Rapporto di capitale (I)

Rapporti Sociali n. 2, novembre 1988  (versione Open Office / versione MSWord )

Rapporto di capitale (I)

Il movimento economico della società è unità e lotta di due fattori:

- il contenuto dell’ attività lavorativa con cui produciamo le condizioni materiali grazie alle quali viviamo,

- i rapporti sociali di produzione nell’ambito dei quali noi svolgiamo le attività lavorative: il rapporto di valore, il rapporto di denaro, il rapporto di capitale, ecc.

Nella fase imperialista del capitalismo, la contraddizione tra questi due aspetti del movimento economico è diventata antagonista. La permanenza di quei rapporti di produzione ostacola lo sviluppo della nostra capacità produttiva e fa si che l’attività produttiva umana distrugga l’uomo e il resto della natura. Quanto più quella contraddizione diventa antagonista, tanto meno gli esponenti della classe dominante accettano di sentir parlare di rapporti di produzione, tanto più si affannano ad attribuire i sempre più palesi effetti distruttivi allo “sviluppo tecnologico”, alla scienza, all’attività lavorativa in generale, alla natura umana, alla fatalità, tanto più cercano di presentare i problemi creati dal rapporto di capitale come problemi “generalmente umani”, al di sopra dei rapporti di produzione e delle classi. Alcuni (Adorno e la “Scuola di Francoforte”, gli operaisti, La Grassa e Turchetto, ecc.) hanno “conciliato” gli interessi della classe dominante con l’evidenza, scoprendo che i rapporti di produzione sono oramai inscritti, incarnati nei mezzi e nelle condizioni della produzione e che il processo lavorativo e la borghesia sono una cosa sola.

 

1. Lo sviluppo della produzione di merci

Nell’ultimo quarto del secolo scorso inizia la fase imperialista del modo di produzione capitalista. Le forme assunte dalle relazioni economiche nelle società borghesi fino a quel momento, quindi il rapporto di capitale, sono state esaurientemente esposte e spiegate da K. Marx in Il capitale. Noi non intendiamo fare qui un bigino della trattazione di Marx. I nostri lettori che vogliono comprendere il rapporto di capitale devono leggere quest’opera di Marx di cui a ragion veduta la classe dominante ha costantemente scoraggiato lo studio, sostituendolo con quello di surrogati (1). In questo scritto vogliamo affrontare, come abbiamo fatto nel numero precedente di RS in Rapporto di valore,

1. punti che sono di utile collegamento tra la cultura di base dei nostri lettori e il linguaggio di Marx e la cultura del suo ambiente;

2. punti importanti per la comprensione del movimento economico delle società borghesi attuali e di cui i “marxisti” hanno fatto scempio, ossia su cui esistono oggi beatamente e tranquillamente nelle teste dei nostri lettori pregiudizi e luoghi comuni antimarxisti catalogati come ovvie e universalmente note “verità marxiste”. Infatti l’influenza della cultura borghese di sinistra ha fatto sì che a molti individui il lavoro di Marx sia servito “così come un guanciale per la pigrizia di pensare, la quale si acquieta nella presunzione che tutto sia già stato provato ed aggiustato” (Hegel, Scienza della logica).

 

1.1. Categorie dell’economia politica e rapporti sociali

Nei trattati di economia politica gli studiosi borghesi trattano le categorie economiche (merce, valore, denaro, prezzo, capitale, profitto, rendita, interesse, ecc.) come proprietà naturali delle cose, al pane del peso, del colore, del volume o come soggetti che operano e agiscono, nuovi esseri misteriosi e invisibili come le divinità e i folletti delle vecchie religioni. Lo stesso fanno anche i numerosi cultori di “economia politica marxista” e i vari autori di “trattati di economia marxista” che costituiscono una folta schiera di nuovi “socialisti della cattedra” (2), esponenti di quella cultura borghese di sinistra che negli anni di sviluppo economico delle società borghesi (1950-1975) hanno profondamente inquinato il movimento operaio e rivoluzionario dei paesi imperialisti.

 Il capitale non è un trattato di economia politica, ma un trattato di critica dell’economia politica. Infatti esso non contrappone alcune categorie “marxiste” alle categorie poste da altri economisti, ma mostra, ricostruendo nella mente la nascita e la crescita del modo di produzione capitalista,

- che le categorie dell’economia politica borghese rappresentano ingenuamente (superficialmente) come rapporti tra cose quelli che sono rapporti tra uomini che si attuano attraverso cose e come rapporti tra cose,

- che procedendo nel modo seguito in I1 capitale il movimento economico della società borghese perde il suo alone di mistero, sacralità ed eternità e diventa semplice e comprensibile.

Esso mostra che le qualità economiche delle cose si generano dai rapporti tra gli uomini che le producono e le usano, esponendo i termini intermedi (i passaggi) del processo di generazione di queste qualità; quindi mostra che esse sono creazioni sociali come il linguaggio, quindi socialmente oggettive. In questo modo dà anche conto delle strutture della mente e della fantasia, delle strutture spirituali con cui gli uomini si rappresentano i rapporti tra loro e con il resto della natura.

La quintessenza della comprensione del movimento economico della società sta nel

- distinguere i rapporti di produzione dal contenuto del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza,

- ricostruire nella mente la storia di unità e lotta tra questi due fattori attraverso cui procede l’attività economica.

Ma questo modo di procedere è tanto più estraneo alla scienza economica borghese quanto più esso, da quando è iniziata la fase imperialista del modo di produzione capitalista, mostra che l’attuale rapporto di produzione è d’ostacolo al processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza (3) e allo sviluppo della forza produttiva del lavoro umano.

Quanto più rapporti di produzione e contenuto del processo produttivo si respingono e stando uniti si combattono, tanto più la scienza della classe dominante ne tace, come in ogni famiglia perbenista si tace dello “scandalo di famiglia”. La comprensione del movimento economico della società è comprensione della fine della borghesia (4).

Economisti borghesi ed economisti “marxisti” sono entrambi vittime e sacerdoti del feticismo. I prodotti sociali appaiono ad essi e sono da essi trattati come personaggi indipendenti, dotati di vita propria, che stanno in rapporto tra loro e in rapporto con gli uomini. Le astrazioni dell’intelletto, utili per determinati e ben delimitati compiti (es. industria, agricoltura, servizi, ecc.) sono da essi trattati come soggetti.

La loro operazione è favorita e quasi resa ovvia dal fatto che in genere la riflessione sulle forme economiche della vita degli uomini segue una strada opposta a quella attraverso cui queste forme si sono create, al loro svolgimento reale. La riflessione inizia a cose fatte, parte quindi dai risultati bell’e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno al prodotto del lavoro umano l’impronta di merci e che quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno a questo punto la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto non del carattere storico di quelle forme, che ad essi appaiono già come immutabili (a questo punto il movimento che le ha prodotte è già scomparso nel proprio risultato senza lasciare traccia), ma del loro contenuto.

