La Voce 28 - marzo 2008

03.09 - Il dibattito franco e aperto, condotto seguendo il centralismo democratico è la linfa del Partito!

Problemi di metodo
mercoledì 5 marzo 2008.
 
Il fattore decisivo del consolidamento e rafforzamento del Partito è un livello superiore di assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere il mondo e come guida per trasformarlo

Lettera alla redazione

Cari compagni della Redazione di La Voce ,

vi scrivo per condividere con voi alcune riflessioni che ho maturato nell’ultimo periodo. La mia attività mi sta facendo toccare con mano la forza del collettivo. Uno degli elementi di questa forza (e probabilmente uno dei suoi frutti più importanti) è la produzione collettiva di idee attraverso il dibattito franco e aperto all’interno del Partito: scambio di esperienze, analisi collettiva dell’esperienza, critica, autocritica, trasformazione.

In sintesi, l’esperienza che sto vivendo rafforza in me la consapevolezza che il dibattito franco e aperto all’interno del Partito è una spinta in avanti per trattare le due contraddizioni in seno al popolo nel campo della conoscenza: quelle prodotte dalle nuove problematiche e dai nuovi compiti posti dallo sviluppo della nostra attività (contraddizione vecchio/nuovo) e quelle prodotte dalla contraddizioni tra idee giuste (vere) e idee sbagliate (false). Anche a fronte della terza fonte di errori e limiti nella nostra conoscenza, l’influenza ideologica che esercita nelle nostre fila la classe dominante (mi riferisco qui alle tre fonti di errori e limiti nella conoscenza indicate nell’articolo La nostra azione nel movimento comunista internazionale di La Voce n. 17), ce ne liberiamo o, meglio, la riduciamo attraverso un percorso individuale e collettivo di trasformazione in comunisti, anch’esso mosso dalla critica e autocritica.

Allo stesso tempo però mi sto rendendo conto che esistono delle resistenze nel condurre il dibattito franco e aperto. C’è la tendenza a rispondere con la critica alla critica, la tendenza a rispondere alla critica con un’autocritica di facciata (che lascia che si riproducano gli stessi errori), la tendenza a rispondere alla critica con un’autocritica quasi auto-umiliante, esagerata, che non si inquadra in un processo di trasformazione (e che quindi lascia anch’essa che si riproducano gli stessi errori).

Oltre a queste tre tendenze, esistono anche altre due tendenza che a mio avviso sono particolarmente nocive quando si manifestano in compagni dirigenti: a) pretendere che la critica che viene rivolta dai compagni diretti sia perfetta, altrimenti di fatto rigettarla attaccandola con un’altra critica; b) ascoltare la critica che viene rivolta dai compagni diretti e prenderla in considerazione nell’elaborare la linea per avanzare, saltando però il passaggio intermedio e necessario dell’autocritica pubblica.

La tendenza “a” è stata condannata senza possibilità d’appello dal compagno Stalin nell’opuscolo Sulla parola d’ordine dell’autocritica, edito dalla Casa Editrice Rapporti Sociali. “Talvolta si rimprovera ai critici l’imperfezione delle loro critiche, perché talvolta non sono giuste al cento per cento (...) Questo non è giusto, compagni. È un errore pericoloso. Provate solo ad esigere questo e chiuderete la bocca a centinaia e migliaia di operai (...) Se esigerete una critica giusta al cento per cento, eliminerete in questo modo la possibilità di qualsiasi critica dal basso”. Penso anche a quanto ha detto Mao nel suo formidabile discorso Alla riunione allargata del Centro (volume 19 delle Opere di Mao Tse-tung ): “Se non lasciamo che le masse e i quadri dicano la loro opinione, avranno ancora paura di noi e non oseranno parlare. Sarà così impossibile mobilitare il loro entusiasmo.”

In sintesi, questa tendenza ostacola il dibattito franco e aperto, che è alla base della democrazia interna al Partito e impedisce di trattare positivamente le contraddizioni vecchio/nuovo e vero/falso e di ridurre l’influenza della borghesia.

La tendenza “b” certamente è meno grave della tendenza “a”, ma svolge ugualmente il ruolo di castrare il dibattito franco e aperto e crea malessere nel Partito, nei compagni diretti.

