Unilateralità, eclettismo, dialettica

Rapporti Sociali n. 9/10, settembre 1991  (versione Open Office / versione MSWord )

 

“Essere unilaterali significa vedere la parte e non il tutto, gli alberi e non la foresta”. (Mao Tse-tung Sulla contraddizione)

 

“Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse: dà loro un’apparente soddisfazione, finge di tenere conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie; ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria dello sviluppo della società”.

(Lenin, Stato e rivoluzione)

 

Che cosa vuol dire essere unilaterali, eclettici o, all’opposto, dialettici?

Dare una risposta a queste domande è oggi importante non solo per fare chiarezza nel campo della teoria ma perché - come dicevamo nel numero 5/6 di Rapporti Sociali - “il pressappochismo, l’eclettismo e la confusione sono in questo periodo il tratto distintivo in campo teorico dell’opportunismo, della rassegnazione e del disfattismo”.

Per essere più comprensibili tratteremo la questione in riferimento ad alcuni esempi.

 

Il contrasto tra il partito comunista (bolscevico) russo e Trotzky sui sindacati, l’intervento di Bukharin, la risposta di Lenin

 

Negli ultimi mesi del 1920 e nei primi del 1921 si accese in Unione Sovietica un’ampia discussione sul ruolo dei sindacati nella nuova società e quindi sulla linea del partito comunista nei loro confronti. Le posizioni in campo erano due: quella del partito, “i sindacati sono innanzitutto una scuola di comunismo”; quella di Trotski, “i sindacati sono innanzitutto un apparato tecnico-amministrativo di gestione della produzione”.

Nel tentativo di conciliare tra la posizione di Trotski e quella del partito, intervenne Bukharin:

“Il compagno Zinoviev ha detto che i sindacati sono una scuola di comunismo e Trotski ha detto che essi sono l’apparato tecnico-amministrativo di gestione della produzione. Non vedo nessun fondamento logico che dimostri che il primo o il secondo punto di vista non sia giusto: entrambe queste definizioni sono giuste, come è giusta la loro combinazione”.

Alla ricerca di una fondamento filosofico della sua posizione, Bukharin aggiungeva: “Compagni, le discussioni che qui si svolgono fanno a molti di voi all’incirca questa impressione: arrivano due persone e si chiedono reciprocamente che cos’è il bicchiere che sta sulla scrivania.

L’uno dice: ‘È un cilindro di vetro e sia colpito da anatema chiunque dice che non è così’. L’altro dice: ‘il bicchiere è uno strumento che serve per bere e sia colpito da anatema chiunque dice che non è così’”.(1)

Lenin intervenne nella polemica con due obiettivi: affermare la posizione politicamente corretta, “i sindacati oggi sono anzitutto una scuola di comunismo”; educare il partito all’analisi materialista dialettica della realtà contro l’astrattezza unilaterale di Trotski e l’eclettismo di Bukharin.

 

1. Tutte le citazioni di cui non sono indicate le fonti sono tratte da: Lenin, Ancora sui sindacati, sulla situazione attuale e sugli errori di Trotski e di Bukharin, in Opere, vol. 32.

 

2. Nel 1920 in Unione Sovietica.

 

Seguiamone passo passo l’argomentazione.

I sindacati contano circa sei milioni di iscritti.(2) Circa 900 di questi iscritti gestiscono attualmente la produzione. Ammettiamo pure che in un futuro prossimo tale numero aumenti di cento volte. Avremo allora una percentuale dell’1,5% di membri dei sindacati in grado di “gestire la produzione” e il 98,5% che studia e deve studiare a lungo per essere in grado di farlo. Ecco perché i sindacati sono, per un lungo periodo, principalmente una scuola di gestione della produzio ne da parte dei lavoratori, cioè una scuola di comunismo.

Da questa prima parte dell’argomentazione di Lenin possiamo subito trarre una conclusione: non appena si passa dall’astratto al concreto, da “ciò che pensiamo” al movimento reale, si sviluppa cioè l’analisi concreta della situazione concreta, la posizione di Trotski si rivela unilaterale e campata in aria.