L’unico modo che porta a sciogliere le nebbie che avvolgono l’origine e il movimento delle categorie economiche consiste nel mostrare il movimento degli uomini e delle classi che produce le determinazioni assunte nella storia dal loro processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza e produce assieme a queste determinazioni anche le forme di pensiero (le espressioni teoriche e spirituali) socialmente valide, quindi in questo senso oggettive per ogni individuo, dei loro rapporti di produzione. La comprensione delle leggi del movimento economico della società borghese permette anche la comprensione dei fattori che determinano la volontà delle classi di tale società, in quanto in generale le leggi del modo di produzione determinano gli istinti e i sentimenti degli uomini ben prima che essi ne siano consapevoli.

 NOTE

(1). In Italia Il capitale è stato pubblicato per intero dopo la 2° Guerra Mondiale dalle case editrici Editori Riuniti ed Einaudi. Le due edizioni sono zeppe di errori e di espressioni antiquate ed incomprensibili e prive delle note esplicative indispensabili al moderno pubblico italiano. Gli errori sono numerosi al punto che alcuni anni fa un docente dell’Università di Messina manifestava l’intenzione di scrivere una pubblicazione dedicata unicamente agli errori della traduzione del 3° volume (non ci risulta abbia ancora realizzato il suo proposito). Le edizioni, che rispondevano a molteplici sollecitazioni derivanti dal progresso compiuto in Italia e nel mondo dal movimento del proletariato e dei popoli oppressi, sono state condotte quindi in modo da dissuadere i lettori e convogliarli verso quella marea di sunti, bigini, commenti e interpretazioni a cui si sono dedicati in questi anni migliaia di scribacchini aggirantisi attorno a Il capitale come mosche fastidiose attorno al miele e che hanno costituito una pigra alternativa all’impegno nell’analisi del movimento presente. Ne è nata una biblioteca fantasiosa di libri su “cosa ha veramente detto Marx”.

(2). Il “socialismo della cattedra” è una corrente dell’economia politica borghese sviluppatasi in Germania fra il 1870 e il 1890. È così chiamata perché i suoi esponenti predicavano dalle cattedre universitarie il riformismo liberale borghese camuffato da socialismo. I “socialisti della cattedra” affermavano che lo Stato borghese è al di sopra delle classi e che pertanto avrebbe potuto conciliare le classi ostili ed attuare a poco a poco il socialismo”. Le concezioni dei “socialisti della cattedra” ebbero un’influenza non secondaria sullo sviluppo delle correnti opportuniste e revisioniste nella II Internazionale. In Russia le concezioni dei “socialisti della cattedra” furono sostenute dai “marxisti legali”, dei quali il rappresentante più noto fu Pëtr Struve. Lenin condusse una dura polemica contro il “marxismo legale”, nel quale ravvisava un fenomeno non soltanto russo, ma “la tendenza internazionale dei teorici della borghesia ad uccidere il marxismo "con dolcezza", a soffocarlo con abbracci, per mezzo di uno pseudoriconoscimento di "tutti" i lati e gli elementi ’`veramente scientifici" del marxismo, esclusi i lati "d’agitazione", "demagogici", "utopisti blanquisti". In altre parole: prendere dal marxismo tutto ciò che è accettabile per la borghesia liberale, fino alla lotta per le riforme, fino alla lotta di classe (senza dittatura del proletariato), fino al riconoscimento "generico" degli "ideali socialisti", fino alla sostituzione del capitalismo con un "nuovo regime", e rifiutare "soltanto" l’anima del marxismo, soltanto il suo carattere rivoluzionario” (da Il fallimento della II Internazionale, in Opere Complete, vol. 21, Ed. Riuniti).

(3). Al punto che ogni movimento in questo processo diventa distruzione: donde in campo borghese i pannicelli caldi dei movimenti ecologisti e di ritorno al “naturale” e le teorie dello sviluppo zero, del sovrasviluppo, della deindustrializzazione, del disastro ecologico, dei pericoli della bioingegneria, del nucleare, ecc.

(4). La negazione del dualismo stridente della società contemporanea, della contraddizione insita e lacerante, è significativamente comune alle due ali della cultura borghese contemporanea. La cultura borghese di sinistra (espressa dalla Scuola di Francoforte e in Italia dagli operaisti) nega il dualismo e la contraddizione e vi sostituisce un “sistema” unitario di dominio totalitario del capitale in cui tutti i movimenti della società sono funzioni del capitale. La cultura borghese di destra nega il dualismo e la contraddizione e vi sostituisce le leggi oggettive, naturali ed eterne della produzione.

 

1.2. Società i cui membri producono merci

Gli uomini producono beni d’uso come merci soltanto

1. quando essi li producono lavorando privatamente e indipendentemente l’uno dall’altro, mentre però ognuno di loro produce beni che entrano nel consumo degli altri: quindi di fatto essi dipendono l’uno dall’altro da ogni parte in quanto agiscono nell’ambito di una divisione sociale del lavoro spontaneamente formatasi e che continua a prodursi alle loro spalle (unità di dipendenza e dipendenza);

2. quando, cambiando i loro prodotti, i singoli possessori di beni si riconoscono reciprocamente come proprietari privati, ognuno dei quali dispone del suo prodotto, cosicché ognuno di essi solo col consenso dell’altro si appropria del prodotto altrui alienando il proprio: quindi il complesso dei loro lavori viene a costituire il lavoro complessivo della società solo attraverso lo scambio dei prodotti (5);

3. quando essi entrano in contatto tra loro solo mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro: quindi i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati vengono alla luce solo nell’ambito di tale scambio.

I caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati consistono in questo:

1. ogni lavoro privato di un produttore deve soddisfare un determinato bisogno di altri e far buona prova come articolazione del lavoro complessivo della società (6).

2. ogni lavoro privato soddisfa i molteplici bisogni del suo esecutore in quanto (e solo in quanto) il suo prodotto è scambiato, direttamente o indirettamente, con quelli di altri lavori privati corrispondenti a quei bisogni. Ciò può avvenire solo perché il suo lavoro privato è equiparato da lui e dagli altri membri della società ad ogni altro genere di lavoro privato e quindi è scambiabile con esso. Il segreto per cui individui differenti che lavorano in condizioni differenti possono equiparare e scambiare tra loro i prodotti dei loro differenti lavori è infatti l’eguaglianza e la eguale validità (la “pari dignità”) che attribuiscono a tutti i lavori perché e in quanto pongono ognuno di essi come lavoro umano in genere (lavoro astratto, erogazione di generica capacità lavorativa umana, lavoro omogeneo) (7).

Nello scambio e attraverso lo scambio dei prodotti, nonostante il produttore continui in genere ad ignorarlo,

- il bene da lui prodotto viene posto come una frazione dei beni di quel tipo complessivamente prodotti da altri membri della società (in genere a sua insaputa),

- il suo lavoro privato viene posto come un’articolazione del lavoro complessivamente eseguito dai membri della  società (della cui esistenza e grandezza egli, lavoratore privato, non ha alcuna consapevolezza),

- la sua forza-lavoro viene posta come parte della forza-lavoro complessiva dei membri della società (della cui grandezza egli non ha alcuna consapevolezza) (8).

Come si vede, quelli fin qui indicati sono i caratteri di una particolare società umana; i caratteri di questa società si presentano però come caratteri, qualità dei beni prodotti nel suo ambito: in questo consiste la natura di merci di questi beni (9).

