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La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

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INDICE

Avanti con la costruzione della rete clandestina dei Comitati di Partito perché le lotte delle masse popolari divampino sempre più forti alla luce del sole! Per instaurare il socialismo un preciso piano d’azione, fondato su giusti e fermi principi
Unione Europea ed elezioni europee
L’internazionalismo dei comunisti e la rivoluzione socialista
Il socialismo, non le fantasie e divagazioni sul socialismo
Le manovre della borghesia imperialista e del clero e la guerra La lotta ideologica in corso in Campania
e gli insegnamenti che essa dà al movimento comunista del nostro paese
Cura e formazione degli uomini e delle donne Lettera aperta alla redazione
L’autocritica di un dirigente del (nuovo) Partito comunista italiano
Dobbiamo imparare a pensare I dirigenti devono essere educatori-formatori e organizzatori comunisti
Dirigere e condurre la CAT alla luce del materialismo dialettico Sul ruolo della costrizione nel processo di CAT dei compagni
Formare i compagni ad acquisire un giusto metodo di studio Usare lo studio delle circolari per la formazione ideologica,
politica e morale dei compagni
Note di Lettura del paragrafo 17 Quaderno 13 di Antonio Gramsci Leggere Gramsci e usare i suoi insegnamenti
Gli ultimi comunicati e gli Avvisi ai Naviganti del (n)PCI Bisogna imparare a pensare
Per vedere, bisogna avere occhi e cervello

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Avanti con la costruzione della rete clandestina dei Comitati di Partito

perché le lotte delle masse popolari divampino sempre più forti alla luce del sole!

 

Per fare la rivoluzione socialista in Italia è indispensabile che i comunisti costituiscano una rete di Comitati di Partito diretti dal Comitato Centrale. Senza Partito comunista non è possibile fare la rivoluzione socialista. Aspetto chiave del socialismo è il Nuovo Potere, il potere le cui istituzioni locali sono gli Organismi Operai e Popolari aggregati attorno al Partito comunista. Proprio perché questo assetto non esiste ancora e per formarlo, oggi pratichiamo la linea del Governo di Blocco Popolare.

Il Partito comunista deve essere clandestino anche nei paesi imperialisti: lo dimostrano la storia della prima ondata e l’esperienza della lotta di classe in corso. Solo il Partito clandestino è indipendente dalla borghesia e dal clero, opera liberamente quali che siano le misure di repressione a cui ricorrano la Repubblica Pontificia e i suoi padrini della Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti, forma membri e organismi capaci di condurre la lotta in ogni circostanza. Il Partito clandestino educa gli esponenti avanzati delle masse popolari e in particolare della classe operaia all’indipendenza morale e intellettuale dalla borghesia e dal clero: a non sentirsi vincolati da obblighi di lealtà e obbedienza nei confronti di nessuna istituzione degli sfruttatori del popolo, a essere capaci di pensare e vedere oltre il caos della concezione borghese del mondo e le immagini fisse di quella clericale, a essere capaci di scoprire in ogni situazione la via per avanzare verso il comunismo.

Chi dice che è possibile promuovere la rivoluzione socialista senza che il Partito comunista sia clandestino o è un imbroglione opportunista e irresponsabile o è un ingenuo. Un ingenuo che non tiene conto né delle lezioni della storia, né dei metodi di lotta correntemente impiegati dalla borghesia imperialista e dal clero, né delle prospettive del corso futuro della rivoluzione socialista. Si fida delle promesse di democrazia e di libertà fatte dai padroni e dal clero e smentite continuamente dalla pratica. Già oggi solo grazie alla clandestinità è possibile essere presenti dove la borghesia e il clero non tollerano la presenza di comunisti, sfuggire a intimidazioni, ricatti, sabotaggi e omicidi mirati, discutere con libertà e svolgere una propaganda veramente libera. Solo se il Partito è clandestino è il Partito stesso e non la borghesia e le sue autorità a stabilire cosa fare pubblicamente e cosa fare nella clandestinità, i confini tra il pubblico e il clandestino.

È possibile sfuggire al controllo esercitato dalle autorità della Repubblica Pontificia e dalle agenzie segrete italiane, americane e sioniste operanti in Italia? Può esistere un Partito comunista clandestino? Far parte del Partito clandestino non è facile, richiede una formazione ideologica oltre che tecnica, ma non è impossibile. Proprio perché è difficile, la clandestinità non si improvvisa. È una scuola che i compagni decisi a diventare comunisti devono frequentare fin da oggi.

Negli anni scorsi il (n)PCI ha mosso i primi passi in questa direzione. Agli operai che difendono le loro aziende che i capitalisti smantellano, ai lavoratori che si ribellano contro la precarietà e contro la privatizzazione e lo smantellamento dei servizi pubblici, alle donne che si ribellano alla duplice oppressione, ai giovani che vogliono un futuro dignitoso, agli immigrati che si ribellano al razzismo e alle elemosine, a tutti gli esponenti delle masse popolari che vogliono lavoro, diritti e dignità, il (n)PCI propone di imparare a combattere, di arruolarsi a formare la nuova leva dei comunisti che faranno dell’Italia un nuovo paese socialista, di imparare a fare di ogni lotta una scuola di comunismo.

Maria P.

 

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del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Per instaurare il socialismo

un preciso piano d’azione, fondato su giusti e fermi principi

 

Perché le lotte delle masse popolari divampino sempre più forti bisogna che ogni membro del Partito, ogni candidato e ogni organismo abbia chiaro il piano d’azione che il Partito sta attuando, per fare dell’Italia un paese socialista e così contribuire alla nuova ondata della rivoluzione proletaria mondiale; che lo abbia chiaro e si dia gli strumenti per attuarlo nella sua zona operativa e nel suo settore.

Fino al 2008 il (n)PCI nel suo Piano Generale di Lavoro (Manifesto Programma, capitolo 3.5.) si proponeva di consolidare e rafforzare il Partito e di promuovere, organizzare, orientare e dirigere la lotta delle masse popolari su quattro fronti: la resistenza alla repressione (1° fronte); l’intervento nella lotta politica borghese e in particolare l’irruzione nelle assemblee elettive e rappresentative (2° fronte); le lotte rivendicative e le proteste per strappare migliori condizioni di vita e di lavoro e difendere le conquiste strappate sulla scia della prima ondata della rivoluzione proletaria (3° fronte); la creazione di strumenti e organismi per soddisfare direttamente i propri bisogni ed estendere la propria partecipazione al patrimonio culturale della società (4° fronte).

Nel 2008 siamo entrati nella fase acuta e terminale della seconda crisi generale del capitalismo e il (n)PCI ha cambiato la linea tattica del suo lavoro di massa. Ha adottato la linea della costituzione del GBP (con il suo programma delle Sei Misure Generali); della creazione delle 3 + 1 condizioni per costituire il GBP (moltiplicare il numero delle OO e OP impegnate nelle “mille iniziative di base” e a trasformare le amministrazioni locali in Amministrazioni Locali d’Emergenza, favorire il coordinamento territoriale e tematico di OO e OP, orientarle a costituire il GBP valorizzando i tre serbatoi della “seconda gamba”, rendere la vita impossibile alla borghesia e al clero (ingovernabilità) creando contemporaneamente le istituzioni della nuova governabilità); della mobilitazione della “seconda gamba” per costituire da subito Comitati di Salvezza Nazionale che favoriscano la mobilitazione delle masse popolari a costituire OO e OP.

Il settore chiave è la mobilitazione e organizzazione degli operai (i lavoratori delle aziende capitaliste). Nonostante chiusure e delocalizzazioni le aziende capitaliste sono ancora numerose. Le OO costituite in ogni azienda dagli operai avanzati costituirebbero una rete che copre tutto il paese e possono diventare le principali istituzioni locali del Nuovo Potere, capaci di mobilitare le OP delle aziende pubbliche e le OP territoriali. Il procedere della crisi e le lotte in corso nella CGIL, nel contesto del XVII Congresso del maggio 2014 (i risultati dei congressi di base sono quanto di meglio si poteva sperare vista la posizione arretrata della sinistra sindacale - si ostina a limitarsi al terreno sindacale) e della lotta contro il Testo Unico sulla Rappresentanza firmato dalla destra che dirige la CGIL, favoriscono questo passo avanti che devono fare gli operai avanzati. La costituzione delle OO e la proiezione della loro influenza sul territorio sono anche l’unica via di salvezza delle stesse aziende, dei posti di lavoro. Questo aumenta la spinta nella direzione che il Partito indica. Le OO possono prevenire i padroni, prendere l’iniziativa prima che i padroni impostino i loro piani distruttivi (ammortizzatori sociali, riduzione, delocalizzazione, chiusura). Gli operai hanno ancora molta forza contrattuale perché finché le tengono aperte gli industriali hanno bisogno che le aziende funzionino, checché ne pensino governi e finanzieri. Tra tutti i lavoratori e il resto delle masse popolari gli operai sono quelli che dispongono delle condizioni più favorevoli per organizzarsi e passare all’azione fino a coprire tutto il paese e a costituire l’ossatura della nuova direzione del paese. I CdP costituiti clandestinamente nelle aziende e legati tra loro a livello nazionale nel Partito costituiranno per ogni OO un solido indistruttibile retroterra e una direzione lungimirante.

È applicando questa linea tattica che avanziamo nella GPRdiLD, che alimentiamo la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari e creiamo condizioni migliori per avanzare nella costruzione del Nuovo Potere verso l’instaurazione del socialismo.

Se noi applichiamo sistematicamente questa linea, anche le lotte rivendicative, le proteste e le denunce a cui limitano la loro azione i gruppi arretrati, gli economicisti in particolare, diventano un ingrediente della nostra lotta più generale, fattori complementari, accessori, ausiliari (quali che siano la coscienza e le intenzioni dei loro promotori e l’atteggiamento che essi hanno nei nostri confronti). L’egemonia del Partito comunista nella società si afferma man mano che la sua azione e direzione risultano efficaci principalmente per l’esperienza stessa che le masse popolari e la classe operaia ne fanno (più che per la nostra propaganda che deve comunque essere esauriente, abile ed efficace).

Noi comunisti dobbiamo darci i mezzi per mobilitare, organizzare e dirigere le masse popolari. Questo è la chiave di tutto il processo, determina l’ampiezza e la velocità del cammino.

Cosa vuol dire più concretamente? Che ogni membro e organismo del Partito deve prendere atto che la borghesia imperialista e il clero hanno escluso le masse popolari dal patrimonio culturale e morale che in qualche misura la prima ondata della rivoluzione proletaria aveva creato, che impegnano ogni mezzo per tenerle lontane: distrarle, confonderle, intossicarle. Quindi deve dare per scontato che il suo lavoro inizia con persone che non hanno pratica e abitudine al lavoro politico, che non hanno imparato a pensare e a lottare per il potere. Deve imparare a vedere lui quello che c’è di positivo negli individui, nei gruppi, nei movimenti, nei cortei e a costruire su quello. Il nostro compagno che ritorna da una riunione dicendo che “il clima era demoralizzante solo X ha detto qualcosa di sensato”, è lui che è demoralizzato e intellettualmente arretrato. Un compagno all’altezza del suo compito ritorna dalla stessa riunione dicendo che X ha detto questo e quello, che lui ha detto questo e fatto quest’altro, che gli altri erano demoralizzati e hanno reagito ecc. e infine cosa noi dobbiamo fare per rafforzare X e allargare la sua influenza.

Inutile obiettare: “ma allora noi non siamo all’altezza del nostro compito”. Nessuno nasce imparato. A un membro e a un candidato il Partito chiede solo di essere disposto a imparare, a fare senza riserve lo sforzo morale e intellettuale necessario per imparare studiando e sperimentando.

A pensare si impara, a vedere si impara, basta non arrendersi. Il Partito è una scuola morale e intellettuale.

Già il Partito ha messo in opera programmi di studio (della concezione comunista del mondo, della storia del nostro paese e delle sue relazioni internazionali, della sua composizione di classe, della lotta di classe in corso). Ogni CdP è una scuola in cui sperimentiamo, facciamo il bilancio, rilanciamo la sperimentazione, miglioriamo moralmente e intellettualmente. Provando e riprovando diventeremo abili e lesti nel trovare in ogni situazione la chiave per portare la lotta di classe a un livello superiore, fino alla vittoria.

Ernesto V.

 

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del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Unione Europea ed elezioni europee

L’internazionalismo dei comunisti e la rivoluzione socialista

 

L’unica realistica via d’uscita dalla crisi generale del capitalismo, per porre fine a questa grande crisi che coinvolge e sconvolge tutto il mondo, è l’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti.

Il primo paese imperialista che romperà le catene politiche e finanziarie della Comunità Internazionale (CI) dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti, indicherà la strada e aprirà la via anche alle masse popolari degli altri paesi che ne hanno bisogno. La rivoluzione socialista è per sua natura un processo internazionale, nel senso che la transizione dal capitalismo al comunismo può completarsi solo a livello mondiale: solo degli imbroglioni e buffoni alla Kruscev hanno proclamato la creazione del comunismo in un solo paese. Ma alla conquista del potere è nella natura delle cose che ci arriviamo paese per paese, date la diversità nello sviluppo nella lotta politica e la relativa indipendenza di ogni paese.

*** manchette

Con l’espressione “linea del Comitato di Salvezza Nazionale (CSN)” indichiamo tutto il lavoro (fatto di propaganda e di operazioni organizzative) che noi comunisti facciamo per portare esponenti e organismi della seconda gamba (i tre serbatoi: esponenti democratici della società civile e delle amministrazioni locali, sinistra dei sindacati di regime e sindacati alternativi e di base, esponenti della sinistra borghese non accecati dal loro anticomunismo) a usare l’autorità, il prestigio, le relazioni che già oggi hanno tra le masse popolari per promuovere l’organizzazione di queste, per suscitare nelle masse popolari slancio e fiducia che sfocino in costituzione di OO e OP.

 

Dalla tesi che la rivoluzione socialista è un processo mondiale, alcuni compagni deducono che la rivoluzione socialista sarà un rivolgimento politico, la conquista del potere da parte della classe operaia organizzata, che avverrà contemporaneamente in tutti i paesi. Questi compagni sono completamente fuori strada: saltano dalla natura del processo complessivo, alla forma in cui si produrrà un suo aspetto. In alcuni compagni è dovuto al dogmatismo (non distinguere l’uno dall’altro gli aspetti della realtà, scambiare il processo storico con il processo logico). In altri all’opportunismo. In effetti si riducono a parlare con fantasia della rivoluzione mondiale futura (a fantasticare della rivoluzione internazionale) e a praticare oggi, “per ora”, linee riformiste (elettoraliste in alcuni casi e rivendicative in altri). Proprio l’errore iniziale impedisce loro di studiare, scoprire e praticare le via alla rivoluzione mondiale che è sotto il loro naso: la rivoluzione socialista nel loro paese.

Quale paese avrà l’onore di dare il via alla rivoluzione socialista, alla seconda ondata della rivoluzione proletaria, è impossibile predirlo, perché non è definito a priori: dipende da fattori oggettivi, ma soprattutto dipende dalla rinascita del movimento comunista. Il movimento comunista sta rinascendo ovunque, ma per molti versi in ordine sparso e a una velocità diversa da paese a paese. La rinascita è anzitutto un fatto soggettivo: comunisti che fanno un giusto bilancio della prima ondata della rivoluzione proletaria, comprendono i limiti per cui il movimento comunista non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, si organizzano e superano quei limiti. Per l’esposizione in dettaglio della questione, rimando all’opuscolo I quattro temi principali da discutere nel movimento comunista internazionale.(1)

 

1. I quattro temi principali da discutere nel movimento comunista internazionale, 2010, reperibile in www.nuovopci.it/scritti/i4temi/index.html .

 

L’Italia, grazie anche alla Corte Pontificia che qui ha la sua sede, è uno dei paesi imperialisti abbastanza grandi e importanti per assumersi questo ruolo. È quindi chiaro il compito internazionalista che noi comunisti italiani possiamo e dobbiamo assolvere. Adempierlo dipende principalmente da noi e il nostro Partito è impegnato a farlo.

Alcuni obiettano che il corso delle cose nel nostro paese viene oramai deciso “in Europa”. Secondo questi compagni la fonte dei mali presenti non sarebbe la crisi generale del capitalismo, ma l’UE, l’appartenenza all’UE, l’euro o, ancora più semplicisticamente, le cattive politiche della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e delle altre istituzioni dell’UE, della Germania. Questi compagni scambiano le forme e i sintomi della crisi per la malattia: questa non è una malattia europea, infatti imperversa anche fuori dai confini dell’UE. Politicamente essi evitano di affrontare, eludono il problema reale che ci sta di fronte: cambiare il corso delle cose nel nostro paese e sfruttare il vincolo che la borghesia imperialista ha creato tra il nostro e gli altri paesi europei, per sovvertire l’intera Europa.

La rotta che può e deve seguire il nostro paese la si decide in Italia. Il futuro del nostro paese si decide in Italia. Lo possono e devono decidere le masse popolari organizzate costituendo il Governo di Blocco Popolare (GBP). Lo possiamo e dobbiamo decidere noi comunisti con l’orientamento che siamo capaci di portare (direttamente e indirettamente tramite la linea del Comitato di Salvezza Nazionale) 1. tra le masse popolari (mp) perché si organizzino, costituiscano Organizzazioni Operaie (OO) in ogni azienda capitalista e Organizzazioni Popolari (OP) in ogni azienda pubblica e in ogni zona e 2. tra le OO e OP perché costituiscano il GBP.

 

Il futuro del nostro paese non si decide in Europa (negli ambienti e nelle istituzioni dell’UE e della Comunità Internazionale (CI) dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti): da questo lato verranno e possono venire solo manovre e misure che sprofondano ancora più il nostro e gli altri paesi nella catastrofe della crisi generale del capitalismo e nelle guerre imperialiste e lo coinvolgono nella guerra fredda che monta in seno stesso alla CI.

La tesi contraria, che il futuro del nostro paese si decide in Europa, implica che il futuro dell’umanità è in mano alla borghesia imperialista (bi) e al clero, che le masse popolari non sono in grado di giocare un ruolo politico indipendente dalla bi e dal clero, che ogni trasformazione passa attraverso le istituzioni della bi e del clero. Chi la sostiene, è rassegnato al predominio della bi e del clero, rinuncia a lottare per instaurare il socialismo, attende che la rivoluzione scoppi. È la tesi comune dei rassegnati, dei disfattisti, degli agenti nemici nelle file delle masse popolari e dei traditori.

È in grado di ricavare quanto è possibile ricavare dalle istituzioni della bi e del clero e di sfruttare le contraddizioni interne a bi e clero, solo chi lavora alla mobilitazione delle masse popolari e in questo lavoro costruisce le basi e raccoglie le forze per un corso delle cose che ha come protagoniste le masse popolari organizzate. Quindi l’onestà delle dichiarazioni di chi si propone di “andare in Europa” per sovvertirla, per lavorare a favore del corso delle cose che noi promuoviamo e la sua capacità di farlo effettivamente, dobbiamo valutarle e misurarle dal lavoro che svolge già oggi in Italia.

Al contrario, è in Italia (o in qualcuno degli altri grandi paesi imperialisti) che possiamo e quindi dobbiamo decidere il futuro dell’UE (e in seconda istanza della CI e del mondo).

 

Questi sono i principi sulla base dei quali decidiamo caso per caso le singole linee nelle prossime elezioni europee e in generale nei confronti delle iniziative e manovre sul piano europeo. Criterio decisivo di quello che situazione per situazione dobbiamo fare non è la composizione del futuro Parlamento europeo, ma in ogni situazione concretamente promuovere la guerra popolare rivoluzionaria (attuare il nostro preciso piano d’azione) e raccogliere forze. Noi siamo fautori di una politica di principi, la nostra azione politica è basata sui principi. Non è basata né sui desideri, né sulle “idee condivise” (se sono sbagliate sono solo ostacoli da rimuovere per proseguire il cammino necessario), né sui sondaggi d’opinione, né sulle manipolazioni e intossicazioni promosse dalle classi dominanti, né su intese d’affari e favori.

Che il primo paese imperialista dove le masse popolari romperanno le catene politiche e finanziarie della CI sia in grado di indicare la strada e aprire la via alle masse popolari degli altri paesi e come possa far fronte alle difficoltà del suo nuovo cammino, sono cose già ampiamente illustrate nella letteratura del nostro Partito e quindi non insisto in questa sede.

Nicola P.

 

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anno XVI - marzo 2014

Le manovre della borghesia imperialista e del clero e la guerra

 

La borghesia imperialista e il clero delle chiese cristiane (e in particolare della Chiesa Cattolica di Roma) che dalla fine del secolo XIX sono diventate istituzioni autonome ma asservite alla borghesia imperialista, non possono che dibattersi in manovre che aggravano la crisi generale del capitalismo, come fa chi è caduto nelle sabbie mobili. La crisi generale del capitalismo non solo elimina le conquiste strappate durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, non solo porta miseria e abbrutimento, non solo elimina perfino le forme della democrazia borghese, non solo inquina e devasta la terra, ma anche allarga il numero e la gravità delle guerre fomentate dalle potenze imperialiste e porta alla guerra tra potenze imperialiste, se non cambiamo prima il corso delle cose.

Per la borghesia imperialista la seconda crisi generale del capitalismo si sviluppa, come la prima, in uno scenario mondiale e assume la forma della lotta per la supremazia mondiale: far fronte alla crisi generale del capitalismo per la borghesia imperialista oggi significa eliminare ostacoli e concorrenti in campo finanziario, monetario, industriale, politico e militare, perché ogni gruppo imperialista vede la fonte della sua crisi, l’ostacolo alla valorizzazione del suo capitale, non nella crisi generale del capitalismo, ma nelle attività dei gruppi capitalisti concorrenti. In particolare si sta sviluppando in forma via via più forte la contesa tra i gruppi imperialisti europei organizzati nell’UE (tra cui prevalgono di gran lunga i gruppi imperialisti franco-tedeschi: senza il loro predominio l’UE cesserebbe di esistere) e i gruppi imperialisti USA forti anche della NATO e della rete di basi militari e agenzie spionistiche, criminali e sovversive di cui dispongono in Europa e nel mondo.

Di conseguenza in Europa nel campo borghese e della sinistra borghese si stanno formando due partiti: uno europeo (franco-tedesco) e uno americano. Anche il Vaticano, una grande potenza politica che a torto molti trascurano, è ancora conteso tra questi due partiti. La defenestrazione di Ratzinger e l’avvento di Bergoglio e dei gesuiti al comando della Corte Pontificia è frutto di questo scontro nella stessa Corte: che lo abbia risolto a favore del partito americano definitivamente o no, resta da vedere.

Per condurre la sua lotta per la supremazia mondiale la borghesia franco-tedesca ai suoi soci dell’UE, e ancora più a quelli dell’area dell’euro, non solo deve imporre di rompere nel proprio paese ogni resistenza popolare, di eliminare diritti e conquiste delle masse popolari (anche in Europa le forme della democrazia borghese scompaiono perché sono incompatibili con la lotta della borghesia franco-tedesca per la supremazia mondiale), ma deve imporre anche regole molto strette di condotta finanziaria: deve superare l’egemonia mondiale che la borghesia imperialista americana e sionista ha ereditato dal passato. La borghesia imperialista franco-tedesca ha già ridotto i lavoratori tedeschi ad un regime da caserma: disponibilità piena 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno alle esigenze delle aziende in cambio di alloggio e vitto abbondante assicurati (questo è stato il senso delle riforme Schröder di dieci anni fa) e ora lo sta facendo in Francia (ma già qui non è detto che le riesca).

Nell’immediato per i popoli soggetti, dal punto di vista economico immediato che è il solo che capiscono gli economicisti, cioè quegli intellettuali che trascurano o sottovalutano la lotta politica in nome del fatto che in definitiva è la struttura produttiva che regola lo sviluppo dell’umanità (si dichiarano marxisti, ma in realtà la loro concezione è una caricatura del materialismo storico di Marx), il partito americano è meno austero del partito europeo. I sindacalisti che si limitano a considerare i “risultati tangibili immediati” si trovano meglio con il partito americano (da qui ad esempio il pencolare di Landini verso Renzi).

La borghesia imperialista USA ha il retroterra del suo dominio mondiale negli Stati Uniti con i suoi circa 300 milioni di abitanti, le preme anzitutto e soprattutto assicurare la stabilità del suo dominio in quest’area tirando dagli altri paesi quanto le basta. Ognuno degli altri paesi può anche andare a fuoco se questo avviene in forme che convengano alla stabilità del ridotto USA da cui la borghesia imperialista USA domina il mondo, lo devasta, saccheggia e spreme. Il Messico con i suoi quasi 100 milioni di abitanti è il caso geograficamente più prossimo di paese nel caos: la borghesia USA lo ha isolato con un muro. Il Venezuela da una parte e l’Ucraina e la Siria dall’altra sono casi da manuale dell’attività dell’imperialismo USA; Israele e i paesi vicini un altro ancora e l’elenco potrebbe continuare. Aggregati al carro USA, Berlusconi e Renzi non avrebbero limiti al disavanzo di bilancio, allo sviluppo dell’economia criminale, all’evasione fiscale, ai paradisi fiscali, all’espansione del debito pubblico. Possono anche ristabilire la lira e tagliare l’erba sotto i piedi perfino agli esponenti del MPL, di Ross@ e della Rete dei Comunisti, nonché a tutti i sindacalisti di regime e anche a quelli combattivi (FIOM e USB comprese). Aggregato al carro USA, il Vaticano non avrebbe limiti ai suoi traffici, alle sue truffe e alle sue opere pie, salvo che negli USA: piena libertà nel resto del mondo. Lo stesso vale per la criminalità organizzata.

Ma fermarsi a questo è, appunto, economicismo: una caricatura della realtà ed è ridurre la scelta della classe operaia e delle masse popolari a quale dei due raggruppamenti imperialisti conviene sottomettersi, a quale dei due alberi lasciarsi impiccare. La via americana è la via alla guerra mondiale, come lo è la via europea (russa e cinese). “Cosa succederà a lungo termine applicando le misure che lei propone?” A questa domanda lord Keynes rispose: “Di questo non siamo noi che dobbiamo occuparci. A lungo termine noi saremo morti”. Questo è il pragmatismo, l’ultimo rifugio della borghesia imperialista.

Tonia N.

 

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anno XVI - marzo 2014

L’obiettivo della nostra lotta

Il socialismo, non le fantasie e divagazioni sul socialismo

 

Instaurare il socialismo è la sola soluzione realistica e definitiva alla crisi generale del capitalismo.

Perché questa soluzione, apparentemente semplice, non è largamente accettata dai gruppi che cercano di mobilitare e orientare le masse popolari contro i mali della crisi generale del capitalismo?

Non principalmente perché è difficile instaurare il socialismo: delle difficoltà della sua realizzazione, poco o nulla se ne parla. È la soluzione stessa che è poco considerata e, quando è considerata, spesso sotto la stessa espressione “instaurare il socialismo” si nascondono in realtà concezioni molto diverse.

 

*** manchette

Il ruolo particolare della classe operaia

Tra le classi dei lavoratori della società borghese, la classe operaia è quella i cui membri già nelle condizioni della società attuale più hanno elaborato e assimilato la concezione e la mentalità corrispondenti alla struttura collettiva dell’economia creata dalla borghesia stessa. Essa è quindi in grado di assumere in massa come obiettivo della sua lotta la trasformazione di cui la società borghese ha bisogno e di guidare il resto delle masse popolari a riorganizzare tutta l’attività produttiva della società come un unico grande sistema articolato in reparti che lavorano l’uno per l’altro e che concorrono, ognuno facendo la parte che gli è assegnata, ad adempiere i compiti di cui la società ha bisogno e che definisce nei piani economici che periodicamente si dà.

 

È facile capire i motivi di questa apparente stranezza. Il movimento comunista, dopo alcuni decenni di grande espansione nel mondo seguiti alla vittoria della Rivoluzione d’Ottobre nel 1917, ha subito una sconfitta grande e a livello mondiale. La speranza e la fiducia delle larghe masse suscitate dalla vittoria, si sono trasformate in sfiducia e depressione. La borghesia e il clero non hanno risparmiato denigrazioni e manipolazioni di ogni genere non solo per togliere alle larghe masse ogni fiducia, ma anche per impedire che si consolidassero correnti di rivoluzionari che individuassero i motivi della sconfitta e innescassero la rinascita: operazione tanto più facile quella della borghesia e del clero perché prima del crollo del 1989, vi erano stati decenni di lenta e graduale decadenza, in cui le persistenti conquiste del socialismo si sono mischiate con le nefandezze della reintegrazione nel mondo capitalista che era in corso. Da qui non solo le più svariate denigrazioni su quello che era stata la prima ondata della rivoluzione proletaria, ma anche le più varie fantasie a proposito del socialismo (fino alla teoria che “la classe operaia non c’è più” di Marco Revelli e alla teoria di Toni Negri della scomparsa della divisione in classi degli individui che sarebbero diventati elementi di un pulviscolo sociale, una moltitudine di atomi). Al punto che oggi tra fautori del socialismo vi è una situazione da Torre di Babele. Anche quelli che parlano di socialismo, in realtà parlano di cose assolutamente diverse, per cui ovviamente tanto meno riescono a capirsi su cosa fare in pratica, salvo agire a buon senso, secondo il senso comune di ciascuno, cioè succubi della concezione borghese o clericale del mondo. Bisogna quindi in un certo senso ricominciare da due. Quando parliamo di socialismo, mettere anzitutto in chiaro di cosa parliamo.

