Sulle lotte di difesa e il movimento economico del paese

Rapporti Sociali n. 17/18 - autunno 1996 (versione Open Office / versione MSWord )

 

NO ALL’ECONOMICISMO!

(Resistenza, ottobre ’94)

Man mano che la crisi procede, i lavoratori sviluppano le lotte a difesa delle loro conquiste. Sono tante lotte su obiettivi particolari e a volte anche contrastanti, spesso promosse da organismi che si formano su quelle lotte e spariscono con esse. È l’aspetto difensivo della resistenza che cresce. È un movimento fecondo e di grandi prospettive. Dobbiamo appoggiare con tutte le nostre forze ognuna di queste lotte e fare prevalere in esse la direzione della classe operaia attingendo così da esse forze per la lotta per il socialismo.

La maggiore deviazione che si oppone a questa trasformazione è l’economicismo. In che cosa consiste? Nell’elaborare e propagandare programmi generali costituiti solo da riforme economiche su cui si dovrebbero unire e mobilitare tutti i lavoratori per imporle ai capitalisti. Attualmente il centro di questi programmi è “meno orario a pari salario” (fratello minore del “meno orario più salario” di ieri).

Il Manifesto del 15 settembre riportava la lettera di un operaio della Pertusola di Crotone che senza mezzi termini dice che gli operai di Crotone nella loro esperienza si sono scontrati con programmi “unificanti” proposti dagli economicisti di turno e che quell’esperienza ha insegnato che gli operai devono porsi chiaramente l’obiettivo della conquista del potere, contrapponendolo ai programmi di ripartizione della miseria, di “lavori di pubblica utilità”, ecc.

Gli economicisti pretendono di elevare a obiettivo generale, valido per tutti, un obiettivo particolare di un gruppo di lavoratori, come ad esempio “no agli straordinari, no ai contratti di solidarietà, abolizione degli enti inutili, ecc.”. Con ciò non fanno che promuovere la contrapposizione tra lavoratori. Il lavoratore occupato, giustamente lotta contro il salario d’ingresso o contro l’assunzione a termine: queste misure peggiorano le sue condizioni di lotta e il suo rapporto di lavoro. Pretendere di imporre a un disoccupato le stesse lotte vuol dire cercare di mobilitare un lavoratore contro il suo interesse. L’unico risultato è la disgregazione, la divisione e la dispersione di energie.

Con i programmi degli economicisti i lavoratori non riescono ad unirsi. La pratica ha dimostrato che questi programmi non mobilitano che una parte delle masse e solo per un po’ di tempo e la contrappongono ad un’altra parte, favorendo la mobilitazione reazionaria.

Gli economicisti nascondono o ignorano che l’unico obiettivo che può unire e mobilitare le masse contro la borghesia imperialista è la conquista del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione del socialismo.

Secondo l’economicista le masse capiscono e condividono solo gli obiettivi economici, solo gli obiettivi economici sono “concreti” e le masse non capiscono obiettivi “astratti” come la conquista del potere e il socialismo. Dimentica che l’unità e la mobilitazione delle masse si sono realizzate solo su questi obiettivi “astratti”!

 

IL MILIONE DI BERLUSCONI SACRIFICI OGGI PER PIU’ SACRIFICI DOMANI

(Resistenza, novembre ’94)

A creare un milione di posti di lavoro no, ma a togliere quasi un milione di lire a testa agli italiani Berlusconi forse ci riuscirà, o almeno ce la mette tutta. Tanto fanno i 50 mila miliardi di minori servizi e pensioni e di maggiori pagamenti della legge finanziaria divisi per i 56 milioni di italiani!

Ma qual’ è il senso delle misure economiche prese a fine settembre dal governo Berlusconi-Bossi-Fini?

Abbiamo detto 50 mila miliardi tra servizi (ad esempio sanità, scuola, ecc.) e pensioni in meno e maggiori pagamenti richiesti (ticket, condono edilizio, tasse scolastiche, ecc.). Non “tutti mangiano un pollo a testa”, ma per ragionare con i  piedi per terra, c’è chi ne mangia due e chi non ne mangia nessuno. Bisogna smettere di parlare genericamente di italiani, come se fossimo tutti eguali, tutti alle prese con gli stessi problemi.

La crisi divide sempre più nettamente la popolazione in due campi contrapposti. Da una parte quelli che devono lavorare per guadagnarsi da vivere, che hanno il problema di trovare il modo di vivere: il campo delle masse popolari (operai, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, pensionati, disoccupati, invalidi, emarginati, ecc.). Dall’altra quelli che non hanno il problema di guadagnarsi da vivere e che, se lavorano, lo fanno solo per aumentare la loro ricchezza: il campo alla cui testa c’è la borghesia imperialista.

Questi ultimi di fronte alle misure economiche del governo Berlusconi si accapigliano tra loro, ognuno per guadagnarci di più (la torta dei nuovi fondi pensioni, la torta delle privatizzazioni, ecc.). Sulla loro vita le misure del governo Berlusconi non hanno alcun effetto: continueranno a vivere come prima. Il problema riguarda la loro ricchezza: ci guadagno o ci perdo, ci guadagno molto o poco, ci guadagno più io o il mio concorrente? Sono partigiani accesi dell’”equilibrio finanziario” e del “risanamento dei conti dello Stato” ... a spese delle masse popolari e con il proprio massimo guadagno. Sono d’accordo che bisogna imporre “sacrifici”, discutono tra “sacrifici equi” e “sacrifici non equi”, quelli che fanno guadagnare loro e quelli che fanno guadagnare i loro concorrenti. Ma si affannano a cercare alleati tra i lavoratori: quelli che stanno un po’ meglio, quelli che hanno un po’ di risparmi o qualche proprietà e ancora molte illusioni.

Quanto alle masse popolari, quali sono invece gli effetti diretti delle misure economiche del governo Berlusconi? Aumentano le difficoltà della loro vita: diminuiscono i servizi che avevano o li rendono più cari (sanità, scuola, ecc.), riducono i loro redditi familiari (pensioni), li obbligano a nuove spese (condono edilizio), riducono le probabilità di trovare un lavoro (blocco del turn over nel pubblico impiego, blocco dei pensionamenti). Si può discutere a non finire se colpiscono di più un gruppo di famiglie o un altro, se è “più giusto” (“più equo”) colpire quello invece di questo, infierire su quello che già ha difficoltà a mangiare o su quello che mangia ancora a sufficienza, su quello che andava in pensione dopo 20 anni di lavoro o su quello che ci andava dopo 35 o su quello che non ci va mai. È il modo giusto per mettere una parte delle masse popolari contro l’altra. Un gran parlare di previdenza contro assistenza (pensionati per anzianità o vecchiaia contro invalidi, cassaintegrati e pensionati “sociali”), di “baby pensioni” e “privilegi” (dipendenti pubblici contro dipendenti privati), di evasione fiscale (lavoratori autonomi contro lavoratori dipendenti). Tutto serve pur di distogliere l’attenzione degli uni e degli altri dal governo e dalla classe che lo esprime: la borghesia imperialista. La classe che gode di ogni privilegio e il suo governo, in lotta contro i lavoratori “privilegiati”, naturalmente per spogliare di più anche i “non privilegiati”!

