L’empirismo e la manipolazione arbitraria dell’esperienza

Rapporti Sociali n. 7 - maggio 1990  (versione Open Office / versione MSWord )

 

“Il comunismo?”

Una scrollata di spalle: “è oramai chiaro che è fallito! che è impossibile! I fatti parlano da soli!”. Tra la borghesia oggi vanno di moda gli empiristi. È il loro momento di gloria. Ogni fatto è chiaro in sé, è immediatamente comprensibile. Scienza e teoria sono inutili. Se una cosa funziona può funzionare; se non funziona non può funzionare. Tutto pare semplice.

“Ricercare la verità nei fatti.” Questo principio venne enunciato dai materialisti contro quanti sostenevano “verità rivelate”, verità ultraterrene, metafisiche ed extraterrestri, teologiche, misteriose e spirituali, non verificabili; contro quanti descrivevano un mondo che gli uomini non potevano né verificare (conoscere) né modificare: dovevano solo accettarlo e subirlo.

I materialisti sostennero che il mondo era fatto nel modo che gli uomini venivano via via scoprendo mettendo assieme le loro esperienze, riflettendo su di esse, connettendo l’uno all’altro in rapporti di causa-effetto i vari elementi dell’esperienza, ricostruendo nel pensiero la natura di ogni cosa in base alle sue varie manifestazioni, verificando nella pratica se si producevano effettivamente le manifestazioni conseguenti alla natura quale era stata ricostruita nel pensiero: in una parola, facendo il bilancio dell’esperienza.

Chi vuole comprendere, deve elaborare le esperienze derivandone una teoria e quindi verificare la teoria in nuove esperienze: pratica - teoria - pratica.

“Ricercare la verità nei fatti” implica che il fatto non è ancora la verità. Altrimenti perché cercarla e non fermarsi al fatto? Se ogni cosa si desse apertamente ed immediatamente a conoscere, che bisogno ci sarebbe di teoria, di scienza, di ricerca?

Per i nostri empiristi invece il fatto è già chiaro in sé. Teng e i suoi simili nostrani prostituiscono il principio materialista al potere di oggi.(1) Ciò che è, è! Chi ha avuto successo, doveva vincere, era “l’uomo della Provvidenza”! Chi comanda ha ragione! Andreotti è il loro Dio: non ha forse avuto successo? Il fatto che chi fu sconfitto ieri vinse qualche tempo dopo, che chi aveva vinto ieri venne sconfitto il giorno dopo: questo repelle ai nostri empiristi. La realtà è quella che è. Ogni fenomeno è e basta. La teoria è ridotta alla constatazione dell’ultimo dato, di un dato. In ogni campo che abbia un minimo di complessità, si possono trovare dati a conferma di tesi contrastanti e incompatibili. Quindi gli imbonitori di turno sono nel loro mestiere del tutto liberi dai vincoli della dura realtà e i loro discorsi sono semplici e brillanti, irresistibili e di “sano buon senso”.

 

(1) Teng Siao-ping venne additato durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (l966-l970) come l’esponente esemplare dell’empirismo. Celebre il suo motto “non importa che un gatto sia rosso o nero, l’importante è che prenda topi”.

 

Che il dirigibile che si alza verso il cielo e il sasso che cade a valle, due fatti contrastanti, siano entrambi espressioni e manifestazioni della gravitazione universale, non turba il sonno degli empiristi, ma offusca tutta la loro comprensione della realtà. Che la spinta data ad una persona per farla cadere in un precipizio e la spinta data ad una persona per salvarla da un masso che gli cade addosso siano due atti del tutto simili ma dai risultati opposti, può anche non turbare il sonno degli empiristi, ma denota però l’inconsistenza della loro concezione.

Nessun fatto esiste isolato da ciò che lo ha generato, dalle mediazioni di cui è il risultato e dagli effetti che genererà. Gli empiristi compiono l’operazione del tutto arbitraria di isolarlo da tutto. L’isolamento del fatto, l’estrapolazione di un fatto dalla catena genetica nella quale si produce: questo non è un fatto, ma un’operazione soggettiva e arbitraria degli empiristi. Il loro apparente rispetto per l’esperienza, è in realtà manipolazione arbitraria e interessata dell’esperienza.

 Anche i materialisti dialettici elaborano, manipolano l’esperienza. Non c’è scienza senza ciò. Nel senso che per costruire una scienza occorre sia l’esperienza che l’elaborazione dell’esperienza. Molte persone hanno una ricca esperienza, ogni uomo ha un’esperienza multiforme: è un aspetto necessario della vita. Ma la maggior parte degli uomini in una società classista mancano delle condizioni e degli strumenti per elaborare la loro esperienza, per farne il bilancio, per ricavarne una scienza della realtà e una guida per l’azione. Milioni di uomini videro mele cadere dall’albero, senza derivare da ciò la teoria dell’attrazione dei gravi. I materialisti dialettici elaborano e manipolano l’esperienza secondo le leggi della realtà stessa, connettendo un fenomeno all’altro secondo i loro stessi rapporti genetici, fino a ricostruire nella loro mente il processo reale.(2) Secondo i materialisti dialettici “le apparenze ingannano”, nel senso che le cose non sono come appaiono; ma è anche vero che le apparenze rivelano la realtà perché sono sintomi e indizi da cui si può, con determinati strumenti e procedure, risalire all’essenza o natura delle cose.

 

Al contrario gli empiristi manipolano arbitrariamente l’esperienza, isolano arbitrariamente un fatto dagli altri con cui nella realtà è connesso (nello spazio e nel tempo).