Perché? Perché i dirigenti, giustamente, quando i compagni sbagliano li criticano, li stimolano e li dirigono a fare un’autocritica e su questa basa a intraprendere un percorso di trasformazione. Se però poi i dirigenti, quando a loro volta sono criticati, passano direttamente alla trasformazione senza fare un’autocritica pubblica, si sviluppa una tendenza unilaterale: l’autocritica pubblica è solo per i diretti. Nulla di più sbagliato! I dirigenti devono indicare ai diretti la strada da seguire e lo fanno anche con il loro esempio. Saltando il passaggio dell’autocritica pubblica, si alimenta un malessere nella “base”, che a mio avviso è sano e giusto perché è la reazione a una concezione unilaterale della direzione. È il sintomo della necessità di una trasformazione dei dirigenti.

Allo stesso tempo, questa tendenza a evitare l’autocritica pubblica da parte dei dirigenti, alimenta una concezione sbagliata del dibattito franco e aperto: “I panni sporchi si lavano in famiglia”, anziché promuovere nel Partito serenità e slancio nell’affrontare il dibattito franco e aperto non solo nel Partito ma anche nel lavoro di massa.

Le tendenze “a” e “b” hanno come punto di contatto una concezione burocratica della direzione. Burocratica nel senso preciso che si riduce il rapporto di direzione solo o quasi solo allo “insegnare alle masse”, a scapito sia dello “imparare dalle masse” sia dello “spronare e liberare la loro iniziativa”. Non si vede infatti, a mio avviso, la forza propulsiva del dibattito franco e aperto, della critica, autocritica e trasformazione. Non si affronta il rapporto Centro-periferia con la giusta dialettica. Questo limita nei fatti la capacità del Centro di essere industria chimica che raccoglie dalla periferia materia grezza, la lavora e la restituisce ad un livello superiore, come dice Mao sempre nel discorso Alla riunione allargata del Centro . In sintesi, limita il ruolo del Centro come motore propulsore del Partito.

Sicuramente tutto questo non avviene in maniera cosciente e voluta. I compagni che seguono tali tendenze, non si rendono conto degli effetti negativi che producono. Tanto meno li vogliono. Questo però non deve portarci a non affrontare il problema. “Finché la barca va, lasciala andare”, significa lasciarla andare in definitiva alla deriva. Noi invece dobbiamo vincere, instaurare il socialismo. È per questo che dobbiamo prestare attenzione, trattare nel dovuto modo e dirigere le nostre contraddizioni interne al fine di diventare sempre meglio un partito d’avanguardia.

Ho esposto le mie considerazioni sulla tendenza “a” e “b” a un mio dirigente. Mi ha risposto che tra diretto e dirigente non può esserci un dibattito franco e aperto per via della compartimentazione e delle istanze. Non capisco. Un dibattito franco e aperto non significa mica raccontare “vita, morte e miracoli”. Significa confrontarsi serenamente e senza paura di fare critiche e autocritiche su un determinato punto dell’attività che concerne sia il diretto che il dirigente, rispetto a una questione comune, nell’ambito di una campagna o una battaglia che entrambi stanno conducendo. Al che il dirigente in questione mi ha detto che a volte un compagno della periferia richiede l’autocritica da parte dei dirigenti per una sorta di rivalsa, per motivi personali. Critica i dirigenti per sottrarsi allo sforzo che gli viene richiesto, alla trasformazione che è chiamato a fare. Non critica i dirigenti per fare avanzare il Partito e la nostra causa, ma per frenare. Quindi bisogna valutare bene se fare o meno autocritica. Anche qui non capisco e ripenso a quanto detto da Stalin e anche a quanto detto da Mao nei testi su indicati: non bisogna partire dal perché della critica, ma dal fatto se contiene o meno degli elementi utili a far avanzare il Partito. Se una critica contiene sia elementi giusti sia elementi sbagliati ed è fatta per frenare, il dirigente deve applicare il principio “di fronte al nemico (in questo caso l’errore), adottare una tattica offensiva, prendere l’iniziativa, attaccare, non chiudersi a difesa”. A questo fine il dirigente deve impugnare gli elementi giusti della critica: in questo modo isola gli elementi sbagliati. Deve utilizzare e valorizzare la parte giusta della critica per progredire: lanciarsi nell’autocritica e trasformazione - che di regola in questi casi quasi mai consiste nell’andare nella direzione che il critico suggerisce, ma nell’affrontare consapevolmente e collettivamente in modo giusto e d’avanguardia il lato della realtà che la critica ha messo in luce. A quel punto, se il critico aveva criticato per frenare (consapevole o meno che fosse di agire da destra), o sarà trascinato dall’esempio del dirigente (in questo caso cesserà di frenare, farà la propria autocritica e lascerà anche cadere la critica sbagliata) o persisterà nella critica sbagliata. Una critica sbagliata può riguardare un punto dell’attività che concerne sia il diretto che il dirigente, una questione comune, rientrare cioè nell’ambito di una campagna o una battaglia che entrambi stanno conducendo o esulare da questo ambito. Nel primo caso, il dirigente deve respingere la critica, mostrare l’errore e unire i compagni su un livello superiore di conoscenza o di azione. Nel secondo caso, il dirigente deve unire i compagni su una comprensione superiore del materialismo dialettico. Il materialismo dialettico infatti insegna che nessun principio è assoluto (cioè valido per ogni circostanza e in ogni momento, applicabile alla cieca) né guida unica della nostra azione. Ciò vale anche per il principio “la critica-autocritica-trasformazione è un fattore essenziale di sviluppo del movimento comunista”. Anch’esso è subordinato all’analisi concreta della situazione concreta: cioè la sua applicazione nel caso concreto deve far progredire la causa dell’emancipazione della classe operaia e delle masse popolari dalla borghesia. Proprio per questo l’esercizio della critica e autocritica nel Partito, deve di regola riguardare la campagna comune che il Partito sta conducendo. In questa fase il Partito sta conducendo la campagna per una superiore assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere la realtà e come metodo per trasformarla. Questa è la campagna comune in cui tutti i compagni del Partito devono praticare la critica-autocritica-trasformazione al livello più alto di cui ognuno è capace e i dirigenti devono essere all’avanguardia. Anche le critiche sbagliate o solo parzialmente giuste sono così trasformate in un fattore positivo per la nostra causa.