Riprendendo l’esempio di Bukharin, Trotski afferma che “il bicchiere è uno strumento per bere”, ma il bicchiere presentatoci è senza fondo.

Essere unilaterali vuol dire dunque essere astratti,(3) vedere un solo aspetto dei problemi o, vedendone più d’uno, considerarne separatamente ciascuno assolutizzandolo. In definitiva vuol dire essere metafisici che è il contrario di dialettici.

 

3. Nel senso di astrattezza che è cosa diversa da astrazione. Nella logica dialettica ricade nella categoria dell’astrattezza quel processo conoscitivo dell’“essenza” di un oggetto che ne considera le caratteristiche che lo rendono formalmente identico ad altri oggetti simili.

Astrazione vuol dire invece analisi di un oggetto a prescindere dalla influenze dell’ambiente in cui esso si trova. Ad esempio consideriamo le figure piane: triangolo, quadrato, poligoni regolari ecc.. Astrattezza è dire che la loro essenza è la “figura in generale” (che non ha una esistenza concreta); astrazione è dire che la loro essenza è il triangolo (che ha una esistenza concreta), nel senso che quelle figure piane sono tutte composte di triangoli, sono tutte derivazioni concrete del triangolo. L’astrazione mette in luce la natura concreta specifica di un oggetto che è alla base di tutti i modi d’essere che esso assume nel movimento reale. Il procedimento di Marx nell’analisi della circolazione semplice delle merci è un esempio di astrazione.

 

Vediamo ora come Lenin, chiarito l’errore di Trotski, critica l’argomentazione di Bukharin riprendendone l’esempio.

“Un bicchiere è indiscutibilmente sia un cilindro di vetro, sia uno strumento che serve per bere. Ma un bicchiere non ha soltanto queste due proprietà, o qualità, o aspetti, ma ha un’infinità di altre proprietà, qualità, aspetti, correlazioni e “mediazioni” con tutto il resto del mondo. Un bicchiere è un oggetto pesante che può servire come strumento da lanciare. Un bicchiere può servire da fermacarte e da prigione per una farfalla catturata; un bicchiere può avere un valore artistico per la sua decorazione disegnata o incisa, indipendentemente dal fatto che sia adatto o no per berci, che sia di vetro, che la sua forma sia cilindrica o non del tutto, e così via.

Proseguiamo. Se mi serve subito un bicchiere come strumento per bere, non m’importa affatto di sapere se la sua forma è perfettamente cilindrica e se esso è realmente fatto di vetro; m’importa invece che non vi siano fenditure sul fondo, che non ci si possano tagliare le labbra adoperandolo, ecc. Se invece mi occorre un bicchiere non per bere, ma per un uso al quale sia adatto qualsiasi cilindro di vetro, allora mi va bene anche un bicchiere con un fenditura sul fondo o addirittura senza fondo, ecc.

La logica formale (...) si serve di definizioni formali, attenendosi a ciò che è più consueto o che salta agli occhi più spesso e qui si ferma. Se, in questo caso, si prendono due o più definizioni diverse e si collegano in modo assolutamente casuale (cilindro di vetro e strumento per bere), si ottiene una definizione eclettica che si limita a indicare aspetti differenti dell’oggetto.

La logica dialettica esige che si vada oltre. Per conoscere realmente un oggetto bisogna considerare, studiare tutti i suoi aspetti, tutti i suoi legami e le sue “mediazioni”. Non ci arriveremo mai interamente, ma l’esigenza di considerare tutti gli aspetti ci metterà in guardia dagli errori e dalla fossilizzazione. Questo in primo luogo. In secondo luogo, la logica dialettica esige che si consideri l’oggetto nel suo sviluppo, nel suo “moto proprio” (...), nel suo cambiamento. Per quanto riguarda il bicchiere, ciò non è subito chiaro, ma anche un bicchiere non resta immutabile, e in particolare si modifica la sua destinazione, il suo uso, il suo legame con il mondo circostante. In terzo luogo, tutta la pratica umana deve entrare nella ‘definizione’ completa dell’oggetto, sia come criterio di verità, sia come determinante pratica del legame dell’oggetto con ciò che occorre all’uomo. In quarto luogo, la logica dialettica insegna che ‘non esiste verità astratta, la verità è sempre concreta’”.

