubbio considerati personali e indipendenti dal collettivo. Ragionando in questo modo si è dato implicitamente per scontato che non è compito del collettivo affrontare i limiti individuali. Già qui diventa evidente che al collettivo viene tolta una parte fondamentale del suo lavoro: quella di comprendere la realtà in cui è immerso.

Questi limiti sono solo individuali? No. Se si appartiene a un collettivo non sono individuali, ma la percezione che prevale è quella di ritenere che essi siano fondamentalmente una questione “personale”. Questa percezione dei limiti è imposta dalla cultura borghese che fa credere che la “saggezza” e la “capacità” nascano dalla personalità, dallo sviluppo interiore degli uomini. La borghesia vuole nascondere la realtà delle cose. Questa mostra che anche nella società borghese è l’esperienza accumulata dal lavoro collettivo degli uomini a spingere in avanti il progresso. Le più grandi invenzioni della scienza sono quelle intimamente connesse con la trasformazione della società. Tanto maggiore è la trasformazione che imprimono alla società, tanto più le invenzioni sono importanti. Ma ogni invenzione ha un effetto tanto maggiore quanto più risponde a una trasformazione in corso della società. Infatti la maggiore “invenzione” non è stata un oggetto o una macchina specifica, ma il modo di produrre le cose, il sistema di scambiarle e la collettivizzazione su scala sempre più grande del lavoro. Se scendiamo nei dettagli, ogni invenzione “materiale”, cioè riferibile a una macchina precisa. come il torchio di Gutenberg, la macchina a vapore, i vari sistemi di trasporto e le telecomunicazioni, è nata per effetto della trasformazione del modo di produrre da localizzato a collettivo. Se l’ambiente sociale non l’avesse richiesta, la singola scoperta sarebbe rimasta isolata e passata inosservata: come e successo ad esempio per molte scoperte nella vecchia società cinese (la polvere da sparo, ecc.). Certamente molti sono arrivati in America prima di Cristoforo Colombo, senza che la cosa avesse alcun seguito. Quindi per un collettivo l’attenzione al superamento dei limiti del singolo è una parte integrante del lavoro che esso deve affrontare.

Concepire i limiti come un fardello ereditato “geneticamente” o come un’incrostazione inamovibile corrisponde ad avere una visione statica del mondo. “lo non posso cambiare” e quindi mi arrendo, mi ritiro dalla lotta, lascio a coloro che sono migliori di me questo compito. Questo significa non riconoscere il valore del collettivo e la sua forza.

Bisogna naturalmente fare i conti anche con i limiti di un collettivo che deve affrontare il compito di far avanzare i compagni. Nel nostro caso specifico il collettivo non ha esplicitato e lanciato una battaglia adeguata per contrastare la cultura borghese che continua a influenzare negativamente i compagni e, attraverso la sfiducia che inietta nelle nostre fila, tenta di indurli ad abbandonare la lotta. Se non è chiaro che l’aspetto determinante del lavoro di un’organizzazione comunista a sostegno della via rivoluzionaria è consolidare la coscienza dei suoi membri (“gli uomini sono il bene più prezioso”), non è chiaro il suo obbiettivo. Non è sicuro che il suo lavoro sia diretto in senso comunista. Quando un compagno è sopraffatto dalla demoralizzazione perché il suo lavoro non ha avuto buon esito e non sfrutta l’appoggio del collettivo nel bilancio e nell’elaborazione di quella esperienza, allora vince la cultura borghese e i comunisti perdono. Ma perdono solo momentaneamente perché dal bilancio dell’esperienza ricavano i nuovi strumenti per superare i loro stessi limiti. Noi abbiamo riconosciuto i nostri limiti nella battaglia culturale che ci oppone alla borghesia. Li abbiamo individuati nella incapacità di far comprendere le possibilità di trasformazione dei compagni che sorgono nel momento in cui tra essi e il collettivo si rompe quel muro culturale che impedisce di utilizzare gli strumenti di cui i comunisti si sono già dotati nel corso della loro breve ma intensa esperienza storica (centralismo democratico, linea di massa, ecc.).