I produttori di merci non riferiscono l’uno all’altro nello scambio i prodotti del loro lavoro in quanto li riconoscono quali semplici involucri materiali di lavoro umano in genere (e quindi riconoscono se stessi come partecipi di una consapevole e organizzata divisione del lavoro). Al contrario essi vengono equiparando l’uno all’altro loro differenti lavori (facendone così articolazioni diverse di lavoro umano omogeneo) senza rendersene conto, attraverso l’equiparazione l’uno all’altro, nello scambio, dei loro eterogenei prodotti.

Di conseguenza

- il lavoro impiegato per produrre una cosa si presenta come proprietà oggettiva della cosa (come suo valore),

- l’eguaglianza dei lavori umani viene al mondo nella forma, esterna ai produttori, dell’eguale oggettività di valore delle cose prodotte (tutti i prodotti, pur differenti per l’uso, sono quindi valori tra loro equiparabili, scambiabili, differenti solo quantitativamente),

- la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale viene al mondo come grandezza di valore dei prodotti del lavoro,

- i rapporti esistenti tra i produttori e sopra indicati appaiono come rapporti tra l’insieme delle cose prodotte, delle merci.

Inizialmente, finché lo scambio è accidentale, i beni non sono prodotti per lo scambio, in senso stretto non si producono merci. I prodotti scambiati sono una parte secondaria e accidentale dei beni dello stesso genere prodotti dallo stesso produttore per il consumo diretto. È la produzione per il consumo diretto che determina le condizioni del lavoro. I prodotti del lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente confermata (diventano valori), separata dalla loro oggettività di beni d’uso, solo nello scambio in quanto solo nello scambio vengono posti eguali ad un’altra cosa diversa da essi. La loro doppia natura (beni d’uso e valori) può essere desunta solo osservando lo scambio e astraendo dalle condizioni della loro produzione.

La scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e in cosa di valore incomincia ad esistere concretamente solo nelle società in cui lo scambio ha acquistato estensione ed importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte solo per lo scambio, vale a dire affinché la loro stessa produzione venga determinata (nel suo essere e nelle sue modalità) dal loro carattere di valore. Solo a questo punto inizia la produzione di merci.

Ogni merce, pur essendo ora fin dalla nascita valore, può esprimere il suo essere valore solo scambiandosi con un’altra merce e la sua grandezza di valore solo attraverso la quantità dell’altra merce con cui si scambia.

Perché, pur essendo prodotte come valori, le merci non possono figurare come tali direttamente e indipendentemente dallo scambio, ma devono esprimersi attraverso altre merci e nello scambio (10)?

L’espressione del valore direttamente come tempo di lavoro semplice socialmente necessario oggettivato presuppone la negazione dei rapporti sociali nel cui ambito i prodotti del lavoro sono merci, la negazione di una società in cui i lavori differenti sono posti come lavori omogenei e scambiabili solo inconsapevolmente e spontaneamente attraverso lo scambio dei loro prodotti e la negazione degli altri caratteri della società copra indicati. Presuppone infatti

- che i differenti lavori siano già assunti consapevolmente come eguali, interscambiabili e riducibili a lavoro semplice,

- che sia elaborato addirittura nella società un sistema comune di misura della loro quantità,

- che i prodotti dei differenti lavori siano considerati come semplici cristallizzazioni di lavoro umano omogeneo,

 - che i lavori siano previamente e consapevolmente ripartiti tra i membri della società quanto al tipo e alla quantità,

- che siano socialmente determinate, preventivamente, le condizioni in cui i vari lavori devono essere svolti (mezzi di produzione, intensità, ecc.).

Insomma, una produzione mercantile pianificata, come a dire acqua asciutta!

È per questo che non può esistere nè il diabolico “piano del capitale” (proclamato da Panzieri, Tronti, Negri e da tutta la combriccola degli operaisti italiani e prima ancora dai loro maestri francofortesi), né il “capitalismo governabile” (o il “giusto profitto” e il “giusto prezzo”) proclamato dai revisionisti moderni del PCI e dagli eurocomunisti, dato che il modo di produzione capitalista è produzione mercantile generalizzata.

È per questo che non può esistere il superimperialismo ipotizzato da Kautsky e Bukharin, dato che “l’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo”, è una fase del capitalismo.

È per questo che non può esistere lo Stato Imperialista delle Multinazionali: dato che la politica è in ultima istanza determinata dall’economia, il SIM in politica presuppone il piano del capitale in economia.

È da qui che sorgono le difficoltà che ha incontrato e incontra la pianificazione sovietica: la causa non è il poco mercato (come dicono Kruscev e Gorbaciov), ma quel tanto di mercato che ancora resta e intralcia la pianificazione e prospera parassitariamente nelle pieghe e nei buchi dell’economia pianificata. Questi a loro volta sono tanto più ampi quanto più si tenta, per necessità concreta o per pigrizia dogmatica di burocrati, di trattare come attività socializzate attività il cui risultato economico è ancora principalmente determinato dalle caratteristiche del lavoratore diretto (11).

È da qui che viene l’inconsistenza delle ricette keynesiane di politica economica (12).

NOTE

(5). Ciò pone limiti al ruolo che può avere nei rapporti economici di una società produttrice di merci lo Stato e in generale l’azione coercitiva, limiti che, quando nel concreto processo storico moderno sono stati travolti, hanno generato adeguate controtendenze. La base e la sostanza della democrazia borghese, come regime politico e come costituzione reale della società, sta in questo rapporto tra i produttori di merci, che è contraddetto, nell’ambito della stessa società borghese, dal rapporto capitalista-proletario (come verrà meglio esposto nella seconda parte di questo scritto).

(6). In termini di qualità: ogni lavoro privato deve essere adeguato a soddisfare uno dei bisogni esistenti nella società al livello in cui tale bisogno esiste (ad es. un’automobile che fa al massimo 30 km/h non è adeguata ora, lo era alcune decine di anni fa).

In termini di quantità: la distribuzione della capacità lavorativa che complessivamente si è avuta nella società tra lavori ognuno teso a soddisfare uno specifico bisogno, ossia a produrre un dato bene, deve essere congruente; la quantità di lavoro individualmente impiegata per produrre un bene non deve essere superiore a quella comunemente impiegata.

La divisione del lavoro è un organismo di produzione formatosi spontaneamente e che ogni produttore trova come parte della natura, le cui fila sono tessute e continuano a tessersi alle spalle dei produttori di merci. L’articolazione di questo organismo è casuale e spontanea sia in termini qualitativi che in termini quantitativi. E i produttori di merci constatano

- che quella stessa divisione del lavoro che li rende produttori privati e indipendenti l’uno dall’altro, rende poi altrettanto indipendente da loro lo stesso processo sociale di produzione e gli stessi loro rapporti entro questo processo,

- che l’indipendenza delle persone l’una dall’altra, nel suo ambito si integra con la loro onnilaterale e imposta dipendenza dalle cose.

(7). Qui sta l’inizio, l’origine e la sostanza della “democrazia borghese” e questo è il risultato di tutta una storia universale.