Il termine socialismo è entrato nel linguaggio e il socialismo è comparso come categoria e corrente politica in Europa all’inizio dell’Ottocento. Era il periodo della crisi cicliche del capitalismo, il modo di produzione che si era oramai ben radicato in alcune grandi zone d’Europa. Qui la produzione mercantile e il lavoro salariato si erano grandemente diffusi. Si erano formate grandi masse di uomini che, a differenza delle famiglie contadine d’un tempo e delle economie chiuse delle corti medioevali e di altre piccole comunità sostanzialmente autosufficienti, producevano in condizioni che li rendevano dipendenti l’uno dall’altro ma d’altra parte senza alcun legame di parentela, di vicinato o di dipendenza personale e senza alcun accordo preliminare che distribuisse tra loro i compiti e i prodotti, che definisse chi produceva cosa e per chi. Sembrava a buon senso che proprio da qui provenissero le crisi, la decadenza di intere popolazioni agricole e, in contrasto con la ricchezza crescente di prodotti e di idee, la miseria diffusa delle città dove una popolazione crescente si addensava in condizioni igieniche, morali e intellettuali peggiori di quelle che si era abituati a vedere nei secoli passati. Sorsero quindi i primi gruppi di riformatori e di pensatori, le correnti, i movimenti e le iniziative pratiche per riformare la società. Essi vennero in generale indicati con il termine di socialisti, perché postulavano tutti un qualche rimedio a quello che sembrava un disordine sociale prodotto dall’agire indipendente e arbitrario degli individui.

Nel Manifesto del partito comunista (febbraio 1848) Marx ed Engels nel capitolo 3 elencano e illustrano cinque correnti principali di socialismi: tre reazionarie: il socialismo feudale, il socialismo piccolo-borghese (proudhonismo, anarchismo e altri), il socialismo tedesco che si autodefiniva “vero socialismo”; una conservatrice o borghese; una critico-utopista (owenisti, fourieristi e altri ancora). Per l’illustrazione di ognuna rinvio al Manifesto stesso. A queste correnti Marx ed Engels contrapposero il socialismo scientifico, una concezione derivata dall’elaborazione dell’intera esperienza della storia dell’umanità. Essa indicava la lotta della classe operaia contro la borghesia e ogni altra classe dominante come fattore decisivo che avrebbe sviluppato la società borghese secondo la linea di sviluppo che le è propria e fondato una nuova società. Essi chiamarono comunismo la società che sarebbe risultata da questa trasformazione (l’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti) e indicarono (nella lettera scritta nel 1875 ai fondatori del Partito socialdemocratico tedesco nota come Critica del programma di Gotha) con il termine socialismo la fase inferiore di questa società, la fase iniziale, quella che si ha quando la classe operaia organizzata, con alla testa il suo Partito comunista, prende il potere e avvia la riorganizzazione della struttura produttiva che sostituisce la produzione fatta da agenzie pubbliche alla produzione fatta dalle aziende capitaliste e la connessa riorganizzazione della sovrastruttura intellettuale, morale e politica dell’intera società. Quindi una società che è diretta da chi vuole creare la società comunista, ma nella quale elementi e aspetti della società borghese (il vecchio mondo) coesistono e si scontrano con elementi e aspetti del comunismo (il nuovo mondo).

Questo è il socialismo a cui noi ci riferiamo. Esso ha come pilastri portanti, come caratteristiche fondanti

1. il potere in mano alle masse popolari organizzate e in primo luogo alla classe operaia organizzata attorno al suo Partito comunista (e quindi la repressione risoluta del sabotaggio, del boicottaggio, delle manovre e della guerra che ostinatamente la borghesia, il clero e i loro succubi opporranno al Nuovo Potere);

2. il passaggio (nelle forme e con i tempi adeguati alle condizioni concrete) dalla produzione fatta in aziende capitaliste e in piccole aziende individuali e familiari alla produzione fatta in agenzie pubbliche che lavorano secondo un piano stabilito e approvato dalle masse popolari organizzate secondo procedure e tramite istituzioni create a questo scopo;

3. la crescente partecipazione di tutta la popolazione alle attività specificamente umane, in particolare alla gestione, alla direzione e alla progettazione della vita sociale, delle relazioni che compongono gli individui in società.

Proponiamo ai nostri lettori lo studio della scritto di Lenin Socialismo piccolo-borghese e socialismo proletario (1905, Opere complete vol. 9 pagg. 416-424 - reperibile in versione rivista sull’originale in www.nuovopci.it/classic/lenin/spbespr.htm). Pur riferendosi a una situazione e a una formazione economico-politica molto diversa dalla nostra, esso getta una luce chiara e feconda sul problema che noi abbiamo di fronte: instaurare il socialismo. Con chi avrà chiaro di che cosa parliamo, sarà più facile discutere di come arrivarci, di come fare la rivoluzione socialista, far valere le ragioni della via che noi seguiamo.

Preveniamo il lettore del testo di Lenin che in quell’epoca non si usava distinguere comunismo da socialismo (fase inferiore del comunismo, fase della transizione dal capitalismo al comunismo): quindi con il termine socialismo Lenin indica il comunismo ivi compresa la sua fase inferiore. Socialdemocratici era il nome che in tutta Europa era adottato dai comunisti e dai socialisti, in generale dai membri dei partiti aderenti alla II Internazionale (1889-1914).

Anna M.

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

La lotta ideologica in corso in Campania

e gli insegnamenti che essa dà al movimento comunista del nostro paese

 

La Direzione Nazionale del Partito dei CARC nella riunione dello scorso 7 e 8 dicembre ha lanciato tra i membri del P.CARC della Campania una lotta ideologica attiva (LIA) e ha chiamato tutti i membri e simpatizzanti della Carovana del (n)PCI in Campania a parteciparvi. Il CC del (n)PCI ha dato ai membri del (n)PCI l’indicazione di aderire all’appello e partecipare alla LIA con spirito d’avanguardia, nei modi appropriati alla natura clandestina del Partito.

Non tratterò qui del ruolo che la lotta ideologica ha avuto nella storia dei partiti comunisti e della sua importanza che il maoismo apertamente afferma: ne abbiamo già parlato in altri numeri della rivista. Non illustrerò nemmeno la lotta ideologica in corso in Campania. La direzione del P.CARC ne ha magistralmente indicato in vari documenti l’obiettivo, gli aspetti su cui si incentra e le forme in cui si svolge. Consultando il sito del P.CARC e Resistenza, rivolgendosi personalmente alla direzione del P.CARC, ogni lettore può conoscere quanto vuole.

Dedico invece questo articolo a riflessioni rivolte a tutti i membri del Partito e a quei compagni che non sono membri del Partito ma sinceramente si dichiarano comunisti e onestamente si sono posti la domanda di come mai nella prima parte del secolo scorso il movimento comunista non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista, nonostante la grande crisi che allora sconvolse quei paesi e l’eroismo dei suoi militanti: a quei che si sono posti questa domanda e sono decisi a trovare la risposta.

In che senso la LIA in corso in Campania dà insegnamenti a tutti i comunisti del nostro paese?

Perché affronta (nelle forme proprie delle Organizzazioni Modello della Carovana) il problema con cui si scontra tutto il movimento comunista del nostro paese.

La crisi generale del capitalismo si aggrava, la crisi politica è posta prepotentemente all’ordine del giorno dalla Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti che ha lanciato nuove guerre in Ucraina (con qualche successo) e in Venezuela (dove incontra una valida resistenza). A livello nazionale i vertici della Repubblica Pontificia sbandano da Berlusconi a Monti-Letta e poi di nuovo a Berlusconi-Renzi e Bergoglio ha preso il posto di Ratzinger. Crisi alla grande quindi, ma l’iniziativa è ancora nelle mani della borghesia imperialista e del clero e a noi non basta constatare che il corso della mobilitazione reazionaria conferma la nostra analisi. Nel campo della mobilitazione rivoluzionaria il fermento e l’agitazione crescono, il movimento spontaneo delle masse popolari è sospinto dalle condizioni pratiche ad avvicinarsi alle forme che noi indichiamo e anche questo conferma l’analisi del Partito e quindi il nostro preciso piano d’azione che si basa sulla concezione comunista del mondo e su questa analisi. Il problema è che il nostro preciso piano d’azione non è ancora diventato il faro che in ogni Organizzazione Operaia e Popolare (OO, OP) rischiara la strada alla sinistra.

In un articolo pubblicato su Contropiano in questi giorni (Dove sono “i nostri”? Lavorano ...) Francesco Piccioni a ragione parla di “coazione a ripetere i cartelli elettorali”, “di scadenze a raffica” e della “condivisione delle opinioni” che usurpa il posto alla comprensione del movimento reale. Molti resoconti dei nostri compagni confermano questa descrizione: l’oscillare di OO e OP e di associazioni ed esponenti della “seconda gamba” tra riformismo elettoralista e riformismo rivendicativo e protestatario.

Questo stato delle cose nel campo delle masse popolari è il problema nostro e di tutti quelli che veramente vogliono essere comunisti. Perché comunisti di buona volontà non ricavano risultati fecondi di sviluppo dai cortei a cui invece partecipano come a cerimonie rituali obbligatorie e da cui escono essi stessi sconfortati? Perché assistono a riunioni di gruppi depressi e scoraggiati, allo sbando, ad assemblee di lavoratori dove la destra sindacale è scornata, senza portare la sinistra a fare il passo avanti che valorizzerebbe le forze esistenti e le renderebbe atte a una lotta efficace? Perché nei loro rapporti dicono che l’ambiente attorno è tutto nero, salvo qualche macchia bianca? Eppure un tizzone anche piccolo è la cosa più importante per chi vuole mettere a fuoco l’intera prateria.

Non pochi compagni avvertono il carattere malsano della situazione, disprezzano e condannano chi ci sguazza dentro, persistono nella lotta ma soffrono e si rifugiano nei nostri obiettivi, nel nostro preciso piano d’azione e nei nostri principi (“se fossero come noi ...”, “se facessero come noi diciamo...”). Non vanno oltre. Anche ai nostri compagni il mondo si presenta come un turbinio caotico di avvenimenti, di personaggi, di organismi, di propositi scombinati, un corso delle cose assurdo e incomprensibile.

Ai compagni che si riconoscono in questi comportamenti e in questi stati d’animo, inutile riproporre il nostro preciso piano d’azione che il corso delle cose conferma. Non basta a cambiare il loro comportamento, a sollevare il loro spirito, a rendere efficace la loro azione. Essi non vedono attorno a loro quello che hanno bisogno di vedere, perché non hanno occhi per vederlo. Per capire ognuna delle singole situazioni in cui si trovano e quali passi concretamente compiere in essa per innescare un processo positivo (che direttamente o indirettamente farà confluire OO e OP nel fiume della guerra popolare rivoluzionaria che promuoviamo), devono assimilare più profondamente la concezione comunista del mondo e usarla essi stessi come mezzo per vedere, per capire, per fare: devono cambiare occhi, testa, cuore.

A questo serve la lotta ideologica, come sanno quelli che vi si imbarcano. Il gusto del budino lo si conosce mangiandolo. Il valore della lotta ideologica lo verificano quelli che vi si imbarcano senza riserve, con la decisione di trovare a tutti i costi la soluzione.

Il compito della lotta ideologica è portare a un livello più alto l’assimilazione della concezione comunista del mondo e insegnare a usarla meglio, dare occhi per vedere a chi ancora non vede. Per scoprire in ogni singola situazione quello che la trasformerà. La concezione comunista del mondo che il Partito insegna non indica al singolo compagno e organismo quale è la soluzione del problema con cui si scontra in un preciso momento. Ma gli dà gli strumenti per trovarla lui stesso e per metterla in opera: e più lo farà, più semplice via via gli risulterà capire e fare. 

Il mio rapporto è sconfortante, ma cosa dovevo fare concretamente in quella situazione?”, ci chiede un compagno. Il cosa fare è da scoprire nel concreto, in ogni situazione particolare, perché è un pezzo di essa. In questo consiste l’arte politica dei comunisti. Con la concezione comunista del mondo, usandola con passione e dedizione, facendo con intelligenza analisi concreta della situazione concreta, provando e riprovando, si trova l’anello da afferrare e con l’esperienza si diventa via via più abili e lesti a trovarlo.

Questo è quello che con la LIA i compagni imparano a fare, diventano capaci di fare. Questo è anche quello che devono imparare a fare i compagni che vogliono avere l’iniziativa nella rinascita del movimento comunista.

Ogni compagno che è abbastanza sensibile e sveglio per capire che non è con l’andazzo attuale che sviluppiamo la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari ed è determinato a trovare ad ogni costo la soluzione, a ogni compagno del genere noi diciamo: la nostra impresa è grande e difficile, ma possiamo compierla. Bisogna però che ci diamo i mezzi necessari. Il primo e principale è assimilare la concezione comunista del mondo e usarla con coerenza e determinazione, “costi quel che costi”, per intervenire nelle situazioni “provando e riprovando”. Per essere capace di cambiare il mondo, devi anzitutto cambiare te stesso: il Partito a chi è deciso a farlo dà i mezzi per farlo.

Umberto C.

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

La formazione dei membri del Partito e la trasformazione in comunisti dei membri della Carovana del (n)PCI e di quanti oltre ad aspirare ad instaurare il socialismo nel nostro paese sono capaci di compiere nell’attuale avverso contesto sociale lo sforzo necessario per trasformarsi, costituiscono il compito più delicato e complesso della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (GPRdiLD) che il Partito promuove contro la borghesia e il clero. Questa opera di formazione e di trasformazione è il campo decisivo per lo sviluppo della nostra impresa: sono infatti gli uomini che fanno la storia. Senza un partito comunista all'altezza dei compiti che la situazione pone, non è possibile condurre vittoriosamente la GPRdiLD. Il partito comunista per essere adeguato ai suoi compiti deve essere composto da compagni che assimilano e applicano la concezione comunista del mondo e contribuiscono alla sua ulteriore elaborazione.

Allo stesso tempo, questo è uno dei campi principali in cui nei paesi imperialisti si è arenato il vecchio movimento comunista, quello che nella prima parte del secolo scorso promosse e fu alla testa della prima ondata della rivoluzione proletaria: nessuno dei partiti comunisti dei paesi imperialisti giunse ad elaborare una concezione e dei metodi di lavoro adeguati ai compiti che la sua opera poneva. Per questo non riuscì a portarla a compimento. L’esaurimento della prima ondata e la sconfitta subita ci hanno costretto e ci costringono a conoscere i limiti del vecchio movimento comunista. Solo superandoli, promuoviamo la rinascita del movimento comunista.

Uno dei grandi apporti di Lenin al patrimonio del movimento comunista fu la scoperta che i membri del partito comunista devono assimilare e usare la concezione comunista del mondo. Questo è ciò che caratterizza e distingue un partito comunista. È la base della sua unità e strumento indispensabile del suo successo.

Prima di Lenin il movimento comunista non era consapevole di questa verità. Lenin la affermò nel 1902 nel Che fare?, (vedansi in particolare i capitoli 3c pagg. 380-385 e 4c pagg. 417-431 Opere complete vol. 5), ma solo nel 1912 riuscì a formare definitivamente un partito in qualche misura coerente con essa.

Dico in qualche misura perché uno dei tratti specifici della scienza della rivoluzione socialista che la distingue dalle scienze naturali, è che la trasformazione degli uomini concerne contraddizioni (tra soggetto e oggetto, tra libertà e necessità, tra spontaneità e applicazione cosciente della scienza, tra individuo e collettivo, tra individui e altre ancora) che non incontriamo nelle scienze naturali e nella loro applicazione nella trasformazione del mondo esterno a noi. Nel secondo caso, una volta scoperta una legge, la applichiamo e le resistenze alla sua applicazione sono relativamente deboli, per quanto non trascurabili (Giordano Bruno e Galileo Galilei insegnano). Nel primo una volta scoperta una legge, chi l’ha scoperta deve applicarla e portare altri uomini ad assimilarla e applicarla e ciò in alcuni casi implica che gli stessi (ivi compreso l’autore della scoperta) trasformino la propria concezione del mondo, la propria mentalità e in qualche misura anche la propria personalità e la propria condotta: “nessun dirigente può garantire che tutti coloro che si definiscono suoi sostenitori seguano sempre in pratica le sue indicazioni”, scriverà Lenin in uno scritto del 1905 (La gente non si nutre di chiacchiere, in Opere complete vol. 8 pag. 47). Per di più nella scoperta e nella sua applicazione agisce la dialettica tra spontaneità e coscienza: la pratica porta ad applicare sistematicamente leggi di cui non siamo ancora coscienti (quindi che non enunciamo né sistematicamente insegniamo), scoperte di cui diventiamo via via più coscienti man mano che affrontiamo gli ostacoli alla loro applicazione, verità che comprendiamo più a fondo man mano che le applichiamo.

Nonostante questi limiti il Partito di Lenin fu il solo partito della II Internazionale che quando per iniziativa della borghesia imperialista la prima grande crisi del capitalismo esplose nella Prima Guerra Mondiale, seppe approfittare delle dinamiche che si svilupparono e guidò la classe operaia russa a prendere il potere.

L’Internazionale Comunista fu formata da partiti i cui membri erano attratti principalmente dalla vittoria riportata dal Partito russo (adesione identitaria): volevano anch’essi “fare come la Russia”, farla finita con la borghesia e fare la rivoluzione (a questo si aggiunse che una parte non trascurabile dei dirigenti che vi aderirono erano principalmente degli opportunisti: aderivano perché altrimenti avrebbero perso il seguito e il favore dei militanti). L’IC era ben consapevole dei limiti dei nuovi partiti comunisti, anche se non dell’effetto determinante che avrebbe avuto sulla sua opera la non assimilazione della concezione comunista del mondo da parte di essi. Quindi a partire dal II congresso (luglio 1920 - Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria) lanciò la campagna per la bolscevizzazione dei nuovi partiti comunisti. Lenin nel suo ultimo intervento ai congressi dell’IC (al IV congresso, novembre 1922) disse esplicitamente che la rivoluzione avrebbe avuto successo in Europa solo se i partiti comunisti avessero studiato e scoperto la strada che dovevano percorrere: per ogni partito la traduzione della concezione comunista del mondo nel particolare del suo paese.

Per sua natura questa traduzione in definitiva non poteva essere fatta che da ognuno degli stessi partiti comunisti, perché, come in ogni scienza, si scopre la verità solo “provando e riprovando”. L’IC cercò di svolgere un’azione sistematica per portare tutti i partiti comunisti ad aderire anche praticamente a questa verità: ad assumere la concezione comunista del mondo come fondamento della propria unità, ad assimilare e applicare la concezione comunista del mondo alla particolare formazione economico-politica del proprio paese. Ma nessuno dei partiti dei paesi imperialisti arrivò a farla propria su larga scala, a tradurre il generale della rivoluzione socialista nel particolare della rivoluzione nel proprio paese. Infatti nessuno ha instaurato il socialismo, nonostante la grande crisi che travolse tutti i paesi imperialisti e nonostante la dedizione e l’eroismo di un grande numero di comunisti.

Anche il Partito comunista italiano ha percorso questa strada, con l’eccezione del periodo (fine 1923 - novembre 1926) in cui fu diretto da Gramsci. Gramsci era pienamente convinto di quella verità e si adoperò in ogni modo per portare il Partito comunista su questa strada. Chiuso il periodo della direzione di Gramsci, il Partito comunista italiano di fatto (nello Statuto la cosa venne inserita solo con la piena affermazione dei revisionisti nella direzione del Partito, nel 1956) si accontentò anch’esso che i membri del Partito condividessero il programma politico del Partito e contribuissero alla sua realizzazione, senza porre l’assimilazione della concezione comunista del mondo come condizione indispensabile per far parte del Partito.

Ovviamente questo si ripercuoteva negativamente su tutta l’azione del Partito. Una linea politica anche se principalmente giusta, se è accettata principalmente per disciplina, senza comprenderne la logica, non può essere attuata dai compagni e dagli organismi che con molti limiti: unilateralmente, senza la creatività, la libertà e l’iniziativa adeguate, con deviazioni anche di segno opposto, burocraticamente, con liberalismo, con riserve, con sotterfugi, ecc. (abbiamo indicato una successione che parte dai casi migliori e via via va verso i peggiori). Anche nei casi migliori i comunisti che applicano la linea principalmente per disciplina, senza aver assimilato la concezione del mondo da cui è ispirata, non usano la loro esperienza per sviluppare la linea, l’analisi della situazione, la concezione comunista del mondo. Per di più un partito che si accontenta che i suoi dirigenti applichino la linea principalmente per disciplina, è aperto alle infiltrazioni del nemico: nessuno è più disciplinato di un infiltrato!

La formazione dei nostri membri, la trasformazione dei compagni che vogliono diventare membri del Partito, il reclutamento che è vitale per lo sviluppo della nostra opera, costituiscono pertanto un campo in cui dobbiamo costruire per molti versi ancora ex novo una scienza organica e sistematica, creare una prassi innovativa, partendo dalla nostra concezione del mondo (il marxismo-leninismo-maoismo) e avanzando con approccio da scienziati: ideare e condurre esperienze-tipo, sottoporle ad un attento bilancio, ricavare da esse insegnamenti, principi, criteri, orientamenti, linee generali e particolari, metodi, strumenti via via superiori.

La rubrica Cura e formazione degli uomini e delle donne è dedicata a questo lavoro. Essa è composta da sei articoli stesi dal compagno Federico nel corso del processo di critica-autocritica-trasformazione di cui descrive lui stesso il prologo, nella sua lettera aperta alla redazione che apre la rubrica. Essi sintetizzano alcuni degli insegnamenti che abbiamo ricavato dalle sperimentazioni che stiamo conducendo in questo campo.

Rosa L.

 

 

*** manchette

Spontaneità e scienza

Cosa intendiamo per spontaneo, spontaneità, agire spontaneamente.

Agire spontaneamente, non vuole dire agire senza coscienza e volontà, istintivamente.

Agire spontaneamente significa agire secondo il senso comune, reagendo a buon senso alle condizioni in cui ci si trova e usando gli strumenti di cui ci si trova a disporre: agire con la coscienza che ci si trova ad avere.

Il movimento spontaneo delle masse popolari è composto da chi agisce 1. guidandosi con la coscienza che si trova ad avere, quindi di regola la coscienza che la classe dominante, l’ambiente in cui è cresciuto e si è formato e la sua esperienza hanno formato in lui: il suo senso comune; 2. conformandosi alle relazioni (ai rapporti di produzione, alle relazioni politiche e alle relazioni della società civile) in cui è implicato.

Le condizioni di vita e le misure e manovre delle classi dominanti rendono estremamente difficile per le masse popolari accedere a una comprensione scientifica della società, il mondo sembra caotico o governato da imperscrutabili disegni di dio. Ma il movimento spontaneo non comprende solo le masse popolari escluse della cultura accademica e scolastica. Protagonisti e promotori ne sono anche 1. le vaste schiere di giovani e adulti passati nelle università e nelle scuole superiori della borghesia e del clero che ben conoscono le mode e le opinioni rese correnti dai mezzi di indottrinamento e intossicazione e 2. gli esponenti della sinistra borghese, i professori e gli uomini politici i cui discorsi e scritti sono l’esposizione più elaborata e raffinata delle stupidità, delle banalità e delle incongruenze del senso comune, a cui la realtà appare assurda semplicemente perché rifiutano di capirne la logica. A forza di rifiutarsi di combattere la lotta di classe, si finisce per non riuscire neanche a capirla e chi, nonostante questo, si atteggia a intellettuale, sforna stupidaggini dottamente elaborate e impacchettate.

In questo campo i comunisti si distinguono nettamente non solo dalla sinistra borghese ma anche dalle masse popolari. Nel Partito assimilano la concezione comunista del mondo che è la scienza della rivoluzione socialista, della trasformazione della società borghese in società comunista e imparano ad usarla come guida della propria attività. Il loro compito è portare nel movimento spontaneo delle masse popolari l’orientamento dettato da essa, la luce con cui essa rischiara la realtà e fare in modo che le masse popolari agiscano secondo questo orientamento e sempre più comprendano se stesse e la propria attività. Per ogni comunista l’efficacia della sua azione e i risultati della sua attività sono la verifica e la misura di quanto ha assimilato la concezione comunista del mondo. Non esistono cose e avvenimenti misteriosi: esistono cose e avvenimenti che non abbiamo ancora studiato e capito abbastanza per poterci intervenire con efficacia.

 

 

*** manchette

Ricostruzione logica e ricostruzione storica di un percorso

Ricostruire logicamente un percorso significa scoprire ed esporre la successione di stati che lo compongono, il filo conduttore che lega questi l’uno all’altro, i motivi che hanno portato al passaggio da uno stato al successivo, i presupposti che lo stato precedente aveva in sé dello stato che gli è succeduto.

La ricostruzione logica è una costruzione della mente umana. Chi la costruisce elabora con i metodi e gli strumenti del pensiero (quelli di cui al momento dispone) i dati di fatto, empirici che conosce relativi al percorso storico, ma guardando questo d’alto, dal punto di vista del risultato a cui è giunto.

La storia diventa in questo modo non più un assieme di stati più o meno casualmente combinati e distinti secondo la fantasia di chi li contempla, l’opera bizzarra e arbitrario di dio, una narrazione del poeta o del filosofo, ma una successione ordinata di stati tra loro connessi, un processo di storia naturale ricostruito da noi nella nostra mente.

La ricostruzione logica del percorso compiuto dalla specie umana dalle sue tracce più lontane che finora conosciamo ad oggi, non è che la ricostruzione storica ma depurata dagli aspetti accidentali e capita nelle cause interne ed esterne dei successivi passaggi. In nessun caso la ricostruzione logica è arbitraria, né tanto meno può essere usata per predire il lontano futuro. Permette invece di scoprire nello stato presente i presupposti del futuro che possiamo costruire, le leggi dello sviluppo dallo stato presente al prossimo, dalla società borghese al comunismo.

Vista da un altro lato, la relazione tra ricostruzione logica e ricostruzione storica può essere illustrata con le parole usate in La Voce n. 41 pag. 23.

Un uomo è riuscito a raggiungere una cima aprendosi la strada nella foresta e tra le rocce che ne rendevano difficile l’accesso. Dall’alto della cima contempla il territorio e il tragitto tra il punto di partenza e la cima. Ora può tracciare il percorso che avrebbe potuto fare e che effettivamente farebbe se dovesse rifare il percorso con la conoscenza che ora ha del terreno e delle condizioni di marcia. Questa è la descrizione logica del percorso. Essa può essere notevolmente diversa dalla descrizione storica del percorso che è quella che si ricava dal diario che il viaggiatore ha scrupolosamente tenuto. Questa è la descrizione storica del percorso.

Solo guardando dall’alto il tragitto compiuto e contemplando il territorio attraversato, il viaggiatore vede la logica che emerge nonostante le diversioni e le inversioni, i vagabondaggi che ha compiuto mosso dalle difficoltà e dalle apparenze. La ricostruzione logica del percorso può in definitiva risultare molto diversa dalla ricostruzione storica: questa descrive tutte le digressioni che hanno rallentato e complicato il percorso.

Come ramo a se stante del sapere, la logica si presenta come pensiero che pensa se stesso. Nella realtà la logica nasce nella mente dell’uomo quando l’uomo contempla dall’alto la sua opera e vede la connessione necessaria (diretta) che lega tra loro i passaggi che la compongono.

Per una esposizione esauriente della diversità e della connessione tra ricostruzione logica e ricostruzione storica, rinviamo a F. Engels, Karl Marx, Per la critica dell’economia politica pubblicato in Das Volk (agosto 1859) e reperibile in Opere Complete Editori Riuniti vol. 16 pagg. 472-481 e in www.nuovopci.it/classic/marxengels/crtecpol.html .

 

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Lettera aperta alla redazione

L’autocritica di un dirigente del (nuovo) Partito comunista italiano

 

Alla redazione di La Voce

Cari compagni,

questa lettera è autobiografica, racconta in forma logica la mia storia personale. Ma questa storia riguarda strettamente la nostra causa e credo che la mia lettera insegni molto ai compagni che la studieranno: ai membri del Partito, a quelli che si avvicinano al Partito e più largamente ai compagni della Base rossa che prima o poi si decideranno a fare un giusto bilancio del vecchio movimento comunista e capiranno i limiti che hanno portato all’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria. Credo quindi che sia bene renderla pubblica.

 

*** manchette

È certo che la classe operaia può fare la rivoluzione e instaurare il socialismo. Ma riesce a farlo solo se è guidata da un partito comunista che applica la concezione comunista del mondo per analizzare la realtà e definire tattiche e metodi per trasformarla. Qui sta la causa del fallimento dei partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, nel secolo scorso.

 

Le vicende della mia relativamente lunga militanza nel Partito in ruoli dirigenti mi hanno portato fino alla soglia della diserzione, da cui mi sono ritratto grazie all’intervento dei miei dirigenti che mi hanno indotto a capire la logica del percorso che avevo fatto (dall’adesione piena e senza riserve al Partito alle soglie della diserzione) e a intraprendere invece un percorso di rettifica della mia concezione e della mia mentalità, quello che noi chiamiamo percorso di CAT (critica, autocritica, trasformazione), di assimilazione della concezione comunista del mondo. È nel corso di questo processo di rettifica e come strumenti di esso che, oltre ad altri documenti, ho redatto anche i sei articoli che la redazione ha deciso di usare per la rubrica Cura e formazione degli uomini e delle donne.

