Cristoforo Colombo

L’esperienza del movimento delle masse in Italia negli ultimi vent’anni

Capitolo 4° - La strategia dei comunisti nella metropoli imperialista
martedì 15 agosto 2006.
 

4. La strategia dei comunisti nella metropoli imperialista

-  L’esperienza del movimento delle masse in Italia negli ultimi vent’anni


L’esperienza del movimento delle masse in Italia negli ultimi vent’anni

Chiarita la necessità della lotta armata come una delle attività del partito anche nei periodo «pacifici», occorre studiare, sulla base delle caratteristiche della nostra società, come si combina quest’attività nel complesso dell’attività del partito.

E’ chiaro che su questo l’esperienza è poca, il percorso che dovremo seguire è nuovo. Si tratta quindi di delineare alcune ipotesi fondate sull’esperienza esistente e poi verificare queste ipotesi nella pratica e via via aggiustare il tiro facendo tesoro anche dell’esperienza dei partiti che operano come il nostro nei paesi imperialisti dell’Europa Occidentale.

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Perchè la «propaganda armata» in Italia ha potuto protrarsi per più di dieci anni nonostante la debolezza dell’impianto politico?

Durante il ventennio fascista, in media il centro interno del PCd’I resisteva qualche mese, poi veniva individuato e arrestato. La continuità del partito era garantita dal centro estero.

Quanto è avvenuto negli anni 70 è probabilmente l’effetto del combinarsi di tre fattori.

1. La crisi politica della classe dominante che durò fino quasi alla fine degli anni 70, quando si risolse con la formula del pentapartito, con l’alternanza dei partiti nella carica di capo del governo e con l’avvento del binomio Pertini-Craxi.

2. La grande mobilitazione di massa che offrì spontaneamente appoggi, sostegni e reclute, nonostante le organizzazioni combattenti non avessero una linea per promuovere appoggi e legami e per il reclutamento.

3. Il carattere offensivo della tattica delle organizzazioni combattenti, che mantenevano l’iniziativa mentre il PCd’I nel ventennio aveva una tattica difensiva che si basava unicamente su tecniche di clandestinità.

Il partito può agire, entro certi limiti, sul primo fattore con operazioni di destabilizzazione accuratamente mirate («colpire il cuore dello Stato») e con operazioni politiche più complesse, giocando sulle contraddizioni economico-politiche interne alla classe dominante che sono numerose e profonde e destinate a rinnovarsi ed acuirsi, anche se non può creare per sola sua iniziativa una situazione di crisi politica della classe dominante.

Il partito può agire sul secondo fattore nel senso di sopperire alla mancanza di un apporto spontaneo di sostegni, appoggi e reclute, sviluppando apposite linee di lavoro volte a procurarsi appoggi e al reclutamento, sviluppando un’ampia e mascherata attività nel movimento di massa in appoggio alla sua azione clandestina, sfruttando bene gli appoggi che il movimento di massa dà nei periodi della sua crescita.

Il terzo fattore è tutto nelle mani del partito. Infatti si tratta di mantenere l’iniziativa tattica in ogni campo, compreso quello militare (disarticolazione temporanea delle strutture della controrivoluzione), di mantenere sempre l’offensiva sul piano tattico, di non attestarsi a difendere posizioni «di prestigio» e di salvaguardare il più possibile i compagni che svolgono lavori legali, certamente impegnati in operazioni che in gergo militare si direbbero «suicide», a scarsa probabilità di sopravvivenza. E’ un’arte che dobbiamo ancora completamente imparare, come del resto tutta l’arte del lavoro «legale».

La combinazione di questi interventi e l’effetto delle altre attività del partito dovrebbe assicurare la riproduzione del partito e la continuità della sua opera.