Tornando ai sindacati Lenin accusava Bukharin di non tentare neppure un’analisi concreta della questione, limitandosi “a prendere un pezzetto da Zinoviev, un pezzetto da Trotski”. Questo è eclettismo.

 “I sindacati sono, da una parte, una scuola; dall’altra, un apparato; da una terza, un’organizzazione dei lavoratori; da una quarta, un’organizzazione composta quasi esclusivamente da operai dell’industria; da una quinta, un’organizzazione per branche di industria, ecc. ecc. In Bukharin non troviamo neppure l’ombra di una motivazione, di una analisi personale che dimostri perché bisogna considerare i due primi ‘aspetti’ della questione o dell’oggetto, e non il terzo, il quarto, il quinto, ecc. Perciò le tesi del gruppo di Bukharin non sono che vuoto eclettismo. Bukharin pone tutta la questione del rapporto tra ‘scuola’ e ‘apparato’ in modo radicalmente errato, eclettico”.

 

Essere eclettici dunque vuol dire mettere insieme meccanicamente affermazioni, teorie, concezioni contrapposte e casuali.

L’eclettico, nel momento in cui afferma che bisogna tener conto di questo, di quello e di cento altre cose ancora è, per così dire, cento volte unilaterale.

L’eclettismo è sempre stato il punto di vista di opportunisti, revisionisti, “cercatori di terze vie”.(4)

Il materialista dialettico afferma sì che è necessario esaminare tutti gli aspetti della contraddizione, ma afferma pure che questo è un processo infinito. Nel corso di esso bisogna però ogni momento stabilire ed affermare, sia pure come verità relativa in riferimento alla situazione concreta, ma senza ambiguità, qual è l’aspetto principale, qual è la causa principale, qual è il ruolo principale nella contraddizione.

La posizione di Lenin sui sindacati non nega che essi hanno tanti ruoli e aspetti diversi, ma afferma che nella concreta fase della dittatura del proletariato, cioè della transizione dal capitalismo al comunismo, che si presentava allora in Unione Sovietica, l’aspetto e il ruolo principali dei sindacati sono quelli di scuola di comunismo.(5)

L’eclettico accusa di unilateralità questo procedimento e sostiene la necessità di considerare uno accanto all’altro tutti i particolari e le circostanze connessi all’oggetto in esame, in modo indifferenziato ed empirico. Ma, data l’infinità di legami che ogni oggetto intrattiene con l’ambiente, egli finisce con l’impantanarsi nell’affermazione dell’“infinita complessità del mondo”, nell’agnosticismo, nell’affermazione cioè dell’inconoscibilità del mondo.

Il dialettico afferma al contrario l’infinita conoscibilità (e modificabilità) del mondo.

 

4. Sono “cercatori di terze vie” tutti coloro che, più o meno in buona fede, sono alla ricerca di un’alternativa tra materialismo ed idealismo, tra comunismo e capitalismo, tra proletariato e borghesia, tra conservazione e rivoluzione. Essi sostengono che vi è del buono in entrambi gli elementi della contraddizione e che è possibile prendere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Questa possibilità esiste solo nelle loro menti. Essi dimenticano che l’unità degli opposti è condizionata, temporanea, relativa. La lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta.