Questi sono gli effetti diretti, ma quali sono gli effetti indiretti delle misure economiche del governo Berlusconi sulle masse popolari? Il governo e i borghesi suoi amici o oppositori, dicono: sacrifici necessari (“equi” o “non equi”) a difendere o ristabilire “l’equilibrio finanziario”, a far stare meglio tutti domani, a difendere la vita delle generazioni future! La realtà è che la barzelletta dei sacrifici oggi per star tutti meglio domani questa classe dominante ce la racconta da anni, e ogni volta senza vergognarsi. Ci ricordiamo la “politica dell’EUR”, la “politica dei sacrifici”, la “politica della solidarietà nazionale” degli anni ’70? Il taglio della scala mobile all’inizio degli anni ’80 (accordo-Scotti, Craxi) e “il lavoro si difende lavorando” di Arisio, capo della “marcia dei 40.000” alla Fiat? I sacrifici incamerati da Amato e Ciampi (accordi luglio ’92 e luglio ’93)? A cosa sono serviti? A farci ritrovare davanti alla stangata Berlusconi del ’94. I sacrifici che la borghesia imperialista e i suoi governi ci vogliono imporre, non ci fanno uscire dalla crisi.

Ogni riduzione di posti di lavoro, di salari o di pensioni non fa che ridurre mercato, preparare nuove riduzioni, acuire la concorrenza tra capitalisti, aggravare i contrasti politici, alimentare la cultura di destra e rendere oscuro l’orizzonte. Ogni sacrificio che riescono a imporre oggi, prepara terreno per il successivo. Ogni stangata apre la via alla successiva. Il blocco del turn over nel settore pubblico, il blocco e lo scoraggiamento dei pensionamenti di anzianità, l’abolizione delle tanto deprecate pensioni baby, l’innalzamento dell’età pensionabile sono altrettanti freni all’assunzione di nuovi  lavoratori. Annullano anche eventuali “vantaggi” derivanti (in termini di occupazione) dai contratti di solidarietà, dai prepensionamenti e dalle varie formule di “meno orario ...”. È la crisi generale del sistema capitalista che procede. Questo vale per l’Italia come per gli altri paesi. È per questo che difendersi da ogni colpo del governo è solo il primo passo; ma certamente è un passo indispensabile per uscire dalla crisi in cui il sistema capitalista ci ha impantanato.

 

CONTRO IL GOVERNO DINI LADRI IN CERCA DI COMPLICI

(Resistenza, marzo ’95)

Dini ha cercato di completare l’opera di Berlusconi: nel 1995 le famiglie che compongono le masse popolari italiane, tra meno entrate (riduzione delle uscite dello Stato) e più spese (imposte, tickets, ecc. che vanno allo Stato come maggiori entrate) avranno a loro disposizione circa 73.000 miliardi in meno: 50.000 per “merito” di Berlusconi e 23.000 per “merito” di Dini. D’Alema, Cofferati, D’Antoni e Larizza hanno sentenziato che la manovra Dini è una manovra equa, perché i sacrifici son (ben) distribuiti. Ora Dini si appresta a ridurre “equamente” le pensioni, manovra non riuscita al suo predecessore Berlusconi.

Le maggiori entrate e le minori uscite realizzate dallo Stato con le manovre finanziarie Berlusconi-Dini dove vanno a finire? A pagare interessi sul debito pubblico. Gli interessi sul debito pubblico infatti erano già una parte enorme delle uscite dello Stato, ma sono aumentati per effetto dell’aumento del tasso di sconto deciso dalla Banca d’Italia.

A chi andranno questi interessi? In piccola parte alle famiglie che hanno qualche risparmio, che o li spenderanno o li accantoneranno come ulteriore risparmio; per la gran parte andranno alle famiglie ricche e alle aziende che li accantoneranno come nuovo capitale finanziario.

Riassumendo, la manovra Berlusconi-Dini in sostanza consiste nel togliere alle famiglie di lavoratori e dare alle famiglie di ricchi. Non siamo in grado di indicare esattamente quanto perderanno le prime e quanto guadagneranno le seconde, perché ai 73.000 miliardi della manovra Berlusconi-Dini occorre togliere quella parte che resta all’interno del primo gruppo (qualche famiglia delle masse popolari possiede titoli di Stato) e quella chi resta all’interno del secondo (anche i ricchi pagano a volte l’IVA).

Questa parte è comunque una quota piccola dei 73.000 miliardi. L’effetto complessivo è un trasferimento dalle tasche della gente comune a quelle dei ricchi.

Il suo risultato sarà una riduzione dell’attività economica: infatti la gente comune spende il suo reddito per fare acquisti, il denaro per essa è solo un mezzo di scambio; invece i ricchi accumulano ulteriori titoli di credito (su cui esigeranno ulteriori interessi). Operazioni come queste non servono a risolvere le crisi ma le alimentano, quali che siano le chiacchiere di Dini e dei suoi complici.

Perché D’Alema e soci vogliono che anche Berlusconi e Fini approvino la manovra finanziaria di Dini? Se è una manovra così necessaria per i benessere di tutti, se è una manovra così equa, se è una manovra così benefica, perché non vogliono portarne da soli il merito? Hanno paura di non poterlo spiegare alle masse?

In realtà D’Alema e soci sanno che la manovra in sostanza si riduce a una rapina ai danni dei lavoratori per pagare interessi ai ricchi. E vogliono che tutti i politicanti siano complici della rapina, perché nessuno di quelli chi possono parlare a milioni di persone, la denunci alle masse popolari.

 

DINI E D’ALEMA SGRIDANO BERLUSCONI E COLPISCONO I LAVORATORI

(Resistenza, aprile ’95)

Ora Dini è all’opera per ridurre le pensioni. L’aiutano con zelo Cofferati, D’Antoni, Larizza e D’Alema che fino a dicembre avevano tuonato contro Berlusconi che voleva ridurre le pensioni.

I punti “qualificanti” della legge di riduzione e le tendenze che essa alimenta hanno due effetti.

 Da una parte produrranno una riduzione netta del monte pensioni percepito dai lavoratori e una maggiore incertezza di vita (altro che “difesa della vita”!) per i lavoratori, per quelli già in pensione e ancora di più per quelli che ci sarebbero andati in futuro.

Dall’altra tendono a dividere i lavoratori e a metterli uno contro l’altro. La previdenza (i pensionati) contro l’assistenza (gli invalidi, i cassaintegrati e i titolari di pensioni sociali - 357.000 lire al mese - o di integrazioni al minimo - 627.000 lire); i titolari di pensioni di anzianità (che hanno lavorato “solo” 35 anni) contro i titolari di pensioni di vecchiaia (che andavano in pensione a “soli” 60 anni), i dipendenti privati contro i dipendenti pubblici “ancora privilegiati”, i dipendenti contro i lavoratori autonomi, ecc. Non c’è categoria a cui gli zelanti sacerdoti dell’ ”equità” non vogliano togliere qualcosa perché qualcun altro non ce l’ha!

L’”equità” decantata dai sindacalisti di regime si riduce a metter in primo piano la contesa tra questi vari gruppi; trasforma l’opposizione alla riduzione del monte pensioni e della sicurezza di vita in beghe senza fine su “quanto la riduce a me e quanto la riduce a te”, sulla “giusta misura per me e la giusta misura per te”.

La riduzione delle pensioni che Dini e la sua banda vogliono mettere a segno, sarà tutto fuorché definitiva. Già oggi sono evidenti alcune delle prossime tappe che la borghesia imperialista cercherà di raggiungere, quale che sia il colore del governo di turno: elevare l’età pensionabile oltre i 65 anni già decretati dal governo Amato con il “consenso delle parti sociali”, eliminare le liquidazioni (proseguendo l’opera iniziata nel 1978 dal governo di solidarietà nazionale), aumentare i contributi previdenziali, affidare i contributi previdenziali e le liquidazioni ai fondi pensioni, cioè ai finanzieri perché giochino nella roulette delle speculazioni di Borsa.