“Aristotele stesso ci dice dunque per quale ostacolo la sua analisi si arena: per la mancanza del concetto di valore. Che cosa è quell’eguale, cioè la sostanza comune che, nell’espressione di valore del letto (5 letti = 1 casa), la casa rappresenta per il letto? Aristotele dichiara che una cosa del genere "in verità non può esistere". Perché? La casa rappresenta qualcosa d’eguale nei confronti del letto in quanto rappresenta quel che è realmente eguale in entrambi, nel letto e nella casa. E questo è il lavoro umano.

Ma Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma di valore delle merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la disuguaglianza degli uomini e delle forze-lavoro. L’arcano dell’espressione di valore, l’eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto del lavoro e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto di eguaglianza nell’espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consiste in verità questo rapporto di eguaglianza.” (da Il capitale, cap. 1).

(8). Nella società borghese milioni di individui agiscono di fatto come articolazioni individuali di un organismo di produzione che comprende tutta la società. Gli operai sono posti apertamente in questa condizione (e questo è uno degli elementi che determinano il ruolo rivoluzionario della classe operaia). Invece l’attività dei lavoratori membri delle altre classi ha l’apparenza dell’attività individuale e molti di essi rifiuterebbero di essere apertamente inquadrati come articolazioni di un sistema produttivo. Ma è quanto il mercato fa di essi, a loro insaputa e in modo tanto pia inesorabile, impersonale e cieco quanto meno la cosa è palese. L’operaio contratta salario e condizioni di lavoro. Il piccolo produttore legato da un contratto con l’industriale o il commerciante che ritira la produzione, contratta prezzi e quantità. Le condizioni del produttore indipendente sono invece tanto più aleatorie e determinate impersonalmente, quanto più egli è libero da vincoli consapevoli e contrattati con altri, quanto più è libero di “inventare” ogni giorno cosa fare.

(9). La cosa fin qui indicata può essere meglio compresa se si considera che i comportamenti dei membri di quella società potrebbero essere assunti come regole di un gioco di società, una specie di “monopoli semplice” (semplice in quanto ancora privo di denaro, affitti, tasse, rendite, ecc.), giocato con gettoni diversi (i diversi valori d’uso). I gettoni nell’ambito di questo gioco verrebbero ad assumere le funzioni e i caratteri assunti dai beni prodotti in quella società, ossia le funzioni e i caratteri delle merci.

(10). Nella polemica contro il proudhoniano Darimon all’inizio dei Grundrisse (il capitolo del denaro), in Per la critica dell’economia politica e in Il capitale cap. 3 nota 50, Marx ha risposto in dettaglio a questa domanda, che assilla e ha assillato tutti i “riformatori” della società capitalista che volevano trovare un’equa regolazione dello scambio di prodotti pur lasciando sussistere la produzione mercantile, ossia lasciando società nelle condizioni sopra indicate che rendono merci i prodotti del lavoro.

 (11). Dal riconoscimento del carattere non ancora socializzato di queste attività (dunque della persistenza dei cosiddetti “rapporti monetario-mercantili”) discende certamente la necessità di instaurare un rapporto adeguato fra esse e la pianificazione, di studiare il loro funzionamento, il meccanismo della loro interazione con il piano e con il resto del movimento economico della società socialista: ma tutto questo allo scopo di subordinarle sempre di più al piano, di renderle funzionali allo sviluppo delle altre attività socializzate, oltre che nella direzione della progressiva eliminazione del carattere ancora non socializzato di queste stesse attività - laddove buona parte degli attuali teorizzatori della “perestroika” sembrano invece puntare all’allargamento di queste attività a danno di quelle già socializzate, all’ampliamento del mercato a scapito del piano.

(12). Cfr. Rapporti Sociali n. 1, pag. 23 nota 20.

 

1.3. Rapporto di denaro e materie del denaro

L’estensione e l’approfondimento storico dello scambio fa emergere l’opposizione, latente nella natura della merce, tra valore d’uso e valore. Il bisogno di dare, ai fini del commercio, una presentazione esterna di tale opposizione, spinge verso un’espressione (forma) del valore delle merci indipendente dalle merci oggetto del singolo atto di scambio ed eguale per tutte, fino alla formazione del denaro.

1.3.1. Il rapporto di denaro

Perché la produzione mercantile deve esprimere una merce denaro?

Consideriamo lo scambio merce contro merce M - M’. Se guardiamo le cose da vicino, per ogni possessore di merce ogni merce altrui conta come equivalente particolare della propria merce. Egli vuole scambiare la sua merce contro una pluralità di altre merci e quindi la sua merce conta per lui come merce universale, ossia come una merce di cui tutte le altre sono equivalenti particolari. Egli vorrebbe che la sua merce fosse posta da tutti gli altri come equivalente particolare di ognuna delle loro proprie merci, ossia come equivalente di tutte le altre merci, ossia come equivalente generale.

Poiché tutti i possessori di merci fanno lo stesso ragionamento, non esiste una merce che sia equivalente particolare di ogni altra merce e quindi equivalente generale. Non esiste quindi né una merce a cui tutte le altre merci si equiparano come valori (un termine generale di scambio) né una merce con cui tutte si mettono a paragone come grandezze di valore (una comune misura delle grandezze di valore). Al di fuori dello scambio, quando non è in corso lo scambio, le merci stanno di fronte l’una all’altra solo come valori d’uso.

La crescita del numero e della qualità degli atti di scambio porta la soluzione del problema. Le leggi della natura delle merci hanno agito come istinto naturale dei possessori di merci. Costoro possono riferire le loro merci una all’altra come valori e quindi come merci soltanto riferendole ad un’altra unica merce come equivalente generale. Anche se non è in corso immediatamente uno scambio, una partita di grano ed una partita di scarpe possono essere riferite l’una all’altra come valori, ossia come merci, in quanto entrambe scambiabili con oro, ossia equivalenti a oro e a quantità definite di oro (che quindi costituisce qui solo un riferimento ideale).

Sono le condizioni storiche concrete e i traffici che concretamente si svolgono in ogni società che selezionano una data merce, la rendono diversa dalle altre e la fanno assurgere, in quella società, al ruolo di equivalente generale. Le altre merci vengono presentate come valori in quanto scambiabili tutte con quella data merce. Questa merce assume in quella società un ruolo specifico, quello di equivalente generale, distinguendosi con ciò da tutte le altre merci. Essa è, in quella società, denaro.

Una data merce diventa quindi denaro in una data società perché in quella società i valori delle altre merci si esprimono in quella data merce. Ma una volta invalso e radicato questo uso, quando questa merce ha conquistato il monopolio come materia in cui si esprime il valore delle merci, una volta che la nuova funzione è diventata una qualità socialmente convalidata e quindi in questo senso oggettiva della merce-denaro, le cose si invertono: in quella data società i valori delle merci si esprimono in quella cosa perché essa è denaro. Si apre quindi la possibilità che il denaro cessi di essere una merce per essere solo ciò in cui in quella società si esprimono i valori delle merci, una creatura puramente sociale, ma socialmente oggettiva come il linguaggio.