In sintesi la parte negativa del percorso che voglio descrivere parte dalla accettazione formale della linea del partito, a cui segue lo scarso successo dell’attività pur svolta senza riserve di tempo e di sforzi per attuarla, lo sconforto per la mancanza di risultati, la sfiducia in me stesso e nel Partito, fino alla decisione di lasciar perdere, di ritornare a casa, di disertare. Una decisione che non ha avuto seguito perché di fronte alla gravità dell’atto e grazie all’intervento dei miei dirigenti mi sono dato una scossa e ho imboccato il percorso della ripresa, il percorso di CAT. Ho quindi anche ricostruito la logica del mio percorso di cui qui espongo quella relativa al tratto negativo.

Da dove nasceva l'adesione formale (burocratica, di facciata) alla linea? Perché un compagno dirigente afferma di essere d'accordo con la linea tracciata dal Partito e poi la stravolge o addirittura non la applica? Ho riflettuto sulla mia esperienza, per rispondere a queste domande e individuare l'origine di questo processo soggettivo distorto e nocivo, al fine di contribuire ad elaborare principi, criteri e metodi superiori per affrontare il problema.

Perché accettavo la linea tracciata dal Partito, ma l’accettavo in modo formale?

Perché da una parte aderivo senza riserve alla causa del comunismo di cui il (n)PCI è campione, ma la mia adesione al Partito era sostanzialmente identitaria.

Cosa intendiamo con l’espressione “adesione identitaria” e perché un compagno aderisce al Partito comunista in modo identitario (cioè senza aver prima assimilato la concezione comunista del mondo che è ciò che fonda il Partito)?

Perché il compagno è contro il mondo come è e, per qualche motivo (quale? lo si capisce studiando l’esperienza del compagno e non importa qui che illustri questo aspetto della mia esperienza), è convinto che il Partito è in grado di cambiare il mondo (un esempio: Giorgio Amendola nella sua autobiografia dice esplicitamente che aderì al PCI perché “era l’unico partito che combatteva seriamente il fascismo”). Quindi aderisce.

Però non si applica a comprendere come sarà il mondo futuro che il Partito costruirà (che si propone di costruire). L’obiettivo del Partito non è arbitrario: la società borghese si trasforma secondo una linea che le è propria e che Marx ed Engels hanno scoperto facendo il bilancio dell’intera storia dell’umanità. Né si applica a capire cosa fare e come fare a costruire proprio quel mondo (ogni formazione economico-politica (ogni paese) si trasforma (può trasformarsi) seguendo una linea sua propria che il Partito deve scoprire e assumere coma base della sua azione). Cioè non si applica a comprendere la concezione comunista del mondo, l’analisi della situazione, la strategia e la linea del Partito. Quindi si comporta come ben indicato in La Voce n. 39 nell’articolo I primi tre capitoli del MP: “con adesione identitaria intendiamo il modo di essere membro del Partito comunista proprio del compagno che non ha assimilato e quindi non è in grado di applicare (usare) con autonomia la concezione comunista del mondo, quindi ha bisogno di una direzione di dettaglio (vale a dire di un individuo o organismo dirigenti che compie per lui la traduzione del generale nel particolare della sua azienda, zona o settore operativo). Quando è diretto nel dettaglio, egli applica le direttive in modo dogmatico (vale a dire in modo non concreto, senza fare “analisi concreta della situazione concreta”, senza adeguare la forma delle sua azione alla situazione concreta); in mancanza di una direzione di dettaglio, agisce in base al senso comune che gli è proprio”.

È importante chiarire questo punto: l’adesione identitaria non è un male, è di fatto il punto di partenza per la gran parte dei comunisti. Di tutti, salvo quei pochi intellettuali che vengono al partito comunista dopo aver studiato il marxismo, perché lo studio della storia, della natura della società attuale e del patrimonio teorico del movimento comunista li ha portati alla convinzione che il comunismo è il futuro dell’umanità, la soluzione dei problemi della società attuale e che il Partito fa quello che bisogna fare per instaurare il socialismo.

Le condizioni in cui la società relega le masse popolari è tale che esse imparano principalmente per esperienza diretta. I comunisti vengono per lo più dalle masse popolari e aderiscono al partito comunista perché lì, per qualche via accidentale, li porta la loro esperienza. Si parte quindi da un’adesione identitaria. Anche oggi gran parte dei compagni che aderiscono al Partito, vi aderiscono “in modo identitario”, perché credono che il Partito voglia e sappia fare la rivoluzione socialista. Nel passato, nella prima parte del secolo scorso, fu il caso di migliaia e centinaia di migliaia di compagni che aderirono ai partiti dell’Internazionale Comunista perché attratti dalla vittoria che i comunisti avevano strappato in Russia e dalla lotta che conducevano con successo contro la borghesia, il clero e ogni genere di oppressori e sfruttatori.

Il male fu che la mia adesione rimase sostanzialmente identitaria. E questo, beninteso, è responsabilità mia personale ma anche responsabilità del Partito che non fece leva sulla mia adesione identitaria per “costringermi” ad apprendere e assimilare la concezione comunista del mondo, usandola. Ma mi conferì ruoli da dirigente, benché la mia adesione restasse principalmente identitaria. La mia vicenda mette in luce che il Partito deve fare un passo in avanti. Ovvio tuttavia che il Partito non può che mediare con la realtà (“bisogna arare il campo con i buoi che si hanno”): anche nel Partito di Lenin non a caso emersero di volta in volta dei disertori. Non parlo di Trotzki che aderì e fu accettato nel Partito solo alla vigilia dell’Ottobre e vi rimase pochi anni (“è con noi, ma non è dei nostri”, disse di lui un bolscevico), ma di uomini come Zinoviev, Kamenev, Bukharin e altri.

A causa della mia adesione rimasta sostanzialmente identitaria, messo di fronte al compito di dirigere le attività del Partito in un ampia zona del paese, mi sono scontrato con tre ostacoli.

1. Non avevo e non riuscivo a raggiungere del contesto in cui dovevo dirigere l’attività del Partito una comprensione sufficiente per applicare la linea. Non possedevo il generale (la concezione comunista del mondo, l’analisi e la strategia del Partito) in misura sufficiente per studiare il particolare fino a ricostruirne nella mia mente il “concreto di pensiero” necessario per dirigere.[Cosa è il “concreto di pensiero”? v. K. Marx, Il metodo dell’economia politica - da Lineamenti per la critica dell’economia politica (Grundrisse), Opere complete vol. 29, pagg. 33-41 e in www.nuovopci.it/classic/marxengels/ecopol.html, ndr] Non andavo quindi oltre una visione limitata del contesto in cui dovevo dirigere, del processo storico attraverso cui esso si è formato, delle sue contraddizioni principali e secondarie, delle tendenze che lo attraversano, del suo movimento complessivo e particolare (del suo divenire). Potremmo sintetizzare il tutto dicendo che avevo una visione limitata (dunque unilaterale, eclettica, soggettivista) delle condizioni, dei risultati e delle forme della lotta di classe della zona in cui operavo e in cui io stesso ero immerso e, dunque, di cui ero parte (prodotto, componente, agente trasformatore). Non riuscivo a ricostruire il contesto in cui agivo fino a farne un “concreto di pensiero”. Dunque principalmente subivo il contesto, più che principalmente incidere su di esso: così era anche se sono un soggetto particolarmente attivo e di iniziativa (vale l’esempio della mosca cocchiera che pensa di dirigere il cavallo). Vedevo la realtà ma non la capivo, al pari degli uomini che per secoli hanno visto e vissuto l'alternarsi della notte e del giorno e hanno pensato che fosse il Sole a girare intorno alla Terra. Non basta guardare (le forme) per capire (il contenuto, il divenire). Empirismo vuol dire conoscenza superficiale, vedere solo quello che si dà a vedere, vedere solo quello che una data cosa è e non anche quello che non è e che può diventare (tenendo conto delle diverse varianti a cui il divenire può giungere, in cui può tradursi). In condizioni simili l’'iniziativa e l'attivismo diventano un muoversi a vuoto (tappabuchi, animatore sociale, assistente sociale). La quantità non produce qualità, l'accumulazione quantitativa non produce salti qualitativi e trasformazioni del negativo in positivo (dalla contraddizione a una sintesi superiore).

2. Non avevo una concezione giusta del ruolo dell’azione soggettiva, mia e dei compagni che dirigevo, nella lotta di classe. Avevo una visione distorta delle masse (sfiducia nei compagni diretti, nelle masse in generale, in me stesso come dirigente). Questo punto è un derivato del precedente (assenza del “concreto di pensiero” che politicamente si traduce nel girare a vuoto), una sua degenerazione, opposta ma ugualmente unilaterale (non dialettica) come il determinismo positivista: la sfiducia e il determinismo positivista non partono dall'analisi concreta della situazione concreta e violentano entrambe in modo soggettivista l'azione soggettiva sul contesto, nella lotta di classe che si sviluppa nella zona. Tutto questo porta a vedere le linee tracciate dal Partito come eccessivamente ambiziose, ottimiste, ecc. e, dunque, inattuabili nella “dura e misera realtà” in cui si opera. Se si cerca di applicare la linea, o la si distorce (la si plasma in base al senso comune) o la si applica burocraticamente (ossia senza l'azione creativa del dirigente sul campo, che analizza la situazione e applica in modo vivo e dinamico la linea tracciata).

3. Avevo una concezione da carrierista (individualista) del mio rapporto con il collettivo e con il Comitato Centrale del Partito: non potevo chiedere aiuto al Centro. Viene da chiedersi a questo punto come mai un dirigente che reputa inattuabile una linea non lo dice subito, apertamente, in modo chiaro e schietto, permettendo al Centro di guidarlo ad una comprensione superiore della realtà (giungere ad una comprensione logica [il “concreto di pensiero”] e non solo storica) oppure permettendo al Centro di avere maggiori elementi per affinare l'elaborazione della linea. Per quanto mi riguarda ciò avveniva principalmente per un motivo: il timore che manifestando le mie perplessità venissi considerato inadeguato, arretrato, ecc. (individualismo, soggettivismo, concezione del bottegaio piccolo-borghese).

Passo dopo passo, fallimento dopo fallimento, questo processo di accumulo quantitativo ha avuto salti qualitativi: prima l'interruzione dei rapporti con il Centro, poi (nel procedere dell'accumulo quantitativo e di salti qualitativi) la completa incapacità di far fronte al contesto che a quel punto era diventato “un caos” nella mia testa, una diga piena di faglie a cui cercavo di mettere mano correndo ancora più affannosamente a destra e a sinistra (e bere la sera per cercare di contenere l'ansia e lo stress, per anestetizzare la scissione tra quello che ero e quello che avrei voluto essere come dirigente; tra quello che costruivo effettivamente e quello che invece avrei voluto costruire: anche il positivo diventava un fattore negativo). Non si chiede aiuto (si continua a non chiedere aiuto e si continua a nascondere) perché a quel punto si è nel vortice, nell'avvitamento più completo. A questo stadio di degrado morale e intellettuale il distacco dal Partito diventa uno sbocco “naturale” di questo corso delle cose, se il corso non viene rotto, reciso, negato (in senso dialettico) con l'affermazione di un corso superiore (che quindi lo supera – nel linguaggio della dialettica la negazione consiste nel superamento di un corso inferiore da parte di un corso superiore che si afferma su di esso e lo sostituisce: senza questo processo la negazione sarebbe solo rigetto del vecchio e non costruzione, solo contro e non per, ma, dato che le cose non restano ferme, se non si sostituisce non si nega, se non si trasforma si subisce).

Il risultato è stato che mi sono via via sempre più aggrovigliato in compiti non risolti, nell’arrabattarsi a tappare buchi e in definitiva sono arrivato al proposito di disertare.

Se astraiamo dal particolare (dalla mia vicenda personale), vediamo che questo sbocco è universale, a determinate condizioni, pur con varianti: accettare tutto sommato pacificamente (senza lottare in modo giusto per trasformarsi, senza lottare non solo con le “unghie e con i denti” ma in modo giusto) di fare un passo indietro come dirigente e ricoprire ruoli di secondo piano; voler tornare nel proprio paese e nella famiglia di origine per “mettere su casa” facendo politica rivoluzionaria come hobby per lavarsi la coscienza; volersi ritirare nel privato (nella propria professione e nella propria famiglia), ecc.

Da questa analisi deriva la “cura”: le due vie maestre (1. conoscenza, assimilazione e applicazione della concezione comunista del mondo, 2. rapporto costante con il Centro). Questa linea implica:

- da un lato che i dirigenti non si affidino alle dichiarazioni di intenti dei diretti. Farlo significa infatti partire da quello che uno dice di sé e non da quello che effettivamente (oggettivamente) è (“non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così come non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”, Marx, prefazione all'opera Per la critica dell'economia politica (1859) [ho trascritto l’affermazione di Marx in senso contrario: dalla società all’individuo, mentre Marx l’ha scritta dall’individuo alla società];

- dall'altro che ci sia, da parte del compagno oggetto di un processo di rettifica, la volontà individuale di percorrerlo: passaggio del compagno dall'essere oggetto all'essere soggetto attivo del processo di rettifica. Egli, dopo la forzatura iniziale ad opera del collettivo a cui si affida percorrendo la via che gli viene indicata, assimila il processo di rettifica, lo fa suo, ne interiorizza via via il senso profondo e la valenza (anche qui per accumuli quantitativi e salti qualitativi), lo rende “materia viva” mettendoci del suo (atteggiamento positivo, autocritico, creativo, costruttivo, teso ad avanzare), passando dalla necessità (costrizione) alla libertà (disciplina cosciente) e giungendo ad una comprensione logica del suo processo evolutivo, superando la comprensione frammentaria, storica, superficiale (con diversi gradi di intensità), empirica e iniziando a ricavare principi e criteri dalla sua esperienza alla luce della concezione comunista del mondo, rendendoli via via guida per la sua azione: è in questo processo che egli si trasforma e apre una nuova, superiore fase della sua evoluzione, del suo essere soggetto e oggetto della rivoluzione.

A date condizioni la costrizione è tatticamente principale. La volontà individuale di trasformarsi (di essere soggetto e oggetto della rivoluzione) costituisce però l'aspetto strategico (la contraddizione interna è quella che muove un fenomeno, le condizioni esterne la influenzano ma non la sostituiscono – contro la “teoria della supplenza”, della delega, contro l'opportunismo).

Il criterio indicato nel nostro Manifesto Programma “bisogna insegnare alle masse a pescare [che in questo caso, ossia nel lavoro interno, significa formazione, direzione, inquadramento dei compagni in organismi con compiti e piani definiti, non essere conservatori in campo organizzativo], non dargli il pesce”, vale anche per gli aspiranti comunisti. Gli aspiranti comunisti devono voler imparare a pensare e imparare ad usare il pensiero scientifico come metodo di conoscenza e guida per l'azione, ponendosi nell'ottica degli scienziati che lavorando in squadra scoprono attraverso un percorso di scienza sperimentale (sperimentazione e sintesi) come tradurre la strategia in tattica, la linea generale in linee particolari, scoprendo via via nuovi e superiori principi, criteri, metodi e strumenti attraverso cui aprirsi la strada e avanzare nella costruzione della rivoluzione.

Riporto in allegato un estratto dell'Avviso ai naviganti del (n)PCI 22 - 4 agosto 2013, che fissa il concetto in modo a mio avviso molto istruttivo (penso che dobbiamo porre questo estratto come uno dei testi guida a supporto della linea delle due vie maestre, che altro non sono che le vie (il metodo) per imparare appunto a pensare e a trasformare).

Avanti!

il compagno Federico

 

 

Allegato

Le difficoltà nel movimento comunista [del secolo scorso] sono sorte principalmente dal fatto che quelli che pensavano (gli intellettuali e dirigenti del movimento comunista) pensavano male, si lasciavano influenzare dalla borghesia e dal clero. Non sono sorte principalmente dal fatto che tra le masse popolari pensare era un’attività praticata ancora da pochi e ancora a livelli relativamente bassi di apprendimento (la rivoluzione non può che iniziare con masse popolari che la borghesia e il clero hanno mantenuto con ogni mezzo nell’ignoranza e nell’abbrutimento). Non sono le masse popolari che hanno trascinato a destra dirigenti che indicavano con chiarezza, convinzione, nel dettaglio (passo dopo passo) e nella prospettiva la via verso l’instaurazione del socialismo. Al contrario è stato il grosso dei dirigenti che hanno imposto una linea di destra ai vertici dei partiti comunisti che a loro volta l’hanno imposta alla base. Questa, mossa dalla sua esperienza che anche se non ancora elaborata in pensiero concorre pur sempre a formare il comportamento pratico e le aspirazioni degli individui, era così poco convinta dalla loro linea di destra che poco a poco ha ridotto il suo slancio e la sua militanza e infine ha lasciato cadere il partito comunista e le sue organizzazioni di massa (sindacati, cooperative, associazioni culturali). Il movimento comunista da quello che era si è ridotto allo stato attuale.

Le masse popolari e in particolare gli operai per far fronte alla borghesia e fondare una società su loro misura hanno bisogno indispensabile di comunisti armati di una comprensione avanzata delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta tra le classi. Ma hanno bisogno non di teorie qualsiasi, ma di una teoria giusta, della concezione comunista del mondo. Da quando i suoi dirigenti e intellettuali hanno abbandonato il marxismo e si sono dati a sciorinare e vendere sciocche fantasticherie e divagazioni che facevano comodo alla borghesia e al clero (dalla “questione morale”, al “piccolo è bello”, al “dividere tra tutti il lavoro che c’è” (cioè quello che serve ai capitalisti per fare profitti) e altre baggianate del “pensiero debole” compresa perfino la tesi che “non esiste più classe operaia”), in effetti la classe operaia ha cessato di esistere come soggetto politico, si è frammentata azienda per azienda, zona per zona, individuo per individuo, sulla difensiva o rassegnato e disperato. Tanto la concezione comunista del mondo le è indispensabile! Ma non potevano gli operai pensare da se stessi? Non potevano fare a meno di intellettuali e di dirigenti? Che è come dire: “Ma perché la gente non compone musica senza bisogno di compositori?”. Gli operai hanno bisogno di propri intellettuali, di intellettuali marxisti, organici alla loro causa di instaurazione del socialismo (potere politico del proletariato) e di transizione dell’umanità intera al comunismo. Ne hanno bisogno indispensabile. Ma pensare non è come cagare, che a ogni animale viene spontaneo con l’esistenza. Pensare, pensare in modo scientifico, costruire una scienza è un mestiere, un’arte, un’attività che bisogna imparare per non partire sempre dai primi vagiti, in un eterno partire senza seguito. È un’attività che gli uomini hanno imparato a fare nel corso dei secoli, accumulando da una generazione all’altra strumenti e procedure. È un’attività che le classi dominanti limitano a pochi e fidati. Berlusconi e Moratti proclamano a gran voce e con arroganza che nelle scuole e nelle università bisogna insegnare una professione, ma non insegnare a pensare: ma era anche la linea del ministro Luigi Berlinguer & C. Non ci si improvvisa pensatori, si impara a pensare, si diventa pensatori, come si diventa compositori, scultori, ecc. ecc. Imparare a pensare è possibile. Tutti sono in grado di imparare a elaborare in concetti le proprie esperienze e la realtà percepita con i sensi, connettere i concetti in affermazioni usando la logica formale e formulare teorie generali usando la logica dialettica. È possibile come è stato possibile imparare a leggere, a scrivere e a far di conto, benché i preti sostenessero che era contro l’ordine delle cose stabilito da dio. Ma bisogna imparare, fare uno sforzo, da cui la borghesia e il clero distolgono per mille vie le masse popolari, che confinano in relazioni sociali in cui “non sono pagati per pensare, altri sono pagati per farlo!”.

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Dobbiamo imparare a pensare

 

Nella rivoluzione socialista quello che pensiamo, decide di ciò che facciamo. Essa non è un processo spontaneo: è il risultato dell’azione condotta dal Partito comunista. Un’azione che il Partito conduce tanto meglio quanto più ha un piano d’azione ben definito che tiene conto delle condizioni particolari (locali, nazionali e internazionali) in cui opera (le condizioni, i risultati e le forme della lotta di classe) e lo applica tenendo conto delle condizioni concrete. Attuando il suo piano, il Partito avanza tappa dopo tappa nella costruzione del Nuovo Potere e nel sovvertimento della Repubblica Pontificia fino a giungere all’instaurazione del socialismo. L’instaurazione del socialismo aprirà una fase nuova e diversa del lavoro del Partito: da quel momento in poi il Partito si gioverà degli strumenti del potere e in generale degli strumenti della società che esso dirige in quanto componente del nuovo Stato. Il suo compito si riassumerà in mobilitare l’intera popolazione a porre fine all’inquinamento e alla devastazione dell’ambiente in cui viviamo; a risolvere le sette grandi contraddizioni sociali ereditate dalla società borghese; (1) ad accedere in massa alle attività specificamente umane (vedere Manifesto Programma pagg. 249-250 nota 2); a riorganizzare l’intero sistema delle relazioni sociali fino all’estinzione dello Stato e a fare della società “un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” (Manifesto del partito comunista, 1848). Ora invece il compito del Partito si riassume in mobilitare la classe operaia e il resto delle masse popolari a organizzarsi e a conquistare il potere, vale a dire fare la rivoluzione socialista.

 

1.  Le sette grandi contraddizioni da trattare nella fase del socialismo:

1. tra sfruttati e sfruttatori,

2. tra lavoro manuale e lavoro intellettuale,

3. tra lavoro esecutivo e lavoro di progettazione e direzione,

4. tra donne e uomini,

5. tra giovani e adulti,

6. tra campagna e città,

7. tra settori, regioni e paesi arretrati e settori, regioni e paesi avanzati.

 

Costruire la rivoluzione socialista è un’opera che richiede non solo un lavoro di analisi ed elaborazione, ma un lavoro di alto livello. Il Partito e i suoi organismi dirigenti devono analizzare le condizioni, i risultati e le forme della lotta di classe in corso nel paese e le leggi del suo sviluppo (le contraddizioni che la fanno muovere), definire linee per intervenire nella lotta di classe in corso e per avanzare nella costruzione della rivoluzione (costruzione del Partito e del Fronte delle forze rivoluzionarie attorno ad esso). La costruzione della rivoluzione socialista è un processo inedito nella storia dell’umanità: mai il socialismo è stato instaurato nei paesi imperialisti. Richiede pertanto un approccio da scienziati: partire dalla concezione del mondo che ereditiamo dal movimento comunista (il marxismo-leninismo-maoismo), su questa base analizzare la situazione particolare (del nostro paese, della nostra zona), definire linee e orientamenti, fare esperienze-tipo e ricavare dall’esperimento insegnamenti, superiori principi e criteri, orientamenti, linee di sviluppo, metodi e strumenti.

È un processo che richiede testa. Non è possibile costruire la rivoluzione socialista se i dirigenti e i membri del Partito non pensano, non si sforzano di pensare, non imparano a pensare.

Pensare, pensare in modo scientifico, costruire una scienza è un mestiere, un’arte, un’attività che bisogna imparare per non partire sempre dai primi vagiti, in un eterno partire senza seguito. È un’attività che gli uomini hanno imparato a fare nel corso dei secoli, accumulando da una generazione all’altra strumenti e procedure. È un’attività che le classi dominanti limitano a pochi e fidati. Berlusconi e Moratti proclamano a gran voce e con arroganza che nelle scuole e nelle università bisogna insegnare una professione, un mestiere, ma non insegnare a pensare; ma non è la linea solo della destra estrema, è anche la linea della destra moderata: era anche la linea del ministro Luigi Berlinguer & C. [Luigi Berlinguer fu ministro dell’Istruzione Pubblica del governo Prodi e promotore per l’Italia della Dichiarazione della Sorbona (1998) che diede il via al Processo di Bologna, progetto di uniformazione dei sistemi di istruzione superiore dei paesi europei per renderli conformi all’obiettivo dell’Unione Europea, ndr]. È un aspetto del programma comune della borghesia imperialista contro il movimento comunista, inteso a spremere profitti dalle masse popolari e contrastare la rinascita del movimento comunista.

 

*** manchette

Generale, particolare e concreto

Il generale e il particolare, il particolare e il concreto, nel senso in cui noi intendiamo i tre termini, non sono poli di due contraddizioni dialettiche. Fanno capo a principi diversi.

Il generale fa capo al principio del monismo, dell’unità della realtà. La realtà è costituita di parti in relazione tra loro e grazie a queste relazioni costituiscono un’unità. Non esistono monadi. L’umanità costituisce un’unità. Gli individui e i paesi hanno una storia comune. Fanno fronte a problemi comuni. Ogni parte è influenzata dalle altre. Per operare su un gruppo, un organismo o un individuo, bisogna conoscere la sue relazioni con il resto: bisogna quindi partire dal generale.

Il particolare fa capo al principio della divisione della realtà in parti costitutive. Ogni cosa è divisibile. La società umana è costituita di parti distinte, ognuna contraddistinta da caratteristiche proprie. Tradurre la nostra linea generale nel particolare significa tener conto delle caratteristiche del gruppo sociale (del collettivo) o dell’individuo su cui operiamo.

Il concreto fa capo al principio che ogni cosa si trasforma, la società ha una storia, ogni sua parte ha una storia, non è la stessa da un momento all’altro. Applicare la nostra linea nel concreto significa tener conto di quali sono le condizioni del collettivo o dell’individuo nel momento in cui operiamo su di lui.

Combinare generale, particolare e concreto è il contrario, nel campo del pensiero e della conoscenza, dell’eclettismo e nel campo dell’azione, del pragmatismo.

 

Non ci si improvvisa pensatori: si impara a pensare, si diventa pensatori, come si diventa compositori, scultori, ecc. ecc. Imparare a pensare è possibile. Tutti sono in grado di imparare a elaborare in concetti le proprie esperienze e la realtà percepita con i sensi, connettere i concetti in affermazioni usando la logica formale e formulare teorie generali usando la logica dialettica. È possibile come è stato possibile imparare a leggere, a scrivere e a far di conto, benché i preti sostenessero che era contro l’ordine delle cose stabilito da dio. Ma bisogna imparare, fare uno sforzo, da cui la borghesia e il clero distolgono per mille vie le masse popolari, che confinano in relazioni sociali in cui ‘non sono pagati per pensare, altri sono pagati per farlo!’” (dall’Avviso ai Naviganti 22 - 4 agosto 2013).

Il Partito deve essere formato da dirigenti e da compagni che hanno la volontà di diventare comunisti, che vogliono imparare a pensare e che accettano di frequentare la scuola necessaria per diventarlo, la scuola che il Partito mette a loro disposizione. È una scelta volontaria, ma imprescindibile.

I dirigenti devono anzitutto:

1. pensare, elaborare l’esperienza (fare inchiesta e bilancio), fare analisi del corso delle cose e tracciare linee di lavoro per la loro zona operativa e il loro settore,

2. dirigere individui e organismi ad applicarle nel concreto guidandoli fino al livello di dettaglio caso per caso necessario (quello che rende il compagno diretto 1. capace di agire in modo conforme alla linea del partito, ma 2. di agire con la massima autonomia in modo che facendo impari a fare e cresca),

3. insegnare a pensare e a dirigere a tutti i compagni che hanno la volontà di imparare, a tutti i compagni che essi riescono a infiammare a volerlo.

Il nostro obiettivo è la democrazia proletaria, la partecipazione universale alla gestione e alla direzione della società, l’accesso di tutti agli strumenti intellettuali, morali e materiali necessari per partecipare alla gestione e alla direzione della vita sociale. È quello che realizzeremo nell’intera società dopo l’instaurazione del socialismo; oggi lo possiamo praticare solo nel Partito (sia per le nostre forze limitate, sia perché solo i membri del Partito assumono gli impegni necessari). Il Partito è democratico nel senso proletario del termine: il Partito dà (deve dare) a ogni membro la possibilità di appropriarsi degli strumenti intellettuali, morali e materiali necessari e ogni membro ne deve approfittare: chi non lo fa non è degno di essere membro del Partito. Al Partito sono ammessi solo compagni che fanno gli sforzi necessari per imparare quanto necessario a partecipare all’attività del Partito.

Chi non studia non può dirigere. Senza la conoscenza, l’assimilazione e l’uso della nostra scienza (del marxismo-leninismo-maoismo applicato alle condizioni particolari del nostro paese) non è possibile dirigere la costruzione della rivoluzione socialista. Il senso comune porta alla disfatta. A idee abborracciate, corrisponde un’attività movimentista, pressappochista, spontaneista, il fare per fare qualcosa, l’andare a rimorchio della sinistra borghese: non un piano preciso, fondato su principi giusti e fermi. La scienza richiede idee e un linguaggio precisi e la precisione nell’opera richiede scienza. Senza scienza, non c’è attività rivoluzionaria che vada oltre un livello elementare.

Chi non elabora non può dirigere. Rifiutarsi di analizzare le condizioni, i risultati e le forme della lotta di classe e di ricavare insegnamenti dalla propria esperienza, significa di fatto sabotare il processo di costruzione della rivoluzione. Il Partito non chiede ai dirigenti e ai propri membri di fare cose che non sanno fare. Chiede loro di imparare e di elaborare, partendo dalla loro situazione specifica di partenza. Non è una questione legata dunque al livello del contributo che un compagno è in grado di dare nell’immediato: incamminandosi sulla strada dello studio e dell’elaborazione e combinandoli con la pratica, passo dopo passo avanzerà: dove arriverà, lo si vedrà. Il Centro sostiene (con il lavoro di formazione, di direzione e i percorsi CAT) coloro che si pongono in quest’ottica effettivamente, non solo facendo dichiarazioni d’intenti.