La riduzione delle pensioni non pone fine alla crisi economica né all’instabilità del sistema finanziario: l’una e l’altra derivano da leggi proprie del modo di produzione capitalista.

La concorrenza (nazionale o internazionale) spesso invocata a giustificazione, non fa che imporre dall’esterno a ogni singolo capitalista, contro i suoi eventuali “capricci”, la legge interna, propria del sistema capitalista.

A ogni ragionamento di “equità” e di “equilibrio del sistema finanziario” va contrapposto tenacemente che i lavoratori con le attuali forze produttive sono in grado di produrre tutti i beni e tutti i servizi che servono ai pensionati di oggi e a quelli di domani, anche in misura maggiore di quella consentita dal sistema pensionistico che Dini vuole ridurre, dalle pensioni “sociali” da 357.000 e da quelle minime da 627.000 lire al mese! Altro che le pensioni non si toccano! Occorre aumentarle! La causa della crisi e dell’insicurezza sta tutta e solo nel modo di produzione capitalista. È questo che bisogna eliminare! È noto che il proposito di “ridurlo” o “condizionarlo” è un’illusione di alcuni e un imbroglio di altri.

 

IL PERCORSO DELLA CRISI

(Resistenza, luglio-agosto ’95)

Se ci volgiamo indietro e cerchiamo di cogliere i percorsi seguiti dalla seconda crisi generale del

sistema capitalista mondiale, vediamo che essa si è sviluppata attraverso questi passaggi.

1. Dalla metà degli anni ’70 diventa generale e persistente il rallentamento della crescita dell’apparato produttivo, degli investimenti e del commercio. Non c’entrano direttamente le condizioni di esistenza degli uomini, è la valorizzazione del capitale che richiede che la crescita proceda a ritmi sempre più rapidi: un capitale più grande richiede una massa di profitto maggiore. Il rallentamento della crescita è la crisi, sconvolge tutto il corso dell’economia capitalista: come far fruttare il capitale?

2. La crescita insufficiente dell’economia reale dà luogo alla crescita via via più rapida dell’economia finanziaria: un complesso di relazioni di credito e debito, una massa di titoli finanziari che sostituisce, per ogni capitalista e per ogni società, la ricchezza reale. Questa crescita baldanzosa e spensierata è la sostanza dei “ruggenti anni ’80”.

3. Più la massa di titoli finanziari e l’intreccio di relazioni di credito e debito crescono, più precario diventa il loro equi librio. Mantenere questo equilibrio contro i movimenti che lo minacciano diventa il vincolo supremo che soffoca ulteriormente l’economia reale. L’equilibrio finanziario è l’imperativo che getta interi paesi nella carestia, fa cancellare conquiste strappate con anni di lotte.

La storia recente del nostro paese mostra a sua volta alcuni passaggi evidenti.

1. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni ’70 le masse popolari nel complesso riescono a strappare via via migliori condizioni di vita, di lavoro, di sicurezza (previdenza e assistenza), di istruzione, di “diritti civili”, ecc. L’accordo per il punto unico di contingenza nel 1975 è il punto più alto di questo processo.

2. Dalla metà degli anni ’70 inizia l’erosione, la limitazione e la cancellazione delle conquiste strappate negli anni precedenti, in ogni campo: reddito, sanità, stabilità del posto di lavoro, relazioni sul lavoro, istruzione, “diritti civili”, ecc. Governi di Solidarietà Nazionale (1975-1982), governi del CAF (1982-1992).

A partire dal 1992 (governo Amato) l’erosione lenta e la cancellazione graduale delle conquiste passate si trasformano in eliminazione rapida. La parola d’ordine della borghesia diventa: “Recuperare il tempo perduto”. Precipita la crisi politica del regime DC e ogni governo (Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini) prosegue l’opera di riduzione delle conquiste, nel disperato tentativo di mantenere in equilibrio il sistema finanziario.

 

DIFENDERE OGNI CONQUISTA DELLE MASSE POPOLARI!

CREARE LE CONDIZIONI PER LA RICOSTRUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA!

(Resistenza, numero straordinario per la manifestazione di Roma, 24.2.’96)

Il “governo delle larghe intese”, dai fascisti di Fini al PDS di D’Alema, è fallito prima di nascere. Ora hanno indetto le elezioni. Perché è fallito?

Il governo Maccanico era il tentativo di coalizzare tutte le forze borghesi per continuare il programma di Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini: l’eliminazione rapida delle conquiste che le masse popolari hanno strappato nel periodo 1945-1975. Stanno portando a termine l’opera incominciata alla fine degli anni ’70 dal regime democristiano, dagli Andreotti e dai Craxi. I padroni stanno portandoci via tutte le conquiste dei decenni precedenti. Nessun campo si salva: pensioni, contratti collettivi, posti di lavoro, salari, sicurezza sul lavoro, assistenza sanitaria, igiene pubblica, istruzione, tariffe, tasse, affitti, edilizia pubblica, ambiente, servizi sociali, informazione, lavori autonomi. Su questo tutti i partiti delle “larghe intese” sono d’accordo. Il governo Maccanico è però fallito perché i contrasti economici e politici tra i gruppi imperialisti sono troppo forti. Tutti vogliono un governo stabile e forte contro i lavoratori, ma ogni gruppo imperialista lo vuole a suo modo e per i suoi interessi. Ora con le elezioni ogni gruppo cerca di mobilitare le masse al suo seguito. Nessun gruppo risparmierà mezzi per vincerle: dalla propaganda, alle manovre, alle intimidazioni. Dopo le elezioni la guerra riprenderà come prima.

La nuova crisi generale del sistema capitalista imperversa in tutto il mondo, una crisi economica che ovunque si trasforma in crisi politica e culturale. Ogni capitalista per far rendere il suo capitale deve rapinare le masse e divorare altri capitalisti. In questa corsa senza fine la borghesia imperialista sacrifica milioni di proletari e di lavoratori autonomi, trattati come esuberi o spremuti senza limiti. È quello che la borghesia fa in tutti i paesi: imperialisti, ex socialisti e semicoloniali. I lavoratori francesi di dicembre e gli immigrati lo stanno a mostrare. Intere popolazioni sono decimate. Il contrasto tra la borghesia imperialista e le masse popolari cresce ovunque. Ma contemporaneamente si acuiscono anche i contrasti tra gruppi e Stati borghesi. La guerra civile prima e l’invasione poi della Jugoslavia sono solo il caso più vicino e più noto. Questa è l’”economia di mercato”, questo è il suo “nuovo ordine mondiale”. Non c’è sacrificio che tenga. Ovunque i sacrifici aprono la strada a nuovi sacrifici, la politica del meno peggio porta al peggio, ogni “finanziaria” apre la strada alla successiva ancora più pesante, ogni ristrutturazione prepara la successiva. Dal tempo del “governo di solidarietà nazionale” (1978) stiamo sperimentando sulla nostra pelle dove porta l’abbandono della via rivoluzionaria  che Togliatti e Berlinguer, assieme agli altri dirigenti del revisionismo moderno, da Kruscev a Gorbaciov a Teng Hsiao-ping, sono riusciti per un lungo periodo a imporre nel movimento comunista. Nel periodo 1945-75, nel periodo del “capitalismo dal volto umano”, finché l’economia capitalista era in sviluppo, siamo riusciti egualmente a strappare miglioramenti nei paesi capitalisti e a mantenere nei paesi socialisti una parte dei progressi compiuti. Quando il vento è cambiato, ci siamo trovati disarmati nelle mani della borghesia, senza difesa contro la sua rapina! I partiti e i regimi dei revisionisti sono andati a gambe all’aria ed è entrata in scena la destra. Non basta denunciare questa situazione, occorre capovolgerla. O prendiamo tutto o perderemo anche quello che avevamo conquistato. Quello che abbiamo conquistato è incompatibile con l’equilibrio del capitale finanziario. È possibile difenderlo solo liberandoci dal capitalismo.