Analogamente una data merce diventa denaro in una data società perché funziona come tramite dello scambio delle  merci, scambio che media il ricambio organico degli uomini. Ma una volta che tale sua funzione si è socialmente imposta ed è diventata di validità generale, il possesso di denaro diventa un obiettivo per se stesso. Il denaro cessa di essere un neutrale mezzo di scambio, un servitore delle altre merci e diventa l’obiettivo della produzione, l’inizio del processo produttivo, il motore di tutto il movimento economico della società oltre che la condizione necessaria per il soddisfacimento di ogni bisogno e in particolare la condizione necessaria per il ricambio organico della società.

A questo punto sono poste le premesse

- per il passaggio dallo scambio diretto merce contro merce di diverso valore d’uso (M - M’) che media il ricambio organico degli uomini, allo scambio mediato da una merce (denaro) non destinata a scomparire nel ricambio organico, merce - denaro - merce (M - D - M’);

- per il passaggio dalla produzione e dallo scambio per il consumo alla produzione per lo scambio con denaro e l’accumulazione di denaro, per la separazione dell’unitaria operazione M - D - M’ in due atti separati a autonomi M - D e D - M, la cui indipendenza diventa l’universale assillo dei venditori per cambiare in denaro il loro prodotto e l’universale preoccupazione dei compratori circa il potere d’acquisto del loro denaro, ma anche la via aperta all’illimitata produzione di M e al libero acquisto di M (13);

- per il passaggio del denaro a una vita autonoma dagli atti di scambio e dalla sua funzione diretta di mezzo di scambio. Gli atti M - D e D - M si spezzano ulteriormente in M (vendita a credito), - D (funzioni del denaro al di fuori dello scambio), - M (acquisto a credito) (14). Il denaro diventa mezzo di conservazione del valore (risparmio), mezzo di pagamento, mezzo di tesaurizzazione, denaro mondiale;

- per lo sviluppo dalla merce-denaro ad altre materie del denaro assurte a tale funzione e in questa funzione convalidate dalle relazioni correnti in una data società (e quindi ovviamente aventi validità limitata al suo ambito).

1.3.2. Le materie del denaro

Il denaro è equivalente generale delle merci (mezzo di scambio universale e misura universale delle grandezze di valore). Quindi come la merce, è espressione di un rapporto sociale. Il denaro è una merce che nell’ambito di una data società è immediatamente e illimitatamente scambiabile con qualunque merce, quindi comando sul lavoro altrui che porto in tasca.

Il denaro è potere sociale espresso tramite una cosa ed esattamente il potere di disporre di lavoro altrui (oggettivato o vivo) tramite una cosa. La materia del denaro è la cosa attraverso cui si esprime questo potere. Chiamiamo denaro sia il rapporto sociale che la materia attraverso cui si esprime.

Il denaro è per eccellenza lo strumento di disciplina e di ordine della società borghese. Dà uniformità ed eguaglianza a rapporti e a persone. Fa muovere con regolarità e in modo coordinato milioni di persone senza che esista tra loro alcun rapporto personale e alcun accordo, le fa cooperare senza alcun coordinatore, senza alcun capo che pensi prima il piano del loro movimento coordinato, lo imponga e lo faccia rispettare e senza le particolarità caratteriali e accidentali che inevitabilmente assumono il piano, gli ordini e l’autorità di ogni individuo per quanto grande sia l’autocontrollo e la comprensione delle cose di cui è dotato. Il denaro è un sistema di comando senza l ’odio e la commozione di sentimenti, la sordidezza e gli slanci del rapporto personale di direzione dell’uomo su un altro uomo.

Ma il denaro è anche ferrea sottomissione ad una forza cieca, prostituzione di ogni cosa ad esso: se non hai denaro muori. Non sono possibili né eccezioni, né mozioni di sentimenti, né considerazione delle particolarità del singolo caso.

Il rapporto di denaro nasce come estensione del rapporto di valore. La materia del denaro è mezzo di scambio e misura del valore. Da qui si sviluppano le altre funzioni della materia del denaro.

Il denaro assume e svolge nella società varie funzioni:

misura generale dei valori delle merci (ciò in cui si esprime il prezzo delle merci, unità di conto, scala dei prezzi, indice dei prezzi, materia dei contratti). Per questa funzione il denaro può avere un’esistenza anche solo ideale (moneta  non realmente coniata, unità che non esiste in alcuna materia: come ad es. l’ECU del Sistema Monetario Europeo);

mezzo di circolazione delle altre merci, mezzo di scambio nelle operazioni M - D - M, M - D, D - M (moneta, banconota, cartamoneta, titolo di credito);

mezzo di pagamento liberatorio di obblighi contrattuali e legali, di rendite, prebende, tasse, imposte, decime, tributi, risarcimenti, pene, ecc. (tutti al di fuori dello scambio tra merci) e materia dei contratti;

mezzo di conservazione del valore (risparmio, riserve e scorte);

mezzo di tesaurizzazione;

capitale (denaro che si accresce tramite il pluslavoro).

Tolta la funzione di capitale che richiede altre condizioni oltre alla semplice circolazione di merci, tutte le altre sorgono da essa. Le funzioni del denaro, anche se possono essere svolte dalla stessa materia di denaro, spingono 1’evoluzione del denaro ognuna in sue proprie direzioni, a volte tra loro contrastanti e i tentativi di appianare le tensioni derivanti dalle diverse funzioni svolte dalla tessa materia costituiscono grossa parte dell’attività delle autorità monetarie. Le funzioni particolari del denaro indicano di volta in volta, a secondo della diversa estensione e della relativa preponderanza dell’una o dell’altra funzione, gradi diversissimi del processo sociale di produzione.

Il denaro può adempiere alle prime cinque funzioni sopra indicate in ambiti diversi.

In un ambito locale dove una cosa è accettata come denaro a causa di

- residui di abitudini e consuetudini, relazioni e modi consuetudinari,

- effetti di relazioni personali (autorità morale, fiducia, servilismo, intimidazione),

- effetti di minaccia, di coercizione e di costrizione, privata o statale,

- effetti delle relazioni di compravendita e di pagamento facenti capo alla stessa persona.

Da ciò ancora si vede quanto poco l’essere denaro sia una qualità naturale della materia del denaro, bensì sia un suo carattere convalidato socialmente e solo in questo senso oggettivo.

2. Nei traffici mondiali, nell’ambito dei quali il denaro si è sviluppato per un lungo periodo senza che vi fosse forza di consuetudine, né di minaccia, né d’autorità morale, né di fiducia, né di coercizione statale o privata che (nell’ambito di ognuna di esse) facesse essere denaro una cosa, ma solo l’effetto delle relazioni economiche correnti nelle singole società che facevano essere una data cosa materializzazione sociale della ricchezza.

Solo quando le relazioni economiche mondiali diventano preponderanti rispetto alle relazioni economiche locali, quando si formano un mercato mondiale, un sistema capitalistico mondiale ed un sistema politico mondiale, anche il denaro mondiale viene ad essere cosa convalidata socialmente dalle relazioni mondiali esistenti e quindi subisce uno sviluppo analogo a quello subito dal denaro locale.

