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  La Voce 43 del (nuovo)Partito comunista italiano

Spostamenti nel mondo sindacale
Cosa spinge al rinnovamento del movimento sindacale?

(riproduzione di un articolo d’attualità pubblicato nel n. 32 (luglio 2009) di La Voce)

Nei mesi scorsi nel movimento sindacale del nostro paese si è innescato un processo importante che noi comunisti dobbiamo capire, per rafforzarlo e valorizzarlo ai fini della nostra lotta per fare dell’Italia un nuovo paese socialista e contemporaneamente guidare le masse popolari a proteggersi il più possibile dagli effetti più tormentosi della crisi.

I tratti principali di questo processo sono due.

1. I sindacati alternativi si sono avvicinati tra loro e si sono avvicinati alla sinistra dei sindacati di regime. I sintomi più chiari sono il Patto di Base stretto nel 2008 tra Confederazione Cobas, CUB, Rappresentanze di base, Sindacato dei Lavoratori e le relazioni stabilite tra questi e Slai Cobas e la FIOM (in particolare Rete 28 Aprile).

2. L’azione condotta dalla sinistra dei sindacati di regime e dai sindacati alternativi ha impedito che la destra che dirige la CGIL (il più grande dei sindacati di regime, quello il cui smantellamento è decisivo ai fini del prevalere della mobilitazione reazionaria delle masse popolari) marciasse con la destra che dirige gli altri sindacati di regime (CISL e UIL) e la UGL (il sindacato infeudato alla costellazione dei partiti e gruppi fascisti che fino a pochi anni fa si chiamava CISNAL): firma dell’Accordo 22 gennaio 2009 per la riduzione del ruolo del CCNL e quanto vi è connesso 1. in termini di riduzione della cooperazione e solidarietà tra lavoratori di aziende di diverse dimensioni e di differente capacità di lotta e 2. in termini di trasformazione delle organizzazioni sindacali in agenzie statali “erogatrici di servizi”.

 

Noi non siamo in grado di dire quanto quelli che hanno promosso questo processo sono consapevoli di quello che hanno fatto, del processo che hanno messo in moto. Ancora meno siamo in grado di dire quanto la trasformazione l’abbiano studiata a tavolino, l’abbiano cercata, sia frutto di un progetto e quanto sia frutto delle spinte della situazione oggettiva. Certamente tanto più è certo che il processo continuerà e ancora più che continuerà celermente e con la maggiore forza che le circostanze consentono, quanto maggiore è stata la consapevolezza di quelli che ne sono comunque stati i protagonisti, quanto più quello che hanno fatto è stato intenzionale. Noi oltre che valorizzarlo, possiamo e dobbiamo sostenerlo e incrementarlo con la nostra propaganda, con la nostra attività organizzativa, operando su scala crescente con il “metodo delle leve”.

Se non siamo in grado di valutare le intenzioni e la coscienza dei protagonisti, siamo invece in grado di indicare le circostanze che hanno spinto i protagonisti, al di là delle loro intenzioni. Quindi circostanze su cui possono comunque contare tutti quelli che il processo vogliono che proceda e vogliono che si rafforzi.

 

Quali sono i fattori oggettivi che, al di là dell’eventuale disegno politico dei gruppi dirigenti (su cui, come già detto, non siamo in grado di dire alcunché), hanno spinto e spingono all’unità sindacale e alla sua radicalizzazione? Certamente

1. il successo delle iniziative autonome dei sindacati alternativi (manifestazione del 17 ottobre 2008 a Roma),

2. la spinta dei lavoratori più combattivi che, di fronte all’attacco padronale e agli effetti rovinosi del precipitare della fase terminale della seconda crisi generale del capitalismo, apprezzano sempre più l’unità come fattore di forza delle lotte rivendicative.

 Ma il fattore principale è stata la necessità di sopravvivenza dei sindacati di fronte alla mobilitazione reazionaria delle masse popolari e alle condizioni generali della crisi. Vediamo più in dettaglio questo fattore.

 

Le organizzazioni sindacali (e più in generale le organizzazioni rivendicative e contrattuali degli operai e delle masse popolari) finché sono guidate dalla sinistra borghese (o dalla destra dell’aristocrazia operaia e dalla destra sindacale che sono intellettualmente e moralmente a rimorchio della sinistra borghese a cui le legano anche interessi e relazioni di vario genere) operano sempre sulla difensiva: senza strategia, senza principi, senza analisi della situazione a lungo termine e a largo raggio. Rispondono di volta in volta, caso per caso alle mosse della borghesia e delle autorità della Repubblica Pontificia, navigano a vista, sono costantemente sulla difensiva.

Anche i sindacati alternativi, a parte la maggiore combattività e il grado minore di collaborazione con padroni e autorità, di per sé non sfuggono a questa condizione.