La classe operaia deve prendere il potere e instaurare il socialismo: una società di lavoratori associati che ripartiscono tra loro tutto il lavoro da fare (il lavoro è un obbligo e un diritto) e distribuiscono il prodotto del lavoro (a ognuno secondo il suo lavoro). Per i lavoratori è l’unica via positiva di uscita dalla crisi attuale. È una via possibile? Tutto il vecchio mondo è sconvolto. Tutto ciò che sembrava stabile è diventato precario. Il regime democristiano è in putrefazione. I vecchi equilibri e ordinamenti saltano e ogni gruppo imperialista vuole imporre il suo. Il mondo cambia, lo scontro deciderà in quale direzione cambierà. La crisi tende a dividere la società in due campi contrapposti: chi deve lavorare per vivere e chi, se lavora, lo fa solo per aumentare il suo capitale. La mobilitazione rivoluzionaria delle masse diretta dalla classe operaia e la mobilitazione reazionaria delle masse diretta da qualche gruppo imperialista; la rivoluzione socialista o la guerra di lavoratori contro lavoratori: queste sono le vie verso cui la crisi del capitalismo sta ovunque sospingendo le masse. Il 1989 è stato il punto d’arrivo del lavoro di corruzione e logoramento condotto per anni dai revisionisti moderni nel movimento comunista, ma il disfacimento dei vecchi regimi socialisti e dei vecchi partiti comunisti ha ovunque liberato nuove energie, ha dato inizio alla ripresa del movimento comunista. Partiti comunisti di nuovo tipo stanno già dirigendo con successo guerre popolari rivoluzionarie (Perù, Filippine, Kurdistan, ecc.).

Anche da noi cresce il distacco delle masse dal vecchio regime DC, dai suoi istituti e dalle sue organizzazioni in putrefazione. Lo Stato borghese è sempre più debole perché i gruppi imperialisti combattono tra loro, si mangiano tra loro e le masse se ne allontanano sempre di più. Si mostra sempre più per quello che è: lo Stato della criminalità organizzata, delle stragi, delle esecuzioni sommarie, delle tangenti, dei complotti, dei ricatti, della repressione e dell’arbitrio dei padroni. Le larghe intese dei gruppi imperialisti contro le masse devono combinarsi con una guerra civile strisciante tra loro. I loro accordi saltano uno dopo l’altro. Avventurieri di ogni tipo si affiancano ai vecchi esponenti del regime. Tra le masse crescono il malessere e il malcontento, l’attivismo e la confusione, il bisogno di cambiare e la sfiducia nel mondo attuale.

Ma perché partiti e correnti dichiaratamente di destra si rafforzano? Le masse stanno cercando una direzione per uscire dalla crisi del capitalismo che si aggrava ogni giorno e non sanno ancora “a che santo votarsi”. Sono oppresse dai governi “di sinistra” come da quelli di destra. Con l’appoggio dei “progressisti” e di Cofferati-D’Antoni-Larizza, Dini ha fatto la controriforma delle pensioni che Berlusconi aveva iniziato. I partiti di destra ricorrono alla mobilitazione reazionaria delle masse, indicano ai lavoratori altri lavoratori come causa dei propri guai. Raccolgono anche quello che i partiti “di sinistra” seminano: la contrapposizione tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi (“giustizia fiscale”), tra lavoratori del privato e lavoratori del pubblico (“privatizzazione dei servizi pubblici”), tra lavoratori e pensionati (controriforma delle pensioni), tra giovani e adulti (salari d’ingresso, ecc.), tra occupati e disoccupati (accordi per ristrutturazioni). È la politica del “meno peggio” che porta al peggio. È successo così anche nella prima metà del nostro secolo.

Un partito che pone in primo piano il lavoro nelle istituzioni borghesi, parlamentarista, elettoralista, abbarbicato alle istituzioni del vecchio regime in putrefazione e fedele allo Stato borghese, che si limita a porre rivendicazioni economiche il più delle volte deluse, non può essere neanche un argine efficace alla destra. È inevitabile che diventi ruota di scorta del regime oggi e vittima dei ricatti e della repressione domani se insisterà nelle rivendicazioni. La storia di Ri fondazione Comunista lo dimostra: il governo Dini è sopravvissuto al voto sulle pensioni e a quello sulla mozione di sfiducia “Mancuso” grazie ai parlamentari del PRC. I lavoratori lo hanno dovuto scavalcare ogni volta che hanno dovuto difendere con la forza i loro interessi (Crotone, Catania, Sulcis, ecc.). Non è vero che “le masse sono arretrate”: le masse cercano una via d’uscita alla crisi. Il problema sono i sedicenti comunisti che non vogliono imparare a comprendere come si sviluppa la lotta di classe e ad appoggiare, elaborare, rafforzare e dirigere le tendenze positive delle masse e contrastare le tendenze negative.

Nel corso di questa crisi la classe operaia può prendere la direzione del resto delle masse popolari solo combattendo per instaurare il suo potere e avviare la trasformazione socialista della società. Solo l’obiettivo del socialismo e la direzione della classe operaia tramite il suo partito comunista possono unire le masse popolari e sottrarle alla mobilitazione reazionaria promossa da gruppi della borghesia imperialista. A date condizioni, ogni singolo attacco della borghesia può essere respinto, ridotto o ritardato; ma la difesa può durare e rafforzarsi solo se ogni singola lotta è valorizzata per raccogliere e accrescere le forze rivoluzionarie, per preparare l’attacco fino alla vittoria.

Il primo passo in questa direzione è la ricostruzione del partito comunista. Occorre un partito che sia fondato sulla classe operaia, che abbia come suo obiettivo l’instaurazione del potere della classe operaia e l’eliminazione di quello della borghesia imperialista, che subordini tutto a questo obiettivo, che selezioni e formi i suoi membri, i suoi dirigenti e le sue organizzazioni in funzione di questo obiettivo, che sia capace di resistere alla controrivoluzione preventiva e all’aggressione scatenati dalla borghesia, che faccia tesoro dell’esperienza dei 150 anni di storia del movimento comunista, che impari dai successi e dalle sconfitte delle rivoluzioni proletarie, che abbia quindi come teoria guida il marxismo-leninismo-maoismo. Un partito così, non lo si improvvisa. Per la sua costituzione dobbiamo creare alcune condizioni: uomini e organismi votati alla causa del comunismo, programma, metodo di lavoro, analisi della fase e linea generale, legami con i lavoratori avanzati. Le creiamo mettendoci già oggi ad attuare la linea politica generale del futuro partito comunista: “Unirsi senza riserve alla resistenza che le masse popolari oppongono al procedere della crisi del capitalismo, comprenderne le leggi di sviluppo, appoggiarla, organizzarla e far prevalere in essa la direzione della classe operaia trasformandola così in lotta per il socialismo, usando la linea di massa come principale metodo di lavoro e di direzione”. Solo adottando già oggi questa linea e trasformandoci per essere sempre più capaci di attuarla, riusciremo a creare le condizioni per la ricostruzione del partito comunista. Ogni compagno che vuole assumersi questo compito deve

- organizzarsi con quelli come lui, costituendo un comitato, imparare a lavorare collettivamente e accettare di trasformarsi sulla base dell’esperienza,

- iniziare ad applicare con le sue forze attuali la linea politica generale del futuro partito comunista,

- collegarsi con i CARC che fanno già questo lavoro, per imparare rapidamente a farlo meglio, con meno errori e su scala più vasta. Per il socialismo! Il comunismo vincerà!