Senza scrivere non è possibile andare molto lontano nel pensare. È possibile scrivere senza pensare, ma pensare senza scrivere non è possibile. Questo punto è lungi dall’essere compreso, per via della forte tendenza movimentista e praticona ancora presente nelle nostre fila. Il pensiero è materia (una materia di una natura particolare) che si trasforma ed evolve attraverso appositi procedimenti e processi di lavorazione. Lo studio è il principale. Ad esso segue subito dopo la scrittura. La scrittura spinge ad organizzare il proprio pensiero, a costruire un’organicità e sistematicità nel ragionamento, ad elaborare il proprio ragionamento in modo logico, a sottoporlo a verifica attraverso l’analisi di quanto scritto. Nella storia dell’umanità la scrittura ha segnato un profondo salto di qualità nel processo di differenziazione degli uomini dagli altri mammiferi. È stata un’evoluzione che ha rivoluzionato la storia dell’umanità e, quindi, del mondo. Ha permesso lo sviluppo delle attività prettamente umane e dell’aspetto spirituale dell’uomo. Ha aperto il campo allo sviluppo della scienza e delle arti. Nessuna scienza sarebbe potuta svilupparsi senza la scrittura (pensate ad es. alla matematica, all’algebra, alla fisica, alla chimica). Chi oggi pensa di poter costruire la rivoluzione e imparare a pensare senza scrivere, è come un muratore che vuol costruire una casa senza cemento e malta.

Tutto questo nel lavoro di massa che i membri del Partito devono condurre, si traduce nella costante e sistematica ricerca e nella cura costante e sistematica di compagni disposti a imparare a pensare e a dirigere: bisogna approfittare di ogni mezzo ed occasione per accendere in ogni uomo e donna la fiamma della volontà di fare la rivoluzione, di imparare a pensare, a dirigere, a fare; spingerli in avanti usando a questo scopo le risorse intellettuali, morali e materiali del Partito e definendo per ognuno linee e progetti specifici di formazione, cura, organizzazione e mobilitazione (anziché voler “vestire ognuno con lo stesso abito”), reclutando i compagni migliori nella fila del Partito.

Questo è il lavoro che dobbiamo condurre nel campo della cura e formazione degli uomini per avanzare.

 

*** manchette

Analizzare la realtà, conoscere la realtà

È inevitabile che la realtà ci appaia come un insieme caotico di parti e di agenti (individui, gruppi sociali, istituzioni). Con l’intervento pratico nella lotta di classe e nella produzione e con lo studio condotti applicando la concezione comunista del mondo come metodo per conoscere e metodo per trasformare, passo dopo passo arriveremo a individuare la natura di ogni parte e agente e le sue relazioni con gli altri. Alla fine, la realtà comparirà nella nostra coscienza non più come un insieme caotico, ma come un sistema di oggetti, istituzioni, gruppi sociali e individui legati tra loro da relazioni ben conosciute. Avremo costruito nella nostra coscienza il “concreto di pensiero”. Quanto più avremo raggiunto questo livello, tanto più la nostra azione sarà efficace.

Storicamente partiamo dall’agire sulla realtà per come la conosciamo e con gli strumenti che abbiamo e passo dopo passo arriviamo al “concreto di pensiero”. Nell’esporre facciamo il percorso contrario: partiamo dal “concreto di pensiero” (quale lo abbiamo raggiunto) ed andiamo al concreto reale.

Marx, Il metodo dell’economia politica - da Lineamenti per la critica dell’economia politica (Grundrisse), Opere complete vol. 29, pagg. 33-41 e in www.nuovopci.it/classic/marxengels/ecopol.html .

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

I dirigenti devono essere educatori-formatori e organizzatori comunisti

 

Trattare della formazione e della direzione di compagni significa innanzitutto trattare della formazione dei dirigenti comunisti. Sono i dirigenti comunisti il motore della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (GPRdiLD) contro la Repubblica Pontificia, i costruttori del Nuovo Potere (secondo la linea del partito di quadri che fa un lavoro di massa). È necessario sviluppare la nostra concezione sui dirigenti e giungere ad una visione più profonda del loro ruolo: ossia quella di educatori-formatori e organizzatori comunisti.

La formazione è complessa perché unisce scienza e passione, generale e particolare, razionalità e sensibilità (quindi bisogna essere attenti ai singoli, perché la formazione è pervenire a un modo superiore di pensare e agire).

Noi oggi trascuriamo ancora la formazione dei compagni, anche la semplice formazione intellettuale (quella che si fa con lo studio, le lezioni, gli scritti, le discussioni). Al nostro interno il concetto di dirigente comunista inteso come educatore-formatore e organizzatore comunista è lungi dall’essere compreso e tanto meno assimilato, a partire dalla testa. Siamo instradati in un percorso che porta in questa direzione, se lo guardiamo nella sua traiettoria, ma ancora siamo lontani da questa meta. Averla chiara, metterla a fuoco, sviscerarla per bene permette di orientare al meglio la nostra azione e i nostri passi e, quindi, accelerare il suo raggiungimento (la maggiore coscienza eleva l’azione: nella rivoluzione socialista ciò che pensiamo, decide di ciò che facciamo).

Con questo non sto dicendo che quanto abbiamo fatto fin qui nel campo della formazione è errato o inutile. Al contrario quello che affermo è che occorre fare un altro, deciso passo in avanti, forti proprio del ricco bagaglio che abbiamo accumulato (in termini di principi, criteri, metodi e strumenti) lottando contro l’intossicazione del regime di controrivoluzione preventiva, l’azione nefasta dei revisionisti moderni e della sinistra borghese. (1)

 

1. Nel campo delle formazione abbiamo condotto e stiamo conducendo diverse esperienze e sperimentazioni, abbiamo elaborato alcuni principi e alcuni criteri (ad esempio la centralità della concezione comunista del mondo; il sesto apporto del maoismo (La Voce n. 41); le tre concezioni del mondo e il senso comune (Gramsci, Quaderni del carcere QC 11, § 13); la vecchia e nuova morale; la distinzione e combinazione di concezione, mentalità e personalità (La Voce n. 30 e n. 39); la lotta allo stile da autodidatta nel campo della formazione; la distinzione e la combinazione tra formazione sulla concezione comunista del mondo, formazione all’attività politica e formazione culturale; la combinazione tra formazione e organizzazione; il ruolo della costrizione nella fase iniziale della formazione, ecc.). Abbiamo messo a punto alcuni metodi di lavoro (destrutturazione e ristrutturazione della concezione, mentalità e personalità; corsi di I°, II°, III° livello sulla concezione comunista del mondo; CAT (critica, autocritica, trasformazione); note di lettura; due vie maestre; ecc.) e diversi strumenti (Manifesto Programma, Rapporti Sociali, La Voce, Comunicati CC, Avviso ai Naviganti, Opere Complete di Mao e, per quanto riguarda le Organizzazioni Modello della Carovana, le Tesi del P. CARC, i comunicati della DN del P. CARC, Resistenza, ecc.).

I corsi di formazione fatti sul MP dalla Carovana del (n)PCI a partire dal 2010 ci hanno permesso di estendere le esperienze-tipo; di costruire un primo, embrionale corpo di docenti; di sperimentare metodi e strumenti (ad esempio i questionari sulle sessioni dei corsi di formazione sul MP e le schede di valutazione alunni e docenti); di produrre e raccogliere materiale per andare più a fondo nell’elaborazione di principi e criteri nel campo della formazione.

Questo percorso è innovativo e all’avanguardia nel nostro paese. Esso costituisce un ricco patrimonio edificato combattendo contro l’intossicazione del regime di controrivoluzione preventiva, contro l’azione nefasta dei revisionisti moderni e della sinistra borghese (che combattono la teoria comunista e a questo fine combattono ogni teoria, sono per il pensiero debole, la narrazione e l’affabulazione, l’eclettismo, il pragmatismo). Proprio partendo da questo ricco patrimonio occorre fare un altro, deciso passo in avanti nell’ottica della costruzione dell’uomo nuovo: in questa fase significa costruire dirigenti comunisti in grado di condurre la GPRdiLD nelle condizioni particolari del nostro paese (paese imperialista, in cui il regime di controrivoluzione preventiva ha assunto le caratteristiche specifiche di Repubblica Pontificia), applicando il piano tattico della costituzione del Governo di Blocco Popolare da parte delle OO e OP che si servono degli esponenti della II gamba (esponenti della sinistra dei sindacati di regime e dei sindacati alternativi e di base, esponenti democratici della società civile e delle amministrazioni comunali o altre amministrazioni locali, esponenti della sinistra borghese non accecati dal loro anticomunismo).

 

Il dirigente è soggetto e oggetto della rivoluzione (sesto apporto del maoismo - La Voce n. 41). La sua crescita e trasformazione avviene attraverso la conoscenza, l’assimilazione e l’utilizzo (apprendimento, assimilazione, applicazione: le 3A) della concezione comunista del mondo sia nel lavoro interno che in quello esterno (secondo il criterio “il lavoro interno è in funzione di quello esterno”).

Egli, mosso dalla volontà trasformare il mondo, di conoscere e di crescere e sostenuto dal collettivo di appartenenza e dai suoi dirigenti, compie un processo a spirale di elevazione, miglioramento, rafforzamento intellettuale e morale. La trasformazione del mondo è l’obiettivo a cui deve tendere. Non l’autoperfezionamento. Egli impara anche dagli errori. La lotta di classe è l’officina in cui assieme al suo collettivo opera come fabbro e dove, allo stesso tempo, apprende, contribuisce a creare nuove tecniche e affina quelle già in possesso suo e del collettivo. La direzione, educazione-formazione dei compagni delle istanze inferiori è una delle arti più complesse in cui si cimenta nell’officina, ma anche quella decisiva una volta definita analisi, strategia, linea e tattica: perché “sono gli uomini che fanno la storia”.

Il dirigente deve essere un maestro di vita e di lotta per i compagni che dirige, educa-forma. Deve essere un faro che illumina la via e, allo stesso tempo, anche un esempio di come percorrerla (unità teoria-pratica, lotta contro la doppia-tripla morale). Con la sua attività egli deve mirare a rendere quei compagni diretti che ne hanno le potenzialità, migliori di lui stesso (anziché tarpargli le ali, come fanno i capi-popolo, le prime donne e tutti coloro che hanno paura di perdere il proprio ruolo).

Il dirigente deve promuovere e seguire lo sviluppo ideologico, politico, morale e culturale del diretto, elevarlo intellettualmente e moralmente (farlo diventare intellettualmente acuto e moralmente tenace), guidarlo nel percorso di conoscenza, assimilazione e uso della scienza comunista e dell’affermazione della nuova morale sulla vecchia. Egli deve dotarlo degli strumenti adeguati fase per fase per svolgere al meglio il proprio ruolo e procedere verso la fase successiva del suo processo evolutivo. Deve accompagnarlo nel percorso di sperimentazione facendogli tirare insegnamenti sia dalle vittorie che dalle sconfitte, insegnandogli a guardare le cose da un punto di vista elevato, con scienza e razionalità e non sulla spinta delle emozioni e degli stati d’animo (“uno spirito esaltato è debole quanto uno depresso”).

Il dirigente deve mirare ad essere saggio (scientifico e razionale, guardare le cose dall’alto alla luce del materialismo dialettico) e sapiente (umile: non sedersi sugli allori, sentirsi arrivato, smettere di studiare, di imparare, di scoprire, di approfondire, di mettersi in discussione).

Queste sono tutte cose che il dirigente apprende, attraverso il duro e costante lavoro su se stesso, il percorso teoria-pratica-teoria superiore e il sostegno del collettivo. Questa è una delle declinazioni del criterio “la politica rivoluzionaria è una scienza sperimentale”, che contrasta con la concezione metafisica (clericale) e il superomismo (borghese). 

Un dirigente che non amplia costantemente la propria conoscenza e comprensione delle cose (la realtà è infinitamente conoscibile alla luce del materialismo dialettico, tendere alla ricostruzione logica e non fermarsi a quella storica), che non verifica e aggiorna i suoi metodi e strumenti, inevitabilmente sarà travolto dagli eventi (ciò avverrà tanto più sicuramente quanto più resisterà alla trasformazione e quanto più la crisi generale precipiterà). Difficilmente riuscirà a sviluppare. Non sarà una buona guida, un buon maestro, un buon formatore. Per esserlo occorre continuare a salire la montagna, continuare a mirare alla cima. Niente resta fermo.

Un altro aspetto da precisare (e su cui occorre andare più a fondo al nostro interno) è che l’autorità è un mezzo e non il fine. Diversi dirigenti, in particolare ai livelli intermedi, fanno del riconoscimento da parte dei diretti un vero e proprio problema esistenziale. Ne fanno un fine. Non sono dei buoni dirigenti. Anziché lavorare sui motivi per cui si sentono insicuri (tutti riconducibili all’ignoranza circa la concezione comunista del mondo e a problemi di doppia-tripla morale), si avviluppano su se stessi, continuano ad usare i compagni come manovalanza e a innervosirsi per le loro critiche. Questi dirigenti non sono e non posso essere, se non si rettificano profondamente, dei punti di riferimento ideologici e morali. Essi non ampliano le conoscenze e la coscienza dei diretti, non alimentano la loro mente e il loro morale. Danno ordini, fanno richiami, al massimo fanno discorsi roboanti e “militareschi” (contraddetti dalla loro doppia-tripla morale).

Questo vale anche per i capi-popolo. Anch’essi (al pari di quei dirigenti che non entrano nel merito delle cose, che restano sul generale, che sono diplomatici, che mirano più che altro a gestire l’esistente – insomma i “presidenti onorari”), non promuovono la crescita dei diretti. Mantengono l’esistente, non sviluppano. Sono retaggi nelle nostre fila di rapporti feudali.

Il nostro obiettivo deve essere creare dirigenti comunisti che siano educatori-formatori e organizzatori comunisti. Questo è il tipo di dirigenti che dobbiamo mirare a costruire, a partire da noi stessi. Questo è un campo delicato e decisivo, su cui dobbiamo concentrare in modo particolare la nostra sperimentazione e il lavoro di elaborazione che conduciamo. È un lavoro nuovo e innovativo, nel solco di un'impresa inedita. Ma lavorando guidati dalla concezione comunista del mondo e con passione, tenacia, metodo raggiungeremo l'obiettivo. Dobbiamo raggiungerlo: la cura e formazione degli uomini e la loro valorizzazione secondo progetti di sviluppo e ben definiti (applicando il criterio “non essere conservatori in campo organizzativo”) costituisce infatti il collo di bottiglia per avanzare nella GPRdiLD.

Vinceremo!

 

*** manchette

Il senso comune

 

Riferimenti: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere QC 11 (Paragrafi 12 e 13).

La Voce: n. 33 pag. 47-60, n. 35, pag. 59-61; n. 39, pagg. 35-37; n. 41, pagg. 48-50.

 

I due aspetti dell’individuo che in La Voce indichiamo con le espressioni concezione del mondo e mentalità compongono la filosofia. Tutti gli uomini sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente. Ogni uomo ha una sua filosofia con la quale vede il mondo, distingue una parte dall’altra e lo interpreta, regola la sua vita, reagisce agli avvenimenti e agisce sul mondo. In ogni filosofia predomina la concezione del mondo di una delle classi che si contendono la direzione della società. Nella nostra società tre sono le classi che si contendono la direzione della società: la borghesia, il clero e la classe operaia. Tre quindi sono le concezioni del mondo: la concezione borghese, la concezione clericale, la concezione comunista.

Da dove viene all’individuo la sua filosofia? Ogni individuo, finché non prende consapevolmente in mano egli stesso la direzione della sua filosofia, partecipa a una concezione del mondo e a una mentalità imposte dall’ambiente esterno, cioè dal gruppo sociale nel quale è stato automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo.

Le classi dominanti, l’ambiente di cui un individuo fa parte e gli ambienti in cui è cresciuto, la lotta di classe, l’esperienza diretta forgiano in ogni individuo una filosofia, senza che egli personalmente se ne renda conto né se ne faccia costruttore attivo e critico. Questo finché egli stesso non prende in mano la sua filosofia, ne fa una critica e consapevolmente la ricostruisce.

La borghesia imperialista con il regime di controrivoluzione preventiva ha forgiato mezzi e strumenti per formare nelle masse popolari alla concezione del mondo che le conviene. Con essa dalla fine del secolo scorso, dopo la Comune di Parigi (1871), si è alleato il clero delle chiese cristiane europee, tra cui è preminente la Chiesa Cattolica, per condurre insieme la lotta contro il movimento comunista.

I rapporti di produzione e l’azione mirata della borghesia e del clero forgiano nei membri delle masse popolari la filosofia a cui si contrappone la filosofia che è forgiata dalla lotta di classe in cui parimenti ogni membro delle masse popolari è coinvolto, in una delle classi che compongono le masse popolari. Oggi nelle masse popolari predominano la concezione borghese del mondo e la concezione clericale del mondo. Ad esse si contrappone la concezione comunista del mondo.

Il senso comune è la “filosofia dei non filosofi”, cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individualità morale e intellettuale dell’uomo.

Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio.

Il senso comune sta alla filosofia degli intellettuali, come il folclore sta alle attività artistiche. Come il folclore, il senso comune si presenta in forme innumerevoli. Il suo tratto fondamentale e più caratteristico è di essere una concezione (anche nei singoli cervelli) disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale della massa di individui di cui esso è la filosofia.

Quando nella storia emerge un gruppo sociale omogeneo, con esso si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia omogenea, cioè coerente e sistematica. La classe operaia che lotta per conquistare la direzione dell’intera società e trasformare la società borghese in società comunista ha elaborato ed elabora la sua concezione del mondo: la concezione comunista del mondo.

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Dirigere e condurre la CAT alla luce del materialismo dialettico

Sulle due fasi e i quattro passi del processo di CAT

 

Il processo di Critica-Autocritica-Trasformazione (CAT) si concentra su alcuni punti principali della concezione di un individuo e investe anche la sua mentalità e la sua personalità (a diversi gradi di intensità e profondità). È un percorso articolato, con i suoi stadi evolutivi, le sue fasi di sviluppo. È un processo che si sviluppa seguendo le leggi del materialismo dialettico, in particolare la legge universale dell'unità degli opposti (“senza contraddizione non c'è vita”, “l'equilibrio è momentaneo, la lotta è costante”) e la legge dell'accumulazione quantitativa che produce salti qualitativi. Tra le due leggi esiste un legame profondo: non possono esserci infatti accumulazione quantitativa e salti qualitativi senza il movimento prodotto dalla contraddizione, senza quindi unità degli opposti: opposti che siccome vivono sullo stesso terreno, nella stessa cosa (qui sta la loro unità) si scontrano.

Comprendere bene questi aspetti, dunque approcciarsi scientificamente alla CAT, è fondamentale sia per dirigere in modo appropriato la trasformazione dei compagni, sia per condurre positivamente il proprio percorso di trasformazione. È su questi punti che intendo soffermarmi, perché nella loro comprensione e nel loro uso dobbiamo fare un deciso passo in avanti nelle nostre fila. Per facilitare la comprensione del processo, partiamo dall'analisi di una situazione particolarmente complessa e grave: il recupero di un compagno sottoposto ad un profondo processo di rettifica da parte del Partito applicando il criterio “combattere la malattia per salvare l'ammalato”.

La critica da parte del collettivo è il primo passo del processo di CAT. Essa è fondamentale per portare l'individuo a vedere gli aspetti che deve correggere, i limiti e gli errori da combattere per avanzare nella propria trasformazione in comunista e la strada da percorrere per trasformarsi. Perché capisca il vero motivo dei risultati scarsi o nulli dei suoi sforzi per “trasformare il mondo” (nell’ambito in cui opera). La coscienza viene portata all'individuo dall'esterno, dal collettivo che lo analizza non in base a ciò che il compagno dice di essere o di voler essere (alle sue dichiarazioni di intenti), ma in base a ciò che concretamente è, in base, quindi, ai risultati del suo lavoro e allo sviluppo della lotta tra vecchio e nuovo al suo interno (riflesso e prodotto nel soggetto della lotta tra classe operaia e borghesia imperialista, tra l'avanzare verso il socialismo e il restare nel capitalismo).

Affidarsi al collettivo e seguire il percorso di rettifica che esso indica è il secondo passo: non è un passo scontato, né automatico, né tanto meno inevitabile. Il collettivo elabora il percorso di rettifica e lo propone all’individuo. La facoltà di scelta dell'individuo non viene azzerata in questa fase (come non lo è nelle altre fasi della sua CAT e complessivamente nel corso di tutta la sua esistenza): è lui che deve decidere cosa fare della sua vita, cosa “fare da grande”. Nessuno può scegliere per lui, al suo posto.

Viene poi il terzo passo costituito dall'azione di vigilanza e di costrizione da parte del collettivo sull'individuo che percorre (decide di percorrere, inizia a percorrere) i primi, incerti, pesanti passi del processo di rettifica. In questa fase la vigilanza e la costrizione costituiscono un elemento molto importante per indirizzare l'individuo, aiutarlo ad incamminarsi sul nuovo percorso. Egli va incoraggiato, ma allo stesso tempo controllato e richiamato. Va rieducato. La comprensione di se stesso è ancora bassa, la sua volontà incerta, la sua morale debole. È in bilico e i rischi di ricaduta sono alti. Nella lotta tra vecchio e nuovo, il vecchio è ancora predominante. Questa è una fase molto delicata, decisiva, del processo di recupero del compagno. Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare all'argomento un apposito articolo pubblicato su questo numero della rivista.(1)

 

1. Sul ruolo della costrizione nel processo di CAT dei compagni.

 

Percorrendo la strada tracciata dal collettivo, l'individuo, passando attraverso diversi stadi e contraddizioni personali (nel senso di contraddizioni interne a lui stesso), inizierà passo dopo passo a percepire in modo confuso e frammentario (prima) e a comprendere in modo più chiaro e sistematico (poi) l'efficacia della cura; inizierà a trarne giovamento ideologico, politico, morale; il suo pensiero e la sua azione inizieranno a modificarsi, ad elevarsi (anche qui per tappe, passando attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi). Questo è il quarto passo.

Anche questo passo non è affatto scontato, né automatico, né inevitabile: dipende da quanto e come l'individuo si affida al collettivo (grado di intensità e di profondità, quindi innanzitutto di trasparenza e di fiducia), dall'impegno e dalla volontà che impiegherà per avanzare nella strada che gli viene indicata e dalla lotta interna a se stesso che condurrà tra il vecchio e il nuovo per percorrerla. È l'individuo che deve combattere. È su questa base che si avvale anche del sostegno del collettivo e che l'azione del collettivo ha una sua effettiva funzionalità.

A questo punto si conclude la prima fase della rettifica e si apre la seconda fase.

Posto il treno su un binario nuovo, spezzate le resistenze iniziali, avviato il processo di elevazione della coscienza e della morale del compagno (attraverso la dialettica individuo-collettivo), il cammino accede ad uno stadio superiore. Non è concluso. La lotta tra vecchio e nuovo entra in una fase importante e ancor più decisiva, da cui dipende l'esito del processo di rettifica avviato.

La comprensione dell'esistenza di due fasi e della dialettica tra loro è centrale per dirigere bene il processo di rettifica dei compagni e anche per condurre efficacemente la propria CAT.

Il concetto di fondo da comprendere è che non si trasforma una persona in qualche mese, per quanto forte sia la volontà dell'individuo ed efficace l'azione del collettivo. Questo vale tanto più quanto più è profondo il processo di destrutturazione e ristrutturazione della concezione, mentalità e personalità dell'individuo, quanto più le deviazioni ideologiche sono sedimentate in lui e quanto più alto è il ruolo che svolge (ricopre) nella GPRdiLD e, quindi, profondo il salto da fare per essere all'altezza dei compiti che la situazione pone.

Consideriamo ad esempio un dirigente che si sta rettificando circa il suo disprezzo per lo studio, l'individualismo, l'ipocrisia rispetto al proprio collettivo e il movimentismo. Egli non diventerà una persona sostanzialmente diversa nel giro di qualche mese. Nel giro di qualche mese potrà (se vorrà, se si impegnerà a farlo) percorrere la strada indicata nella prima fase. Questi passi in avanti non sono però che le prime tappe. La trasformazione è una lunga marcia. Non è un'insurrezione che scoppia dall'oggi al domani, né tanto meno un miracolo!

La trasformazione è un processo che avviene per gradi, in cui il vecchio continua ad esistere (non scompare) ma a fianco ad un nuovo che via via cresce, in qualità e quantità, in profondità e in estensione e che isola il vecchio, gli toglie terreno. La lotta e l'unità tra gli opposti persiste, anche se la relazione tra i due poli della contraddizione si modifica in qualità e quantità. Dare per concluso un processo quando invece sta entrando nel vivo (nella seconda fase della rettifica) è un grave errore di dialettica. Confondere la rottura delle resistenze iniziali e i primi passi sulla nuova via con la fine del processo (il raggiungimento dell'obiettivo della rettifica), significa dimenticarsi del materialismo dialettico e porre le basi per un'inversione di rotta, per la ricaduta nel vecchio (con conseguenze ancora più negative).

I risultati di un processo di trasformazione si possono misurare, con una ridotta possibilità di errore, solo in un arco di tempo lungo. Questo vale tanto più quanto maggiore e quanto più profondo è il percorso di CAT da compiere. Un anno è l'unità di misura che più si avvicina (per difetto) alla tempistica necessaria in questi casi.

Anche questo criterio va compreso e utilizzato però alla luce del materialismo dialettico. Il collettivo può infatti individuare, “vedere” i passi in avanti o indietro che un individuo sta compiendo nel corso del suo processo di rettifica. Non deve attendere un anno o più per comprendere se sta avanzando o arretrando: è su questa base che la dialettica individuo-collettivo nel processo di CAT non è circoscritta solo alla prima fase della rettifica, ma prosegue nella seconda fase. Il collettivo deve continuare a monitorare il compagno, a sostenerlo, a criticarlo e, in alcuni casi, a costringerlo nuovamente a farsi delle forzature quando incorrerà nuovamente nei vecchi errori.

Quest'ultima dinamica (ricadute nei vecchi errori) va data quasi per scontata nel processo di rettifica. La concezione e la mentalità che si vogliono correggere, non sono macchie su un vestito immacolato: sono elementi costitutivi della sua personalità. I processi non sono lineari, ma contraddittori, con avanzamenti, arretramenti e salti. Se così non fosse, non sosterremmo che il processo di rettifica non si conclude in un periodo breve ma è composto da diverse tappe, con una costante lotta tra vecchio e nuovo. Comprendere e assimilare questo criterio di orientamento è fondamentale per non restare sorpresi davanti alle ricadute e, anzi, per attrezzarsi a farvi fronte adeguatamente innanzitutto cogliendo i sintomi che le precedono e cercare di impedirle con interventi tempestivi (questo vale sia per l'individuo che per il collettivo di cui fa parte). 

Per quanto riguarda il compagno che sta conducendo il processo di rettifica, in questa seconda fase egli deve fare tesoro dell'insegnamento di Sun Tzu: “Conosci te stesso, conosci il nemico e la vittoria sarà certa”. Deve, cioè, tenere alta la guardia, continuare a lavorare su se stesso, sulla propria trasformazione e in funzione dello sviluppo della GPRdiLD (la trasformazione è in funzione dello sviluppo della lotta che conduciamo, non autoperfezionamento ascetico) e decifrare i sintomi che precedono le ricadute (specifici per ogni compagno – ad es. nervosismo, ansia, trascurare lo studio per numerosi giorni, ecc.), per impedire che esse avvengano.

Quanto superiore (dal punto di vista qualitativo) sarà l’autocritica che il compagno condurrà, tanto più efficace sarà il processo di conoscenza di se stesso che svilupperà, gli insegnamenti che ricaverà dall’esperienza e l’utilizzo che ne farà per avanzare.

L’autocritica da parte del compagno sottoposto a CAT deve svilupparsi:

- in un campo teorico, che consiste di riflessioni, studio, riunioni e discussioni per elaborare scritti e discorsi in cui il compagno illustra 1. cosa lui o altri hanno fatto di sbagliato, perché lo ha fatto e come si comporterebbe ora (come avrebbe dovuto comportarsi) in quelle circostanze, 2. la linea particolare che bisogna seguire nelle attività particolari che svolge o può e deve svolgere,

- in un campo pratico, che consiste nel seguire una linea e un metodo giusti nell’attività che svolge.

Insomma teoria e pratica. È sbagliato limitarsi alla teoria, è sbagliato darsi solo alla pratica. Noi abbiamo bisogno di una teoria giusta (che è traduzione del generale nel particolare ed elaborazione del particolare che arricchisce il generale) che guida una pratica efficace e che permette di elaborare una teoria superiore. Ovviamente teoria e pratica si combinano in forme particolari in ogni compagno e organismo: a seconda del suo punto di partenza.

Questa impostazione contrasta con la tendenza a intendere l'autocritica come dichiarare pubblicamente “faccio autocritica”: a chi dice “faccio autocritica” bisogna ridergli in faccia e dirgli che non siamo preti; l’autocritica un compagno la fa illustrando cosa ha fatto di sbagliato, perché l’ha fatto e come si comporterebbe ora (come avrebbe dovuto comportarsi) in quelle circostanze e seguendo una linea e un metodo giusti nell’attività che fa oggi.