Nella scheda Denaro e materie del denaro in questo numero di Rapporti Sociali è esposta la storia delle materie del denaro nelle moderne società borghesi, della loro successione dalla merce-denaro alla formazione di sistemi creditizi locali e mondiale con le relative scritture contabili, dell’impiego di ognuna di queste materie in una o più delle funzioni del denaro, degli sviluppi a cui ognuna di esse ha aperto la strada nel corso dell’estensione della circolazione delle merci, dei rapporti di capitale e delle relazioni di pagamento da ambiti locali fino ad abbracciare tutto il mondo.

NOTE

(13). Già da qui si vede l’inconsistenza delle teorie che vogliono spiegare il movimento economico della società capitalista prescindendo dal denaro, come se questo movimento consistesse semplicemente nel ricambio organico mediato dalla divisione del lavoro, dal baratto merce contro merce o dallo scambio M - D - M’ ove il denaro non esiste o svolge solo un ruolo passivo di semplice equivalente della merce o di mezzo di circolazione. Da qui le stupidaggini del tipo che “ogni offerta crea la sua domande” (Say), la caratterizzazione del denaro come “merce ennesima” il cui movimento nella società è in tutto e per tutto analogo alle altre “n -1” merci esistenti (Walras e dopo di lui le varie scuole “neo-keynesiane”), la liquidazione del problema stesso con frasette del tipo “una merce viene adottata come misura dei valori ed il suo prezzo fatto uguale all’unità” (Sraffa), ecc. Sono tutte teorie apologetiche, che cancellano dalla teoria le contraddizioni caratteristiche del movimento reale che pretendono di spiegare, contraddizioni che però continuano la loro opera implacabili e noncuranti delle manipolazioni teoriche degli apologeti del regime borghese. Queste contraddizioni derivano dal fatto che una cosa unitaria (il ricambio organico i cui vari momenti sono concatenati l’uno all’altro) nella società borghese si attua attraverso passaggi ognuno dei quali può essere, per chi lo compie, fine a se stesso (M - D, D - M, ecc.) e la continuità quindi si spezza salvo manifestare la sua necessità ed imporsi in movimenti violenti e nel sovvertimento del tutto (crisi).

(14). Non si riesce a comprendere il movimento economico delle società attuali se si resta fermi allo scambio diretto tra merci M - M’ o mediato M -  D - M’. Queste forme di mediazione del ricambio organico sono oramai ristrette ad alcune grandi transazioni internazionali (baratto e compensazioni) e a piccole attività saltuarie. Il grosso del movimento economico si svolge secondo le altre figure derivate da quelle primitive. Non possiamo comprendere il comportamento di un vecchio se non ricostruiamo (nella nostra mente) la sua storia, però nemmeno la comprendiamo se pretendiamo di ridurlo (a mo’ della psicanalisi) al suo essere di bambino. Non possiamo comprendere l’essere umano se non ricostruiamo (nella nostra mente) la storia dell’evoluzione della specie, però nemmeno lo comprendiamo se pretendiamo di ridurlo al suo essere di animale. Eppure è quanto fanno, rispetto al movimento economico della società, da un lato i marxisti dogmatici che si limitano al vano sforzo di rintracciare nel presente le identiche figure della sua origine, dall’altro gli economisti borghesi che non riconoscono il processo della sua generazione. Vale qui la pena richiamare la pigrizia mentale che fa proporre ancora oggi Salario, prezzo e profitto come opuscolo divulgativo nonostante Marx, se riferito alle condizioni attuali, abbia torto e il suo ragionamento risulti sbagliato o incomprensibile. Nell’opuscolo Marx polemizza contro il socialista Weston, che sosteneva l’inutilità delle lotte rivendicative degli operai per l’aumento dei salari. Contro Weston, Marx dimostra che:

1. la lotta rivendicativa è fondamentale nel formare la coscienza di classe degli operai;

2. è falso che il capitalista possa annullare l’effetto di un aumento del salario aumentando i prezzi a suo piacimento.

Anche se la sostanza della dimostrazione di Marx resta valida tuttora, il ragionamento attraverso cui Marx perviene alla seconda conclusione presuppone il sistema monetario basato sull’oro e cede in assenza di questo.

 

1.4. Grandezza del valore: la legge del valore/lavoro

Quel che preoccupa ogni persona che scambia prodotti è quanti prodotti altrui riceverà in cambio del proprio. Quando le operazioni M - M’ e M - D - M’ cessano di essere compiute per intero nello stesso contesto, la preoccupazione diventa se riuscirà a vendere e quanto denaro potrà ottenere in cambio del suo prodotto, quanto prodotto altrui potrà ottenere in cambio del suo denaro: la preoccupazione riguarda cioè il prezzo dei prodotti.

Chi vuole comprendere il movimento economico della società borghese invece deve preoccuparsi anzitutto di comprendere i rapporti in piena indipendenza dal loro aspetto quantitativo. È infatti possibile comprendere come si determina l’aspetto quantitativo solo dopo che si è capito il contenuto e la genesi del rapporto (15).

Una volta chiarito nell’ambito di quali rapporti sociali i prodotti del lavoro sono merci e una merce particolare assurge al ruolo di denaro, diventa possibile seguire l’evoluzione dell’aspetto quantitativo del rapporto in cui una merce si scambia con altre e, in particolare, con la merce che svolge il ruolo di denaro.

Il punto di partenza sono produttori (individui e gruppi) indipendenti tra loro che scambiano i loro prodotti per i propri usi, liberi da vincoli reciproci, grossomodo eguali quanto a capacità lavorative, ognuno di loro capace di produrre quanto gli è necessario o in alternativa di produrre più di un oggetto per scambiarlo con un altro che evita di produrre.

Queste sono le condizioni dell’“economia naturale”. Il livello di civiltà degli individui è basso e la loro vita limitata e quindi limitati sono il numero e la qualità degli oggetti in cui si attua la loro civiltà e la loro vita. Questi sono in gran parte attinti dal mondo circostante con un’attività abitudinaria che richiede capacità comunemente esistenti. Il lavoro svolto per approntare ogni dato oggetto è (o può essere) una modificazione specifica del lavoro dello stesso individuo.

La produzione mercantile semplice è una società di produttori diretti (lavoratori) ognuno dei quali scambia il suo prodotto con quello di altri produttori diretti.

In questo ambito la continuità della produzione e riproduzione è possibile se e solo se i prodotti diversi sono scambiati in rapporti quantitativi eguali ai rapporti tra i tempi di lavoro materializzati dai produttori negli stessi prodotti.

La continuità della produzione e la riproduzione esigono la continuità (la sopravvivenza) dei produttori.

Il produttore che produce in un anno x kg di grano in più di quanto serve al suo uso, deve scambiare questi x kg con tutto quanto occorre alla sua conservazione nell’anno (in caso diverso, cesserà di produrre grano). Quindi deve scambiare questi x kg di grano con quanto egli stesso avrebbe potuto produrre per sé in un anno, quindi con il prodotto del suo lavoro di un anno (o con quanto ha prodotto un altro come lui in un anno) (16).