La sopravvivenza del partito e la sua riproduzione sono in definitiva legate alla sua capacità di aderire alle masse, di essere strettamente legato alle masse, di fondersi fino ad un certo punto con le masse. Più la sua attività dev’essere d’avanguardia e meno quindi può contare sulla tolleranza della borghesia, maggiore deve essere il suo legame con le masse. La tendenza a fare della lotta armata l’attività di una setta, appoggiandosi principalmente sulla clandestinità, ci porta inevitabilmente alla rovina. La lotta armata è stato lo strumento di nascita delle bande. Il rinchiudersi progressivamente sempre maggiore ed esclusivo nella lotta armata è la rovina delle bande. Le bande così si estraniano dalla classe che, alle prese con compiti sui quali le bande non danno né orientamento né direzione, le sente sempre più come corpo estraneo. E ciò fa il gioco della borghesia contro le masse e le bande.

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Perchè le bande sono state alla fine grandemente ridotte e le altre organizzazioni comuniste combattenti eliminate?

Perchè le bande non hanno fatto tempestivamente il salto in avanti e si sono lasciate quindi togliere di mano l’iniziativa politica.

Finchè il rapporto di forze è sfavorevole, possiamo sopravvivere e svilupparci solo se manteniamo noi l’iniziativa, se riusciamo a impegnare battaglia solo dove e quando noi possiamo vincere, se impariamo a manovrare e a giocare su tutti i campi, a spostare rapidamente l’azione sul terreno di volta in volta a noi più favorevole.

Le cause della nostra sconfitta non sono state lo sfavorevole rapporto di forza militare dato che quello è stato sfavorevole in tutti gli anni 70, ma i nostri errori di direzione determinati a loro volta non da errori nella valutazione dell’importanza di alcuni elementi della realtà, ma da errori di concezione, ideologici. In sostanza le bande avevano una concezione sbagliata della fase in cui era la società italiana (la rivoluzione alle porte), del rapporto bande-movimento delle masse (portare il movimento delle masse sul terreno della lotta armata) e della fase di lotta che si apriva dopo il successo della «propaganda armata» (costruzione del partito e non «guerra civile dispiegata»).

La tattica seguita dalle bande favorì la borghesia. Questa aveva tutto il vantaggio a concentrare lo scontro sul piano militare dove le sue forze erano preponderanti e quì annientarci nel più breve tempo possibile. Le bande caddero nella trappola.

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Consideriamo il rapporto delle bande col movimento delle masse

La borghesia riuscì innanzitutto ad isolarci, ma a causa dei nostri errori. Non abbiamo mai raggiunto «un’adesione di massa alla strategia della lotta armata», come alcuni compagni si ostinano ancora a sostenere, confondendo le masse con i simpatizzanti delle bande. Ma le bande godevano di un vasto appoggio attivo e di un ancora più vasto consenso passivo che la borghesia non sarebbe riuscita a scalfire con azioni militari, repressive.

La borghesia compì un’operazione da manuale, contro la quale a nulla valevano le armi agitate alla cieca da tanti bravi militaristi, ma che avremmo potuto neutralizzare facilmente se l’avessimo capita in tempo.

Il movimento di massa di allora era quasi completamente un movimento rivendicativo e appoggiava le bande in quanto dalla loro esistenza e dalla loro azione traevano forza le lotte rivendicative (altro che «adesione di massa alla strategia della lotta armata»!). La borghesia doveva assolutamente, per necessità dettate dal movimento economico della società e per motivi politici, eliminare questo movimento e la conflittualità diffusa nelle fabbriche che ne era l’espressione. Questa necessità della borghesia era un punto di forza delle bande. Nello stesso tempo la borghesia doveva eliminare le bande perchè potevano diventare il punto di raccolta e di organizzazione della resistenza. Ma l’elemento di forza, il serbatoio e il motore del tutto era il movimento rivendicativo, non le bande che invece erano, dovevano e potevano essere il timone: era il movimento rivendicativo che sosteneva le bande, non viceversa! Quindi la borghesia doveva prima di tutto liquidare il movimento rivendicativo.