 

Nel mio piccolo mi sto muovendo per cercare di sviluppare un dibattito franco e aperto, sia con i diretti sia con i dirigenti. Da parte dei diretti vedo fermento. Vedo voglia di dibattito franco e aperto. Vedo slancio. E più faccio lo sforzo per elevare il dibattito, ponendo degli interrogativi, aprendo le porte a nuove riflessioni unendo il generale con il particolare, in sintesi, più utilizzo il materialismo dialettico nel dibattito con loro, per cercare di spingerli a elaborare a loro volta la loro esperienza e quindi a rompere con la
tendenza a dire “frasi fatte” o a fare interventi formali e da “unità di facciata”, più cresce il loro slancio e i loro contributi diventano più ricchi. Questo loro slancio mi permette di avere più elementi per sintetizzare la realtà e ricavare nuovi e superiori criteri e principi. Il dibattito franco e aperto rafforza quindi tutto il Partito: permette ai dirigenti di dirigere meglio e ai diretti di elevarsi e di svolgere un lavoro più efficace ed entusiasta nel loro territorio, come diceva giustamente Mao.

 

La ricaduta negativa potrebbe essere che i compagni diretti una volta che hanno preso “gusto” al dibattito franco e aperto riconoscendone la valenza, mettano in discussione e non applichino le decisioni prese dalle istanze superiori secondo il centralismo democratico. Nel caso in cui questo si verifichi, sarà necessario un intervento di rettifica per affermare nella nuova situazione il centralismo democratico: non soffocare il dibattito, ma incanalarlo nel centralismo. Questo rischio, però, non deve bloccare il Partito e indurlo a “fasciarsi la testa prima di rompersela”. Se in effetti ciò avverrà, bisognerà fare il bilancio dell’esperienza e ricavare nuovi e superiori criteri e principi per sviluppare al massimo il dibattito dialettizzandolo al meglio con il centralismo.

Sono sempre più convinto infatti che solo sviluppando il dibattito franco e aperto secondo il centralismo democratico si può avanzare nella trasformazione da FSRS a Partito. Questo è uno dei compiti principali che la situazione pone per avanzare.

Un compagno

 