Ovvio che con una simile impostazione seguono una linea perdente, possono vincere solo scaramucce, ma complessivamente fanno un percorso perdente: non riescono a guidare le masse popolari a difendere con successo le proprie posizioni, tanto meno a strappare nuove conquiste. Non è l’organizzazione sindacale in sé e per sé che lo comporta. Il Piano del Lavoro della CGIL (anni ’50 del secolo scorso) fornisce un esempio pratico di organizzazione sindacale che aveva cercato di darsi un piano d’attacco, di coordinare e inquadrare in un piano e un progetto lungimirante le mille operazioni sindacali, anche quelle per loro natura difensive.

Ciò che permette a un’organizzazione sindacale di sfuggire alla morsa, mortale in periodo di crisi, di una tattica puramente difensiva è la sua connessione con la lotta politica rivoluzionaria condotta dal Partito comunista: in concreto oggi la sua adesione al terzo fronte del nostro Piano Generale di Lavoro (PGL) o la capacità del Partito di farle giocare lo stesso ruolo nonostante la non adesione consapevole al terzo fronte. E oggi per la nostra arretratezza non siamo ancora là.

Finché di fatto la tattica e il ruolo svolto dalle organizzazioni sindacali restano prevalentemente difensivi, la partecipazione delle masse e la loro adesione ai sindacati a parità di altre condizioni tendono a diminuire. Le masse partecipano meno perché le forme di mobilitazione del tempo antecedente alla crisi sono diventate inefficaci. Non sono principalmente i giornali e la televisione del regime che glielo dicono, apertamente o facendo il silenzio attorno alle mobilitazioni dei lavoratori e tanto più ai loro eventuali successi. Lo vedono nella pratica, è una lezione dell’esperienza.

La destra sindacale degli Epifani [Susanna Camusso prese il posto di Guglielmo Epifani solo nel maggio 2010, ndr], dei Bonanni, degli Angeletti e consorti e gli esponenti e le organizzazioni della sinistra borghese e affini continuano con le vecchie forme di mobilitazione perché non sanno fare di meglio o perché per loro natura non possono fare di meglio, perché sono complici della destra borghese, dei padroni e delle autorità della Repubblica Pontificia a cui li legano mille interessi e relazioni d’altro genere (familiari, culturali, di vita quotidiana). Alla diminuzione del consenso e delle adesioni delle masse popolari alle organizzazioni sindacali, rimediano con le sovvenzioni pubbliche, diventando agenzie governative, succursali della Pubblica Amministrazione (la linea dell’Accordo del 22 gennaio 2009), agenzie commerciali e fondi d’investimento (fondi pensione).

Ciò che invece ravviva in una certa misura la partecipazione delle masse popolari sono le nuove forme di organizzazione, la suggestione di una condotta sindacale più combattiva, di nuove e più efficaci forme di lotta. Depositari e portatori di tutto ciò sono i sindacati alternativi e la sinistra dei sindacati di regime quando e dove questa si ribella alla destra sindacale, in vario modo la contesta e si combina con i sindacati alternativi.

Quindi il processo dell’unità e della cooperazione tra sindacati alternativi e sinistra dei sindacati di regime è sospinto, in mancanza d’altro, dagli interessi di sopravvivenza delle organizzazioni stesse, i cui esponenti, dirigenti e promotori non sono aspiranti suicidi.

 Sono fondate e quindi destinate a durare e a crescere le speranze che questi alimentano nelle masse e che, a loro volta, alimentano le adesione delle masse alle organizzazioni e alle mobilitazioni che queste indicono?

Se sindacati alternativi e sinistra sindacale si limiteranno a rivendicazioni non andranno lontano. Se le lotte e mobilitazioni che essi promuovono non si inserissero come componenti in un processo più vasto e di prospettiva (la lotta per la costituzione di un governo di blocco popolare, la mobilitazione rivoluzionaria, la guerra popolare rivoluzionaria e la rinascita del movimento comunista, l’instaurazione del socialismo), quelle speranze sarebbero destinate a essere deluse e ad estinguersi. Perché le lotte rivendicative di per sé, senza i processi di più vasto respiro appena indicati, non possono portare lontano. Quello che riescono a strappare alle autorità e ai capitalisti non è granché e la borghesia e il clero lo possono facilmente ritorcere contro le masse popolari e in particolare contro sindacati alternativi e sinistra dei sindacati di regime.

Infatti le misure prese dalle autorità della Repubblica Pontificia e dai capitalisti possono dare momentaneo sollievo qua e là, ma non pongono fine alla paralisi delle attività economiche che è la sostanza dell’inferno a cui la fase terminale della crisi generale del capitalismo condanna le masse popolari. Quelle misure rispondono agli interessi di molti capitalisti e delle autorità e alle illusioni alimentate dalla dottrina economica di regime, ma non intaccano le sorgenti della crisi in corso. Vediamone perché, considerando la sostanza di queste misure.