La borghesia doveva liquidarlo dall’interno: l’alternativa era un attacco massiccio, tipo «piano Solo», il cui esito era da vedere e che anche in caso di successo, alla cilena, avrebbe dato luogo a sviluppi ben diversi dagli attuali.

Il PCI e la Federazione Sindacale vinsero questa prima battaglia: riuscirono ad allineare la maggioranza del movimento operaio (e quindi in pratica tutto il movimento operaio) sulla linea EUR (1977) della moderazione salariale, della compatibilità (salario come variabile dipendente), della salvaguardia della "economia nazionale" (sterilizzazione della contingenza ai fini della liquidazione, contingenza in Buoni del Tesoro), dei sacrifici "per favorire gli investimenti", della cogestione della crisi. Questa battaglia fu vinta dalla borghesia grazie all’aiuto dato involontariamente dalle bande che non diedero battaglia su questo terreno che per loro era favorevole, in cui si sarebbbe in ogni caso rafforzato il loro legame con il movimento di massa e indebolito quello dei revisionisti. Esse continuarono in quegli anni a perseguire la linea di organizzare le masse sulla base della lotta armata e di curarsi quindi solo dei gruppi «d’avanguardia» che di fronte alle difficoltà del lavoro di orientamento e direzione del movimento delle masse affluivano più numerosi nelle bande. Questa linea non aveva alcuna possibilità di vittoria, e gli eventi l’hanno confermato.

Le bande cercarono di portare i gruppi e le «avanguardie di fabbrica» sul terreno della lotta armata e di reclutare i singoli militanti nelle proprie fila. Così si rovinarono doppiamente: perchè persero la forza derivante dall’avere organizzazioni contrarie alla moderazione salariale all’interno della lotta rivendicativa e di protesta e si portarono in casa elementi che rafforzarono le tendenze degenerative (al militarismo, all’uso populista, diffuso e alla Robin Hood della lotta armata).

Le bande non sfruttarono la morsa in cui la situazione economica stringeva i revisionisti e i sindacati: da una parte dovevano far accettare alle masse sacrifici e moderazione e dall’altra parte dovevano avere il consenso delle masse, perchè in questo sta il loro ruolo e la loro ragion d’essere nel regime e la loro forza contrattuale in quanto consorteria all’interno del regime.

Solo dopo la vittoria lasciatagli sul terreno delle lotte rivendicative, PCI e sindacati poterono lanciare con successo la campagna per l’isolamento e l’eliminazione delle organizzazioni combattenti.

Le bande non sfruttarono le difficoltà in cui si trovava la borghesia cha da una parte doveva soffocare conquiste e aspirazioni delle masse e dall’altra era troppo debole per tentare di farlo principalmente con la forza.

La separazione delle bande dalle masse, il loro isolamento dalle masse era anche la premessa per poter battere le organizzazioni combattenti. Con una concezione dissennata, miracolistica e unilaterale della lotta armata, le bande favorirono il disegno e ne pagarono le conseguenze.

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Man mano che il movimento delle masse si indeboliva e il compito della «propaganda armata» oggettivamente si esauriva perchè più propaganda di quanto s’era fatto non si poteva più fare, quante e quali che fossero le operazioni combattenti (29), si poneva oggettivamente il compito di definire una linea che portasse le bande oltre la «propaganda armata». Era quindi inevitabile che emergessero le diverse anime che erano confluite nelle bande.

La lotta tra le linee non venne affrontata apertamente, con la consapevolezza della posta in gioco, con il respiro necessario. La linea giusta non si espresse mai con forza, restò allo stadio di patrimonio inespresso, non articolato, da cui le deviazioni (colonna W. Alasia, PGG) man mano che maturavano si staccavano di loro iniziativa. La loro nascita, proprio per la debolezza della lotta tra le linee, era vissuta più come lacerazione che come operazione di rafforzamento e di crescita.

La debolezza in questo campo è del resto ancora l’elemento centrale della attuale «crisi del movimento rivoluzionario».