 

A QUALI CONDIZIONI È POSSIBILE DIFENDERSI

CON SUCCESSO DALLA RAPINA DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA?

(Resistenza, numero straordinario per la manifestazione di Roma, 24.2.’96)

Non è vero che in periodo di crisi ogni lotta di difesa è condannata alla sconfitta. L’esperienza dei vent’anni di crisi generale mostra vari casi di gruppi di lavoratori che hanno difeso con successo le loro conquiste. Se si esaminano con cura queste lotte vittoriose, si vede però che i lavoratori sono riusciti a vincere solo grazie a precise condizioni. Eccone alcune:

1. obiettivi e metodi di lotta devono essere caso per caso i più particolari possibile in modo che i lavoratori che partecipano alla lotta siano convinti della giustezza e della necessità (in generale una lotta di difesa non può essere “per altri”,  né i metodi di lotta possono essere generali);

2. la lotta deve essere diretta da persone che vogliono vincere;

3. non lasciarsi legare le mani dalle regole stabilite dal nemico;

4. adottare caso per caso metodi e forme di lotta efficaci e sostenibili dai lavoratori;

5. non lasciarsi isolare ma crearsi tutti gli alleati possibili;

6. allargare il più possibile la lotta;

7. individuare e sfruttare le contraddizioni in campo nemico.

Ricavare dall’esperienza e propagandare le condizioni oggi necessarie perché una lotta di difesa abbia successo, cioè riesca a impedire, ritardare, ridurre il provvedimento della borghesia imperialista contro cui è diretta: ecco uno dei modi per appoggiare la difesa delle conquiste delle masse popolari.

 

TRE SCHIERAMENTI NELLA POLITICA ATTUALE

(Verbale di conferenza, marzo ’96)

Tante sono le immagini che vengono date dell’oggetto concreto dello scontro tra le classi in corso in Italia in questi anni (analogo a quello in corso negli altri paesi imperialisti).

Alcuni sostengono che lo scontro è tra neoliberismo, politiche neoliberiste, eliminazione dell’intervento dello Stato nell’economia, meno Stato, ecc. e modello keynesiano-fordista.

I compagni che si rappresentano la lotta in corso come lotta tra le politiche neoliberiste e il modello keynesiano-fordista accettano per buona l’immagine del conflitto data dalla borghesia, salvo rovesciarne i termini: loro sono per il modello keynesiano-fordista. Ma questa immagine del conflitto in corso li rende incapaci di dirigere lo scontro, li fa diventare conservatori, li paralizza e li vota alla sconfitta.

Altri compagni accettano per buona l’immagine che la borghesia dà del mondo e la indicano come l’obiettivo contro cui combattere: diventano tanti don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento. Un momento il mulino è il mercato unico europeo (quello che si doveva realizzare nel 1992), ora è il Trattato di Maastricht, ora è il liberismo.

In realtà lo scontro è tra eliminazione delle conquiste che le masse popolari dirette dalla classe operaia tramite il suo partito hanno strappato nel periodo 1945-1975 e difesa ed ampliamento di queste conquiste. L’intervento dello Stato nell’economia raggiunge in questo periodo livelli mai prima raggiunti, se non in tempo di guerra (le Leggi finanziarie bastano a dimostrarlo).

Sullo scontro in corso vi sono tre schieramenti fondamentali.

1. Quelli che sono favorevoli alla riduzione o all’eliminazione delle conquiste delle masse popolari. Costoro affermano francamente che queste conquiste sono incompatibili con l’”equilibrio finanziario” e che quindi devono essere eliminate. Per dirla con Benvenuto, l’ex capo della UIL, “i lavoratori devono restituire alla borghesia una parte di quello che hanno conquistato”. GI esponenti politici di queste posizioni vanno dal PDS ad AN. Si tratta di esponenti della borghesia imperialista o di politicanti (intellettuali che come i soldati di ventura di un tempo vendono i loro servigi di organizzatori e amministratori dei rapporti politici ai gruppi imperialisti) la cui comprensione delle cose non va oltre i limiti che il capitalista non oltrepassa nella sua vita e quindi tendono, nel campo delle proposte politiche, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l’interesse materiale e la situazione sociale spingono il capitalista nella pratica.

2. Quelli che sostengono che la conservazione e l’ampliamento delle conquiste è possibile, ma a condizione di far sì che il rapporto di produzione capitalista non sia più il rapporto di produzione dirigente, di instaurare cioè una società socialista; quindi a condizione che la classe operaia organizzata (nel partito, nelle organizzazioni di massa, nello Stato) tolga alla borghesia imperialista il potere politico e il potere economico, la direzione delle masse popolari, instauri il suo potere e il socialismo, cioè avvii la transizione al comunismo. I CARC appartengono a questo schieramento.

 Il terzo schieramento è tra i primi due. Vuole la conservazione e magari anche l’ampliamento delle conquiste e formula programmi in tale senso (ad esempio: “meno orario a pari salario”, “reintroduzione della scala mobile”, “lavori socialmente utili”, ecc.), ma nello stesso tempo è contrario o comunque non si pone il compito di eliminare la direzione della borghesia imperialista e di instaurare il socialismo. A questo schieramento appartengono il PRC e gli altri gruppi economicisti. Gli esponenti di questo schieramento sono “amici del popolo”, ma la loro comprensione della realtà non va oltre l’orizzonte in cui la sua esperienza pratica confina il borghese: le compatibilità del capitale finanziario, il profitto come motore principale della vita economica, contabilità aziendale (azienda per azienda) come vincolo, ecc. Essi deplorano gli effetti del capitalismo ma non vogliono eliminare il capitalismo. La loro posizione li condanna all’impotenza e a servire da ruota di scorta al primo schieramento finché il secondo è debole. Man mano che il secondo schieramento si rafforzerà, il terzo schieramento si scinderà tra il primo e secondo.

 

PERCHÉ OGNI LOTTA DI DIFESA PUO VINCERE E PERCHÉ

LA DIFESA DEVE COMBINARSI CON L’ATTACCO. NO AL DISFATTISMO!

(Dal verbale di una conferenza, maggio ’96)

L’attacco della borghesia imperialista alle conquiste che le masse popolari avevano strappato durante il periodo (1945-1975) di ripresa dell’accumulazione capitalista e di sviluppo dell’apparato economico è un carattere universale dell’attuale fase. Non c’è paese capitalista che ne sia escluso; non c’è campo che si salvi (dagli aspetti economici ai diritti sindacali, politici e civili).