È chiaro a ognuno che finché le aziende restano in mani ai capitalisti, prima o poi questi le chiuderanno e che comunque non le ingrandiranno (non faranno investimenti e assunzioni) se non ci guadagnano, se gli affari non riprendono. Fino all’esplosione della fase terminale della crisi generale gli affari erano sorretti, a qualche modo e in qualche misura, dal susseguirsi di bolle finanziarie e speculative [al punto che un compagno d’ingegno poco dialettico ancora oggi sostiene che la crescita del capitale finanziario fu una “radicale ed efficace contro-misura” alla crisi del capitalismo, ndr]. Persino il consumo dei lavoratori era diventato oggetto e tramite della speculazione finanziaria e della “finanza creativa” cara a Tremonti (credito al consumo, carte di credito, mutui a tasso variabile, credito facile, cartolarizzazione, ecc.). Con l’esplosione della fase terminale della crisi, gli affari sono crollati e crollano.

Ora l’unica bolla è quella, perversa dal punto di vista degli affari, del debito pubblico. I governi borghesi si indebitano (o tagliano le spese pubbliche e i servizi pubblici) per fare cassa, per avere a disposizione più denaro per interventi pubblici anticrisi. Vediamo cosa ne fanno e con quali effetti.

Supponiamo che il governo disponga di 100 miliardi aggiuntivi (i risultati non cambierebbero se cambiassero le cifre e le proporzioni, ma quelle che indichiamo sono realistiche - gli effetti dovuti alla pluralità dei soggetti e alle differenze di ruoli non mutano l’effetto e l’andamento complessivi: i movimenti contraddittori dei singoli componenti della folla, non cambiano la direzione in cui va la folla). Di questi ne dà 80 ai capitalisti perché non chiudano le aziende o le riducano di dimensione meno di quanto minacciano di fare. Gli altri 20 miliardi li dà come sussidi ai disoccupati o comunque a famiglie di lavoratori il cui potere d’acquisto è diminuito (per disoccupazione, taglio dei salari, aumenti di prezzi e tariffe, riduzione delle vendite o dei prezzi pagati ai produttori autonomi).

Questo intervento governativo dovrebbe animare gli affari perché dovrebbe rafforzare il mercato, la richiesta di beni e servizi da parte di aziende (investimenti e assunzioni) e famiglie (consumi). Questo secondo la “scienza economica” corrente, di Tremonti e degli altri economisti e professori di regime.

In realtà i capitalisti gli 80 miliardi ricevuti dal governo li usano per sottoscrivere i buoni del Tesoro e le obbligazioni che il governo emette per avere a disposizione i 100 miliardi. Sottoscrizioni che assorbono anche altro “denaro inoperoso”, fino a coprire anche i 20 che fanno la differenza tra i 100 richiesti dal governo e gli 80 che il governo ha dato ai ricchi. Così si alimenta la bolla del debito pubblico.

Il risultato è che gli affari sono rimasti quelli di prima (niente nuovi investimenti né assunzioni), il debito pubblico è aumentato e il governo dovrà pagare più interessi ai ricchi. Una macchina stupida, che non terrebbe se non fosse che  aumenta il denaro nelle mani dei ricchi e il loro potere sociale e politico (sui governi, le autorità, i deputati e gli altri eletti, i partiti, ecc.). e consente alle autorità di “gestire la crisi”: cioè tirare in lungo in attesa che finisca. Ma la crisi attuale non è come uno dei tanti periodici eventi naturali (un temporale, una nevicata, ecc.) che prima o poi passa e si ricomincia come prima. La dissoluzione di aziende non è solo contrazione immediata e temporanea di attività economiche, è anche eliminazione definitiva di forze produttive dal paese.

Quanto ai 20 miliardi finiti nelle mani delle famiglie di lavoratori come sussidi pubblici di vario genere, essi non compensano la diminuzione del potere d’acquisto (per disoccupazione totale o parziale, duratura o temporanea che sia) e il rincaro della vita (prezzi e tariffe). Quindi il mercato non cresce neanche dal lato dei consumi delle famiglie.

In conclusione la fase terminale della crisi generale fa il suo corso. Gli interventi governativi strappati con le lotte rivendicative non vi fanno nulla. L’efficacia economica di una successione di lotte rivendicative (i risultati che si riescono a strappare) diminuisce e con essa diminuisce anche la mobilitazione popolare.

A questa morsa non sfuggono neanche sindacati alternativi e sinistra dei sindacati di regime (la sinistra dell’aristocrazia operaia). Quindi o passano in qualche modo a un ruolo non puramente difensivo, oppure muoiono di fronte alla mobilitazione reazionaria delle masse popolari.

Su questo fattore noi possiamo contare come fattore favorevole per alimentare il processo di cooperazione tra sindacati e di rinnovamento del movimento sindacale e per rafforzare quindi una componente della rinascita del movimento comunista, della lotta per costituire un governo di blocco popolare e un fronte della guerra popolare rivoluzionaria che farà dell’Italia un nuovo paese socialista.

Sta a noi valorizzare il processo che si è messo in moto. Promuovere con ogni mezzo coordinamento e unità tra sindacati alternativi e sinistra dei sindacati di regime. Sostenerli nel loro scontro con la destra sindacale per la direzione dei sindacati e per il rinnovamento del movimento sindacale. Azionare il sistema delle leve sulla scala più vasta di cui siamo capaci. Mobilitare la sinistra per costituire un governo d’emergenza, un governo di blocco popolare.

 

La Voce n. 43
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