Se si rompe questo muro e si riescono a manovrare questi strumenti, si inizierà a comprendere che la cura che il collettivo ha verso i suoi componenti ha una forma diversa da quella che comunemente intendiamo quando ci curiamo del “prossimo”. Nella società borghese ognuno per superare i propri limiti può contare solo sulle proprie forze. Questo comporta la sottomissione della classe operaia alla borghesia. I borghesi hanno mezzi materiali per accrescere la loro cultura immensamente più grandi rispetto alle altre classi. Quando in Italia il movimento comunista era forte, esso ha sviluppato molto i mezzi per lo sviluppo culturale dei proletari e in primo luogo dei suoi membri: le proprie scuole, l’internazionalismo, le proprie associazioni, le cooperative. Ciò ha consentito l’accesso a livelli di studio più alti per i proletari. Il limite è stato che la cultura diffusa in quelle scuole non era una cultura comunista rivoluzionaria, era la cultura revisionista, quella stessa che ha spento la fiducia nella via rivoluzionaria e innescato la regressione del movimento comunista in Italia.

Ogni cosa si trasforma e solo trasformandoci possiamo perseguire in modo efficace i nostri obbiettivi. I nostri limiti sono sempre superabili. Quanto più i comunisti oggi accumulano ed elaborano esperienza, tanto più la nostra trasformazione sarà rapida e porterà dei frutti al lavoro rivoluzionario. Così come combattiamo la sfiducia dei singoli, combattiamo anche la sfiducia del collettivo e pur riconoscendo il nostro fallimento nel far progredire quei compagni, oggi comprendiamo meglio quali sono i compiti che dobbiamo affrontare.

Ci stiamo attrezzando a combattere anche la concezione borghese che confonde i limiti personali con quelli del collettivo a cui si appartiene. Questa confusione è alimentata dal fatto che si pensa che comunque il collettivo in una qualche maniera affronti i nostri limiti per il solo fatto che vi aderiamo senza riserve. Il risultato di questa convinzione è che ogni singolo affronta eroicamente i suoi compiti, li esegue con scrupolo, ma non fa realmente un lavoro collettivo. Questo atteggiamento, visto nella prospettiva della crescita della propria organizzazione comunista, si può definire passivo, nel senso che è slegato da un giusto rapporto fra singolo e organizzazione e quindi non permette a entrambi di progredire. Questa è l’impronta che ereditiamo dal modo in cui partecipiamo al lavoro collettivo che ci viene imposto dai capitalisti. Loro si preoccupano dei nostri problemi “personali” indipendentemente dalla nostra volontà, li analizzano senza pudore e senza riguardi, chiaramente per tentare di schiacciarci e renderci docili allo sfruttamento a cui ci vogliono sottoporre. Ne sanno qualcosa le lavoratrici che subiscono pressioni e violenze rispetto alle loro scelte di vita da parte dei datori di lavoro. Abbiamo quindi l’abitudine a pensare che i nostri limiti siano presi in carico dal collettivo per il solo fatto che abbiamo aderito. In realtà, quando nei nostri collettivi si vuole sviluppare questo lavoro di crescita dei singoli, spesso invece incontriamo delle resistenze o del pudore a chiedere a un altro compagno delle proprie questioni personali, senza pensare a quanto i capitalisti ci sottopongono a oltraggiose indagini. Ci ricordiamo bene delle schedature FIAT, dell’ostracismo verso i comunisti nelle fabbriche e delle lettere di dimissioni in bianco fatte firmare alle lavoratrici! Le organizzazioni dei comunisti hanno lo scopo di liberare i lavoratori dalle catene dello sfruttamento capitalista, spazzare via la sua cultura decrepita e repressiva e infondere nuova forza alla trasformazione della società sviluppando una nuova cultura. È per questo motivo che bisogna vincere questo falso pudore e chiedersi: il collettivo ha affrontato realmente i problemi legati ai limiti dei singoli compagni?

È una domanda che deve essere rivolta sia al collettivo che ai singoli compagni. Poiché le cose avanzano solo dialetticamente. Allora bisognerà vedere se il singolo ha discusso dei propri limiti col collettivo e se il collettivo si è reso realmente conto di questi limiti e li ha affrontati. Per entrambi vale la considerazione che, se concepiti da un punto di vista borghese, questi limiti sono intesi come “cazzi miei” o “cazzi suoi”. Quindi o il singolo o il collettivo o entrambi non li prendono in considerazione. La cultura dei comunisti deve infrangere quel muro tra personale e collettivo che la borghesia erige intorno alle coscienze per evitare che esse costituiscano la loro organizzazione di avanguardia, un nuovo e vero partito comunista rivoluzionario.

Noi ci auguriamo che questo partito sia costituito nel nostro paese e combattiamo in ogni ambito perché si affermi la concezione del mondo dei comunisti.

Alvaro V.

Albenga, 27 maggio ’03



Manchette

L’organizzazione di base del partito comunista è costituita da operai che non concepiscono per se stessi altra forma di emancipazione dai capitalisti che non sia l’emancipazione della propria classe.