L’origine di questo attacco universale non sta nelle idee liberiste della Thatcher, di Reagan, dei loro ispiratori e seguaci. Al contrario: questi personaggi salgono al potere perché le loro idee personali li rendono adatti a impersonare quel ruolo. Una classe dominante che deve fare la guerra non può mettere a capo del suo governo un pacifista! L’origine non sta neanche nel crollo dei regimi revisionisti dell’URSS, del campo socialista e dei partiti e sindacati riformisti. Al contrario: è la necessità per la borghesia di eliminare le conquiste che ha portato al crollo dei suoi servi revisionisti; lo dimostrano la successione temporale degli avvenimenti e le condizioni in cui è avvenuto il crollo. L’eliminazione delle conquiste delle masse popolari è un effetto universale di un processo universale: la nuova crisi generale del capitalismo, determinata dalle leggi stesse del modo di produzione capitalista, leggi a cui non ci si può sottrarre restando nel capitalismo. Questa crisi porterà inevitabilmente allo sconvolgimento degli attuali ordinamenti mondiali e di ogni paese, anche se a ognuno di noi oggi è difficile immaginare come questo avverrà. Una nuova ondata di mobilitazioni rivoluzionarie e di mobilitazioni reazionarie delle masse è il risultato politico inevitabile della nuova crisi. Per questo la condizione prima e principale di ogni politica autonoma dalla borghesia imperialista è la ricostruzione del partito comunista adeguato ai compiti della fase. La difesa delle conquiste non può protrarsi a lungo né estendersi se non sfocia nell’attacco al potere della borghesia imperialista.

Alcuni compagni sostengono questa conclusione, ma passano all’estremo opposto: la difesa delle conquiste è impossibile, ogni lotta di difesa è inutile. Insomma trasformano una giusta analisi in una caricatura antipopolare e antioperaia. In realtà ogni singola lotta di difesa può essere vittoriosa. La realtà mostra vari casi in cui i lavoratori sono riusciti a ritardare, ridurre o respingere l’attacco a qualche loro conquista.

 

 

NO AL DISFATTISMO. È POSSIBILE VINCERE

(Resistenza, maggio ’96)

Nei prossimi mesi, il nuovo governo, sulla scia di Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini, sferrerà un attacco su larga scala a quanto resta delle conquiste strappate dalle masse popolari. Un “aggiustamento” di 9.600 miliardi, una finanziaria di  50.000 e poi si vedrà. È di questi giorni la notizia della stangata di 50.000 miliardi che Kohl vuole imporre alle masse nella “prospera” Germania verso cui guarda la Lega Nord. La lira forte, cioè la fine della svalutazione corrente della lira che favoriva le esportazioni e il turismo, metterà a rischio migliaia di posti di lavoro. Neanche nelle promesse Prodi è andato più in là di lavoro nero, precario e sottopagato.

Molti si chiedono se in questa fase un gruppo di lavoratori può difendersi con successo. Alcuni compagni sostengono apertamente che la difesa delle conquiste è impossibile, che ogni lotta di difesa è inutile.

In realtà in ogni singola lotta di difesa la vittoria è economicamente possibile, ma è politicamente difficile. La realtà mostra vari casi in cui i lavoratori sono riusciti a difendere una qualche loro conquista. Vittoria provvisoria e limitata, è vero. Ma questo è il limite della vittoria in ogni lotta di difesa in una fase di crisi ed è da mettere chiaramente in luce contro chi (come Rifondazione e altri gruppi economicisti) sostiene che basta la difesa, non si pone altri compiti oltre la difesa, non arriva neanche a concepire l’attacco.

Qual è la base economica che rende possibile, a determinate condizioni, la vittoria di ogni singola lotta di difesa? Sta nel fatto che per la classe dominante nessun singolo attacco è decisivo e ogni governo può mobilitare risorse finanziarie (stanziare fondi, sovvenzioni, commesse, ecc.) e prendere misure (CIG, mobilità, prepensionamenti, ecc.) per tamponare ogni situazione singola e limitata. Il denaro per un governo non è una cosa che c’è o non c’è, come lo è invece per una famiglia di lavoratori. Per un governo è solo la decisione di far aprire o non far aprire un credito presso il sistema bancario. Certo queste decisioni, cumulandosi, producono effetti che alla fine nessun governo padroneggia. Ogni attacco ai lavoratori è determinato dal bisogno di salvaguardare gli equilibri del capitale: rinunciarvi comporta uno strappo, possibile finché gli strappi non diventano troppi. Siamo i primi a sostenere che è impossibile in regime capitalista difendere a tempo indeterminato tutte le conquiste, che per conservare (ed estendere) le conquiste delle masse popolari occorre instaurare un diverso ordinamento della società, il socialismo. È altrettanto vero che la borghesia sicuramente a ogni concessione cui è costretta griderà che è la causa dell’aggravarsi della crisi e la userà per mobilitare forze a suo favore, per isolare e dividere i lavoratori. Ma di fronte ad ogni singolo attacco, quello che decide (e qui sta la difficoltà politica di vincere) è se i lavoratori attaccati riescono a riunire le condizioni necessarie per costringere la classe dominante a rinunciare all’attacco, per creare ad essa tali problemi da farla desistere o farla intervenire a tamponare la situazione togliendola dalle mani del singolo capitalista. In fase di crisi, in ogni lotta difensiva se si vuol vincere si deve puntare a questo. Studiare le lotte di difesa per individuare e far conoscere le condizioni a cui le lotte di difesa sono vittoriose è un compito dei comunisti.

Il salvataggio di banche (Banco Ambrosiano, Banco di Napoli, ecc.) e di imprese, le concessioni elettorali del governo Dini e migliaia di altri fatti della vita corrente mostrano che ogni governo borghese può tappare ogni singola falla. Il governo USA l’anno scorso ha “salvato” il governo messicano dal fallimento. Il governo Dini, mentre stabilisce che ci vuole una ulteriore stangata di 9.600 miliardi, stanzia però 3.200 miliardi per il Giubileo e 2.000 miliardi per il Banco di Napoli. Anche l’abbattimento di 11 milioni di “mucche pazze” britanniche per i governi borghesi si ridurrebbe, se la campagna dovesse proseguire, alla lite su chi deve stanziare i 30 o 40 mila miliardi di lire necessari per acquistare le mucche dagli allevatori, rimpiazzarle e pagare le aziende attrezzate per distruggerle (un bel giro di affari!).

 

 

 

EQUILIBRIO FINANZIARIO E RISANAMENTO FINANZIARIO

(Resistenza, luglio-agosto ’96)

Quando devono imporre nuovi sacrifici, la borghesia imperialista e i suoi portavoce invocano l’equilibrio e il risanamento finanziario. Hanno già ricominciato a giustificare il tentativo di ridurre ancora le pensioni.

 Rifondazione Comunista contesta: “Si può stabilire l’equilibrio finanziario senza eliminare le conquiste dei lavoratori: basta eliminare sprechi, evasione fiscale e corruzione e fare una diversa (non meglio specificata: quale? da parte di chi?) politica industriale”.

Ad alcuni compagni più di sinistra viene da dire: “Al diavolo l’equilibrio finanziario, se deve farsi a danno dei lavoratori. È come per la salvaguardia dell’economia nazionale con cui negli anni ’80 giustificavano la rovina dell’economia delle nostre famiglie”.

Il problema è che lo squilibrio finanziario non è prodotto da sprechi, evasione e corruzione, ma dalle stesse leggi del moderno modo di produzione capitalista. Quindi la tesi di Rifondazione porta fuori strada. E i compagni più di sinistra dimenticano che per eliminare le leggi del capitalismo occorre eliminarlo e sostituirlo col comunismo. Se non lo si fa, le leggi del capitalismo trovano nella società le forze per affermarsi.