Chi considerasse un bambino ed escludesse l’accoppiamento tra il padre e la madre, potrebbe anche affermare che egli è opera dello spirito santo o che è piovuto da un’altra galassia.(3) Solo in base a queste manipolazioni arbitrarie gli empiristi possono far dire a un fatto qualsiasi cosa, erigerlo a “prova” di qualsiasi cosa. Il bambino c’è, quindi è opera dello spirito santo. Essi fanno di un fatto quello che vogliono, lo hanno tolto dalla sua reale connessione necessaria (oggettiva), lo hanno così trasportato dell’immaginario, gli hanno tolto l’oggettività, ne hanno fatto una loro idea con cui oramai giocano liberamente.

 

(2) L’elaborazione cui sottopone l’esperienza chi costruisce una scienza è descritta da K. Marx in Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica (Introduzione, Il metodo dell’economia politica, Edizioni Einaudi p. 24 e segg.)

 

(3) La moderna società imperialista ha sviluppato e sviluppa sempre più la divisione del lavoro e in particolare la divisione tra lavoro di ideazione e lavoro esecutivo. Ne viene che un individuo ignora, per la stragrande maggioranza degli oggetti che usa, i procedimenti lavorativi che li hanno prodotti. Quelli che non lavorano li ignorano per tutti gli oggetti. Per essi un oggetto (dal pomodoro al telefono) esiste e basta. Lo trovano e la loro esperienza parte da questo.

L’empirismo trova il suo brodo di coltura favorevole nell’esperienza di individui estranei al processo produttivo.

L’egemonia della cultura borghese si manifesta poi nel fatto che anche dei lavoratori, i quali finché trattano della loro esperienza corrente capiscono chiaramente che ogni cosa fa parte di un processo intrecciato di relazioni causa-effetto e di influenze reciproche, appena passano ai fatti sociali (dal governo al razzismo) cambiano completamente modo di ragionare. Il perché dell’esistenza di questi fatti e il come vengano trasformandosi restano sistematicamente esclusi.

 

L’empirista pretende di attenersi ai fatti; in realtà prescinde da tutto tranne che da quello che gli fa comodo. L’empirismo non è un metodo della scienza, ma della demagogia e della propaganda del potere esistente. Esso erige l’esistenza di oggi a prova dell’eternità di ciò che oggi esiste. Solo ciò che oggi già esiste e si è affermato, può “provare” la propria esistenza; solo ciò che è già, può dimostrare che poteva nascere.

Ma i fatti non sono solo fatti. Hanno anche la testa dura e procedono per la loro strada incuranti delle dicerie sparse sul loro conto e dell’uso a cui imbonitori e parolai li hanno piegati. Essi generano altri fatti, secondo la loro natura e smentiscono le chiacchiere con i loro risultati. Ogni fatto è, certamente! Ma anche “non è”: nel senso che non esisteva ed è stato generato; nel senso che non esisterà perché da esso saranno nati altri fatti che prenderanno il suo posto. Il ruolo che esso ha nel movimento d’assieme, il suo significato, può essere compreso solo da chi comprende il processo del quale il fatto è un anello, un pezzo.

Ogni fatto è compreso nel suo significato solo alla luce della teoria del processo a cui appartiene, della teoria della cosa di cui è manifestazione.

Non è un caso che da quando è iniziato il declino della borghesia, ossia dall’inizio della fase imperialista del modo di produzione capitalistico, la cultura borghese rifugge dalla teoria, dallo studio della natura delle cose, ed hanno acquistato grande rilevanza nella cultura corrente varie procedure che riducono la scienza a correlazione di fenomeni, a correla zione quantitativa di un fenomeno con un altro nella trattazione matematica dei processi, senza preoccuparsi di comprendere, attraverso i fatti, la natura e l’essenza delle cose, e a volte anzi negando, agnosticamente, che sia possibile o abbia un qualche interesse la conoscenza dell’essenza delle cose.

Verso la fine del secolo scorso gli apologeti del capitalismo sostennero che il capitalismo andava non verso la concentrazione della ricchezza e del potere in poche mani, ma verso la distribuzione della proprietà a tutti. E in base a che cosa sostenevano questo? In base all’aumento del numero delle piccole aziende contadine desumibile dalle rilevazioni statistiche. Finché i marxisti (Karl Kautsky in La questione agraria del 1899 e Lenin negli scritti del periodo 1898-1914 ora contenuti nei volumi 4, 5, 13, 15, 16, 22 delle Opere complete) esaminarono sistematicamente i dati statistici alla luce degli altri aspetti del movimento della società e dimostrarono che il numero delle piccole aziende contadine aumentava effettivamente, ma grazie al fatto che

- le aziende contadine medie (quelle il cui proprietario viveva unicamente di agricoltura) andavano in rovina di fronte all’azienda capitalistica;

- le aziende contadine medie venivano spezzettate in aziende sempre più piccole i cui proprietari vivevano prevalentemente vendendo la loro forza lavoro, quindi come salariati, mentre l’azienda contadina diventava solo un complemento.

In definitiva l’aumento del numero delle aziende contadine non esprimeva la distribuzione e democratizzazione della ricchezza e della proprietà, ma la proletarizzazione dei contadini.

Il fatto incontestabile (il numero crescente di aziende contadine) faceva parte ed era manifestazione di un processo del tutto diverso da quello che gli apologeti della borghesia sostenevano: non della distribuzione della ricchezza tra un numero crescente di individui, ma della concentrazione dei mezzi di produzione e delle forze produttive nelle mani di un numero più ridotto di individui.