Cosa diversa invece è l’affermazione, coerentemente materialista, che nel passaggio dal vecchio al nuovo, la negazione del vecchio non è mai distruzione completa. Il nuovo sorge dal vecchio, come negazione del vecchio, negazione che però conserva, ad un livello superiore, ciò che è stato sviluppato di positivo e di progressivo. Il comunismo nega il capitalismo conservandone gli elementi positivi, ad esempio l’alto sviluppo delle forze produttive.

 

5. Conviene notare che il passaggio chiave dell’analisi con cui Lenin conclude che nella fase in atto i sindacati sono principalmente una scuola in cui i lavoratori apprendono a gestire assieme la produzione, ossia una scuola di comunismo, è il fatto che allora in Russia 900 iscritti su sei milioni (15 ogni 100.000) partecipavano alla gestione della produzione e che nel migliore dei casi nel prossimo futuro essi sarebbero diventati 90.000 (15 ogni 1.000). Quando questa quantità fosse sostanzialmente cresciuta, ad esempio fosse diventata 15 ogni 100; 50 ogni 100, ecc., la situazione sarebbe stata qualitativamente diversa. La gestione collettiva della produzione da parte dei lavoratori, ossia il comunismo, sarebbe stato un obiettivo quasi raggiunto e quindi tutto sarebbe stato diverso: la crescita quantitativa avrebbe determinato un’altra qualità.

 

 

DUE ESEMPI DI UNILATERALITÀ

  

Allo scopo di approfondire i concetti e le analisi sviluppati precedentemente, verificandone allo stesso tempo la validità, ci proponiamo di esaminare alla loro luce una questione di importanza fondamentale nelle controversie attuali: quella del rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione.

 

La concezione della Scuola di Francoforte

 

La questione è stata ampiamente trattata in Rapporti Sociali n. 4 e n. 5/6. Ci limitiamo qui a ricordare il contenuto principale di due concezioni presenti oggi nel movimento rivoluzionario.

- La concezione marxista: le forze produttive sviluppate nell’ambito del modo di produzione capitalista ad una certa fase del loro sviluppo sono diventate antagoniste al rapporto di produzione esistente, cioè al rapporto di capitale. Più precisamente: “scopo determinante della produzione capitalista è la produzione di plusvalore”;(6) ciò implica, ciclo dopo ciclo di accumulazione, la riduzione del lavoro necessario e l’aumento del pluslavoro, cioè l’aumento di produttività del lavoro. Ma l’aumento di produttività può ottenersi: I. con l’innovazione tecnologica che comporta investimenti crescenti per i nuovi macchinari, cioè una più alta composizione organica del capitale e una conseguente riduzione del saggio di profitto;(7) 2. facendo funzionare meglio, cioè con una maggiore coordinazione e quindi necessariamente in modo più collettivo, le macchine esistenti; 3. con una combinazione dei due processi.

In tutti e tre i casi le misure adottate per aumentare la produttività finiscono col produrre esiti contraddittori col modo di produzione capitalista.

- La concezione della cosiddetta Scuola di Francoforte: le forze produttive sviluppate nel modo di produzione capitalista sono sempre compatibili con esso, anzi sono sempre specificatamente “a sua misura”.

Abbiamo parlato, riferendoci alle due concezioni descritte, di “concezioni presenti nel movimento rivoluzionario”. Vogliamo precisare, e lo dimostreremo, che la teoria francofortese è una concezione metafisica, non dialettica, non rivoluzionaria e che non serve ai rivoluzionari; essa è il frutto più organico della cultura borghese di sinistra, cioè un prodotto degli sforzi della borghesia per mantenere il suo dominio.

Come contributo a quanto già esposto in Rapporti Sociali n. 5/6 ci limiteremo a trattare la “ricaduta” italiana della scuola di Francoforte.