In cosa consiste lo “squilibrio finanziario”?

Anzitutto non si tratta solo di squilibrio tra entrate e uscite dello Stato o della Pubblica Amministrazione. Questo è solo un aspetto e una parte, anche se importante, visto il ruolo che ha lo Stato nella moderna economia capitalista che non a caso si chiama capitalismo monopolistico di Stato. Quindi il pareggio del bilancio pubblico, anche dove è possibile (vedi l’Inghilterra con la Thatcher), non basta a ristabilire l’equilibrio finanziario del paese che in più è connesso all’equilibrio finanziario degli altri paesi.

Lo squilibrio finanziario consiste nel fatto che alcune porzioni di capitale non ricevono profitto o addirittura vengono eliminate. Esso è un aspetto inevitabile della finanziarizzazione dell’economia che ora, per confondere le idee, la cultura borghese chiama economia virtuale. Accanto al capitale produttivo, che si impiega nello sfruttamento del lavoratore per fargli produrre beni o servizi, è cresciuta una massa di capitale finanziario cui non corrispondono lavoratori, aziende e macchinari. Questa massa di capitale finanziario vuole anch’essa profitti. I suoi proprietari sono anch’essi capitalisti, spesso sono le stesse persone dei capitalisti “produttivi”. Questa massa di capitale finanziario è legata da mille fili al capitale produttivo. Agnelli, Cuccia, Berlusconi, Gelli, Riina, ecc. sono tutti implicati sia nella finanza che nell’economia reale. Ogni frazione di capitale vuole la sua remunerazione. Se accidentalmente una frazione di capitale non è remunerata si ha il fallimento. Ma se la non remunerazione diventa un fatto cronico, che colpisce ora una parte ora l’altra delle varie frazioni di capitale, allora si ha una situazione di squilibrio finanziario.

È possibile remunerare tutto il capitale esistente? È possibile impedire la formazione del capitale finanziario? È possibile eliminare il capitale finanziario? La risposta è no. Il capitale finanziario nasce come necessità di funzionamento del capitale produttivo giunto ad un certo grado di sviluppo, come il denaro sorge dall’economia di baratto giunta ad un certo grado di sviluppo. Nell’epoca della decadenza del capitalismo la crescita del capitale finanziario diventa la salvaguardia del capitale produttivo che altrimenti subirebbe la concorrenza di tutto il nuovo capitale che si accumula e ne sarebbe sconvolto. Durante ogni crisi la massa di capitale finanziario si gonfia oltre ogni limite. All’OCSE sostengono che nel duemila il PIL dei 27 paesi dell’OCSE sarà appena un terzo della massa di capitale finanziario circolante nelle borse. Già a fine dicembre ’95, secondo la Banca d’Italia, la ricchezza mobile degli italiani (titoli, azioni, depositi, moneta, ecc.) ammontava a quasi 3 milioni di miliardi di fronte a un prodotto interno lordo per il ’95 di 2 milioni di miliardi. La ricchezza finanziaria è in massima parte posseduta e quasi totalmente manovrata da un pugno di finanzieri e amministratori, ma coinvolge, direttamente o indirettamente, gran parte della popolazione. La ricchezza finanziaria aumenta in ogni paese. Solo il 10% degli scambi di valute che avvengono quotidianamente corrispondono a transazioni commerciali. Va da sé che quindi è impossibile eliminare il capitale finanziario mantenendo il capitalismo, anche quando esso diventa in modo sempre più chiaro un fattore che soffoca il capitale produttivo (l’”economia reale”). È impossibile remunerare tutto il capitale perché, per quanto cresca il profitto, e in questo periodo cresce enormemente anche grazie ai sacrifici imposti ai lavoratori, esso non può star dietro alla crescita del capitale che si accumula in misura tanto maggiore  quanto più sono i profitti.

Dove porta tutto questo? Al crollo del capitalismo? No. Porta alla guerra della borghesia imperialista contro le masse popolari per spremerle di più e alla guerra tra i gruppi imperialisti ognuno per valorizzare il suo capitale. Cioè porta alla crisi politica e alla crisi culturale come quelle in cui stiamo sprofondando.

C’è un rimedio? Sì. Eliminare il modo di produzione capitalista. Difendere ogni conquista strappata diventa la via non solo per vivere, ma anche per raccogliere e accumulare le forze necessarie a questo scopo.

 

CAPITALISMO MONOPOLISTICO DI STATO

(Resistenza, luglio-agosto ’96)

Il capitalismo monopolistico di Stato è il capitalismo in cui lo Stato, cioè l’unione generale dei capitalisti, ha assunto nell’economia un ruolo determinante, in parte attraverso leggi e imposizioni, in parte attraverso interventi monopolisti sul mercato. Esso amministra direttamente una parte importante del prodotto interno (attualmente dal 40 al 60 % a seconda dei paesi) che preleva come imposte e tasse e impiega come spesa pubblica; decide dell’ammontare e delle condizioni del credito e della quantità di denaro da emettere; controlla il cambio estero della moneta; autorizza o nega la raccolta di capitali (quotazione in Borsa ed emissioni di titoli); è a sua volta il più grande emettitore di titoli di credito, compratore di merci e di forza-lavoro e committente di lavori; regola una parte importante del salario della forza-lavoro costituita dai servizi pubblici (istruzione, assistenza, previdenza, sanità, ecc.); spesso è titolare diretto di una quota più o meno importante di imprese (settore pubblico dell’economia); interviene con i suoi funzionari in tutte le grandi trattative tra capitalisti e tra questi e le organizzazioni sindacali e di categoria. I capitalisti si azzuffano e si accordano per favorire attraverso i funzionari, le leggi e l’apparato repressivo dello Stato i rispettivi affari; migliaia di leggi regolano le attività economiche e legittimano l’intrusione della Pubblica Amministrazione (cioè di chi controlla lo Stato) nelle attività di ogni singolo capitalista e di ogni cittadino, la corruzione di pubblici funzionari è regola generale, tutti gli uomini politici e i funzionari pubblici importanti sono titolari di capitale finanziario.

Il capitalismo ha acquistato i caratteri del capitalismo monopolistico di Stato nel corso della prima crisi generale (1910-1945).

 

LE PRIVATIZZAZIONI DEL GOVERNO PRODI

(Resistenza, settembre ’96)

Privatizzare il settore pubblico dell’economia è una regola generale che i padroni stanno attuando in questi anni in ogni paese. STET, ENEL, ENI sono le nuove società che Prodi, già liquidatore di tante imprese pubbliche IRI e privatizzatore dell’Alfa Romeo, deve buttare in pasto al gioco d’azzardo del mercato finanziario. Ogni gruppo imperialista si prepara ad arraffare il più possibile. Il “bene comune” va bene quando si tratta di fare la predica ai lavoratori. Ma quando si tratta di affari non si scherza.

Fa differenza che queste società siano amministrate in collettivo dai capitalisti, attraverso lo Stato che è l’associazione generale di tutti i padroni o che siano date in pasto privato a qualcuno di loro? Diventa mille volte più facile per i padroni smembrarle e giocarsele, insomma “ristrutturarle”. Per i lavoratori addetti le condizioni per difendersi peggiorano sicuramente così come le condizioni di lavoro e di vita. Ne sanno qualcosa gli operai dell’Alfa Romeo.

