La Voce 51

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVII - novembre 2015

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La rivoluzione socialista non scoppia

La strategia della rivoluzione socialista e la Rivoluzione d’Ottobre

Due sono le principali deformazioni della storia della rivoluzione russa, correnti nella storiografia e nella saggistica borghesi, pedissequamente imitate dalla gran parte degli intellettuali della sinistra borghese.

La prima consiste nel considerare la storia della rivoluzione russa come un tutto unico, dal 1917 allo sfascio del 1991, etichettato sotto il nome di “socialismo reale” ignorando, trascurando, occultando la svolta decisiva del 1956, dalla dittatura del proletariato che aveva condotto ai grandi successi della costruzione del socialismo all’interno e della prima ondata della rivoluzione proletaria a livello internazionale, alla dittatura borghese prima dei seguaci di Krusciov e poi dei seguaci di Breznev che avviarono un periodo di rallentamento e di declino che portò alla sfascio del 1991.

Di questa mistificazione abbiamo più volte e in dettaglio trattato sia in Rapporti Sociali (tra i tanti articoli indico Sull’esperienza storica dei paesi socialisti RS 9, novembre 1991 pagg. 11-26 dove vengono illustrate le tre fasi in cui bisogna dividere la storia dei paesi socialisti creati nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale per capirne il senso), sia in La Voce (tra i tanti, l’articolo La seconda fase dei primi paesi socialisti, La Voce 22, marzo 2006 pagg. 25-35), oltre che nel nostro Manifesto Programma cap. 1.7.

La seconda consiste nella riduzione della rivoluzione russa all’insurrezione del 7 novembre 1917. È alla confutazione di questa deformazione della storia della rivoluzione russa che dedico queste righe.

Concepire la Rivoluzione d’Ottobre come qualcosa che è avvenuto il 25 ottobre (calendario giuliano) 1917 è un travisamento della rivoluzione russa e dell’opera del Partito di Lenin e di Stalin per adattarla alle categorie del bagaglio teorico della II Internazionale. Infatti se lo consideriamo sul piano teorico, esso è il risultato di una concezione filosofica metafisica, antidialettica dello sviluppo della società, secondo la quale le rivoluzioni sono eventi che scoppiano: tali infatti esse appaiono a chi non vede il lavorio compiuto nell’epoca che precede il rovesciamento del vecchio potere, il salto di qualità. Considerato sul piano politico è la giustificazione della politica attendista di chi si professa a favore della socialismo ma non lotta per instaurarlo.

Nella realtà l’assalto al Palazzo d’Inverno, lo scioglimento del Governo Provvisorio costituito nel febbraio 1917 dalla borghesia russa dopo il rovesciamento dello zarismo e l’instaurazione a Pietrogrado del primo governo sovietico, furono solo un tornante di grandissima importanza, ma solo un tornante della rivoluzione russa che sulle macerie dell’Impero zarista ha creato l’Unione Sovietica e ha sollevato nel mondo la prima ondata della rivoluzione proletaria, l’epopea del secolo XX che ha trasformato il mondo intero.

Deformare la rivoluzione russa, ridurla all’insurrezione del 7 novembre (calendario gregoriano), è ancora oggi pratica diffusa tra quelli che nei paesi imperialisti tuttavia si dichiarano comunisti, eredi dei vecchi partiti della Internazionale Comunista che non hanno instaurato il socialismo nel loro paese e nascondevano la loro impotenza dietro l’attesa che la rivoluzione socialista scoppiasse. Anche i denigratori del movimento comunista, dalla destra più reazionaria alla sinistra borghese, quando parlano della rivoluzione russa hanno accolto e usano questa deformazione che si presta bene alle loro manipolazioni della storia.

L’idea che anche la rivoluzione socialista sarebbe scoppiata era del resto largamente diffusa in tutto il movimento comunista. Era spesso addirittura veicolata in nome del materialismo storico.

Secondo il materialismo storico le relazioni politiche e l’ordinamento politico di un paese sono per forza di cose conseguenti al sistema dei rapporti di produzione, al suo ordinamento economico: fanno parte della sovrastruttura di un  sistema di relazioni sociali di cui il sistema economico è la struttura portante. La volgarizzazione del materialismo storico, ossia la versione del materialismo storico scisso dalla concezione dialettica, diceva che la trasformazione dei rapporti economici avrebbe portato le cose a un punto tale che il vecchio ordinamento politico sarebbe scoppiato come un involucro diventato troppo stretto, una pentola in cui la pressione era salita troppo e che dopo lo scoppio sarebbe comparso il nuovo ordinamento politico, come in un serpente appare la pelle nuova quando la vecchia si squama.

