La Voce 28 - marzo 2008

04.03 - Le leggi secondo il materialismo dialettico
Manchette di pagina 60

Problemi di strategia
mercoledì 5 marzo 2008.
 

(dal Manifesto Programma del (n)PCI)

Come le leggi delle scienze naturali, anche le leggi delle scienze sociali vanno intese nel senso del materialismo dialettico. Ogni legge, considerata da sola, è un’astrazione, considera un aspetto della realtà in modo unilaterale, lo separa dagli altri a cui invece nella realtà concreta è indissolubilmente connesso. Essa considera il fenomeno quale si cerca di riprodurlo negli esperimenti di laboratorio, escludendo cioè l’interferenza dei molteplici fattori che nella realtà condizionano il suo svolgimento. Considerata da sola, alla maniera in cui la considerano i metafisici, ogni legge, anche la legge della gravitazione universale, è smentita dalla realtà: molti corpi del nostro universo restano distanti tra loro benché si attirino da tempo immemorabile. È impossibile conoscere la realtà senza analizzarla, senza separare l’uno dall’altro i suoi vari aspetti. È impossibile formulare e considerare le sue leggi senza astrarre dal contesto. Ogni legge indica la relazione che intercorre tra due termini “a parità di altre condizioni”. Ogni legge (prendiamo ad esempio la legge della pauperizzazione crescente degli operai nel capitalismo) è quindi un’astrazione che noi dobbiamo fare per conoscere la realtà. Nella realtà nessuna legge agisce da sola, incontrastata. Una legge che nella realtà potesse agire incontrastata, avrebbe da tempo esaurito il suo ruolo. Ogni legge è vigente proprio perché la sua azione è contrastata da altre leggi, che spingono la realtà in senso opposto, proprio perché non si realizza in modo assoluto. Nella realtà naturale e sociale, ogni legge agisce combinata con altre, che ne contrastano l’azione. Nella ricerca scientifica, per dimostrare una legge, si creano in laboratorio condizioni artificiose, in cui si elimina in tutto o in parte l’influenza delle leggi che nella realtà contrastano l’azione di quella che si vuole mettere in evidenza. Per sua natura il capitalismo spinge all’impoverimento crescente degli operai. Infatti, a parità di altre condizioni, ogni capitalista quanto meno paga i suoi operai tanto maggiori profitti intasca e tanto più facilmente fa le scarpe ai capitalisti suoi concorrenti. A chi nega questa legge, molti fenomeni della storia degli ultimi tre secoli restano misteriosi e per spiegarli deve ricorrere a forze occulte. Ma a questa legge si oppone la lotta della classe operaia e si oppongono persino le lotte di altre classi (non a caso è esistito - vedi Manifesto del partito comunista , 1848 - un “socialismo feudale”, un “socialismo conservatore borghese” e vari altri movimenti che hanno contrastato l’azione della legge della pauperizzazione crescente della classe operaia). Nella prima parte del secolo XX la classe operaia dei paesi imperialisti con la sua lotta e grazie al più generale sviluppo del movimento comunista ha strappato alla borghesia molti miglioramenti (riduzione del tempo di lavoro, legislazione del lavoro, previdenza sociale, assicurazioni e assistenza pubblica, miglioramenti salariali, servizi pubblici, ecc.). La borghesia cerca di limitare o liquidare ognuna di queste conquiste ogni volta che i rapporti di forza le sono favorevoli, come sta succedendo dalla metà degli anni ‘70 in qua. Questa come tutte le altre leggi del modo di produzione capitalista messe in luce da Marx sono state confermate dalla storia, a condizione che le si consideri e si consideri la storia secondo la concezione del materialismo dialettico.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Il socialismo e i contadini (1905), in Opere vol. 9.

Umberto C., L’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti (2005), in La Voce n. 21.