Come la merce è la cellula da cui si sviluppa tutta la società moderna (non il mattone la cui moltiplicazione e giustapposizione costituisce la società moderna), così il rapporto quantitativo delle grandezze dei valori (ossia dei tempi di lavoro impiegato nella produzione) delle merci scambiate è la legge elementare da cui si sviluppano i rapporti quantitativi di tutti i traffici (gli scambi) della società moderna.

Lo scambio è tale da assicurare la riproduzione. I produttori scambiano in base alla loro condizione presente e alle prospettive del futuro (e pagano le conseguenze dei loro errori). Se gli errori fossero diffusi e continui, la società si  estinguerebbe. Lo scambio non rispecchia il passato, non si pone il compito di rendere giustizia al passato, di remunerare quel tanto di tempo e impegno di lavoro che è stato oggettivato nella merce.

Man mano che lo scambio si estende e coinvolge produttori le cui condizioni sono diverse, anche i rapporti quantitativi di scambio si sviluppano e attraverso continue deviazioni in un senso e in altro realizzano uno scambio atto a garantire la continuità.

Ma anche questo è relativo. A volte lo “scambio” avviene con rapporti quantitativi tali da portare all’estinzione un gruppo di produttori (inessenziale alla continuità del tutto), ma non è evidentemente da questo “scambio” che si è sviluppata la società borghese (17). È quello che avviene oggi tra paesi imperialisti e paesi dipendenti: non è uno “scambio ineguale”, è solo uno “scambio tra ineguali”. La produzione mercantile, come si è visto, suppone scambio tra produttori indipendenti. Dove questa condizione non esiste, lo scambio è sui generis. La non riproduzione nel Terzo Mondo non è nociva alla borghesia dei paesi imperialisti, quindi questo “scambio” è più simile alla rapina: è parvenza dello scambio. Non si può ricostruire la legge dello scambio sull’eccezione che si esaurisce. Né si può, avendo un minimo di buon senso e di onestà intellettuale (che è indispensabile per ogni costruzione scientifica), andare a costruire la legge dello scambio dall’osservazione diretta di un mercato in cui i cereali, il petrolio e quasi ogni derrata indispensabile è usata come “arma strategica”, con una tecnica portata alla massima raffinatezza dalla borghesia USA e dal suo Stato.

Anche il rapporto quantitativo secondo cui due prodotti vengono scambiati, è un rapporto tra produttori (scambiatori), dipende dalle caratteristiche dei produttori, non dalle cose! Chi va a ricercare nelle cose (anche chi va a ricercarlo nella storia delle cose) lo cerca fuori posto!

Il rapporto di scambio non è più eguale immediatamente al rapporto tra i tempi di lavoro oggettivato non appena si esce dall’ambito di produttori diretti che svolgono lavori intercambiabili, omogenei. Allora entrano in gioco le diverse qualità lavoro (18), l’intensità del lavoro, l’eguaglianza del saggio profitto sul capitale, le posizioni di rendita (ogni volta che nella produzione entrano condizioni naturali che non sono illimitatamente e liberamente disponibili), le posizioni di monopolio, ecc. Tutte queste cose coesistono nel tempo, nella stessa società e interferiscono tra loro, ma sono anche elementi di uno sviluppo storico (e logico), benché in ogni singola circostanza vi sia sempre un elemento che è quello guida (principale).

L’espressione semplice di valore di una merce relativa ad una merce che funziona già come denaro, è il suo prezzo. Il prezzo è ogni volta e sempre anche forma semplice di valore (accidentale, casuale, immediata).

Proprio in questa natura del prezzo è implicito anche che la quantità della merce-denaro scambiata con una data merce può non rappresentare adeguatamente in termini quantitativi la grandezza del suo valore. Prezzo e grandezza di valore possono divergere e quindi divergono (19). Non sono due nomi della stessa cosa, ma due cose diverse che si presentano nella stessa cosa (denaro): la grandezza di valore (il tempo di lavoro semplice socialmente necessario per la produzione di una merce) e la quantità di denaro contro cui essa si scambia.

La divergenza dei due non è un difetto o una verifica della inconsistenza della teoria, ma una caratteristica del modo di produzione capitalistico. Non è una contraddizione della teoria, ma una contraddizione della realtà che si fa valere nelle crisi, nei traumi attraverso cui procede il movimento di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza condotto nell’ambito del rapporto di valore, nella difficoltà con cui “combaciano” tra loro i vari pezzi del processo produttivo sociale che stanno tra loro secondo le loro grandezze di valore ma sono scambiate secondo i prezzi, nell’instabilità e fluidità che di conseguenza permea tutto il movimento (materiale e spirituale) della società borghese.

Il prezzo è risultante di influssi molteplici per cui è impossibile una teoria generale dei prezzi. Il pregio della divergenza tra prezzo e grandezza di valore sta nella capacità che ne deriva al prezzo di recepire (sentire una spinta ed estinguerla trasformandola in modificazione di se stesso) questi effetti dei molteplici influssi, rendendo la società borghese  flessibile e capace di adattamento e trasformazione, come ben si vede dalle difficoltà che sorgono ogni volta che in questa società si cerca di stabilizzare i prezzi.

È a questo punto chiaro che sono fuor di luogo tutti gli sforzi per far coincidere o mostrare la coincidenza dei prezzi delle merci che troviamo nel negozio all’angolo della strada o indicati nel listino di una borsa-merci con le corrispondenti grandezze di valore (cioè con le quantità di lavoro omogeneo - lavoro astratto, lavoro semplice - impiegate nella rispettiva produzione). È in questi sciocchi sforzi che si sprecano i marxisti dogmatici, al pari dei nemici del marxismo che fanno lo stesso lavoro per dimostrare, partendo dalla non coincidenza tra prezzi e quantità di lavoro, l’infondatezza dell’analisi del movimento economico condotta da Marx, in particolare l’infondatezza della teoria del valore/lavoro.

È tuttavia noto anche ai dogmatici che nella produzione capitalistica la continuità della produzione e riproduzione si ha solo quando il rapporto quantitativo di scambio è tale da comportare eguale profitto per le singole frazioni di capitale che si contrappongono come produttori di merci (venditori e compratori) e che quindi le merci si scambiano non secondo le loro grandezze di valore, ma secondo i loro costi di produzione (grandezza di valore più profitto medio del capitale impiegato). I prezzi, anche solo per questo, non possono coincidere con le grandezze di valore (20).

In conclusione è assurdo (ingenuo) andare a computare quanto “tempo di lavoro” è oggettivato in due merci per verificare se il rapporto tra i tempi coincide con il rapporto quantitativo di scambio tra le due merci o con il rapporto tra i rispettivi prezzi. Esso coincide solo nella produzione mercantile semplice e in condizioni eguali dei produttori diretti. Non solo: anche in quell’ambito è solo attraverso lo scambio con un’altra merce che ogni merce definisce quantitativamente (oltre che qualitativamente) il suo essere valore. (segue in Rapporti Sociali 3)

NOTE

(15). Da quando è iniziata la fase della decadenza della borghesia, tutta l’economia politica borghese ha messo da parte, trascurato e ignorato la natura dei rapporti e ha concentrato l’attenzione sugli aspetti quantitativi (nel caso specifico sul regime dei prezzi). Ciò è un effetto caratteristico della lotta di classe: dare come scontato, ovvio, naturale, indiscutibile il rapporto di produzione esistente, distogliere l’attenzione dal suo carattere storico e transitorio, concentrare l’attenzione sui modi in cui funziona, sulla casistica corrente.