Per avanzare verso il nuovo, per trasformarsi e per contribuire ad un livello qualitativamente superiore allo sviluppo della GPRdiLD, non bisogna “ricominciare da capo” e neanche “dimenticare il passato”. Al contrario bisogna tirare “con gli occhi di oggi” il bilancio del passato per dirigere la nostra attività presente e impostare quella futura (nostra e dell'organismo di cui facciamo parte) sulla base di quello che abbiamo imparato dai risultati positivi e dagli errori fatti in passato, quindi mettendo in quello che facciamo e faremo una coscienza superiore: ossia una comprensione più profonda e più ampia della situazione, dell’ambito, del contesto in cui operiamo e delle nostre caratteristiche (punti di forza da valorizzare e punti deboli, limiti da superare).

Percorrendo questa via il compagno eleverà la propria coscienza, la propria morale e compirà un deciso avanzamento come comunista, come rivoluzionario. Quanto più avanzerà in questo processo, tanto più imparerà anche a formare gli altri compagni, a guidarli nel loro processo di CAT: ad essere un formatore, educatore e organizzatore comunista.(2)

 

2. In merito a questo argomento rimandiamo all'articolo I dirigenti devono essere educatori-formatori e organizzatori comunisti.

 

La conoscenza di se stesso e la trasformazione di se stesso, gli permetteranno infatti di avere una migliore comprensione dell'essere umano, dei suoi processi interiori, della lotta tra vecchio e nuovo che avviene in coloro che si pongono sulla strada di diventare comunisti. Questo patrimonio di esperienza sarà un prezioso alimento per la GPRdiLD, tanto più ricco quanto più egli lo elaborerà, lo renderà scienza: quanto più ricaverà dalla sua esperienza principi, criteri, metodi e strumenti per la cura e formazione degli uomini e li renderà patrimonio e strumento del Partito (la scienza è comunicabile, la si può insegnare). È in questo processo che avviene la negazione della negazione, nel caso specifico: trasformarsi da compagno in bilico tra le due vie (lotta per il socialismo e perdurare nel capitalismo) in dirigente comunista che forma gli altri compagni ad avanzare, a crescere, a diventare combattenti d'avanguardia per il socialismo. In questo processo a spirale egli continua ad essere soggetto e oggetto della rivoluzione: insegnando imparerà, formando si formerà, trasformando si trasformerà. E se opererà bene, con scienza, metodo e passione, creerà dirigenti comunisti migliori di lui. Questo è il risultato più alto a cui un compagno può e deve aspirare, nel campo della cura e della formazione degli uomini.

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Sul ruolo della costrizione nel processo di CAT dei compagni

 

Nell'ottica del superamento del nostro stile artigianale (che in realtà è liberalismo, mancanza di determinazione, mancanza di volontà di vincere) nel campo della cura e formazione degli uomini, in particolare dei dirigenti, dobbiamo superare la tendenza ad affidarci alle dichiarazioni d'intenti dei compagni: oggi lo facciamo persino se ripetutamente o addirittura sistematicamente non si traducono poi in azione. Mi riferisco in particolare alla questione dello studio (all’applicazione del proprio piano di studio). Lasciare la formazione all'iniziativa individuale (buona volontà, capacità di orientarsi, disciplina cosciente) del singolo compagno, in questa fase di disprezzo della teoria e di movimentismo imperanti, è non solo improduttivo ma anche diseducativo e distruttivo per lui, per i compagni del suo collettivo e per i compagni che dirige. Danneggia il Partito, indebolisce lo sviluppo della GPRdiLD (chi non studia non è in grado di dirigere in modo scientifico, non dirige con un’ottica avanzata). Dobbiamo fare un passo in avanti deciso nel superare questa impostazione che ci trasciniamo dietro ed elevare la nostra azione.

Esiste una specifica dialettica (unità di opposti) tra libertà e necessità, tra iniziativa individuale e costrizione esercitata dal collettivo sull'individuo al fine di spezzare resistenze e superare ostacoli all'inizio di un percorso (per mettere i processi su nuovi binari).

Consideriamo ad esempio un compagno che non studia: occorre obbligarlo a farlo con un apposito intervento su di lui, facendo magari un corso intensivo (su argomenti ben selezionati) sotto la supervisione e il controllo di un dirigente.

Questa specifica dialettica tra libertà e necessità per sua natura può svolgere un ruolo positivo solo in una prima fase (che potremmo definire "fase di accompagnamento dell'individuo nell'intraprendere una nuova strada davanti alla quale ancora recalcitra, di cui non è convinto, di cui non ha realmente assimilato l'importanza, ecc."). Attraverso un processo di accumulazione quantitativa e salti qualitativi, si giunge però ad uno stato superiore. Nel corso del processo i due poli della contraddizione sono in lotta tra loro e uniti (compenetrati) tra loro (trasformazione di una cosa nel suo contrario, del secondario nel principale e del principale nel secondario). Ma prima o poi si giunge a una sintesi, a uno stato superiore: la necessità (la costrizione) diventa (deve divenire) libertà. L'individuo deve cioè giungere ad un livello di disciplina cosciente, di assimilazione dell'importanza e valenza della strada che gli viene indicata (e che nella prima fase è stato accompagnato, da vicino, a percorrere) e muoversi con maggiore autonomia (chiaramente sempre mantenendo, ma a un livello qualitativamente superiore, un rapporto con il collettivo e i dirigenti).

Se il rapporto di unità e lotta tra i due aspetti (libertà e necessità) non giunge, attraverso l'intervento specifico svolto dal collettivo sull'individuo e al processo di accumulazione quantitativa e salti qualitativi che esso determina nell'individuo, ad uno stadio superiore, significa che l'individuo non ha fatto lo scatto (intellettuale, morale) necessario per trasformarsi, per avanzare di moto proprio (mantenendo una dialettica con il collettivo ovviamente), oppure che la via praticata non è quella adatta.

La trasformazione individuale non è una rivoluzione passiva "importata" da altri nell'individuo: messo davanti alla strada da percorrere e sostenuto da vicino (costrizione) nel compiere i primi passi e instradarsi, egli deve prendere in mano il suo destino e diventarne la forza motrice. Se questo non avviene occorre tirarne le conclusioni, con pazienza e lucidità: verificare le modalità con cui si è intervenuti, verificare la reale possibilità del compagno di raggiungere certi livelli di trasformazione (verificare la nostra analisi, dunque), verificare l'effettiva volontà del singolo nel trasformarsi.

In tutti e tre i casi bisogna giungere ad un salto di qualità, ad una sintesi (non lasciar correre: è liberalismo non tirare insegnamenti, non rivedere linee e orientamenti, ecc.) chiaramente guardandosi dall'empirismo ("funziona o non funziona", "è o non è") e mettendo al centro il materialismo dialettico come metodo di conoscenza e guida per l'azione ("una cosa è e non è", quindi bisogna capire 1. come mai non è divenuta quello che non è ma che ha i presupposti per divenire in determinate condizioni e 2. se effettivamente ha i requisiti per divenirlo).

Insomma, è un lavoro di alto livello che via via dobbiamo imparare a fare sempre meglio. Questa è la ricostruzione logica del lavoro che dobbiamo svolgere in questa fase sui quadri di prospettiva per formarli ideologicamente ed edificare solide basi per lo sviluppo organizzativo del Partito e l'elevazione delle nostra azione su OO e OP e sui tre serbatoi della II gamba.

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Formare i compagni ad acquisire un giusto metodo di studio

 

Oltre a formare i compagni ideologicamente, politicamente e moralmente, il dirigente deve porsi anche il problema di dotare i compagni di un giusto metodo di studio. In alcuni casi non si tratta di correggere un metodo sbagliato di studio ma di dirigere i compagni a costruire un proprio metodo di studio, perché non ne possiedono alcuno. La formazione dei compagni ad acquisire un giusto metodo di studio è un aspetto oggi sottovalutato nelle nostre fila ed è un campo da sottoporre ad una particolare analisi, elaborando principi, criteri, metodi e strumenti.

Con i compagni che hanno fatto le scuole superiori e l'università (che sono scolarizzati), bisogna tener conto che il metodo di studio che possiedono è quello formato dalla scuola borghese o clericale, dunque non un metodo materialista dialettico. È un metodo impregnato di accademismo (quindi nozionistico) e idealista (le idee non vengono concepite come il riflesso - più o meno elaborato, più o meno cosciente - nella mente degli uomini della loro esperienza, di quello che fanno e di quello che subiscono). Lo studente è abituato a non chiedersi né perché lo scrittore ha scritto, in quali circostanze e per chi ha scritto, dove voleva arrivare con la sua opera, né cosa significa per lui quello che studia.

Con i compagni che hanno un buon livello di scolarizzazione si tratta quindi di non fermarsi alla “risposta giusta” che danno, ma andare più a fondo e guidarli a legare l'elemento strutturale con quello sovrastrutturale, l'aspetto soggettivo con il processo oggettivo, a tradurre il generale nel particolare.

Un'altra tendenza a cui fare attenzione con i compagni scolarizzati è quella a concentrarsi sugli aspetti secondari anziché individuare quelli principali, concentrare su di essi l’attenzione e analizzare i secondari alla luce dei principali. Spesso i compagni si perdono negli aspetti secondari, senza afferrare i principali e concentrarsi su di essi. Questo produce eclettismo nell'analisi e porta ad un dibattito a “ruota libera”, che affronta tanti particolari ma non coglie il centro del problema.

La concezione accademica (nozionistica) può portare anche a commettere un altro errore: individuati gli aspetti principali essi non vengono connessi con i secondari (i quali non vengono quindi concepiti nel loro legame con i principali e i principali diventano di fatto scollegati dal processo nel suo insieme).

Alcuni compagni, anche scolarizzati, sono abituati a fermarsi alle impressioni, alle sensazioni: non hanno imparato a pensare, a ragionare, a criticare, a elaborare sensazioni e impressioni fino ad arrivare a pensare, a formulare teorie. In questi casi, per i membri di partito dobbiamo fare quello che le istituzioni non fanno: insegnare a pensare e ad esprimersi (a scrivere). Ovviamente oggi noi possiamo farlo solo per i membri del partito, facendo leva sulla loro adesione al partito perché facciano lo sforzo e si procurino le condizioni necessari per imparare: facciamo con i membri del partito quello che nel socialismo le istituzioni faranno per ogni ragazzo.

Per i compagni poco o nulla scolarizzati, per gli analfabeti di ritorno e per i compagni scolarizzati a cui la scuola non ha però in realtà insegnato neanche a scrivere, dobbiamo organizzare corsi di alfabetizzazione, giovandoci anche della didattica per adulti che esiste e degli esperti nel campo (sarà anche una via per reclutarne alcuni). Ma facendo particolare attenzione a insegnare a pensare: la scrittura è uno strumento indispensabile, ma pensare è un’attività ben più vasta che leggere e scrivere. Dobbiamo sperimentare varie vie (alcune le indico nell’articolo Usare lo studio delle circolari ...), tirando volta per volta il bilancio dell'esperienza. Fino a trovare le vie migliori.

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Usare lo studio delle circolari per la formazione ideologica,
politica e morale dei compagni

 

Discutere una circolare può essere una pratica svolta burocraticamente o un'importante occasione per elevare (oltre il loro livello) la coscienza e la morale dei compagni che dirigiamo. In sostanza può essere una cerimonia noiosa e grigia o una tappa del processo di formazione continua che dobbiamo svolgere sui compagni che dirigiamo (e attraverso cui anche chi dirige si forma e cresce ideologicamente, politicamente, moralmente, affina i metodi di direzione e formazione, approfondisce la conoscenza dei compagni che dirige ed elabora superiori linee di intervento su di loro).

L'esito della discussione della circolare dipende da chi la dirige:

1. da come la prepara (in questa attività rientrano due aspetti: a. come lui si prepara, b. come prepara per la riunione i compagni diretti, quindi come convoca la riunione e come dirige e segue i compagni in vista della riunione. I due aspetti sono legati tra loro, il principale è il primo, quindi come lui si prepara – ma su questo tornerò);

2. da come la conduce;

3. da come dà seguito alla riunione.

Anche in questo campo bisogna rompere in modo deciso con la tendenza opportunista a scaricare responsabilità e compiti sui diretti. In definitiva un buon dirigente riesce a condurre un'efficace discussione di una circolare anche se i compagni diretti non l'hanno studiata. Situazione estrema, questa, da combattere e contrastare, adottando nel campo della direzione le giuste misure caso per caso, ma non certo tale da impedire la riuscita di una riunione se il dirigente si è preparato ad affrontarla per bene.

Voglio approfondire il discorso: se un dirigente resta sorpreso dal fatto che i compagni non hanno studiato la circolare, significa che non possiede un'analisi concreta (scientifica e aggiornata) dei compagni diretti oppure che non ha svolto con loro un buon lavoro di preparazione della riunione (o tutte e due le cose).

Ma quanti sono realmente i casi in cui i compagni non studiano una circolare lasciandoci sorpresi? Penso che in realtà di sorprese ce ne siano ben poche. Spesso il dirigente sa già chi non studierà in vista di una riunione. “Vedi che sono proprio degli scansafatiche!” griderà a questo punto il dirigente pigro e opportunista. In realtà, il vero problema è proprio lui. Se un dirigente infatti sa che determinati compagni sistematicamente non studiano in vista delle riunioni, deve inserire nel lavoro di preparazione della riunione e nella conduzione della riunione stessa un intervento mirato su di loro. Altrimenti viene meno al suo compito.

Faccio tre esempi di possibili interventi da svolgere in questo senso.

1. Con un compagno pigro, oltre a seguirlo nel dettaglio nella preparazione della riunione per farlo studiare (anziché sperare in dio che studi – seguirlo nel dettaglio può significare anche studiare con lui la circolare prima della riunione o incaricare un compagno di svolgere questo compito), bisogna “accendergli la fiamma” nel corso della riunione svolta senza che lui abbia studiato: magari mostrandogli come quanto sintetizzato nella circolare rafforza la sua azione nel campo specifico di intervento in cui è attivo (e dei cui risultati magari si dispera). La direzione di dettaglio per far studiare i compagni non porta lontano se non unita allo sviluppo della loro mobilitazione morale e intellettuale. E chi non corregge questo metodo di direzione unilaterale alla fine cade nello sconforto e diventa insofferente verso i compagni che dirige, anziché farli crescere, anziché svolgere una positiva azione di educatore-formatore e organizzatore comunista.

2. Con un compagno semi-analfabeta che ha difficoltà a leggere bisogna accompagnarlo nello studio in vista della riunione, magari leggendo la circolare con lui (o incaricando un compagno di svolgere questo compito). Bisogna dare un taglio netto con la tendenza borghese che porta alcuni dirigenti a far finta che al nostro interno non esistano disparità culturali (oltre che economiche) e che di conseguenza non sviluppano un intervento mirato sui compagni che hanno queste difficoltà. Un buon dirigente si verifica anche in questo. Parlare di cura e formazione degli uomini e non svolgere questo compito basilare è “parlare di aria fritta”!

3. Con un collettivo composto prevalentemente da compagni che non sono abituati a studiare e che hanno forti tendenze movimentiste, il dirigente deve valutare la possibilità di condurre la riunione in questo modo: leggere collettivamente la circolare e sviluppare il dibattito sui punti centrali, che occorre mettere in luce o che necessitano di approfondimenti, spiegazioni particolari. Questo processo e la mobilitazione morale e intellettuale che deve produrre, devono avere l'obiettivo, a medio termine, di portare i compagni del collettivo (o quanto meno i dirigenti del collettivo) a studiare le circolari da soli, prima della riunione.(1)

 

1. Per questo aspetto si rimanda all’articolo di questa rubrica Formare i compagni ad acquisire un giusto metodo di studio.

 

Da queste prime battute emerge già chiaramente che la riflessione da parte del dirigente su come preparare la riunione ha un ruolo decisivo per fare una riunione fruttuosa e che questa attività richiede testa, non un atteggiamento burocratico e pigro.

Un dirigente che non studia con cura la circolare prima di convocare la riunione, difficilmente riuscirà ad impostare un lavoro mirato ed efficace di direzione del lavoro di preparazione svolto da parte dei compagni (lavoro di direzione che si traduce: 1. nella convocazione della riunione e 2. nell'intervento mirato sui compagni in vista della riunione).

Il movimentismo e il disprezzo per la teoria rivoluzionaria (dunque la tendenza a separare teoria e pratica) fanno sì che spesso i dirigenti si riducono essi stessi a studiare le circolari solo il giorno prima o addirittura qualche ora prima della riunione. Così come succede che un dirigente che deve discutere la stessa circolare con più di un collettivo non effettua, per ogni collettivo, uno specifico lavoro di preparazione (questo lo porta anche a non tirare, a seguito di ogni riunione, delle lezioni per migliorare la conduzione delle riunioni successive che dovrà tenere con gli altri collettivi sulla stessa circolare). Quando un dirigente tiene una riunione con un collettivo, deve sempre stabilire l’obiettivo a cui vuole arrivare, a cosa deve servire quella riunione (su quel dato tema) per quello specifico collettivo: questo vale anche per le riunioni di studio di una circolare. L’obiettivo si riflette già nella convocazione della riunione.

Da questo punto di vista è molto istruttivo studiare le convocazioni delle riunioni stese dai compagni, analizzarle per bene. Se si conosce il dirigente che ha steso la convocazione, da come l'ha elaborata è possibile comprendere con ridotti margini di errore se prima di stendere la convocazione lui ha studiato la circolare che intende trattare, se ha riflettuto a sufficienza su di essa, se l'ha fatta sua, se l'ha assimilata e se ha sviluppato il lavoro di traduzione del generale nel particolare del collettivo con cui terrà la riunione, quindi anche quanto conosce quel collettivo.

Le circolari fissano l'orientamento e le linee generali di intervento che gli organismi del Partito devono tradurre nel particolare della zona dove operano (per poi applicarle concretamente). È solo in questo modo che esse possono svolgere un efficace lavoro per l'avanzamento del processo rivoluzionario. Se quelli che operano nel particolare (i collettivi intermedi e di base) non orientano la propria attività in funzione degli orientamenti e delle linee tracciate dal Centro e del raggiungimento degli obiettivi nazionali, non sarà possibile nessun avanzamento qualitativo nel lavoro che svolgono (la relazione centro - periferia, compiti nazionale e compiti locali, la traduzione del generale nel particolare, tener conto dei particolari, superare i localismi, ecc. sono tutti aspetti importanti da curare nella progettazione e direzione della vita del partito).

La discussione della circolare è una parte importante della traduzione del generale nel particolare e per la sua applicazione nel concreto. Il dirigente nel preparare la riunione deve già svolgere al meglio delle sue capacità questo processo di traduzione del generale nel particolare, tenendo conto di tutti gli elementi di cui dispone: non deve augurarsi che la traduzione avvenga grazie a qualche “colpo di fortuna” o di qualche “trovata” nel corso della riunione (in sostanza “muoversi a naso”, navigare a vista, essere spontaneisti) oppure limitarsi ad illustrare il generale e scaricare sui diretti il compito di tradurre il generale nel particolare, anziché dirigerli in questo processo delicato e decisivo.

Questo vuol dire che il dirigente nel preparare e nel condurre la riunione, oltre a studiare con cura la circolare, deve riflettere attentamente su di essa, farla sua (in questo processo rientra anche la pratica di chiedere al Centro delucidazioni su aspetti che ha difficoltà a comprendere o su cui non è d'accordo – ciò richiede ovviamente il fatto di non ridursi all'ultimo momento con lo studio della circolare!), deve:

1. tener conto delle caratteristiche dei membri del collettivo;

2. tener conto del contesto in cui il collettivo opera;

3. tradurre gli orientamenti e le linee tracciate nella circolare in linee specifiche da applicare nella zona in cui opera il collettivo (questo significa anche individuare i punti su cui occorre andare più a fondo, raccogliere maggiori elementi, fare inchiesta, sviscerare meglio le questioni con il collettivo per riuscire a tradurre efficacemente il generale nel particolare e applicarlo nel concreto, le domande da porre al collettivo e ai singoli nella riunione).

Nel dirigere la riunioni egli non deve però “soffocare il dibattito” con una relazione introduttiva che illustra nel dettaglio la circolare e indica come tradurla nel particolare. Questo è un punto importante, su cui invito ad una particolare attenzione.

Il dirigente deve avere le idee chiare e sapere dove vuole arrivare con la riunione (gli obiettivi che intende raggiungere), sia per quanto riguarda la formazione dei compagni, sia per quanto riguarda l'attività del collettivo (egli può rivolgersi anche al Centro, illustrando la sintesi e il progetto a cui è giunto e chiedendo una valutazione in merito – ancora una volta questo implica però il non ridursi all'ultimo momento con lo studio della circolare!). Allo stesso tempo deve accompagnare, condurre passo dopo passo i compagni del collettivo alla comprensione degli aspetti principali della circolare e guidarli nella traduzione del generale nel particolare. Deve suscitare e promuovere la loro riflessione. Farli pensare, insegnargli a pensare in modo giusto (uso del materialismo dialettico).

La relazione introduttiva deve aprire il dibattito, non chiuderlo (come avviene invece nelle conclusioni della discussione che si tirano nella parte finale della riunione).

 

La relazione introduttiva deve tenere conto e combinare due linee di intervento (distinguendole nella propria mente e combinandole, mettendole in sinergia):

1. l'illustrazione delle tesi principali contenute nella circolare, non burocraticamente-dogmaticamente (grigio “elenco della spesa”, noiosa lezione nozionistica) ma trattando i principali aspetti di concezione, analisi e linea in essa sintetizzati, sviscerando con particolare cura e attenzione gli aspetti che il dirigente sa non essere chiari ai compagni del collettivo e legando il generale con il particolare (ad es. facendo alcuni esempi inerenti il collettivo) per favorire la loro comprensione;

2. la promozione di un processo di riflessione da parte dei compagni del collettivo sulle tesi principali, sulla lotta di classe che si sviluppa nelle propria zona analizzata alla luce delle tesi principali, su come tradurre gli orientamenti e le linee nella propria attività (sviluppare analisi, proposte, ipotesi, ecc.) e sugli aspetti della propria azione o dell'azione dei dirigenti da correggere (critica e autocritica).

Nella relazione introduttiva il dirigente deve quindi perseguire l'obiettivo di:

- chiarire le idee ai compagni del collettivo sugli aspetti principali dell'analisi della fase e dei compiti che essa pone;

- introdurre elementi di riflessione per portare, passo dopo passo, i compagni ad effettuare una ricostruzione logica (bilancio) della loro esperienza sulla base dell'orientamento tracciato nella circolare (e non indicare lui, nella sua relazione introduttiva, il bilancio della loro esperienza);

- introdurre elementi di riflessione per orientare, passo dopo passo, la discussione in funzione dell'individuazione della strada da percorrere per avanzare (sia nel lavoro interno che nel lavoro esterno, tenendo presente il criterio “il lavoro interno è in funzione di quello esterno”).

Sintetizzando, il dirigente deve promuovere la riflessione collettiva e instradarla su giusti binari (ossia indicare gli aspetti principali su cui concentrarsi).

Con le riunioni dobbiamo educare i compagni a pensare, dobbiamo insegnargli a pensare, ad analizzare, ad individuare problemi e a trovare soluzioni: è attraverso questo processo che nelle riunioni gli “accendiamo la fiamma”, che sviluppiamo la loro mobilitazione intellettuale e morale, che eleviamo la loro coscienza, che li portiamo a vedere nel mondo che li circonda cose che non hanno mai ancora visto, a scorgere possibilità di successo dove non ne hanno fino allora incontrato.

L'arte del dirigere le riunioni (ma questo criterio vale anche per i corsi di formazione, ad esempio sul MP) non consiste dunque nel tenere una lunga conferenza sulla circolare, riducendo drasticamente il tempo per il dibattito e la riflessione da parte dei compagni. Riunioni così non servono a nulla, se non a dire all'istanza superiore “l'abbiamo fatta” (atteggiamento da burocrati, da impiegati). Sono frustranti per i compagni che vi partecipano e anziché invogliare a crescere, a pensare e a costruire, demotivano e alimentano il disprezzo per la teoria, per le riunioni, favoriscono il movimentismo.

L'arte del dirigente deve essere quella di indirizzare la discussione fissando gli aspetti principali e legandoli al particolare, fare sviluppare la discussione, elevarla. L'efficacia del lavoro del dirigente si misura dal processo critico, autocritico e propositivo che riesce a promuovere nei compagni diretti. Non da quanto parla lui. Il dibattito deve avere i necessari “spazi vitali”, deve svilupparsi adeguatamente, andare a fondo. I compagni devono avere tempo e modo per esprimersi, per domandare, per criticare, per capire. Questo è l'obiettivo delle riunioni di discussione delle circolari (e per i corsi di formazione).

I compagni vanno incoraggiati a non aver paura di sembrare inadeguati, di dire sciocchezze, di chiedere cose banali, ecc. La migliore forma di incoraggiamento, da parte del dirigente, non è l'enunciazione di questo principio: è praticarlo, facendolo vivere nella conduzione della riunione, rispondendo con cura alle domande, stimolando i compagni a porre domande, facendo domande a sua volta, ecc. Questo è un aspetto molto importante: oggi il timore di risultare inadeguati, sciocchi, ecc. frena molti compagni dal porre apertamente le questioni: se le tengono per sé e così non sprigionano tutte le loro potenzialità. Non è possibile alcuna formazione ideologica, politica e morale se non aiutiamo i compagni ad aprirsi, se non li conduciamo su questa strada passo dopo passo, se non creiamo un clima sereno nelle riunioni, se liquidiamo velocemente e con ragionamenti generali (o, peggio ancora, con frasi sprezzanti) le loro domande. Il dirigente svolge un buon lavoro se eleva il diretto, se non lo mantiene ad uno stato di sotto-sviluppo rispetto alle sue potenzialità, qualità e possibilità. I dirigenti devono mirare a far volare alto i compagni, a farli crescere, a renderli migliori di se stessi per potenziare il processo rivoluzionario: questo è il nocciolo della questione! Chi non si mette in quest'ottica è completamente fuori strada e deve rettificarsi in modo profondo e radicale.

Se il dirigente fa questo lavoro egli entra in dialettica positiva con i diretti, gli insegna a pensare e inoltre impara molto anche lui, attingendo da quanto dicono i compagni diretti (egli è soggetto e oggetto della trasformazione, a differenza del conferenziere o dell'oratore che dice la sua e va via). Nelle nostre fila questo importantissimo concetto non è compreso. Esso merita dunque una grande attenzione.

Nelle nostre fila si oscilla infatti tra il ridurre le discussioni sulle circolari ad aspetti prettamente “operativi” (non trattare il generale, non sviscerarlo, dare per scontate le cose, non fare analisi concreta della situazione concreta e passare subito “alle misure pratiche”, che altro non significa che navigare a vista, muoversi a naso sull'onda del movimentismo e senza tener conto degli obiettivi della fase a livello nazionale e della situazione concreta in cui si opera) e la tendenza alla conferenza, al discorso, alla relazione introduttiva che in realtà è una sintesi (un riassunto) della circolare, senza tra l'altro mettere in luce gli aspetti principali e spesso senza neanche calarla nel particolare.

Sia il dirigente “organizzativista” (praticone, movimentista) sia quello “accademico” non si concepiscono come soggetto e oggetto della riunione: non si mettono nell'ottica di imparare anche loro dalla riunione, di crescere ideologicamente, politicamente, moralmente attraverso la preparazione e conduzione delle riunioni (ad es. individuando gli aspetti della propria concezione da approfondire), di affinare i propri metodi di direzione e formazione, di approfondire la conoscenza dei compagni che dirige e di elaborare superiori linee di intervento su di loro.

Questa tendenza frena lo sviluppo sia dei diretti, sia del dirigente stesso. È una cappa da rompere.

Quando le circolari mettono in luce i limiti dei dirigenti che conducono le riunioni, questi non devono cadere nell'errore di soffocare i compagni con relazioni introduttive logorroiche, per togliere tempo al dibattito nel timore delle critiche e delle “domande imbarazzanti” che i diretti potrebbero fare, per timore che le critiche mettano in dubbio la sua autorevolezza, ecc. Cadere in questo errore significherebbe vivere la riunione individualisticamente, sulla difensiva, concentrati su se stessi e sulla difesa della propria immagine, anziché mettere al centro la crescita dei compagni e lo sviluppo del processo rivoluzionario. In questo modo neanche il dirigente cresce. Al contrario è proprio trattando le “questioni spinose” che egli si pone veramente da dirigente, da soggetto e oggetto della rivoluzione, che dà l'esempio e che invoglia anche i compagni ad avanzare e crescere. I compagni capiscono (in forme e modi diversi) quando un dirigente cerca di nascondere i propri limiti.

Un ultimo aspetto che voglio evidenziare rispetto alla conduzione di una riunione è il seguente: se il dibattito “non decolla”, il dirigente non deve demoralizzarsi perché ha preparato male la riunione oppure chiudere la riunione burocraticamente come se fosse una procedura amministrativa svolta. Deve al contrario stimolare i compagni con esempi, con collegamenti, con proposte, con domande. Deve, in altre parole, essere lui a stimolare i compagni a tirare fuori dubbi, critiche, idee. Anche in questo modo gli insegna a pensare, li fa avanzare.