Commento redazionale

Nel Partito il dibattito franco e aperto è un bisogno vitale, come per un individuo respirare. Senza dibattito franco e aperto, non è possibile mantenere e alimentare un clima di slancio e entusiasmo, non è possibile liberare con continuità l’iniziativa dei compagni e degli organismi, l’attività procede stancamente e prima o poi il progresso si arresta. Ovviamente anche il dibattito franco e aperto non cade dal cielo, non è un atteggiamento e una pratica scontati, abituali e spontanei tra le masse oppresse e quindi neanche tra noi comunisti che dalle masse oppresse veniamo e da cui siamo continuamente alimentati con nuovi compagni. Come le masse oppresse, anche noi spontaneamente, se seguiamo il principio “fin che la barca va, lasciala andare”, subiamo l’influenza della borghesia. In particolare l’influenza della borghesia spinge i nostri dirigenti a dirigere come la borghesia. Bisogna quindi creare tra di noi l’abitudine al dibattito franco e aperto, creare tra di noi la capacità di svolgere un dibattito franco e aperto. Ancora non ci siamo e la campagna in corso per una superiore assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere la realtà e metodo per trasformarla ci fa fare un passo avanti. Noi comunisti per progredire verso la vittoria abbiamo bisogno sia del dibattito franco e aperto, sia del processo di critica-autocritica-trasformazione.

Essi tra noi comunisti fioriranno alla condizione però che impariamo a farli al servizio della causa della rivoluzione e quindi combattiamo con successo la tendenza a usarli contro la rivoluzione (la destra). A questa condizione mobiliteremo e rafforzeremo la sinistra e vinceremo anche la tendenza a rifiutarli per paura dei rischi che la destra li usi contro la rivoluzione (il dogmatismo). Il movimento comunista è un movimento rivoluzionario. Nel movimento comunista più volte la destra ha soffocato la rivoluzione usando unilateralmente, al di fuori di un’analisi concreta della situazione concreta, l’uno o l’altro principio rivoluzionario per affermarsi. Ogni volta che tra noi la destra usa un principio rivoluzionario contro la rivoluzione, i rivoluzionari si dividono in due parti: la parte d’avanguardia glielo strappa di mano e impugna essa quel principio al servizio della rivoluzione: usa l’iniziativa della destra a vantaggio della rivoluzione. La parte arretrata reagisce difendendosi, si chiude a difesa, rifiuta il principio che la destra ha impugnato: così sorgono i dogmatici. Vediamo un esempio storico. All’inizio dell’epoca imperialista, a cavallo del ‘900, i revisionisti alla Bernstein impugnarono il principio che il movimento comunista doveva adeguarsi alla nuova realtà (l’imperialismo): libertà di critica, dibattito franco e aperto, ecc. ecc. Effettivamente era assolutamente necessario: i mostri sacri della II Internazionale usavano il marxismo come una sacra dottrina da insegnare e conservare, non come una guida per l’azione rivoluzionaria. Chi vinse i revisionisti? Non i difensori dogmatici del marxismo, ma Lenin e i suoi. Essi impugnarono il principio: effettivamente vi era una nuova realtà, l’imperialismo, a cui il movimento comunista doveva adeguarsi. Usarono il marxismo come guida per conoscerla (e mostrarono che i revisionisti invece deformavano la nuova realtà in un modo che favoriva l’asservimento degli operai e dei popoli oppressi alla borghesia). Ne ricavarono la concezione (il marxismo-leninismo) e la linea necessari per condurre alla vittoria la prima ondata della rivoluzione proletaria. Più e più volte il movimento comunista ha vissuto scontri di questo tipo, su scala mondiale e a livello nazionale, in grandi organizzazioni e nei singoli organismi.

Per sviluppare su grande scala il dibattito franco e aperto, la critica-autocritica-trasformazione dobbiamo porli al servizio del consolidamento e rafforzamento del Partito. Nel concreto, in questa fase, al servizio di un superiore livello di assimilazione del materialismo dialettico come metodo di conoscenza e di trasformazione. Così distingueremo la destra che frena dai rivoluzionari dogmatici e vinceremo entrambe le tendenze sbagliate.

Giustamente il compagno dice “dibattito franco e aperto, condotto seguendo il centralismo democratico”. Bisogna fare un passo avanti e dire apertamente “dibattito franco e aperto al servizio di un livello superiore di assimilazione del materialismo dialettico”, più concretamente “dibattito franco e aperto al servizio dell’esecuzione del Piano Generale di Lavoro del Partito”. Affermando e facendo valere effettivamente il fine rivoluzionario della nostra battaglia per il dibattito franco e aperto, per la critica-autocritica-trasformazione vinceremo il dogmatismo che si chiude a difesa di quello che ha fatto, di quello che ha raggiunto, di quello che ha e che ha paura di perdere - e ha paura di avanzare.