La concezione della rivoluzione che scoppia si adattava bene alla concezione e all’attività di tutti gli opportunisti e riformisti: si conciliava bene con un’attività politica condotta a naso, secondo il senso comune e cogliendo le opportunità di migliorare le condizioni delle masse quando la situazione le presentava. Si adattava bene alla concezione e all’attività di tutti i ribelli e gli avventurieri: si conciliava infatti con una lotta condotta alla cieca, cercando di contrapporre slancio ed eroismo alle forze e alla repressione delle classi dominanti.

Conveniva a tutti quelli che non riuscivano a vedere nella società forme di avvicinamento al nuovo sistema politico, forme di transizione dal vecchio al nuovo sistema politico. Solo il materialismo dialettico permette di vedere e di costruire in campo politico come in ogni altro campo le forme di transizione da un vecchio stato al nuovo. I vecchi partiti comunisti sul piano filosofico avevano mantenuto una concezione metafisica: la loro politica lo mostra e conferma. Anche quelli che propagandavano e veneravano le dottrine dei fondatori e dei campioni del movimento comunista, conducevano la loro attività politica secondo il senso comune, puntavano all’aumento quantitativo delle forme e manifestazioni di opposizione esistenti, certi o speranzosi che prima o poi la rivoluzione sarebbe scoppiata. Secondo la loro concezione l’attività politica dipendeva dalla trasformazione dei rapporti economici, non era un’attività retta da proprie leggi da studiare e secondo le quali agire, non era una realtà da studiare secondo i principi del materialismo dialettico, da trasformare seguendo linee dettate dal materialismo dialettico. Tra l’ordinamento politico borghese e l’ordinamento politico socialista i riformisti vedevano solo la continuità, confondevano le acque. I rivoluzionari con una concezione metafisica vedevano solo la rottura: dittatura della borghesia o dittatura del proletariato. I comunisti sono materialisti dialettici: vedono e costruiscono le forme, i passaggi per cui una classe sostituisce il proprio potere a quello della classe antagonista: vedono la continuità e la rottura, il salto.

Contro la concezione della rivoluzione socialista come un evento che sarebbe esploso aveva scritto Engels nella sua Introduzione del marzo 1895 alla prima edizione della raccolta di articoli di Marx Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Da questa Introduzione abbiamo preso spunto nel lontano 1995, in occasione del centenario della morte di Engels, nell’opuscolo Federico Engels, 10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, per illustrare la tesi che la strategia della rivoluzione socialista era la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.

Alla fine del secolo XIX, nella Seconda Internazionale la presa di posizione di Engels era rimasta senza eco, soffocata dai suoi stessi destinatari, i dirigenti del Partito tedesco Wilhelm Liebnecht e Karl Kautsky. Essi mutilarono e deformarono il testo di Engels che infatti fu pubblicato integralmente per la prima volta nel 1934 in Unione Sovietica.

In realtà Lenin e i suoi avevano rotto con la concezione metafisica dell’attività politica, con la concezione che la rivoluzione socialista sarebbe scoppiata. Una volta create le condizioni oggettive del socialismo, l’affermazione del socialismo diventava principalmente una questione di lotta politica e per vincere i comunisti dovevano condurre la lotta in campo politico secondo le sue proprie leggi. Ma Lenin e il partito bolscevico non condussero apertamente, nel campo della teoria, la lotta contro la vecchia concezione predominante nei partiti e tra i dirigenti della Seconda Internazionale a proposito della strategia della rivoluzione socialista, della forma della rivoluzione socialista. Troppa era la soggezione intellettuale e sentimentale dei comunisti dell’arretrato, semifeudale impero russo ai comunisti europei e in particolare ai tedeschi, per rendersi conto della necessità di una simile lotta.