 

Alla luce del ragionamento fatto, emerge che la riunione di discussione di una circolare può essere, se preparata e condotta bene, un momento molto ricco per la formazione dei compagni (sia dei diretti che del dirigente), sia per lo sviluppo dell'azione del collettivo.

L'aspetto decisivo, però, è il lavoro che si svolge dopo la riunione: a noi non interessa conoscere il mondo, a noi interessa conoscerlo ma per trasformarlo! Gli orientamenti e le linee definite nella riunione devono essere tradotte poi nella pratica. In questo l'azione del dirigente è decisiva, ancora una volta.

Tra una riunione e l'altra egli deve continuare a seguire il collettivo (facendo un intervento sistematico e particolare sui segretari e, se occorre, sui responsabili di settore): deve essere da sprone e da orientamento, aiutare i compagni a far fronte alle difficoltà, a raccogliere i frutti prodotti e a tirare lezioni dall'esperienza.

Anche in questo ambito bisogna contrastare una tendenza abbastanza radicata nelle nostre fila: tra una riunione e l'altra i dirigenti svolgono un'azione sporadica e movimentista (una tantum, sull'onda dell'emergenza) sui collettivi che dirigono. In questo modo non si dà seguito a quanto stabilito nelle riunioni e non si sviluppa la formazione continua, secondo la dialettica teoria-pratica-teoria superiore (attraverso il bilancio dell'esperienza).

 

Un metodo fondamentale per tirare i dovuti insegnamenti da una riunione e dare seguito al lavoro di direzione è l'elaborazione della riunione svolta: il dirigente a seguito di una riunione deve cimentarsi con cura nello studio del lavoro svolto, tenendo conto degli obiettivi e della linea che aveva tracciato per la preparazione e la conduzione della riunione.

Deve cioè analizzare e sintetizzare il bilancio della riunione, le decisioni prese e i passi successivi che intende svolgere. Nel fare questo deve applicare quanto detto nelle righe precedenti rispetto al concepirsi soggetto e oggetto della riunione:

- chiedersi: cosa ho imparato di nuovo da questa riunione?

- individuare gli aspetti della propria concezione da approfondire,

- sviluppare riflessioni per affinare i propri metodi di direzione e formazione dei compagni,

- fissare gli aspetti ideologici, politici e morali dei singoli compagni e del collettivo su cui occorre sviluppare formazione e CAT, avanzando proposte al fine di elaborare superiori linee di intervento su di loro,

- fissare gli aspetti di conoscenza del territorio in cui operano i compagni che ha raccolto,

- fissare le linee tracciate nella riunione e riflettere come operare per applicarle al meglio.

Attraverso un sistematico lavoro di questo tipo, il dirigente si eleverà ideologicamente e politicamente, rafforzerà la sua azione positiva sui diretti e alimenterà il Centro del Partito con preziosi elementi attraverso cui approfondire l'elaborazione di analisi, linee, principi, criteri e metodi che rafforzeranno l'azione del dirigente stesso e permetteranno di rafforzare l'azione degli altri dirigenti che operano nelle altre regioni.

In sintesi, darà un importante e prezioso contributo alla costruzione della rivoluzione nel nostro paese, avanzando tappa dopo tappa!

 

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Note di Lettura del paragrafo 17 Quaderno 13 di Antonio Gramsci

 

I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci

Come leggerli e farli leggere

 

Antonio Gramsci stese i Quaderni del carcere negli anni 1929-1935. Essi sono la prosecuzione sistematica e lungimirante, nelle condizioni di segregazione e controllo carcerario imposte dal regime fascista, del lavoro che Gramsci iniziò alla fine del 1923, all’ancora relativamente giovane età di quasi 32 anni, quando l’Esecutivo dell’Internazionale Comunista gli affidò il compito di ricostituire la direzione della sua sezione italiana. La documentazione del lavoro avviato da Gramsci nel 1923 è nell’antologia La costruzione del partito comunista 1923-1926, Edizione Einaudi e nelle Tesi di Lione (Il congresso di Lione del Partito comunista d’Italia 20-26 gennaio 1926, Domenico Savio Editore a cura di Aldo Serafini). Chi la consulterà, constaterà la continuità di fondo tra l’opera svolta prima dell’arresto e l’opera svolta in prigionia.

Per trarre dai Quaderni del carcere (QC) l’insegnamento che contengono, bisogna intenderli come prosecuzione dell’opera compiuta da Gramsci nel periodo 1923-1926. È del tutto fuorviante leggere i QC come l’opera geniale ed erudita di un intellettuale che inganna il tempo della prigionia dandosi agli studi preferiti: mentre invece è proprio in questo senso che li intendono ancora oggi molti intellettuali sulla scorta dell’indirizzo dato da Palmiro Togliatti. Essi vi trovano un’interpretazione del mondo, mentre Gramsci intese indicare la via da seguire per fare dell’Italia un paese socialista, convinto che l’unica rivoluzione possibile in Italia è la rivoluzione socialista, come aveva fatto scrivere nelle Tesi di Lione del 1926. Nei QC Gramsci espone la concezione del mondo che avrebbe dovuto guidare il Partito e con cui l’avrebbe guidato se fosse ritornato a dirigerlo.

Quando alla fine del 1923 l’Esecutivo dell’Internazionale Comunista lo incaricò di ricostituire la direzione del Partito comunista, Gramsci era ben consapevole che il Partito si era fondato principalmente sull’appello lanciato dalla Rivoluzione d’Ottobre e impersonato dall’Internazionale Comunista. Era la risposta dello slancio rivoluzionario di tanta parte dei socialisti e dei lavoratori italiani all’appello a rompere sia con il riformismo elettoralista sia con il riformismo rivendicativo (le due deviazioni del movimento socialista italiano) e a creare l’organizzazione necessaria per fare la rivoluzione. Il nuovo Partito costituito il 21 gennaio 1921 a Livorno accoglieva e impersonava la volontà di farla finita con il regime clericale e borghese del Regno d’Italia, ma non ancora la scienza di come farlo. Il Partito era ancora del tutto privo della base principale dell’unità e dell’opera di un partito comunista: lo confermava la sua impotenza nella crisi subita sia dalle classi dominanti sia dal proletariato nel periodo dell’avvento al potere del fascismo e del suo consolidamento come regime.

Questa base principale è costituita dalla concezione comunista del mondo tradotta nel particolare del singolo paese. Lenin aveva arricchito il movimento comunista di questa grande scoperta (che aveva esposto già nel 1902, Che Fare?). Il partito comunista è il partito degli operai, ma non degli operai intesi nel senso professionale del termine, ma nel senso che gli operai sono la sola classe che è in grado di assimilare in massa la concezione comunista del mondo e di condurre la sua lotta di classe guidata da quella concezione. Il partito comunista a sua volta impersona quella concezione e la elabora. La scoperta di Lenin era stata confermata sia dal successo del Partito comunista russo sia dalla sconfitta e dall’impotenza dei partiti che non l’avevano assimilata. Ogni partito comunista doveva avere a suo fondamento la traduzione della concezione comunista del mondo (per sua natura universale) nella particolarità del paese di cui doveva promuovere e dirigere la rivoluzione: una concezione giusta della strategia che doveva seguire e dei metodi di lotta da impiegare.

Gramsci nel 1923, alla fine del suo soggiorno in Russia, era ben consapevole che quella era la base indispensabile per fare del Partito il promotore della rivoluzione socialista e che questa base non esisteva ancora nel Partito. Lo enuncia chiaramente fin dall’editoriale del primo numero della nuova serie di L’Ordine Nuovo (marzo 1924) in www.nuovopci.it/classic/gramsci/ordnuovo.html , ne fa il filo conduttore della sua attività alla testa del Partito fino all’arresto nel novembre 1926 (si veda a conferma il bilancio del Congresso di Lione che abbiamo pubblicato nell’Avviso ai Naviganti 38 del 14 febbraio in www.nuovopci.it/dfa/avvnav38/avvnav38.html . Quando si rende conto di aver davanti una prigionia di lunga durata, assume come programma del suo lavoro di prigioniero l’elaborazione della concezione che doveva guidare il Partito.

Gramsci non ebbe la possibilità di applicare e verificare il risultato del suo lavoro carcerario nella direzione del Partito né questo risultato fu fatto proprio dal Partito che quando venne meno la direzione dell’IC (sciolta ufficialmente nel 1943 e dissolta completamente nel 1956) rapidamente deviò nella “via italiana al socialismo”. Quindi Gramsci ci ha lasciato un’eredità che i comunisti italiani non hanno ancora messo a frutto.

Noi comunisti ci proponiamo di riprendere e portare a compimento l’opera che il primo Partito comunista italiano ha lasciato incompiuta: fare dell’Italia un nuovo paese socialista. Sta quindi a noi anche mettere a frutto e verificare l’opera di Gramsci. Noi leggiamo i Quaderni del carcere alla luce dei problemi e dei compiti della rivoluzione socialista nel nostro paese. Le Note di lettura del compagno Luca R. al paragrafo 17 Quaderno 13 lo mostrano in un modo che la redazione di La Voce indica come modello di studio a tutti i compagni.

La redazione

 

*** manchette

Sono gli uomini che fanno la loro storia

Quelli che negano che, per condurre la classe operaia e il resto delle masse popolari a instaurare il socialismo, il Partito comunista deve assumere la concezione comunista del mondo come guida della sua attività, quelli che sostengono che bisogna lottare orientandosi col buon senso, di fatto alimentano la sfiducia nella nostra causa, compiono un’opera disfattista. Se anche non lo affermano, di fatto seminano il sospetto o il timore che il successo della nostra lotta dipende da circostanze o da fattori che non siamo in grado di conoscere e tanto meno di padroneggiare. “Si lotta e si spera di vincere”, questa è la mentalità che diffondono. Questa mentalità fatalista è disfattismo. Essa è del tutto priva di fondamenti scientifici. L’unico suo fondamento è l’interesse della borghesia e del clero a seminare tra le masse popolari sfiducia nelle proprie forze e rassegnazione al loro dominio. Bando al disfattismo: possiamo capire e superare ogni ostacolo che si frappone al nostro cammino, basta che abbiamo la volontà di pensare, cercare e imparare.

Il vecchio PCI non ha raggiunto il suo obiettivo perché, come i partiti comunisti degli altri paesi imperialisti, non ha assimilato e tradotto nel particolare del proprio paese la concezione comunista del mondo. Il nuovo PCI assimila la concezione comunista del mondo e la assume come metodo per capire la realtà e trasformarla. Grazie a questo nessun ostacolo gli impedirà di portare a compimento l’opera che il primo PCI ha lasciato incompiuta.

 

 

La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Leggere Gramsci e usare i suoi insegnamenti

 

Note di lettura del compagno Luca R. al paragrafo 17 Quaderno 13: (1)

Analisi della situazione, rapporti di forza

 

1. Edizione Einaudi (2001, Torino) dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana [VG, da qui in poi], pp. 1578-1589. Vedi anche in www.nilalienum.com/Gramsci/0_Indexn.html . Nel testo di Gramsci abbiamo qua e là fatto, sempre tra parentesi quadre, alcune aggiunte con l’obiettivo di facilitare la comprensione del testo. Il testo di Gramsci è in corsivo. Le Note di lettura sono numerate da 1 a 24 e intercalate al testo di Gramsci. Le note redazionali sono a fine pagina.

 

1. Premessa

Questo è il primo di una serie di commenti ai Quaderni del carcere di Gramsci.

È, fuori di metafora, l’avvio di una campagna, dove l’opera di Gramsci è terreno di battaglie e strumento per condurle, in una guerra del tipo che Gramsci stesso indicava come “guerra di posizione” e che il (nuovo)PCI chiama Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata:

Metaforicamente, il mio è un lavoro di dettaglio sulle frasi e le parole di Gramsci come quello di chi scava in un edificio crollato dopo un terremoto perché è convinto che là sotto c’è qualcuno vivo, e perciò non può usare la ruspa, ma deve togliere le macerie a mano, una a una. Questo dico per evitare che quanto scritto sia scambiato per perdersi in minuzie.

In questo caso non si tratta semplicemente di “interpretare” uno che è prigioniero dei fascisti, e quindi non può dire le cose chiaramente. Si tratta di liberare uno che è rimasto vivo sotto le macerie del suo partito, degenerato e sgretolatosi nel corso del mezzo secolo e più successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Tutto questo richiede pazienza, cura, una certa dose di delicatezza, fiducia di riuscire, certezza che riporteremo alla luce quello che è vivo.

Il lavoro utilizzerà come griglia interpretativa il materialismo dialettico nella sua forma più avanzata, il maoismo. Tra gli apporti nuovi del maoismo alla teoria rivoluzionaria è basilare quello secondo cui la rivoluzione socialista non scoppia, ma si costruisce, e si costruisce come una Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. Il mio lavoro sul paragrafo 17 del Quaderno 13 è volto a recuperare le anticipazioni di questa concezione e le sue applicazioni al nostro paese, ieri e oggi. Dello stesso testo si occupa Folco R. in La Voce del (nuovo)PCI, n. 44, nell'articolo Gramsci e la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (2) articolo le cui conclusioni, che condivido, sono riprese e approfondite in questa analisi.

 

2. Folco R. Gramsci e la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, in La Voce del (nuovo)PCI, n. 44, pp. 39-42 e in www.nuovopci.it/voce/voce44/grmegrp.html .

 

I commenti che seguiranno mostreranno il posto che Gramsci occupa nello sviluppo della concezione comunista del mondo, in particolare in relazione a quello sopra citato e ad altri basilari apporti del maoismo, che saranno indicati caso per caso, e spiegati per il nesso che hanno con il presente e come strumento per i nostri compiti, che si riassumono nel compito di fare dell’Italia un paese socialista e anzi, forti del bilancio che abbiamo fatto sulla esperienza dei primi paesi socialisti, fare dell’Italia un nuovo paese socialista.

I commenti saranno accompagnati da riferimenti sugli avvenimenti storici più importanti degli anni in cui il testo in esame è stato scritto. Quando saranno raccolti in un testo unico, anche la cronologia sarà unificata, arricchita e sintetizzata.

 

2. Alcuni riferimenti storici sul periodo della stesura del Quaderno 13

Secondo Valentino Gerratana “l'ipotesi più verosimile è che il Quaderno 13 sia stato iniziato a Turi nel 1932, insieme al quaderno «speciale» sugli intellettuali di identico formato (il Quaderno 12) e terminato a Formia nei primi mesi del 1934”.(3)

 

3. Vedi in www.nilalienum.com/Gramsci/CronQuaderni.html .

 

 

1932

URSS

Si completa un processo di rivoluzione culturale iniziato nel 1927. Si è trattato di un'applicazione sistematica di discriminazioni positive nell'accesso alle istituzioni educative che ha dotato l'URSS di una larga schiera di tecnici, di uomini colti e di dirigenti di origine operaia e contadina, spesso addirittura operai o contadini che i loro collettivi di lavoro sceglievano perché si staccassero dalla produzione e frequentassero gli istituti di cultura e le università o svolgessero mansioni dirigenti.

La produzione industriale in URSS, alla chiusura del primo piano quinquennale (1928-1932), passa dal 3,8 % del 1929 all’11% rispetto alla produzione industriale nel mondo.

Prima pubblicazione integrale di L’ideologia tedesca, l’esposizione più sistematica e articolata del materialismo storico, scritta nel 1845-1846 da K. Marx e da F. Engels.

L’URSS firma un patto di non aggressione con la Francia.

 

USA

Nella situazione rivoluzionaria creata dalla grande crisi economica, la classe dominante trova in F.D. Roosevelt il suo capo: nel novembre 1932 viene eletto presidente e verrà ripetutamente confermato nella carica fino alle elezioni del novembre 1944 seguite però subito dopo dalla sua morte nell’aprile 1945. Roosevelt cerca di porre rimedio alla crisi avviando una politica economica di aumento della spesa pubblica (per lavori pubblici e trasferimenti alle famiglie), creando così una domanda aggiuntiva di merci, secondo la ricetta che sarà articolata da Keynes in Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale (1936).

 

PORTOGALLO

Sale al potere Antonio Oliveira Salazar, che vi resterà fino al 1968 (quando diviene inabile in seguito a un colpo apoplettico), mentre il suo regime sarà rovesciato solo dalla “rivoluzione dei garofani” nel 1974.

 

SPAGNA

La destra vince le elezioni e sale al potere.

 

GERMANIA

Muore a Berlino Eduard Bernstein, capofila dei primi revisionisti.

Si pubblica il primo numero della “Rivista per la ricerca sociale”, organo della Scuola di Francoforte, che si pubblicherà fino al 1941.

 

AUSTRIA

Viene instaurato in governo di dittatura terroristica del dirigente cattolico Dollfuss. Un tentativo insurrezionale degli operai organizzato dai socialdemocratici (“Vienna Rossa”) viene soffocato nel sangue e il partito viene messo fuorilegge.

 

GIAPPONE

Il militarismo fascista avanza: il primo ministro è assassinato da militari oltranzisti.

 

CINA

Il Giappone attacca la Cina e occupa la Manciuria.

Nel giugno, invece di mobilitare il popolo per resistere contro l’aggressione giapponese, il Kuomintang lancia mezzo milione di soldati nella “Quarta campagna di annientamento” contro la base centrale rivoluzionaria dello Chiagnsi. L’Esercito Rosso respinge l’attacco dopo otto mesi di dura lotta.

 

1933

GERMANIA

Il KPD (Partito comunista tedesco) nel 1933 ottiene cinque milioni di voti. Questo non gli consente minimamente di fare barriera contro il nazismo, a dimostrazione del fatto che la quantità di forza accumulata svanisce in breve tempo se non accompagnata dalla qualità, che sta nell’avere una concezione adeguata, capace di produrre una linea e una strategia per la conquista del potere. Nel corso degli anni ‘20 il partito aveva tentato varie insurrezioni (non casualmente fallite) e nel 1933 lasciò arrestare la direzione (Ernst Thaelmann); mantenne organizzazioni clandestine, ma non riuscì a mobilitare sul piano della guerra né gli operai comunisti, né gli operai socialdemocratici, né gli ebrei e le altre parti della popolazione che pure erano perseguitati a morte dai nazisti.

La classe dominante porta al potere il partito nazionalsocialista di Hitler.

Brecht scrive “Lode del comunismo”.

 

GRAMSCI

è nel carcere di Turi (BA). Il suo stato di salute si è aggravato molto. La sua pena, in seguito a un provvedimento di amnistia generale, viene ridotta, ma per ordine del Ministero le condizioni di detenzione si inaspriscono. Sua madre muore ma non gliene viene data notizia. Il governo sovietico avvia una iniziativa per la sua liberazione.

Il 7 marzo ha una crisi grave, la seconda dopo la prima del 1931. La mobilitazione a suo sostegno cresce a livello internazionale. Viene trasferito in una clinica a Formia, a fine anno. Riesce a leggere, ma per qualche tempo non riuscirà a scrivere.

 

1934

URSS

L’URSS entra nella Società delle Nazioni.

Si riunisce il diciassettesimo Congresso del Partito comunista sovietico che approva il secondo piano quinquennale (1933-1937).

A Leningrado viene ucciso S. M. Kirov, capo del Partito a Leningrado.

 

CINA

L’Armata Rossa del Partito comunista intraprende la Lunga Marcia, dopo le pesanti sconfitte subite per gli attacchi da parte del Kuomintang e la linea sbagliata seguita sotto la direzione di Wang Ming (in quel periodo Mao Tse-tung è emarginato).

 

GERMANIA

Il governo nazista firma un patto con quello polacco in funzione antisovietica.

I dirigenti della Scuola di Francoforte, in seguito all'ascesa al potere di Hitler, emigrano e, dopo un soggiorno di alcuni anni tra Ginevra e Parigi, molti di loro si trasferiscono, a partire dal 1934, negli Stati Uniti, dove a New York danno vita, presso la Columbia University, all'Istituto internazionale della ricerca sociale.

 

AUSTRIA

I nazisti tentano un colpo di Stato e Dollfuss viene ucciso.

 

FRANCIA

I fascisti tentano un colpo di Stato.

 

ESTONIA e LETTONIA

Vengono instaurati governi dittatoriali.

 

ROMANIA

Il governo mette fuorilegge le organizzazioni antifasciste.

 

BULGARIA

I militari prendono il potere.

 

SPAGNA

Uno sciopero generale contro il governo della destra filofascista nelle Asturie si conclude con una dura repressione. La sconfitta è dovuta all’isolamento della classe operaia. Va analizzata con riferimento alla fase successiva, quella della tattica dell'inserimento del partito comunista nelle lotte politiche della società borghese. In sostanza la storia ha dimostrato che nei paesi imperialisti quella era una tattica giusta per arrivare alla guerra civile, cioè per portare in massa la classe operaia e le masse popolari sul terreno della guerra civile. La conferma più brillante che quella tattica era giusta la si ebbe infatti in Spagna nel 1936. Grazie alla linea del Fronte Popolare Antifascista un partito comunista ancora debole nel giro di poco tempo divenne un grande partito alla testa di un ampio schieramento di masse popolari che suscitò contro di sé una reazione potente a livello nazionale e internazionale, a cui, nonostante numerosi errori e i limiti dell'epoca, tenne testa per quasi tre anni. Nell'opuscolo La guerra di Spagna, il PCE e l'Internazionale Comunista (Edizioni Rapporti Sociali) vi è un bilancio istruttivo di quegli avvenimenti.

 

INTERNAZIONALE COMUNISTA

L’Internazionale passa dalla linea del fronte unico (che si limitava alla classe operaia) alla linea del Fronte popolare antifascista (esteso a tutte le classi, forze politiche e personalità contrarie al fascismo) e del governo di Fronte popolare. Questo indirizzo venne elaborato e messo in atto durante il 1934 e sanzionato dal settimo e ultimo congresso dell’Internazionale (luglio-agosto 1935).

 

GRAMSCI

a fine anno ottiene la libertà condizionale: durerà fino ad aprile del 1937 quando, oramai alla vigilia della morte (28 aprile), il regime fascista lo dichiara libero.

 

3. Analisi del testo

QC 13 § 17 - Analisi delle situazioni: rapporti di forza.

È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto.

NOTA 1

Struttura e sovrastrutture (“superstrutture”). La struttura della società è il suo modo di produzione di beni e servizi. “Ogni modo di produzione è caratterizzato da una specifica combinazione di forze produttive e di rapporti di produzione. Questa combinazione costituisce la struttura della società: essa è la base materiale, economica, della sua esistenza e della sua riproduzione.”(4) Su di essa si erge la sovrastruttura della società.

 

4. Manifesto Programma del (nuovo)Partito comunista italiano, Ed. Rapporti Sociali, Milano, 2008, p. 21 [da qui in poi: MP].

 

Con il termine “sovrastruttura” Gramsci come Marx intende l’insieme di relazioni, istituti e istituzioni non direttamente implicate nella produzione di beni e servizi, grazie a cui gli individui costituiscono una società. In una società divisa in classi, ai fini dello studio che stiamo facendo, occorre distinguere due parti della sovrastruttura: l’insieme di relazioni, istituti e istituzioni attinenti allo Stato (la società politica) e la “società civile”.

Con l’espressione società civile si indica il luogo della superstruttura in cui si elaborano e si diffondono le ideologie e si tessono e intrattengono relazioni non di produzione e non politiche. Comprende l'ideologia propriamente detta, la «concezione del mondo» che aggrega il corpo sociale (religione, filosofia, senso comune, folklore), la «struttura ideologica» (gli organismi che creano e diffondono le ideologie), le espressioni artistiche, religiose e scientifiche e il «materiale ideologico» (sistema scolastico, organizzazione religiosa, organismi editoriali, biblioteche, mass media). Essa comprende anche l’insieme di organismi e di relazioni della sovrastruttura attraverso cui la classe dominante esercita la direzione intellettuale e morale della società (associazioni, camere di commercio, sindacati, ecc.), in particolare promuove e intrattiene il consenso e l’adesione delle classi subalterne.

Ovviamente la distinzione tra struttura e sovrastruttura e la distinzione tra società civile e sovrastruttura politica (Stato) implicano “zone di confine” non sempre nettamente definite, dato che nella realtà, in ogni società reale, struttura, società civile e sovrastruttura politica (Stato) sono combinate tra loro. Non a caso Gramsci dice struttura al singolare e sovrastrutture al plurale: società che hanno una struttura (una base economica) sostanzialmente eguale, possono avere sovrastrutture anche molto diverse tra loro. Nel § 18 del QC 13, il paragrafo successivo a quello di cui mi sto occupando, Gramsci indica come errore “far diventare e presentare come organica la distinzione tra società politica e società civile, che è solo distinzione metodica. Così erroneamente si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione.” (VG p. 1590)

 

Occorre muoversi nell’ambito di due principi: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare l’esatta enunciazione di questi principi).

NOTA 2

Questa è una citazione di Marx dalla Introduzione alla critica dell'economia politica, riportata qui di seguito a questa nota tra parentesi graffe e riportata a margine nel manoscritto di Gramsci.

Il compito che il movimento comunista cosciente e organizzato si pone è l’abolizione della società divisa in classi. Le condizioni oggettive per assolvere questo compito esistono a partire dalla metà del secolo XIX. In questa data infatti compare anche chi il compito deve assolvere, cioè, appunto, il movimento comunista cosciente e organizzato la cui nascita trova espressione nel Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels (1848).

 

{“Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con più accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione alla critica dell’economia politica).”}

Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principi di metodologia storica [e di metodologia politica]. Intanto nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) dai movimenti che si possono chiamare di congiuntura (che si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch’essi da movimenti organici, ma il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità immediatamente responsabili del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica storico-sociale [cioè alla critica che concerne la storia della società e le caratteristiche basilari che la caratterizzano], che investe i grandi aggruppamenti [che riguarda le classi sociali], di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente [partiti e individui].

Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanarle entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’“occasionale” sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è “vera” se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché compiti storicamente determinati possano e quindi debbano essere risolti (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi).

NOTA 3

Questo passaggio richiede una spiegazione in dettaglio e lunga, come lungo è il lavoro per riportare alla luce una costruzione sepolta da decenni sotto il fango di una frana (questa è la situazione odierna del lavoro di Gramsci).(5)

 

5. È il “lascito prezioso di Gramsci (...) che prima i revisionisti moderni (da Togliatti in avanti) e poi la sinistra borghese hanno sepolto sotto uno strato di fango e di paccottiglia letteraria.” (La Voce del (nuovo)PCI, n. 45, novembre 2013, p. 11).

 

Gramsci parla qui della differenza tra un fenomeno di vasta portata di cui vari fenomeni sono aspetti particolari. Ne parla come un osservatore acuto della realtà del suo tempo, che però non comprende in modo scientifico. Vedremo più oltre (verso la fine di questa NOTA 3) che, anzi, qui sostiene l'unità del fenomeno di vasta portata e in altra sede (paragrafo 5 del Quaderno 15) dice che questo stesso fenomeno non ha una causa unica, cioè non è una, ma molte cose.

Il fenomeno di vasta portata di cui Gramsci parla è la prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, di cui noi oggi conosciamo scientificamente la natura (vedi Avviso ai Naviganti 8, 21 marzo 2012). Quella crisi coprì, grosso modo, la prima metà del secolo scorso (fino al 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale). Noi stiamo vivendo la seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale iniziata nella metà degli anni Settanta del secolo scorso e ancora in corso. Gramsci dice che “bisogna distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) dai movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali)”.

Seguendo quello che dice Gramsci, cioè distinguendo i movimenti organici da quelli di congiuntura, diciamo che bisogna distinguere la crisi generale, che dura decenni, da determinati fenomeni ad essa legati (sue più o meno accidentali manifestazioni e modi di essere), come ad esempio la crisi dei mutui subprime del 2008. Distinguere in questo caso significa isolare il fenomeno generale, comprendendone la natura e concludendo che è espressione del fatto che il modo di produzione capitalista è superato: per un determinato periodo storico esso è stato fattore di progresso, ma oggi è fattore di distruzione. Si tratta di un fenomeno oggettivo, che la crisi obbliga a riconoscere.

La crisi infatti non è negativa in sé, ma solo per chi non vuole intendere il segnale che essa manda. Il segnale è che il modo di produzione capitalista è superato, anzi, che è superata la stessa divisione in classi della società. La crisi impone di riconoscere che il comunismo è il futuro dell'umanità. Infatti il comunismo non è affatto, come predica la classe dominante e come è quindi convinzione diffusa (senso comune), una idea sorta in testa ai comunisti, ma è elemento di un processo oggettivo che i comunisti scoprono, di un processo di storia naturale (vedi Le due vie al comunismo in La Voce n. 15). Sulla base di quanto scoprono, i comunisti sono in grado di dirigere il processo a compimento. Per quanto oggettivo e “naturale” l’avvento del comunismo è un processo che per sua natura richiede di essere compreso per realizzarsi [il comunismo non può realizzarsi se non si è creata nei suoi protagonisti la coscienza di esso - mentre gli altri modi di produzione e le relative società si sono imposti senza che gli uomini ne avessero preventivamente coscienza].