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Una volta affermata l’esistenza di un nuovo centro della lotta del proletariato per il potere e la lotta armata come elemento della nuova strategia, le bande dovevano impegnare tutte le loro energie al fine di sviluppare gli strumenti necessari per comprendere il movimento economico e politico della società, dirigere il movimento delle masse e mantenere aperte le contraddizioni della classe dominante.

Invece si lasciarono trascinare in una gara insensata a chi sparava di più con l’armata brancaleone di Prima Linea, con le varie schegge delle organizzazioni combattenti e con le organizzazioni scissioniste delle bande.

Continuarono ad essere praticate forme di lotta che erano nate per una ragione ben definita nella fase della «propaganda armata», ma che non avevano più alcuna utilità (e anzi erano dannose) nella nuova fase: i compagni arrestati che continuano a dichiararsi facilitando il compito agli inquirenti e attirandosi condanne maggiori; i compagni detenuti che aggravano le condizioni di detenzione e quindi riducono le possibilità di liberazione con dichiarazioni ai processi e con proteste nelle carceri a carattere unicamente dimostrativo; ecc.

Le bande sbagliarono nella definizione della nuova fase della lotta. Venne deciso il passaggio alla «guerra civile dispiegata» proprio quando questa costituiva (e costituì) un’azione suicida. La «guerra civile dispiegata» nei paesi imperialisti si è data finora solo in condizioni particolari e ben precise: nel contesto di guerre interstatali (2° Guerra Mondiale) o di colpo di stato delle forze reazionarie (Spagna). E’ difficile valutare su quale base venne ritenuto plausibile in Italia alla fine degli anni 70 il passaggio alla «guerra civile dispiegata».

Sotto l’incalzare dei colpi della reazione, che grazie ai nostri errori ci affrontava ora sul terreno a lei più favorevole, venne finalmente decisa la ritirata strategica, salvando il salvabile.

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Il seguito è storia della «crisi del movimento rivoluzionario», cioè del travaglio per definire e impostare praticamente una linea per riprendere l’iniziativa. Abbiamo avuto la nostra rotta, come i compagni cinesi nel 1927. Siamo riusciti a salvare una parte, sebbene esigua, delle nostre forze, come riuscirono allora i compagni cinesi, ritirandosi sul Cingkangscian. La legislazione e la prassi repressiva d’emergenza non sono il toccasana per la borghesia. Non c’è ragione perchè riesca alla DC e al PSI quello che non riuscì al Partito Nazionale Fascista con le leggi eccezionali del 1926. Non c’è ragione perchè riesca al sistema di vigilanza poliziesca, delazione, organizzazione e manipolazione delle masse messo in piedi da DC, PSI e PCI quello che non riuscì al ben più articolato e capillare sistema messo in piedi negli anni 30 dal PNF. Non c’è ragione, salvo la nostra linea, la nostra impostazione della lotta, i nostri errori, la nostra ostinazione a non voler imparare dalla nostra esperienza e dall’esperienza del movimento operaio che abbiamo alle spalle.

Riusciremo, come riuscirono i compagni cinesi dopo il 1927, a riprendere l’iniziativa? Oggi, come allora, è una questione di concezione strategica e di linea politica. Dobbiamo mettere al centro del nostro lavoro, per tutto il tempo necessario, l’accumulazione delle forze, guadagnare tempo. Dobbiamo adeguare la nostra azione alle condizioni oggettive del movimento delle masse e alle dinamiche oggettive del movimento di trasformazione della società. Dobbiamo sfruttare gli elementi della situazione a noi favorevoli. Dobbiamo riprendere l’iniziativa sui terreni su cui possiamo conquistare vittorie, misurare le vittorie non sulle perdite inflitte al nemico ma sull’aumento delle nostre forze, dato che il nostro obiettivo non è ancora la liquidazione delle forze nemiche, ma l’accumulazione delle forze della rivoluzione.