Raniero Panzieri e Gianfranco La Grassa affermano entrambi che di fronte all’intreccio capitalista di tecnica e potere la contraddizione forze produttive/rapporti di produzione si annulla. “I rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state plasmate dal capitale”.(8)

“I rapporti di produzione capitalisti trovano la loro collocazione dentro le forze produttive. Nel preciso senso che l’articolazione tecnico-organizzativa del processo di lavoro è la forma empirica di esistenza di tali rapporti, è il supporto materiale della loro riproduzione”.(9)

 

6. Il Capitale, vol. 3, Editori Riuniti, 1972, pag. 296.

 

7. Per questi concetti vedi Rapporti Sociali n. 8

 

8. La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, ed. Sapere 1975, pag. 345.

 

9. Dal capitalismo alla società di transizione, F. Angeli 1978, pag. 43.

 

Partendo dalla constatazione che, allorquando l’uso delle macchine si è generalizzato su larga scala e in tutti i rami della produzione, la fabbrica è organizzata in funzione della macchina, Panzieri deduce che la macchina stessa “incarna” il capitale e il suo “piano” che si impone all’operaio come legge naturale, razionale. Da qui tramite l’arbitraria estensione di questo assunto, già di per sé arbitrario, all’intera società, Panzieri finisce col negare la tesi leninista della proprietà in dividuale dei mezzi di produzione e dell’anarchia come caratteristiche specifiche del capitalismo, il fatto che “l’unione di processi di lavoro di tutti i capitalisti in un unico processo di lavoro” (il “piano”, appunto!) è assurda perché incompatibile con la proprietà privata”.(10)

Per far questo Panzieri fa ricorso a citazioni prese qua e là dal primo libro di Il Capitale, tralasciando esplicitamente la prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica e l’AntiDühring che (lo dice lui!) “sembrano sostenere l’interpretazione leniniana”.

Il “piano” del capitale elimina, conclude Panzieri, le contraddizioni immanenti, interne al capitale stesso, il solo limite allo sviluppo del capitale non è il capitale stesso ma la resistenza della classe operaia.(11)

 

10. Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici, in Opere, vol. 1, pag. 208.

 

11. Ma, eliminate le contraddizioni immanenti, questa resistenza che possibilità ha di svilupparsi in una nuova società, da dove nasce il ruolo dirigente della classe operaia sull’intera società?

 

Ma a questo punto ci chiediamo: che cosa vuol dire che le forze produttive sono state “plasmate” dal capitale? Nella fattispecie che cosa vuol dire che le macchine sono state “plasmate” dal capitale? Smontando una macchina troviamo forse un solo pezzo il cui uso è specificatamente capitalista, cioè che è stato “plasmato” dal capitale? O non è piuttosto la totalità delle macchine della fabbrica ad essere usata in modo capitalista? Dunque il capitale si “incarna” non nelle forze produttive ma nell’uso capitalista delle forze produttive, cioè nel rapporto di produzione capitalista.

E ancora. Ammettiamo pure l’esistenza della “razionalità capitalista” in fabbrica e la sua estensione all’intera società, il famoso “piano” che consentirebbe lo sviluppo illimitato delle forze produttive senza contraddizione con i rapporti di produzione. Il capitalista è interessato alla produzione di beni materiali o alla valorizzazione del valore? Il capitalista produce beni materiali in quanto così valorizza il valore. Dunque il “piano” è finalizzato a questo scopo. Ma “l’incarnazione” del piano (per dirla alla Panzieri) nella fabbrica capitalista è la “razionalità tecnologica” che comporta più elevata composizione organica del capitale e conseguente caduta tendenziale del saggio di profitto. Vale a dire che il limite storico intrinseco, interno, dello sviluppo delle forze produttive e del modo di produzione capitalista è il capitale stesso.

La concezione di Panzieri e di La Grassa costituisce un esempio di unilateralità da più punti di vista:

- assolutizzazione di un piano di analisi: è vero, ma solo a livello fenomenico e soggettivo, che la principale contraddizione del capitale è la resistenza della classe operaia, cioè la lotta di classe, ma essa è la manifestazione, appunto a livello fenomenico e soggettivo, di una contraddizione intrinseca e oggettiva, quella tra rapporti di produzione e forze produttive: infatti, perché proprio la classe operaia è, tra tutte le classi oppresse della società capitalista, l’unica capace di costituirsi come classe dirigente alternativa alla borghesia?