Questa verità è difficile da capire per due importanti motivi. Innanzitutto la classe dominante fa di tutto per evitare che sia compresa, perché fine delle classi significa fine di se stessa come classe dominante e “nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata”. Inoltre, e di conseguenza, è una verità che cozza con il senso comune delle classi oppresse determinato dalle loro condizioni di oppressione, dalla loro storia e dalla classe dominante. Nonostante la prima ondata della rivoluzione proletaria, oggi esso non è ancora dialettico, non concepisce che la realtà è in movimento, non vede l'evoluzione dei fenomeni; in generale prende per buono quello che ha davanti agli occhi, spesso dimenticandosi che è il contrario di quello che era anche solo poco tempo prima. Tanto più è verità per il senso comune ciò che dura da più tempo, perché questo modo di pensare si fonda su quello che a memoria d’uomo è sempre stato, e non è capace di comprendere quello che sarà. Nel caso nostro, siccome la società divisa in classi esiste da parecchi millenni, secondo il senso comune esisterà in eterno: chi pensa diversamente ha idee strane, delira, ha “grilli per la testa”, oppure sogna qualcosa che sarebbe bello ma non esisterà mai, eccetera. La realtà però se ne infischia sia dei propositi della classe dominante di mantenersi tale in eterno sia di quelli che ragionano secondo il senso comune da essa imposto. Impone grandi trasformazioni, cose mai viste. Chi si rifiuta di seguire quanto imposto, paga con distruzioni tanto più catastrofiche quanto più la trasformazione richiesta, la rivoluzione necessaria, tarda ad essere attuata e quanto più tale trasformazione è radicale.

Il “movimento organico” di cui parla Gramsci è quindi la crisi di lungo periodo che copre la prima parte del secolo scorso. Essa fu “curata” con la prima ondata della rivoluzione proletaria e la Seconda Guerra Mondiale. A questa seguì una ripresa del capitalismo ma, siccome la malattia si cura con l'eliminazione del modo di produzione capitalista e questo in una buona parte del mondo non avvenne, la crisi si ripresentò una seconda volta, a partire dagli anni Settanta, come abbiamo detto sopra, e ora siamo nella sua fase terminale.

Bisogna dunque distinguere questo fenomeno che si prolunga nei decenni da dati fenomeni che sono di congiuntura, dice Gramsci. Pensare che la crisi è iniziata nel 2008 significa non fare simile distinzione. Chi pensa questo, conclude che la malattia è causata da determinate speculazioni ad opera di determinati organismi finanziari, dal fatto che determinati pescecani della finanza sono stati lasciati liberi di devastare un sistema economico presunto sano, motivo per cui auspica che si prescriva a costoro di rifarlo. Chi propone questa ricetta resta sbalordito dal fatto che tutte le risorse sottratte alle masse popolari per la crisi vengono usate per salvare quelle istituzioni che la crisi hanno provocato, cioè le banche che hanno mandato in rovina individui, famiglie, Stati. Resta sbalordito dal fatto che la medicina consiste nel rastrellare ulteriori risorse a chi è stato colpito per preservare chi l'ha colpito. Tutto questo cozza con il senso comune, che sperimenta qui la sua inadeguatezza. In realtà la speculazione non è stata la causa della crisi, ma la medicina usata per impedire che precipitasse già nei primi decenni, medicina che oggi si è trasformata in fattore aggravante il male.

La “critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente del potere”, è quella che quanto più avanza la crisi tanto più diventa intollerabile a strati sempre più vasti delle masse popolari, che si chiedono: “Come è possibile che mentre il paese va in rovina l'informazione è tutta presa dai problemi di Berlusconi, o dai conflitti interni a questo o a quel partito politico?”. Questa critica politica spicciola è quella per cui un partito afferma che la responsabilità della crisi sta nel governo del partito nemico, e quindi il PD dirà che è colpa di Berlusconi, e questi dirà il contrario. Oggi si comincia a dire che “la colpa è della Germania”.

Un altro esempio. Visto che la crisi impone alla borghesia imperialista di sfruttare in modo sempre più feroce le masse popolari del proprio e di altri paesi, milioni di persone abbandonano quei paesi dove non hanno più da vivere o che sono devastati da guerre e vengono nei paesi nostri, dove sono impiegati come manodopera a basso costo. “Critica politica spicciola” in questo caso è quella che vede l'immigrato che lavora al posto del nativo, e denuncia il fatto che “gli immigrati ci rubano il lavoro”. Qui ha radice importante la mobilitazione reazionaria delle masse popolari.

Proseguiamo: si tratta dunque di una crisi che “talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare.” Qui non va detto “talvolta”, ma in precise condizioni che si determinano in modo non casuale, anche se non è proprio il caso di mettersi a calcolare quando inizierà la “fase critica che porterà al definitivo crollo del capitalismo”, perché il capitalismo non crolla da solo: la rivoluzione si costruisce, non scoppia. Tuttavia ci sono cause oggettive operanti. Quanto Gramsci ne tiene conto, quanto le riconosce, quanto scrive in modo vago per non farsi capire dai censori fascisti?

Gramsci è consapevole comunque che sono operanti “contraddizioni insanabili”, a cui la classe dominante, la borghesia imperialista, cerca di porre rimedio, perché non vuole morire. “Insanabile” è la contraddizione fondamentale: quella tra carattere collettivo delle forze produttive e proprietà privata dei mezzi di produzione. Sviluppo in senso collettivo delle forze produttive significa che per produrre un bene (un oggetto o un servizio) serve il concorso di lavoratori diversi e di unità produttive (aziende) diverse, differentemente dalla situazione in cui un singolo (la famiglia contadina del feudo europeo, il villaggio asiatico - unità produttiva e unità di consumo grossomodo coincidevano) produceva tutte o molte delle cose necessarie alla sua sopravvivenza, come accadeva ancora nelle campagne italiane nella prima metà del secolo scorso, e come faceva Robinson Crusoe nell'isola sua. Il concorso di molti e la tecnologia che usano consente una produzione di beni con un risparmio di lavoro impensabile pochi decenni fa, cosa che consentirebbe una produzione razionale dove si produce il necessario per tutti con molto minore lavoro. Ma questo cozza con il principio per cui la produzione non è finalizzata a soddisfare le esigenze della collettività, ma il profitto dei singoli, che quindi decidono se e cosa produrre. Da un lato, quindi, grande sviluppo delle forze produttive in senso collettivo che è base per un salto di qualità nella storia della specie umana. Dall'altro rapporti di produzione per cui il prodotto è proprietà di singoli, che si oppongono a questo salto di qualità perché la produzione è finalizzata a realizzare il loro interesse, non l'interesse di tutti. Per questo motivo si dà lo “strano” fenomeno del distruggere beni prodotti o impedire che si produca quanto è possibile produrre (distruzione di arance, quote di produzione del latte, fondi ai contadini del Meridione italiano perché non coltivino olivi, eccetera).

Oggi siamo, ma già lo eravamo ai tempi di Gramsci, in una condizione per cui possiamo produrre tutto il necessario per soddisfare le esigenze materiali e spirituali della società lavorando molto meno di quanto lavoriamo, e invece quelli che hanno un lavoro lavorano di più e la miseria aumenta. Attorno a questo fenomeno che sta diventando ormai evidente alle grandi masse popolari si svolgono, dice Gramsci, “una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche” per lo più volte a mascherare il problema vero. Ma qui entrano in campo le “forze antagonistiche”, termine mascherato per indicare i comunisti, o meglio il partito comunista (anche secondo Gramsci i comunisti sono tali quando sono uniti nel partito, perché solo il collettivo riesce a elaborare e riunire le condizioni per un’attività politica efficace dell’individuo). Il partito comunista vuole dimostrare che “esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti”, cioè che esistono già le condizioni materiali per il socialismo, che è “1. il potere statale delle masse popolari organizzate e 2. la produzione dei beni e dei servizi affidata ad aziende pubbliche che hanno la funzione di soddisfare i bisogni della popolazione in condizioni di sicurezza per i lavoratori e la popolazione e di salvaguardia e miglioramento dell’ambiente e lavorano secondo un piano economico nazionale via via sempre più coordinato a livello internazio­nale, pubblicamente discusso e approvato.”(6)

 

6. La Voce del (nuovo)PCI, , n. 45, novembre 2013, p. 4.

 

La loro dimostrazione è vera [cioè aderisce concretamente alla realtà nei suoi aspetti generali e particolari] se riescono effettivamente a realizzare il socialismo, a fare la rivoluzione socialista. I comunisti devono instaurare il socialismo. Non farlo significa “venir meno al dovere storico” e se non riescono a farlo allora ciò “aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi”. Anche qui Gramsci manifesta la più avanzata coscienza del presente e del futuro: del presente, dato che l'Italia è da un decennio sotto la dittatura fascista e in Germania i nazisti stanno prendendo il potere; del futuro, della Seconda Guerra Mondiale, delle armi di distruzione di massa, dei campi di sterminio.

In sintesi, non fare la rivoluzione socialista comportò, cosi come oggi comporta, l'avanzare della mobilitazione reazionaria delle masse popolari. Se il partito comunista non riesce a indirizzare le masse popolari contro la borghesia imperialista, il vero responsabile della devastazione presente e futura, e costruire la rivoluzione e, nel caso nostro, fare dell'Italia un nuovo paese socialista, allora sarà la borghesia imperialista a muovere una parte delle masse popolari contro un'altra, come si fa mobilitando i nativi contro gli immigrati, con il fascismo e il nazismo, e infine masse popolari di un paese contro quelle di un altro paese, quindi guerra.

Questo è quanto dice Gramsci in queste righe. Richiede tempo per essere riportato alla luce. Richiede poi tempo per essere spiegato, perché il suo discorso è nuovo, anticipatore, per i suoi tempi. Solo oggi riusciamo a comprenderne la potenza come strumento per la rivoluzione. Richiede tempo, però, non solo perché noi dobbiamo dire chiaramente ciò che Gramsci non poteva dire; non solo perché bisogna togliere di mezzo il fango accumulato nei decenni di cui si parla all'inizio di questa nota; non solo perché il tempo suo non è lo stesso del nostro; ma anche per andare oltre ciò che Gramsci non ha compreso e ciò che ha compreso male.

Gramsci non comprende o comprende male la natura della crisi di cui pure qui e altrove mostra di intuire aspetti essenziali. Da un lato dice che la crisi è un processo, e quindi essendo uno è un fenomeno che si articola in diversi avvenimenti, ma scriverà anche (paragrafo 5 del Quaderno 15) che bisogna “combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un’origine unica. Si tratta di un processo, che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Dunque: processo complesso, come in molti altri fenomeni, e non "fatto" unico che si ripete in varie forme per una causa ad origine unica.”(7) Questa affermazione, cui in quel paragrafo 5 del Quaderno 15 se ne accompagnano altre alcune delle quali vicine alla verità, è sbagliata, impedisce di avere una visione scientifica del fenomeno in esame, e operare senza un visione del genere è come condurre una guerra senza avere conoscenza del terreno su cui svolgere le operazioni. La mancata capacità di comprensione della natura della crisi è infatti uno dei motivi per cui la sinistra del movimento comunista italiana e internazionale negli anni ’20 e ’30 condusse in modo non efficace la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti e non fu capace di impedire che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il movimento comunista venisse preso in mano dalla destra, che a partire da quei decenni ne iniziò la lenta erosione.

 

7. QC 15, § 5 - VG, pp. 1755.

 

L’errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si arriva così o ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente [cioè tramite una serie più o meno lunga di termini intermedi], o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell’un caso si ha l’eccesso di “economismo” o di dottrinarismo pedante, dall’altro l’eccesso di “ideologismo”; nell’un caso si sopravalutano le cause meccaniche, nell’altro si esalta l’elemento volontaristico e individuale.

NOTA 4

Gramsci qui indica le due principali deviazioni del movimento comunista internazionale, che persistono anche oggi e sono il principale ostacolo alla rinascita del movimento comunista. Si tratta dell'economicismo (“economismo”) e del dogmatismo (“ideologismo”)

Per comprendere la natura di queste due deviazioni consideriamo una nozione base della dialettica. Il rapporto tra noi e il mondo, tra il pensiero e la realtà, tra la soggettività e l'oggettività è contraddittorio, e ognuno lo sa: basta veda quanto è complesso realizzare le proprie aspirazioni, o magari ottenere il necessario per vivere. La contraddizione è unità di opposti: il pensiero e la realtà sono opposti (la rivoluzione che ho in mente non è immediatamente la rivoluzione nella realtà, così come il pane che penso di portare ai miei figli non mi cade dal cielo come gli hamburgers nel film “Piovono polpette”, ma devo coltivare il campo se sono contadino, o trovare soldi per comprarlo dal fornaio se sono cittadino). Il pensiero e la realtà sono però anche uniti: l'immagine della luna che sta nella mia retina non è la luna, però anche lo è perché è il termine del raggio che la luna manda, e la rivoluzione che ho in mente non è la conquista gloriosa del potere con l'abbattimento del regime che ci opprime, ma anche lo è perché quell'abbattimento è solo la fase conclusiva di un processo, di una rivoluzione, che io sto attuando in questo preciso istante. Di cento unità, infatti, ciascuna è un centesimo, non solo l'ultima della serie. Questi esempi sono volti a spiegare il carattere contraddittorio dei fenomeni, che consiste nel loro essere e non essere la stessa cosa.

Chi non capisce questa dialettica vede solo la separazione e non l'unità degli opposti. Questo capita anche nel movimento comunista, e le due deviazioni di cui Gramsci parla sopra sono appunto i due modi sbagliati di intendere il movimento rivoluzionario.

         L'economicismo vede solo la realtà, e non il pensiero. Esalta la pratica, disprezza la teoria. Dice che le masse non si interessano dei “grandi obiettivi” ma solo dei risultati immediati. Loro stessi, quindi, si occupano solo dell'immediato, cioè, dice Gramsci, di quello che capita loro davanti, dell'occasionale. Gli economicisti sono di due tipi: gli opportunisti di destra e quelli di sinistra.

o        Sono opportunisti di destra i sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL, fondamentalmente): dicono che alle masse non interessa la trasformazione rivoluzionaria della società, e d'altro canto affermano che questa trasformazione rivoluzionaria non è possibile né necessaria, perché arriveremo dove vogliamo arrivare, a una società di uguali, felici e benestanti, passo dopo passo, senza più guerre né rivoluzioni, appunto. Quindi le lotte delle masse popolari vanno indirizzate verso l'ottenimento degli obiettivi immediati: il salario, il posto di lavoro, l'avanzamento professionale, eccetera. La rivoluzione non ci sarà. È un ricordo del passato, una fissazione da estremisti e sognatori, eterni insoddisfatti.

o        Sono opportunisti di sinistra i vari soggetti antagonisti che si oppongono ai sindacati di regime, dichiarando che una trasformazione rivoluzionaria invece ci vuole, ma pensano che tale obiettivo non è comprensibile per le masse popolari che, secondo loro, sono interessate solo all'obiettivo immediato, cioè il salario, il posto di lavoro, l'avanzamento professionale, eccetera. Le masse quindi lottano per quelle cose, che in tempi di crisi non vengono loro concesse, e quanto meno verranno concesse tanto più “crescerà la loro rabbia” e infine si ribelleranno. Solo a quel punto i “rivoluzionari “ si presenteranno come tali, spiegheranno il dato di fatto, le masse comprenderanno quindi la rivoluzione visto che l'avranno davanti al naso e seguiranno i “rivoluzionari” alla conquista dei palazzi del potere. La rivoluzione, quindi, un giorno scoppierà.

o        Il dogmatismo vede solo il pensiero, non la realtà. I dogmatici conoscono i principi della scienza marxista esposta nei classici, sanno quindi che secondo tali principi la rivoluzione ci sarà come si sa che alla notte segue il giorno, e quindi aspettano che la storia confermi la verità che nel loro pensiero è già compiuta. La luna, per loro, è quella che hanno stampata sulla retina, e a quella il satellite si adeguerà un giorno. Non si occupano dei dettagli in cui si perdono gli economicisti. Non si curano di comprendere se il loro lavoro di rivoluzionari è sbagliato: come potrebbe, visto che la verità è nella loro mente? Estremizzando, non c'è alcun bisogno di lavoro, perché la rivoluzione è fenomeno che accadrà comunque. Non estremizzando, cioè comprendendo che si è rivoluzionari perché si fa qualcosa, e non perché si aspetta qualcosa, il fare sarà trasmettere la verità che conoscono alle masse, spiegare loro che la rivoluzione è necessaria, accelerare i tempi, prepararsi. Quando le masse si renderanno conto che bisogna fare la rivoluzione, la faranno, cioè accetteranno la guida di questi “rivoluzionari” e andranno alla conquista del potere. Anche per questa categoria di persone la rivoluzione, quindi, scoppierà.

Dogmatismo ed economicismo vanno spesso insieme. Escludendo l'economicismo di destra, quello di sinistra e il dogmatismo aspettano entrambi la “rivoluzione che scoppia”, il che avverrà per “cause meccaniche”. Gli economicisti intervengono nelle lotte in corso per renderle più radicali. Il loro slogan è “lotta, lotta, lotta!” ed è inteso come un crescendo. Non conta l'obiettivo immediato della lotta, secondo loro, ma la continuazione della lotta è l'obiettivo immediato. Nemmeno per i dogmatici conta l'obiettivo immediato della lotta, l'unico obiettivo della lotta è la rivoluzione. I primi scambiano ogni fatto “di congiuntura” come organico, come se quello dovesse essere causa della rivoluzione. I secondi non si curano del singolo fatto “di congiuntura” ma solo dei “fatti organici”. Entrambi non si curano della teoria, gli economicisti perché pensano che non serva, i dogmatici perché pensano che è bell'e fatta, da Marx, da Lenin, da Stalin o da Mao o da qualcun altro. Quindi nessuno dei due accetta di portare avanti una analisi scientifica e un dibattito scientifico sul fatto e sul da farsi. La discussione è di poca importanza, e poco importa infine distinguere tra fatti “organici” e fatti di “congiuntura”, perché in ogni caso la rivoluzione scoppierà. Diversa la posizione dei rivoluzionari veri, che sanno che la rivoluzione si costruisce, e quando qualcosa si costruisce, qualsiasi cosa, ci vuole scienza, e tanta di più e tanto più esatta quanto più il compito è nuovo e quanto più comporta rischi, perché si ha di fronte un nemico che usa tutti i mezzi a disposizione per impedire la costruzione e per abbattere quanto costruito. La rivoluzione si costruisce ma come una guerra, non come una casa o come un ponte.

 

(La distinzione tra “movimenti” e fatti organici e movimenti e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma anche a quelle in cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca, difficilmente viene stabilito esattamente e se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nell’arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i propri desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell’errore, in quanto essi sostituiscono l’analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare all’azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

NOTA 5

Anche Gramsci è convinto che la rivoluzione socialista si costruisce. La storia per lui non è quella che si insegna all'università né quella dei dogmatici che esaltano le rivoluzioni fatte da chi li ha preceduti, ma quella che si fa a partire da qui e ora, e infatti “si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire”. Per costruire, come detto nella nota precedente, ci vuole scienza, cioè “analisi obbiettiva e imparziale”, capace quindi di distinguere il fenomeno occasionale (l'introduzione dell'euro, ad esempio) da quello organico (la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale), e poi di distinguere un fenomeno organico come la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale dal fenomeno epocale dell'imperialismo, e quindi distinguere l'imperialismo come forma specifica di capitalismo, e il capitalismo come modo di produzione della società borghese che è forma specifica della società divisa in classi. Chi non ha intenzione di costruire, ma vuole fare solo proclami volti ad infiammare le masse o declamazioni volte ad annoiarle, alla fine inganna solo se stesso, dice Gramsci. Gli esempi di questo “autoinganno” sono infiniti. Al tempo nostro, sono esemplari tutte le rivendicazioni avanzate ai governi della Repubblica Pontificia perché facciano questo e quello, perché adottino questa o quella soluzione o perché è necessaria per la sopravvivenza di settori delle masse popolari o perché è “razionale” e “fattibile”, come spiegano ogni giorno mestamente gli editorialisti del Manifesto da decenni, convinti di avere davanti una classe di governo formata da stupidi. Si grida dunque nelle piazze che “noi il debito non lo paghiamo”, mentre lo paghiamo e lo continuiamo a pagare. Si fanno mozioni perché la Cassa Depositi e Prestiti sia utilizzata per il bene comune, dimenticando che chi è al governo visto che se ne è infischiato dei risultati del referendum per l'acqua bene comune (giugno 2011) e dei risultati delle ultime elezioni politiche (febbraio 2013), se ne può infischiare benissimo di tutte le mozioni di questo mondo. Noi il debito non lo pagheremo e gestiremo la Cassa Depositi e Prestiti e il resto delle risorse economiche a disposizione dello Stato quando avremo per lo meno un governo che porrà al primo posto la difesa degli interessi immediati delle masse popolari, cioè, oggi, un governo di emergenza che abbiamo chiamato Governo di Blocco Popolare.

 

Il non aver considerato il momento immediato dei “rapporti di forza” è connesso a residui della concezione liberale volgare, di cui il sindacalismo [organizzazione e lotta sindacale senza “sponda politica”, senza proprio portavoce nelle istituzioni della democrazia borghese, ndr] è una manifestazione che credeva di essere più avanzata [della concezione liberale volgare, il socialismo riformista, parlamentarista] mentre faceva in realtà un passo indietro. Infatti la concezione liberale volgare dando importanza al rapporto delle forze politiche organizzate nelle diverse forme di partito (lettori di giornali, elezioni parlamentari e locali, organizzazione di massa dei partiti e dei sindacati in senso stretto), era più avanzata del sindacalismo che dava importanza primordiale al rapporto fondamentale economico-sociale [proletario contro capitalista, ndr] e solo a questo. La concezione liberale volgare teneva conto implicito anche di tale rapporto (come appare da tanti segni), ma insisteva di più sul rapporto delle forze politiche che era un'espressione dell'altro e in realtà lo conteneva. Questi residui della concezione liberale volgare si possono rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si dicono connesse alla filosofia della prassi [al marxismo, al movimento comunista] e hanno dato luogo a forme infantili di ottimismo e di scempiaggine [non è stato possibile stabilire a quali individui, gruppi o pubblicazioni della sua epoca Gramsci qui si riferiva, ndr]. 

NOTA 6

Qui si oppongono "concezione liberale volgare" e "sindacalismo". La prima dà importanza solo alla sovrastruttura, cioè alle relazioni politiche della democrazia borghese, il secondo dà importanza solo alla struttura, cioè alle relazioni sul piano economico. Il "rapporto fondamentale economico-sociale" è la relazione tra classe operaia e borghesia, cioè lo sfruttamento della classe operaia da parte della borghesia. È vero, dice Gramsci, che questo rapporto è quello originario, cioè che alla base di tutte le relazioni sociali sta questo sfruttamento, ma non si possono ridurre tutte le relazioni sociali immediatamente e direttamente a questo rapporto originario. Una posizione così unilaterale come il sindacalismo è più primitivo dell'altra, che dà peso eccessivo alle relazioni della democrazia borghese, e però tiene in qualche modo conto del rapporto originario, cioè della contraddizione di classe.

Anche la "concezione liberale volgare" tuttavia non porta da nessuna parte. Immagina la possibilità di superare sul piano politico [della lotta politica borghese] la contraddizione di classe, cioè, in sintesi, di convincere con buoni argomenti la borghesia a smettere di sfruttare la classe operaia. Se questo accadesse, sparirebbe la divisione di classe e sparirebbe anche la borghesia come classe sfruttatrice. La pretesa della "concezione liberale volgare" quindi è di convincere la borghesia a suicidarsi in quanto classe, e questa è una forma “di ottimismo e di scempiaggine". È una forma dura a morire, comunque, e infatti oggi si mantiene in tutte quelle azioni e rivendicazioni che chiedono o pretendono dalla Repubblica Pontificia provvedimenti incompatibili con il mantenimento del suo potere, che si fonda sul mantenimento del modo di produzione capitalista e della divisione in classi. Manca a tutte quelle azioni e rivendicazioni l"ottimismo", cioè l'idea che di riforma in riforma si arriverà al socialismo, senza mai più rivoluzioni né guerre, idea che i revisionisti contrabbandarono a partire dalla metà degli anni Cinquanta, che parve vera quando le cose andavano bene, cioè nel periodo del capitalismo dal volto umano, e che si è dissolta mano a mano che è avanzata la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Oggi sia la sinistra borghese, erede della "concezione liberale volgare", sia i sindacati alternativi più o meno antagonisti, continuano a pretendere soluzioni da chi non le può dare ma avanzano pretese più con disperazione e rabbia che con un "ottimismo" che sta a zero. Chiedono per forza di inerzia. Manca loro la volontà costruttiva, la assunzione di responsabilità di governo, perché manca loro la scienza necessaria, la concezione comunista del mondo.

Sia oggi sia ieri i soggetti in questione non si curano dei "rapporti di forza" oggettivi. Scambiano per pensieri i loro desideri. Oggi come ieri sono al di qua del limite che separa lotta politica da lotta rivoluzionaria. O sono scemi, dice Gramsci, in attesa di una rivoluzione che si farà quando le loro buone ragioni saranno riconosciute, o aspettano che la rivoluzione scoppi con una rivolta delle masse popolari che travolgerà i potenti. Gramsci non condivide la concezione secondo cui la rivoluzione scoppia.

 

Questi criteri metodologici possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il loro significato se applicati all'esame di fatti storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell'esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti solo nel 1870-71, con la Comune di Parigi, si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789. Cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere [la borghesia] sconfigge i rappresentanti della vecchia società [la nobiltà e il clero] che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi [gli operai] che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principi di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al '48 (quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interessante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana - per es. per l'insurrezione di Milano del 1853 - e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un elemento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di avvenimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini) la rivoluzione è compiuta a Valmy [20.09.1792]: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro [27-28.07.1794], anzi essi parlano di più rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una rivoluzione a sé, ecc.; cfr. la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella collezione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l'opera di Napoleone offre le più aspre contraddizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc. Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale del 1914.

NOTA 7

Nella prima parte di questo paragrafo Gramsci critica l'idea secondo cui la rivoluzione scoppia, come una insurrezione delle masse popolari durante la quale una nuova classe dominante si imporrebbe, così come sono state le rivoluzioni del passato fino alla Rivoluzione Francese. I tentativi rivoluzionari successivi, tra i quali sono principali i moti del 1848 e la Comune di Parigi (il "tentativo comunalistico") basati sull'idea della rivoluzione come insurrezione, sono falliti, il che dimostra che l'idea non funziona più.

La posizione di Gramsci corrisponde a quella di Engels. “Nella Introduzione del 1895 [a Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di K. Marx, ndr] F. Engels fece il bilancio delle esperienze fino allora compiute dalla classe operaia ed espresse chiaramente la tesi che “la rivoluzione proletaria non ha la forma di un’insurrezione delle masse popolari che rovescia il governo esistente e nel corso della quale i comunisti, che partecipano ad essa assieme agli altri partiti, prendono il potere”. La rivoluzione proletaria ha la forma di un accumulo graduale delle forze attorno al partito comunista, fino ad invertire il rapporto di forza: la classe operaia deve preparare fino ad un certo punto “già all’interno della società borghese gli strumenti e le condizioni del suo potere”". (MP, p. 199) Questo accumulo graduale di forze è parte di una rivoluzione come processo che si costruisce, e si costruisce (si sviluppa) come una guerra. Si tratta quindi di una rivoluzione di forma nuova, mai vista prima, perché qui non si tratta di sostituire una classe al potere con un'altra, ma di abolire le classi. Richiede quindi la partecipazione cosciente delle masse popolari, e non il loro uso come massa di manovra da parte di una nuova classe dominante. L'accumulo delle forze è appunto incremento della partecipazione cosciente delle masse popolari, perché la società senza classi che si vuole costruire, sulla partecipazione cosciente delle masse popolari si fonda.

La rivoluzione quindi comincia prima della conquista del potere da parte della classe operaia. Non si determina per impulso esterno, per "crollo del capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni" né per "insurrezione delle masse popolari che si ribellano perché le loro condizioni sono insostenibili", ma per decisione dei comunisti, cioè del loro partito comunista. Inizia anzi con la costituzione del partito comunista, che la conduce per tutto il tempo necessario come una guerra, popolare perché richiede la partecipazione delle masse popolari, rivoluzionaria perché è rivoluzione in corso d'opera.

"La nuova classe che lotta per il potere" è la borghesia. Essa "sconfigge i rappresentanti della vecchia società", che sono le classi feudali, "ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789", cioè la classe operaia. "Dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo", o meglio dimostra di essere vincente. La borghesia cessa di essere "vitale" nell'epoca dell'imperialismo, epoca in cui può solo resistere, e anzi diventa portatrice di morte, perché il persistere del suo dominio genera distruzione. Inoltre, proprio in questa fase, per fare fronte ai "nuovissimi", in Italia si allea con "la vecchia società", cioè con il Papato.

In ogni caso più che di vittoria della borghesia dobbiamo parlare di sconfitta della classe operaia, sconfitta dovuta all'incomprensione del carattere di guerra che oppone questa classe alla borghesia, sia nel senso classico, cioè di scontro armato, ma soprattutto nel senso nuovo, cioè nel senso che la rivoluzione non è insurrezione, come dirà Engels nel passo sopra citato, e con cui Gramsci concorda, dicendo che "col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principi di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al '48 (quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interessante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana - per es. per l'insurrezione di Milano del 1853 - e se è avvenuto consapevolmente o meno)." I principi di tattica e strategia indicati sono quelli per cui la rivoluzione è intesa come insurrezione, che nel 1789 porta al potere la borghesia, ma né nel '48, né nel 1853, né nel 1870-71 porta al potere la classe operaia.