(16). “... sartoria e tessitura sono lavori qualitativamente differenti. Ci sono tuttavia situazioni della società in cui lo stesso uomo tesse e alternativamente taglia e cuce, e quindi questi due differenti generi di lavoro sono soltanto modificazioni del lavoro dello stesso individuo e non sono ancora funzioni particolari, fisse di individui differenti, proprio come l’abito che il nostro sarto ci fa oggi e i calzoni che ci fa domani presuppongono solo variazioni dello stesso lavoro individuate. L’evidenza ci insegna inoltre che nella nostra società capitalista, a secondo del variare della domanda di lavoro, una porzione data di lavoro umano viene fornita alternativamente nella forma di sartoria o in quella di tessitura. Queste trasformazioni del lavoro può darsi che non avvengano senza attrito, ma devono avvenire. Se si fa astrazione dalla determinatezza dell’attività produttiva e quindi dal carattere utile del lavoro, rimane in questo il fatto che è un dispendio di forza-lavoro umana* (da Il capitale, cap. 1).

“... Molto pia esattamente, l’anonimo predecessore di A. Smith, ... , dice: "un uomo s’è occupato una settimana nella produzione di tale oggetto necessario alla vita ... e colui che gli dà in cambio un altro oggetto non può stimare quel che veramente è equivalente, in modo migliore che computando quello che gli è costato altrettanto lavoro e altrettanto tempo; il che non è altro che lo scambio del lavoro che un uomo ha speso in un oggetto per un dato tempo, con il lavoro di un altro uomo, speso in un altro oggetto per lo stesso tempo"” (da Il capitale. cap.1, nota 16).

(17). “La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti. Il nostro possessore di denaro che ancora esiste soltanto come bruco di capitalista, deve comperare merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. L’evolversi in farfalla deve per un verso avvenire entro la sfera della circolazione e per un altro non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema” (da Il capitale, cap. 4).

(18). Nel suo movimento di crescita, inizialmente il modo di produzione capitalista divarica i lavori, fa entrare nella produzione e crea lavori qualitativamente molto diversi (compreso quello dello scienziato), quindi si allontana sempre più dalla condizione di produttori diretti che svolgono lavori omogenei. Poi si sviluppa, sulla base così creata, un movimento in senso contrario, di riduzione dei lavori qualitativamente diversi a lavori semplici, di dequalificazione delle prestazioni lavorative, trasferendo labilità alle macchine. Ed è sulla base di questo capitalismo sviluppato che la rivoluzione socialista diventa matura, quando il grosso del processo lavorativo è socializzato e quindi il risultato dell’attività lavorativa non dipende più tanto dall’abilità, energia ed altre caratteristiche personali del singolo, ma principalmente dalle condizioni socialmente riunite in cui si svolge il lavoro comune, del lavoratore dotato delle conoscenze e abilità comunemente esistenti (detto in altre parole, quando i lavori concreti diventano sempre più lavoro concretamente astratto).

(19). Il prezzo è espressione semplice, diretta, immediate della grandezza del valore di una merce e risente quindi l’effetto di tutte le concrete condizioni dello scambio che possono ovviamente essere diverse da quelle della produzione.

La legge del valore/lavoro non si esprime nella grandezza dei prezzi correnti (che è determinata da altri fattori), ma nei traumi e discontinuità che si hanno nella riproduzione a causa del fatto che i prodotti, sotto l’effetto delle circostanze pia varie, sono scambiati secondo rapporti (prezzi) diversi dalle loro grandezze di valore e dai loro costi di produzione. L’eguaglianza dei prezzi con le grandezze di valore (o con i costi di produzione) è stata dal secolo scorso invocata da tutti i “riformatori” della società borghese: Marx ha dimostrato che essa è incompatibile con la società borghese. Dal che si può dedurre la serietà scientifica (l’efficacia polemica e politica è un’altra cosa!) di tutta una serie di “critiche alla legge del valore/lavoro, a partire da quella di Böhm-Bawerk che con zelo e scrupolo da burocrate asburgico vi contrappose il fatto incontestabile che il prezzo delle bottiglie di buon vino invecchiato superava di gran lunga il loro valore!

“La forma di prezzo, tuttavia, non ammette soltanto la possibilità d’una incongruenza quantitativa fra grandezza di valore e prezzo, cioè fra la grandezza di valore e la sua espressione di denaro, ma può accogliere una contraddizione qualitativa, cosicché il prezzo, in genere, cessa d’essere espressione di valore, benché il denaro sia soltanto la forma di valore delle merci. Cose che in sé e per sé non sono merci, per esempio coscienza, onore, ecc., dai loro possessori possono essere considerate in vendita per denaro e così ricevere forma di merce, mediante il prezzo loro attribuito. Quindi formalmente una cosa può avere un prezzo, senza avere un valore. Qui l’espressione di prezzo diventa immaginaria, come certe grandezze  della matematica. D’altra parte, anche la forma immaginaria di prezzo, come per esempio il prezzo di un terreno incolto, il quale non ha nessun valore, perché in esso non è oggettivato lavoro umano, può celare un rapporto reale di valore o una relazione da tale rapporto derivata” (da Il capitale, cap. 3).

(20). “Dalla discussione che abbiamo offerto il lettore capisce che ciò significa soltanto: la formazione del capitale deve essere possibile anche se il prezzo delle merci è eguale al valore delle merci. Non può essere spiegata con la differenza fra i prezzi e i valori delle merci. Se i prezzi differiscono realmente dai valori, occorre ridurre i prezzi ai valori, cioè fare astrazione da questa circostanza come casuale, se si vuole avere davanti a sé puro il fenomeno della formazione del capitale sulla base dello cambio di merci, e se non si vuole essere confusi nell’osservarlo da circostanze secondarie perturbatrici ed estranee al vero e proprio andamento del fenomeno. Si sa del resto che tale riduzione non è affatto un puro e semplice procedimento scientifico. Le oscillazioni continue dei prezzi di mercato, i loro rialzi e i loro ribassi, si compensano, si eliminano reciprocamente e si riducono a prezzo medio, che è la loro regola intrinseca. Ed essa costituisce la stella polare per esempio del mercante o dell’industriale in ogni impresa che abbracci un periodo di tempo d’una certa durata. Dunque essi sanno che, considerato nel suo insieme un periodo di una certa durata, le merci vengono vendute non sopra e non sotto il loro prezzo medio, ma proprio al loro prezzo medio. E se il pensiero disinteressato fosse semmai il loro interesse, il mercante e l’industriale si dovrebbero porre il problema della formazione del capitale a questo modo: data la regolazione dei prezzi mediante il prezzo medio, cioè, in ultima istanza, mediante il valore della merce, come può nascere capitale? Dico “in ultima istanza", perché i prezzi medi non coincidono direttamente con grandezze di valore delle merci, come credono A. Smith, il Ricardo, ecc.” (da Il capitale cap. 4 nota 37).