- assolutizzazione di un aspetto della fabbrica automatica (la macchina si contrappone all’operaio come capitale, come lavoro morto che domina e succhia lavoro vivo) nei confronti dell’altro aspetto (la fabbrica automatica come sviluppo delle forze produttive e quindi approfondimento della contraddizione).

 

La concezione del “primato delle forze produttive”

 

Nell’Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta, nelle condizioni dell’accerchiamento capitalista e dell’arretratezza tecnica ed economica, per la difesa della “base rossa” creata dalla Rivoluzione d’Ottobre e per lo sviluppo della rivoluzione mondiale era indispensabile attuare una politica economica che permettesse di trasformare l’Unione Sovietica da paese importatore in paese produttore di macchine e attrezzature industriali. L’aveva detto anche Lenin: “La sola base materiale del socialismo può essere la grande industria meccanica, capace di riorganizzare anche l’agricoltura”.

Nacquero così i piani quinquennali, che avevano al centro lo sviluppo dell’industria pesante e, nelle campagne, le Stazioni di macchine e trattori (Stm), strutture che disponevano di macchine, sementi selezionate e tecnici, a disposizione dei contadini, per sviluppare la collettivizzazione delle attività agricole.

Questa linea e le tesi conseguenti, corrispondenti alle caratteristiche concrete della rivoluzione che aveva vinto in un paese economicamente arretrato (in cui cioè le principali forse produttive non avevano ancora carattere sociale: la massa dei lavoratori era per l’enorme maggioranza costituita da contadini individuali), fu via via trasformata nella tesi che il comunismo consiste nella creazione di forze produttive moderne (a carattere collettivo, sociale) e che l’unico compito della rivoluzione socialista è quello di svilupparle senza preoccuparsi dei rapporti tra le classi.

Anche la concezione del “primato delle forze produttive” costituisce un esempio di unilateralità perché:

- assolutizza l’elemento forze produttive identificando in modo astratto il contenuto tecnologico materiale con le forme sociali del loro impiego;

- assolutizza l’elemento lotta per la produzione nell’unità dialettica lotta per la produzione/lotta di classe.

- assolutizza la base materiale della costruzione del socialismo rispetto alle condizioni sociali di esso. Tornando all’esempio delle Smt, ciò vuol dire identificare la base dei rapporti collettivistici nelle campagne (cioè le Smt) con i rapporti collettivistici stessi, trascurando l’altro elemento, cioè la lotta per l’eliminazione della divisione in classi.

 

Accenniamo ora, per concludere, ad alcune posizioni che, con diverse sfumatura, privilegiano nell’unità dialettica forze produttive/ rapporti di produzione (unità e lotta di forze produttive e rapporti di produzione) l’aspetto “unità” nei confronti dell’aspetto “lotta”: si parla, a seconda dei casi, di interazione reciproca (Timpanaro), di autonomia relativa dei rapporti di produzione (Luporini), di “retroazione” dei rapporti di produzione sulle forze produttive. Quest’ultima concezione è dovuta a L. Apostel che, nel suo Materialismo dialettico e metodo scientifico, a partire dalla “più recente oggettivazione del lavoro umano”, l’automazione, si propone di effettuare la sintesi di Lenin e Bukharin “due grandi opposti, la cui unità, a nostro (di Apostel, ndr) avviso, costituisce il materialismo dialettico”. Secondo L. Apostel i rapporti di produzione agiscono sulle forze produttive in modo da compensare le perturbazioni indotte dallo sviluppo di esse, mediante azioni contrarie che ristabiliscono l’equilibrio forze produttive/rapporti di produzione. È una versione “cibernetica” della teoria dell’equilibrio di Bukharin. Nella pretesa “sintesi tra Lenin e Bukharin”, Lenin è completamente sparito. Più eclettico di così!