L’espressione "rivoluzione permanente" è usato qui come altrove Gramsci usa l’espressione "guerra di manovra", nel senso di rivoluzione che è, dal suo inizio alla sua conclusione vittoriosa, uno scontro militare. Una concezione della rivoluzione socialista che secondo lui non funziona, mentre quella che ci vuole in un paese imperialista è la "guerra di posizione", quella che oggi il movimento comunista chiama Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. La rivoluzione permanente è la formula che Trotzki riprende da Marx e vorrebbe trasporre nella situazione creata dalla vittoria dell’Ottobre 1917. Gramsci, nel paragrafo 68 del Quaderno 14, sostenendo la posizione di Stalin contro quella di Trotzki in materia di strategia rivoluzionaria, afferma che “le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.”

 

 

In tutti questi modi di vedere c’è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 1789-1794-1799-1804-1815-1830-1848-1870. È appunto lo studio di queste “ondate” a diversa oscillazione che permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da una parte e dall’altra tra lo svolgersi del movimento organico e quello del movimento di congiuntura della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principi metodologici enunciati all’inizio di questa nota si può trovare nella formula politico-storica di rivoluzione permanente.

Un aspetto dello stesso problema è la questione così detta dei rapporti di forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche l’espressione generica: rapporti di forza favorevoli o sfavorevoli a questa o a quella tendenza. Così, astrattamente, questa formulazione non spiega nulla o quasi nulla, perché non si fa che ripetere il fatto che si deve spiegare presentandolo una volta come fatto e una volta come legge astratta e come spiegazione. L’errore teorico consiste dunque nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come “causa storica”.

NOTA 8

L'errore teorico di cui parla Gramsci è quello di chi dichiara l'impossibilità di agire "perché il nemico è troppo forte". Nel presente, è dichiarare che un Governo di Blocco Popolare, che difenda gli interessi delle masse popolari, sarebbe bello, ma non si può fare perché "i rapporti di forza sono sfavorevoli", e con ciò restare fermi all'opposizione, in attesa che i rapporti di forza diventino favorevoli, come si aspetta, magari, la primavera, invece di chiedersi il perché oggi sono sfavorevoli, in che senso e sotto quale aspetto e come è possibile, se è possibile, trasformarli e scoprire se effettivamente lo sono, il che è giusto chiedersi, vista la tendenza al dichiararsi sconfitti prima di iniziare a combattere o per non iniziare nemmeno a combattere, comune ad opportunisti di destra e di sinistra. È sulla base di questa comprensione scientifica dei rapporti di forza che si fonda una linea, un processo di costruzione in cui i rapporti di forza diventano "favorevoli".

Un esempio ulteriore: dopo la sconfitta delle Organizzazioni Combattenti Comuniste negli anni Ottanta esponenti delle Brigate Rosse affermarono che avevano perso "perché il nemico era forte." "Abbiamo perso" è il fatto che, dice Gramsci, viene presentato. "Perché il nemico era forte" è, dice Gramsci, la "legge astratta" che viene data come spiegazione generale del fatto particolare. Questa che si contrabbanda come "spiegazione" è solo ripetizione. Nella società divisa in classi la classe dominante è tale perché è "forte", e perciò sottomette, cioè sconfigge la classe dominata, che se dovesse basarsi su una scienza del genere non dovrebbe ribellarsi mai né mai essersi ribellata. Una "scienza" del genere torna chiaramente molto comoda ai dominatori, che non a caso finanziarono pentiti e dissociati disposti a divulgarla. Ma la realtà vivente è dialettica, contraddittoria: quello che oggi è forte contemporaneamente è debole, e viceversa. Entrare in dettaglio nell'esame dei rapporti di forza a partire da questo principio è il compito dei comunisti.

 

 

 

Intanto nel “rapporto di forza” occorre distinguere diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono questi:

1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana, ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.

NOTA 9

I rapporti di forza si definiscono su un piano oggettivo, cioè sul piano economico. È un piano indipendente dalla volontà dei soggetti, cioè delle classi, dei gruppi e degli individui. L'andamento del processo economico è effettivamente misurabile tramite "scienza esatta", e infatti si può stabilire che questa è una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale e anche quando è iniziata. In base all'andamento del processo oggettivo, si definisce il raggio d'azione entro cui si estendono i rapporti di forza, cioè quanto terreno una classe può occupare a scapito dell'altra. Così nel periodo del capitalismo del volto umano la borghesia poteva cedere terreno alla classe operaia, che ottenne infatti conquiste importanti. Da quando è iniziata questa crisi, la borghesia non può più cedere terreno alla classe operaia. Questo, seguendo quello che dice Gramsci, non avviene perché i capitalisti di ieri erano più progressisti e "buoni" di quelli odierni, perché Olivetti era migliore di Marchionne, ma per ragioni oggettive indipendenti da Olivetti e Marchionne così come indipendenti da Di Vittorio e dalla Camusso.

Nello scontro tra classi questo è lo stadio della lotta rivendicativa della classe operaia, storicamente datosi a partire dalla formazione della classe fino all'inizio dell'epoca imperialista, cioè fino alla seconda metà dell'Ottocento. Con l'inizio dell'epoca imperialista, la divisione in classi inizia a diventare obsoleta, cioè sul piano oggettivo, economico si danno le condizioni per cui non sia più l'economia a guidare la politica di una società, ma che sia la politica a guidare l'economia. La stessa borghesia, la cui ragione d'essere è il profitto individuale e che piega la società intera a questo fine (in tale senso Berlusconi né è campione) ha dichiarato che la società da lei diretta deve garantire uguaglianza, libertà, fraternità, il che non può avvenire, logicamente, mantenendo la divisione in classi, perché le classi sono diverse nel senso che una sta sopra, l'altra sotto, una sfrutta, l'altra è sfruttata, una dirige, l'altra è diretta, eccetera, tutte condizioni che con l'uguaglianza di sicuro non hanno a che fare, né con libertà e fraternità (di sicuro non furono fraterne le relazioni tra classi nella Comune di Parigi, per dirne una sola)

 

2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, così come si sono manifestati finora nella storia.

Il primo e più elementare grado è quello economico-corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita l’unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo professionale, ma non ancora del gruppo sociale più vasto.

NOTA 10

Gramsci sta illustrando la storia di come si sviluppa la lotta del movimento operaio nel secolo diciannovesimo. Partiamo dalle origini: un operaio è portato istintivamente a opporsi allo sfruttamento, e lo fa prima di tutto come singolo. Questa fase originaria del movimento operaio avviene subito, ma si riproduce nei secoli, fino a oggi, con gli operai immigrati nel nostro paese, ad esempio, dove si vede come il passaggio dalla lotta come singoli a quella organizzata e collettiva non è semplice ed è combattuta dalla borghesia con ogni mezzo. Ognuno, all'inizio, pensa per sé solo, e questo individualismo originario persiste in ogni posto di lavoro, come sa ogni delegato sindacale che cerca di convincere la maggioranza o tutti i lavoratori ad aderire a un sciopero

Quando avviene il passaggio dal tentare di risolvere i propri problemi a livello individuale alla lotta per risolverli in modo collettivo si costituiscono i sindacati, che operano sul terreno rivendicativo. Le lotte rivendicative però hanno a fronte una “controparte”, come si dice in gergo sindacale moderno, organizzata come Stato: la borghesia, cui appartiene il padrone della fabbrica dove gli operai sono in lotta, ha in mano il potere politico, ragione per cui il padrone non è uno solo contro gli operai che sono tanti, ma ha con sé le forze armate che lo Stato mette a sua disposizione per reprimere la lotta nel caso questo venga ritenuto necessario. Ha giornali e vari mezzi di comunicazione magari da lui finanziati, il cui compito è generare disfattismo tra le file degli operai, fomentare altri gruppi sociali contro di loro, eccetera. Ha, in Italia, un alleato importante come la Chiesa, che magari raccomanda l'amore tra sfruttati e sfruttatori e benedice la sofferenza degli sfruttati come via per il paradiso, e così via. Gli operai, quindi, si trovano davanti un intero assetto politico, e quindi passano all'organizzarsi sul piano politico, in partiti. Nascono i primi partiti socialisti, nella seconda metà dell'Ottocento, e diventano subito grandi. Di questo Gramsci parla nei passaggi seguenti.

 

Il secondo grado è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in questo momento si pone la questione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla legislazione e all’amministrazione e magari di modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti.

NOTA 11

Gli operai organizzati in partito inizialmente richiedono vengano rispettati i loro diritti, che, cioè, la classe dominante renda effettiva la promessa di una società basata sull'uguaglianza sulla base della quale borghesi e operai si unirono per schiacciare le classi feudali nella Rivoluzione francese. Richiedono di essere trattati da uguali, e quindi rivendicano un posto nei Parlamenti e nelle varie assemblee elettive a livello locale, nelle amministrazioni politiche locali. Loro scopo è operare in queste istituzioni per migliorare la loro condizione economica, prima di tutto: garanzie del posto di lavoro, salari equi, riduzione dell'orario di lavoro, eccetera.

 

Il terzo grado è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati.

NOTA 12

Qui gli operai comprendono che “ne´ la lotta economica ne´ la lotta politica per le riforme possono liberare la classe operaia dalla miseria della sua condizione. La stessa lotta per una ripartizione meno ineguale delle ricchezze può svilupparsi con successo su larga scala solo se si combina ed è guidata dalla lotta per instaurare un sistema di produzione comunista e quindi un ordinamento generale comunista della società.”(8) Gli operai, quindi, partiti per difendere il loro lavoro e il loro salario, comprendono e dichiarano che la loro lotta è la lotta per gli interessi di tutti. Quanto tale passaggio sia complesso e da rinnovare è chiaro considerando il presente, e le posizioni di un Cofferati, che dichiara la lotta dei lavoratori genovesi del trasporto urbano come cosa che interessa solo loro e non il paese, posizioni riprese dai sindacalisti che hanno chiuso la lotta dichiarando lo stesso. Landini, ogni volta che ripete il suo mantra dichiarandosi “solo un sindacalista, e non un politico”, sta sullo stesso piano dal punto di vista ideologico, cioè su questo piano non si distingue affatto dai sindacati di regime cui appartiene.

 

8. MP. p. 26.

 

Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le questioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati.

NOTA 13

Contro l'ennesimo tradimento dei sindacati di regime molte forze politiche e sindacali si ribellano, ma la loro opposizione e rabbia non produce effetti. Si tratta infatti di posizioni economiciste e spontaneiste, attendenti rivoluzioni che scoppiano, di chi non ha ancora compreso o si rifiuta di comprendere che la rivoluzione si costruisce, il che è esposto da Gramsci nel passaggio che precede. Ci vuole, innanzitutto, che le ideologie che sono state elaborate (“le ideologie germinate precedentemente”) diventino partito, e lo diventano non tramite confronti accademici, convegni, tentativi di coordinamento, tentativi di rimettere insieme i frantumi di vecchi partiti, ma tramite una lotta in cui “una sola” di esse prevale, o “una sola combinazione” a patto che sia combinazione organica, derivata da una lotta, non risultato di un accomodamento tra amici vecchi o nuovi. Infatti “la verità è una sola, le narrazioni di fantasia si possono moltiplicare all'infinito”.(9) Questo partito si espande e si impone e non solo e non più lottando solo sul piano economico e politico, ma su tutti i piani, incluso quello intellettuale e morale. Questa è la rivoluzione che si costruisce, e la conquista di terreno non è semplicemente difesa del posto di lavoro, del salario, del bene comune, dell'ambiente, ma conquista della mente e del cuore delle masse popolari, ed è una forma di guerra, dove il vincere è (anche) convincere. E non è, poi, solo riforma intellettuale e morale dove i rivoluzionari, i comunisti, vanno dalle masse a portare la loro “verità unica”, ma è riforma intellettuale e morale di loro stessi, perché loro stessi devono cambiare radicalmente, elaborare idee e sentimenti nuovi e in base a questi, coerentemente, organizzare la propria vita, e questi usare come strumenti di trasformazione rivoluzionaria della realtà. Questo è il “piano universale” che Gramsci indica come campo di battaglia dove un “gruppo sociale fondamentale” cioè la classe operaia o la borghesia, si impone portando dalla sua parte altri “gruppi subordinati”, convinti a stare da una parte o dall'altra e quindi a determinare la vittoria di una delle due parti.

 

9. La Voce del (nuovo)PCI, n. 43, marzo 2013, p. 25 e in www.nuovopci.it/voce/voce43/pceoper.html .

 

Lo Stato è concepito sì come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente, per così dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali (orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei, ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali», la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d’uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato dall’esistenza nell’interno di ogni Stato di parecchie sezioni territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (così la Vandea era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità territoriale francese; così Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo particolare di rapporti, ecc.).

NOTA 14

Quello che Gramsci anticipa qui e di cui scrivo nella nota precedente è sviluppo di rivoluzione come guerra, ma guerra di forma nuova, che in altri paesi, cioè al lato opposto del pianeta, in Cina, già è più chiaramente comprensibile come guerra, perché là è già scontro armato. È la Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata che comincia a svilupparsi con la Lunga Marcia iniziata mentre Gramsci sta scrivendo questo testo. Nei paesi imperialisti questa guerra inizia prima di diventare scontro armato: inizia con la costituzione del partito comunista ed è preceduta da un periodo di accumulazione delle forze necessarie ad affrontare lo scontro militare vero e proprio in condizioni tali da poterlo vincere.

Lo scontro militare vero e proprio è comunque previsto, e infatti si determinerà anche in Italia, nonostante che i termini in cui il processo si svolge siano ignoti ai dirigenti del PCI in libertà e anzi a tutta la direzione del Partito con l'esclusione di Gramsci, che sta dando anticipazioni importantissime, che non saranno colte dagli altri membri del Partito né allora né dopo, e che cogliamo solo oggi. Il fatto che il processo non sia stato compreso dal primo PCI e che tuttavia il primo PCI lo abbia in qualche modo condotto alla cieca, è segno del carattere oggettivo del processo, della sua verità. Lo scontro militare previsto è la Resistenza, di cui il PCI prenderà la direzione, conducendo le masse popolari alla vittoria, segnando un punto discriminante nella storia d'Italia, punto che è riconosciuto come discriminante nelle idee e nei sentimenti delle masse popolari italiane.

Il PCI dopo la Resistenza comincerà una lenta marcia indietro che inizia con l'affermazione dei revisionisti moderni nel Partito dalla metà degli anni '50 in poi, marcia che comporta, tra le altre cose, un lento tradimento della Resistenza inclusivo della falsificazione dell'opera di Gramsci, il quale parlava sì di accumulazione delle forze, ma mirata a un confronto militare da vincere, e non a una vittoria “di riforma in riforma”, senza più guerre né rivoluzioni, come iniziarono a dire Togliatti e i suoi successori, mandando in putrefazione il partito e la sua scienza con gli effetti visibili oggi in un personaggio come Napolitano, attivo in questo processo di putrescenza fino dai suoi inizi. Gramsci parla chiaramente dello scontro cui prepararsi nel passaggio seguente.

 

3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso distinguere due gradi: quello militare in senso stretto o tecnico-militare e il grado che si può chiamare politico-militare.

NOTA 15

Precisa subito che il momento dello scontro militare non esclude lo scontro politico, che anzi resta principale. Questo nella Resistenza si espresse organizzativamente come presenza di un commissario politico accanto al capo militare nelle unità partigiane. La relazione tra piano politico e piano militare è da definire con precisione. L'errore di porre come principale il piano militare distrugge l'organizzazione rivoluzionaria, cosa che accadde alle Organizzazioni Comuniste Combattenti degli anni Settanta in Italia. Anche le Brigate Rosse, partite con il proposito che la propaganda armata era lo strumento per costruire il Partito Comunista, finirono per adottare la concezione dello scontro militare in cui l’OCC sostituiva le masse popolari.

 

Nello sviluppo della storia questi due gradi si sono presentati in una grande varietà di combinazioni. Un esempio tipico che può servire come dimostrazione-limite, è quello del rapporto di oppressione militare di uno Stato su una nazione che cerca di raggiungere la sua indipendenza statale. Il rapporto non è puramente militare, ma politico-militare e infatti un tale tipo di oppressione sarebbe inspiegabile senza lo stato di disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività della sua maggioranza; pertanto l’indipendenza non potrà essere raggiunta con forze puramente militari, ma militari e politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti, per iniziare la lotta d’indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare un proprio esercito nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può avvenire che la rivendicazione di avere un proprio esercito sia soddisfatta dalla nazione egemone, ma ciò significa che già una gran parte della lotta è stata combattuta e vinta sul terreno politico-militare). La nazione oppressa opporrà dunque inizialmente alla forza militare egemone una forza che è solo «politico-militare», cioè opporrà una forma di azione politica che abbia la virtù di determinare riflessi di carattere militare nel senso: 1) che abbia efficacia di disgregare intimamente l’efficienza bellica della nazione egemone; 2) che costringa la forza militare egemone a diluirsi e disperdersi in un grande territorio, annullandone gran parte dell’efficienza bellica.  

NOTA 16

Questo è appunto quello che stava facendo il Partito Comunista Cinese guidato da Mao Tse tung in quegli anni. L'Esercito Rosso, in condizioni estremamente inferiori sia a quello dei nazionalisti cinesi sia a quello degli invasori giapponesi, agiva ponendosi come alternativa politica al dominio dei nazionalisti e all'oppressione degli invasori, rispondeva a ogni “campagna di accerchiamento e annientamento” generale del nemico con molte “campagne di accerchiamento e annientamento”, cioè impegnando il nemico, isolandone distaccamenti (all'avanguardia o alla retroguardia, ad esempio), accerchiandoli e distruggendoli, e così seminando disgregazione tra le truppe nemiche. Il precetto era il seguente: se sei solo e hai a che fare con due nemici, feriscine uno e fuggi, e quando l'altro ti inseguirà affrontalo e finiscilo, quindi torna indietro per sistemare quello ferito.

 

Nel Risorgimento italiano si può notare l’assenza disastrosa di una direzione politico-militare specialmente nel Partito d’Azione (per congenita incapacità), ma anche nel partito piemontese-moderato, sia prima che dopo il 1848. Non certo per incapacità ma per «maltusianismo economico-politico», cioè perché non si volle neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si tendeva solo a che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la pura sanzione di plebisciti regionali.

NOTA 17

Qui si considera che la sinistra della borghesia italiana non poteva né avrebbe potuto mai combinare il nesso tra politica e guerra necessario, e gli esiti insurrezionalistici dei mazziniani sono testimonianza di questa incapacità. Quanto a Garibaldi, la sua avventura militare si concluse con la consegna del territorio conquistato alla destra impersonata dai dirigenti piemontesi. La base necessaria di questo nesso, cioè l'alleanza con i contadini, non era affatto prevista né da Mazzini né tantomeno da Garibaldi, che a fronte delle rivendicazioni dei contadini si comportò come una normale forza di repressione al servizio della borghesia: Bronte, in Sicilia, è la manifestazione più nota. Nemmeno la destra però poteva farlo, perché nemmeno essa poteva organizzare un'alleanza con i contadini, perché la borghesia italiana si era sviluppata nei secoli come classe sfruttatrice principalmente dei contadini, e tale era ancora nella fase del cosiddetto Risorgimento. Il Brigantaggio fu la manifestazione su larga scala del rifiuto della borghesia italiana di condurre a fondo la rivoluzione borghese e della sua conciliazione con la nobiltà e la Chiesa.

 

 

Altra questione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche.

NOTA 18

Qui Gramsci torna a parlare a quelli che aspettano la rivoluzione che scoppia automaticamente quando si verifica la crisi. Nel senso comune, questa posizione politica la ritroviamo costantemente espressa in chi mostra il suo disprezzo per le masse popolari italiane che non si ribellano perché, secondo loro, “stanno ancora troppo bene”, il che spesso è giudizio dichiarato da chi nemmeno si ribella perché aspetta che lo facciano le masse popolari, che quindi non fa niente perché continuino a “stare bene” ma anzi il suo principio è il “tanto peggio tanto meglio”. Il fatto che spesso questi siano giudizi espressi da chi non solo “sta bene” ma sta meglio della media delle masse popolari e da questo pulpito predica, rende questi soggetti particolarmente odiosi a tutti.

 

La risposta alla questione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove sono trattate questioni che sono un altro modo di presentare quella ora trattata. Tuttavia è sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa questione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale.

NOTA 19

Le crisi, dice Gramsci, offrono solo terreno favorevole alla diffusione della ideologia rivoluzionaria che, nel contesto suo e nostro, significa affermazione del partito comunista, conquista della mente e del cuore delle masse popolari, costruzione della rivoluzione, sviluppo della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata: modi diversi per indicare un processo che è tutto fuorché meccanico, dato che prima deve essere compreso, che la sua stessa comprensione è una lotta, come dimostrato dal fatto che chiamare guerra quella che stiamo conducendo, qui e ora risulta strano alla gran parte di chi ci ascolta, e sarà indubbiamente considerato “delirante” da tutta una congerie di politici e intellettuali, inclusi quelli che si guadagnano il pane come “specialisti del pensiero gramsciano”.

 

Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente “trova” una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr l’affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale crisi finanziaria e si poneva la questione su quale dei tre ordini sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifici e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e della Corte. Inoltre: se la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell’equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al “prestigio” di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. La questione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della questione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si può dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell’insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo.

NOTA 20

Non è il peggioramento delle condizioni delle masse popolari, quindi, che genera il processo rivoluzionario. Il processo rivoluzionario si svolge sul campo di battaglia determinato da condizioni oggettive (la crisi economica) ma è determinato da condizioni soggettive, cioè dalla direzione degli eserciti in campo uno contro l'altro. E di guerra si tratta che va verso il “rapporto  militare decisivo”, infatti.

Se manca la direzione rivoluzionaria, nessuna rivoluzione avviene.

 

Se manca questo processo di sviluppo da un momento al successivo, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contraddittorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di “respiro”, sterminando fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera.

NOTA 21

Se manca la direzione rivoluzionaria, le masse popolari restano ferme in attesa di ordini, e in questo periodo il nemico organizza la controffensiva. Se il Partito Socialista non raccoglie l'appello alla mobilitazione nazionale degli operai nelle fabbriche a Torino, nel momento culminante del Biennio Rosso, lo Stato si riorganizza, aspetta che la mobilitazione operaia si esaurisca, e la borghesia organizza la reazione fascista. È esemplare il caso della Richard Ginori di Sesto, dove nel 1922 lo sciopero di settanta giorni degli operai viene condotto verso la sconfitta dalla CGIL e dove, dopo pochi mesi, i fascisti si insediano al potere nel Comune, cacciando i socialisti che erano al governo da 23 anni.

 

Ma l’osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato), ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà.

NOTA 22

Questo è un altro messaggio chiaro agli attendisti della rivoluzione che scoppia e ai fautori del “tanto peggio tanto meglio”. Ogni esame, studio, convegno, seminario che facciamo va benissimo, ma solo per decidere come intervenire, come agire.

 

Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini, ecc.

NOTA 23

Il nostro studio ha da essere politico-militare. “Punti di minore resistenza”, “operazioni tattiche immediate”, e una “campagna” di agitazione politica, ecco una serie di termini in cui è chiaro che di guerra stiamo trattando. Chiaro non lo è solo a chi è in malafede, o a chi è un ingenuo pericoloso. Il primo sosterrà che realizzeremo i nostri interessi e le nostre aspirazioni con la discussione “democratica”, o con la lotta rivendicativa. Il secondo è convinto che il primo sta dicendo una cosa vera.

 

L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo). Perciò il compito essenziale è quello di dedicarci sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza. Ciò si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché c’era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in esse.

NOTA 24

La conclusione è chiara. Ci vuole una “forza permanentemente organizzata”, cioè un partito comunista, e “predisposta di lunga mano”, cioè costruita lungo una arco di tempo prolungato, formata non solo organizzativamente ma ideologicamente. Il nostro “compito essenziale è quello di dedicarci sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza”. Questa affermazione non ha alcun bisogno di essere spiegata. Va applicata concretamente. È quello che sta facendo la carovana del (nuovo)PCI da quando si è costituita e in maniera sempre più scientifica e sempre più “piena di ardore combattivo”. E in questo il compagno Antonio Gramsci vive.

Questa forza avanza quando il terreno è favorevole, ma il fatto che il terreno sia favorevole è dato dall'esistenza di questa forza, ci comunica questo nostro compagno. E il (nuovo)PCI dice, a mezzo secolo di distanza, che “dipende da noi”, il che è lo stesso, o meglio lo stesso non è, perché i decenni non passano invano. Infatti oggi possiamo raccogliere l'eredità di Antonio Gramsci mettendola a frutto, così come faccio qui spiegando sulla base di questo testo (così come è possibile farlo sulla base di decine di altri testi) che la rivoluzione, secondo lui, si costruisce come una Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata.

Soprattutto, poi, questa che portiamo non è una ennesima interpretazione dell'opera di Gramsci da mettere sul banco del mercato nazionale o internazionale: un altro “quello che ha veramente detto Antonio Gramsci”, o un altro “Antonio Gramsci secondo noi o secondo lui”. Questo è uno strumento di lotta per realizzare l'opera che Antonio Gramsci ha iniziato, guida della nostra azione. Quindi il nostro lavoro non è ripetizione del suo, ma sviluppo, e soprattutto passaggio dalla teoria alla pratica, cioè opera per fare dell'Italia un nuovo paese socialista.

 

 

 

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La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

Bisogna imparare a pensare - Per vedere, bisogna avere occhi e cervello

 

Come si fa a trasformare la società borghese nella società comunista? La soluzione del problema è nella realtà che ci circonda, il capo da afferrare per sgrovigliare l’intera matassa è sotto i nostri occhi, la soluzione concreta di ogni problema concreto è nella stessa situazione concreta: ma bisogna scoprirla. Per vedere una cosa, non basta che la cosa ci sia: bisogna anche che noi abbiamo occhi e cervello per distinguerla dal resto, la pazienza e la capacità di cercarla fino a scoprirla. Un botanico vede in un bosco cose che un ignorante non vede. Per usare un utensile, non basta che l’utensile ci sia: bisogna anche che noi sappiamo cosa è e cosa farne. Un selvaggio che si imbattesse in una bomba a mano non saprebbe farne di più di quello che fa con un sasso. Per analizzare la composizione chimica di un oggetto, per trasformarlo sottoponendolo a un processo chimico, bisogna conoscere la chimica. Per risolvere il problema particolare, bisogna conoscere il generale. Pensare è un’arte che si impara. La costruzione del partito comunista consiste nel costituire un organismo composto di individui capaci di vedere l’utensile che abbiamo sottomano e legati tra loro da relazioni che rendono l’organismo capace di usarlo.

Le forze elettromagnetiche esistevano ben prima che gli uomini comparissero sulla Terra ma gli uomini solo dopo millenni di storia sono arrivati a capirlo. Questo ed altro potremmo citare per illustrare la situazione in cui noi comunisti ci troviamo e i compiti che ci dobbiamo assumere. I presupposti del comunismo sono nella nostra società, gli strumenti per trasformare la società sono nel nostro sistema di relazioni sociali. Ma non si impara spontaneamente a vederli. Nessuna scuola borghese e clericale lo insegna. La cultura borghese ci presenta la realtà come un insieme caotico. La cultura clericale come un insieme retto da leggi fisse. Bisogna che ci diamo lo strumento per vedere (la concezione comunista del mondo) e che impariamo a distinguere e a usare quello che nella realtà già c’è. Non è un caso che tesi comune di Silvio Berlusconi, Letizia Moratti, Luigi Berlinguer e “tutti quanti” (Processo di Bologna - Spazio europeo dell’istruzione superiore, 1999) è che nelle scuole e università non si deve insegnare a pensare, ma insegnare un mestiere. Non è un caso che la borghesia e il clero da un secolo a questa parte hanno sempre più ostacolato la comprensione scientifica della storia e della società umana: da quando essa ha mostrato la fine della loro ragion d’essere, che la loro persistenza danneggia la specie umana. Le classi dominanti hanno sempre escluso dalla conoscenza le classi oppresse: dovevano impegnare tutta la loro energia e il loro tempo a produrre quanto la società umana consumava. Oggi la loro esclusione fa a pugni con la potenza delle forze produttive. Escluderle è diventato un’impresa a cui la borghesia dedica enormi risorse: una enorme macchina di distrazione di massa, di confusione e di intossicazione è all’opera nei paesi imperialisti. Tanto maggiore quindi è lo sforzo controcorrente che chi vuole diventare comunista deve fare per imparare a pensare, per darsi i mezzi per vedere quello che nella realtà c’è e imparare a usarlo.

Per questo nel Partito comunista abbiamo inalberato le due parole d’ordine “chi non studia non può dirigere” e “chi non elabora non può dirigere”.

Queste due parole d’ordine vanno intese nel senso che “per dirigere bisogna studiare” e che “chi studia deve dirigere”; nel senso che “per dirigere bisogna elaborare” e che “chi elabora deve dirigere”. Quanto bene e con profitto un compagno studia e quanto bene elabora, lo si verifica dalla direzione che fa, anche da quanto riesce ad accendere negli altri la passione per conoscere. Non vanno intese nel senso che dobbiamo gettare fuori dai ranghi e dagli organismi dirigenti chi non studia e chi non elabora. La sinistra deve dirigere, non espellere la destra. La destra va espulsa solo se si oppone attivamente, se intralcia, se sabota o boicotta. Anche la sua capacità di dirigere e trasformare distingue la sinistra dalla destra.