La sua necessità divenne palese solo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando ci si rese conto che contro tutte le attese nessuna rivoluzione socialista scoppiava in Occidente. L’Internazionale Comunista lanciò allora (V Congresso - 1924)  la bolscevizzazione dei partiti comunisti, che Lenin aveva preannunciato a grandi linee già nella sua relazione al IV Congresso dell’IC, letta nella seduta plenaria del Congresso il 13 novembre 1922: “I compagni stranieri devono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non lo so. Forse i fascisti in Italia [che il 22 ottobre avevano fatto la “marcia su Roma” e costituito un nuovo governo, ndr], ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora abbastanza garantito contro i centoneri. Forse questo sarà molto utile. Anche noi russi dobbiamo cercare i mezzi di spiegare agli stranieri le basi di questa risoluzione [si tratta della risoluzione Tesi sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti, sui metodi e il contenuto del loro lavoro, approvata il 12 luglio 1921 nel precedente III Congresso dell’IC, ndr]. Altrimenti essi non saranno assolutamente in grado di applicarla. Sono persuaso che a questo riguardo dobbiamo dire non soltanto ai compagni russi, ma anche ai compagni stranieri, che nel prossimo periodo l’essenziale è lo studio. Noi studiamo nel senso generale della parola. Essi invece debbono studiare in un senso particolare, per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario. Se questo sarà fatto, sono convinto che le prospettive della rivoluzione mondiale saranno non soltanto buone, ma eccellenti” (Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale, in Opere vol. 33).

Che la bolscevizzazione non abbia avuto nei partiti comunisti dei paesi imperialisti l’effetto sperato è notorio e ne abbiamo spesso parlato, trattando dei motivi per cui nessun partito comunista dei paesi imperialisti ha instaurato il socialismo. I tentativi fatti in questo campo da A. Gramsci furono abbandonati dopo il suo arresto alla fine del 1926.

Ritornando alla pratica della rivoluzione in Russia, non vi è tuttavia dubbio che a Lenin, a Stalin e alla sinistra dei comunisti russi (quelli che non esitarono ad assumere il potere a Pietroburgo nell’autunno 1917 e non esitarono a condurre l’Unione Sovietica ad assumere poi, quando fu evidente che in Europa non scoppiava alcuna rivoluzione socialista, il ruolo di base rossa mondiale della rivoluzione costruendo “il socialismo in un paese solo”) era chiaro che la rivoluzione in Russia non era affatto scoppiata, ma era stata costruita dai comunisti con un accurato lavoro durato anni e guidato dalla concezione comunista del mondo.

Scriveva Lenin nel 1908: “Noi abbiamo saputo lavorare per lunghi anni prima della rivoluzione [del 1905, culminata nell’insurrezione armata del dicembre a Mosca, ndr]. Non a caso ci hanno chiamato uomini di granito. I socialdemocratici [socialdemocratici fino al 1919 si chiamavano tutti i partiti e membri del movimento comunista, ndr] hanno formato un partito proletario che non si lascerà abbattere per l’insuccesso di un primo assalto militare, non perderà la testa e non si lancerà in avventure” (Note politiche, 23 febbraio 1908 in Opere vol. 13).

E ad anni di distanza, nel 1921, ancora scriveva: “La borghesia ritiene giustamente che le “forze” reali della “classe operaia” sono oggi costituite dalla potente avanguardia di questa classe (il Partito comunista russo, che non di colpo, ma nel corso di venticinque anni [Lenin indica quindi come data di avvio della rivoluzione russa il 1898, l’anno della fondazione del Partito Socialdemocratico di Russia che elesse un CC che venne subito dopo arrestato al completo e “non era più stato ricostituito, poiché non c’era nessuno che si potesse accingere a questo lavoro”, scriverà anni dopo Stalin. Ma Lenin avrebbe potuto con pari ragione indicare come data di inizio della rivoluzione russa il 1883, l’anno della fondazione del gruppo Emancipazione del Lavoro, che introdusse il marxismo in Russia, ndr], si è conquistato con i fatti la funzione, la forza e il titolo di “avanguardia” dell’unica classe rivoluzionaria) e poi dagli elementi che il declassamento ha maggiormente indebolito e che sono più suscettibili di cadere nelle oscillazioni mensceviche ed anarchiche.” (Tempi nuovi, errori vecchi in forma nuova, 28 agosto 1921 in Opere vol. 33). Che la rivoluzione russa sia continuata negli anni successivi all’Ottobre è scontato per tutti quelli che conoscono la storia della prima ondata della rivoluzione proletaria.

La concezione affermata nel nostro Manifesto Programma (capitolo 3.3) che la guerra popolare rivoluzionaria è la forma della rivoluzione socialista nel nostro paese è l’applicazione al nostro paese di uno dei sei principali apporti del  maoismo (L’ottava discriminante in La Voce 10 - marzo 2002 e La Voce 41 - luglio 2012) al patrimonio teorico del movimento comunista, ma rispecchia completamente l’esperienza della prima ondata e in particolare della Rivoluzione d’Ottobre.

Umberto C.