Per gli altri lavoratori, diventa più difficile difendere quello che ancora resta di pubblico servizio in modo che luce, telefono, trasporti, acqua, riscaldamento, ecc. siano accessibili anche a quelli a cui i padroni negano un salario decente.

 

SULL’IMPERIALISMO

(Lenin, Considerazioni sui rilievi della Commissione della Conferenza di aprile, aprile-maggio 1917)

 Le caratteristiche principali e fondamentali del capitalismo, in quanto regime economico e sociale “non sono modificate alle radici dall’imperialismo, dall’epoca del capitale finanziario. L’imperialismo è la continuazione dello sviluppo del capitalismo, è la sua fase suprema, è - sotto un certo aspetto - la fase di transizione al socialismo.

[…] In realtà, l’imperialismo non riedifica e non può riedificare il capitalismo dal basso in alto. L’imperialismo complica e acuisce le contraddizioni del capitalismo, intreccia i monopoli con la libera concorrenza, ma non può eliminare lo scambio, il mercato, la concorrenza, le crisi, ecc.

L’imperialismo è il capitalismo che declina, ma che non è ancora declinato, è il capitalismo che agonizza, ma che non è ancora morto. La peculiarità essenziale dell’imperialismo in generale non consiste nei monopoli puri, ma nel convivere dei monopoli con lo scambio, con il mercato, con la concorrenza, con le crisi. È quindi teoricamente sbagliato eliminare l’analisi dello scambio, della produzione mercantile, delle crisi, ecc. in generale per sostituirvi l’analisi dell’imperialismo, considerato come un tutto. Questo tutto non esiste. C’è il passaggio dalla concorrenza al monopolio. Il nostro programma sarà molto più preciso e corrisponderà assai meglio alla realtà, se manterrà l’analisi generale dello scambio, della produzione mercantile, delle crisi, ecc., aggiungendo una definizione dei monopoli in sviluppo. Proprio questa congiunzione di due ’principi’ contraddittori, concorrenza e monopolio, è essenziale per l’imperialismo, proprio questa congiunzione ne prepara il fallimento, cioè la rivoluzione socialista. Sarebbe del resto sbagliato rappresentare l’imperialismo in Russia come un tutto organico (l’imperialismo è in generale un tutto disorganico), perché in Russia sussiste tuttora un gran numero di regioni e di settori produttivi dove si sta passando dall’economia naturale e seminaturale al capitalismo. Si tratta di settori ritardatari, di settori deboli, ma che tuttavia esistono e in certe condizioni possono persino introdurre un elemento di ritardo nel crollo del capitalismo.

Il programma sale - e deve salire - dalle manifestazioni più semplici del capitalismo alle manifestazioni più complesse, superiori; dallo scambio alla produzione mercantile, all’eliminazione delle piccole imprese da parte delle grandi imprese, alle crisi, ecc., fino all’imperialismo, come fase suprema alla quale tendono e alla quale si avviano adesso i paesi progrediti. Così stanno le cose nella realtà. Sarebbe sbagliato sul piano storico e su quello teorico cominciare col giustapporre lo ’scambio’ in generale e l’esportazione di capitale”.

 

CALO DELL’INFLAZIONE E DEFLAZIONE

(Verbale di conferenza, luglio ’96)

L’inflazione (l’aumento dei prezzi) è stata nei primi anni dopo l’inizio della seconda crisi generale (all’incirca il 1975) uno dei correttivi della crisi. Non era dovuta ad uno squilibrio tra offerta e domanda (in questo caso lo squilibrio sarebbe stato corretto dall’aumento dell’offerta). Essa conviveva invece con la stagnazione degli affari: era stato per questo coniato il neologismo stagflazione. L’inflazione permetteva alle imprese di compensare attraverso l’aumento dei prezzi e quindi con l’aumento del ricavato delle vendite e con l’accumulazione di capitale finanziario il fatto che i profitti non crescevano più in misura adeguata al capitale accumulato.

Ovviamente l’inflazione produceva a sua volta vari effetti negativi. Donde da un certo periodo in poi la ricerca di contenerla riducendo la creazione di denaro da parte delle banche centrali, possibilmente senza provocare un collasso dell’economia. Non è escluso che l’effetto deprimente sull’attività economica prodotto dalle politiche antinflazionistiche provochi la stagnazione negli investimenti e la riduzione dei consumi, da cui la deflazione, la riduzione dei prezzi pur di realizzare. Se si dovesse arrivare a tanto, la crisi economica si accelererebbe fortemente e di conseguenza precipiterebbero le crisi politiche e culturali.

 

LA CRISI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA E DEL REVISIONISMO MODERNO

(Verbale di conferenza, settembre ’96)

 La critica borghese allo “Stato sociale” consiste, in sostanza, nel riconoscimento che un ordinamento in cui la massa della popolazione gode di alcuni diritti e servizi fondamentali (standard minimo di vitto e alloggio, lavoro, assistenza sanitaria, pensione di vecchiaia e invalidità, istruzione generale gratuita, ecc.) non è compatibile con il capitalismo. È impossibile costruire sulla base dei rapporti di produzione capitalisti una società in cui le disuguaglianze più gravi sono colmate dall’intervento dello Stato e degli altri enti pubblici e dall’attività del settore pubblico dell’economia. È impossibile una gestione collettiva del movimento economico della società sulla base di rapporti di produzione capitalisti, della proprietà e dell’iniziativa economica individuale dei capitalisti. Di fronte a questa constatazione, la borghesia imperialista dice: “Buttiamo la gestione collettiva”. Ma in realtà non può buttarla perché le Forme Antitetiche dell’Unità Sociale, il capitalismo monopolistico di Stato, ecc. non sono sue libere scelte. Sono le forme di una mediazione necessaria tra il carattere collettivo delle forze produttive attuali e i rapporti di produzione capitalisti. La crisi dello “Stato sociale” è la crisi della socialdemocrazia e del revisionismo moderno. È la constatazione che non vi può essere un “capitalismo dal volto umano”, che non regge il tentativo di “conciliare capitale e lavoro”, in cui sta la sostanza della politica socialdemocratica intesa in senso ampio (comprendendo quindi anche la proposta corporativa del fascismo, del New Deal e della Chiesa cattolica con la sua teoria del “bene comune”).

L’eliminazione in atto delle conquiste strappate dalle masse comporta una maggiore subordinazione di ogni individuo e di ogni famiglia al denaro e una maggiore finanziarizzazione della vita economica. Diminuisce il salario indiretto e la base di beni e servizi garantiti ad ogni famiglia e individuo al momento del bisogno, indipendentemente dal suo stato finanziario del momento. Con il pagamento delle prestazioni sanitarie, la pensione integrativa, l’aumento delle tasse scolastiche, ecc. aumenta per ogni famiglia il flusso di denaro (a prescindere dalle famiglie che dovranno semplicemente rinunciarvi), aumenta il bisogno di ricorrere al banchiere e all’usuraio e il bisogno di essere per loro affidabili, aumenta il bisogno di accantonare qualche scorta in denaro (risparmio) per l’emergenza. Queste scorte confluiranno nel mercato finanziario dove i capitalisti amministrano e dirigono. Aumenta quindi la massa di capitale finanziario e l’esposizione della massa della popolazione al casino del circuito finanziario, alle manovre di cui De Benedetti è maestro, come mostra il caso dell’Olivetti esploso in questi giorni (inizio settembre ’96).

 

Rapporti Sociali 1985-2008 - Indice di tutti gli articoli