Il compagno pone alcuni problemi (critiche incomplete e parziali, critiche mal poste, critiche sbagliate, ecc.) per i quali gli interventi pubblicati nella rubrica Problemi di metodo danno già risposte chiare. Ma pone anche problemi di direzione a un livello superiore, relativo a un partito ben strutturato in istanze distinte e compartimentate, cioè a un partito clandestino. Bisogna trattarlo apertamente come tale. Il compagno mostra anche la chiave per trovare le soluzioni. Secondo il materialismo dialettico, al di fuori dell’analisi concreta della situazione concreta i principi diventano parole vuote, compresa la critica e autocratica, la libertà di critica, l’autonomia nazionale, ecc. In Jugoslavia abbiamo un esempio di cosa fanno gli imperialisti impugnando tra le masse popolari contro le masse popolari il principio dell’autonomia nazionale per far valere i propri interessi. Ogni giorno vediamo cosa fanno in nome dei principi della libertà e della democrazia.

In questa fase il fattore che condiziona il consolidamento e rafforzamento del Partito è l’assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere e come guida nell’azione rivoluzionaria. Il processo di critica e autocritica riguarda e deve riguardare principalmente lo svolgimento della campagna per l’assimilazione del materialismo dialettico. Bisogna che i dirigenti pongano apertamente e chiaramente ai compagni e alle masse questa questione. Se alcuni vogliono estendere il processo di critica e autocritica ad altri campi, bisogna valutare apertamente il significato politico della loro proposta: non scartarla ciecamente, ma nemmeno accettare ciecamente la loro direzione. Anche questo (se corrisponde o no agli interessi della causa aprire un’altra campagna, aprire un altro campo di CAT) deve essere trattato collettivamente, pubblicamente.

La compartimentazione e la distinzione delle istanze giocano certo un ruolo anche nel processo di critica e autocritica. Partito clandestino significa partito in cui alcune cose sono conosciute solo da alcuni. È un imbroglio dire, come fanno i borghesi, che il popolo decide e nello stesso tempo tenere nascoste al popolo le cose più delicate e importanti (segreto di Stato, segreto d’ufficio, segreto militare, segreto commerciale, ecc.). Nel Partito comunista, la clandestinità limita certamente la democrazia perché limita la partecipazione e la conoscenza: è l’argomento che la destra usa contro il carattere clandestino del Partito. Un comportamento concreto di un compagno può dipendere da motivi che rientrano nella compartimentazione, la valutazione complessiva di un compagno è riservata alla sua istanza o addirittura ai suoi dirigenti, perché comprende aspetti che solo la sua istanza o i suoi dirigenti conoscono, ecc. D’altra parte i dirigenti devono godere della fiducia dei compagni e avere prestigio, altrimenti sarà loro impossibile dirigere e influiranno negativamente su tutto il sistema di direzione, sul clima vigente nel partito. Tutti i membri del Partito devono conoscere e accettare, anche nella pratica, questo aspetto della nostra lotta e devono caso per caso trovare soluzioni d’avanguardia nel trattare con spirito d’iniziativa e creatività questo lato con i compagni non membri del Partito e con le masse. I dirigenti devono mettersi alla testa del processo di critica e autocritica e promuoverlo sulla base dello sviluppo concreto (in questa fase, nel nostro paese) della lotta politica. I dirigenti che non lo fanno, nonostante il loro carattere, la loro volontà e la loro condotta rivoluzionari, sono un freno per i compagni e si trovano in difficoltà anche nei campi e nei casi in cui hanno ragione e, in generale, hanno difficoltà a dirigere. Devono creare anche con l’esempio un dibattito franco e aperto ... sulle questioni all’ordine del giorno. La realtà è infinitamente conoscibile. Un dibattito franco e aperto, ma senza ordine del giorno dettato dalla lotta politica, è una presa in giro: un imbroglio da parte di alcuni e un’ingenuità da parte di altri. D’altra parte sarebbe un danno molto grave per la nostra causa usare la compartimentazione e la divisione delle istanze per soffocare la critica, non sviluppare nel Partito il dibattito franco e aperto, il processo di CAT sulle questioni, interne al Partito o relative al lavoro di massa, che la lotta politica mette all’ordine del giorno. I dirigenti devono essere alla testa, con la direzione e con l’esempio, della creazione del dibattito franco e aperto e del processo di CAT in ogni campagna. Il Partito deve formare e selezionare dirigenti che in ogni campagna siano alla testa, con la direzione e con l’esempio, della creazione del dibattito franco e aperto e del processo di CAT. Il Partito deve essere alla testa della creazione di un dibattito franco e aperto tra le masse, per liberare la loro energia rivoluzionaria e indirizzarla verso la creazione di un nuovo paese socialista.