Le politiche degli Stati imperialisti per incrementare l’occupazione

Rapporti Sociali n. 17/18 - autunno 1996 (versione Open Office / versione MSWord )

 

(a proposito della Conferenza Nazionale sull’Occupazione - Napoli settembre ’96)

 

Con la sua “battaglia di giugno” contro il governo Prodi (il voto contrario nelle Commissioni Parlamentari), Bertinotti ha ottenuto tre “grandi risultati”. 1. Il governo si è di fatto impegnato a consultare il PRC prima di ogni decisione importante; è un risultato che rafforza il legame tra PRC e il governo e quindi rende il primo più responsabile delle azioni del secondo. 2. Il governo ha inserito nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria l’ennesima sua dichiarazione che si impegna a lottare per la difesa dei posti di lavoro e contro la disoccupazione: la dichiarazione in questo caso lascia il tempo che trova. 3. Il governo si è impegnato a organizzare una Conferenza Nazionale sull’Occupazione. La Conferenza dovrebbe tenersi a Napoli il 25 e 26 settembre (se non viene ulteriormente spostata); Craxi alcuni anni fa aveva dichiarato che quando c’è un problema e non si sa cosa fare o non si vuole fare nulla, la via d’uscita è nominare una Commissione d’Inchiesta. Avrebbe potuto dire in alternativa: convocare una Conferenza Nazionale.

Già esiste, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un Comitato per il coordinamento delle iniziative per l’occupazione, istituito nel 1992 a seguito di un accordo tra il governo Amato e la coalizione dei sindacati di regime CGIL-CISLUIL, presieduto dall’ex PCI Borghini. Nel suo Rapporto sulle Attività del 15 maggio ’96 il Comitato enumera molti Protocolli d’Intesa firmati tra Ministeri, Amministrazioni Locali, Camere di Commercio e Aziende, molte società di promozione costituite, molte riunioni e conferenze. Evita però accuratamente di indicare quale incremento dell’occupazione, oltre a quella dei suoi membri e consulenti, il Comitato ha ottenuto nei suoi quattro anni di ben remunerata attività. Basta guardare i censimenti relativi al numero di persone in qualche modo occupati (cioè contando come occupati anche i precari, quelli a tempo parziale, gli addetti a “lavori socialmente utili” - attualmente sono circa 75.000, quelli in formazione-lavoro, i posti di lavoro in altro modo sussidiati, i lavoratori in mobilità, ecc.) per rendersi conto del motivo del silenzio. Il totale degli occupati rilevati dall’ISTAT era di 21 milioni e 450 mila a fine 1992 ed è diminuito di anno in anno fino a 20 milioni a fine ’95 (Banca d’Italia, Bollettino economico, n. 26, Tav. a15).(1) Il numero dei disoccupati registrato dall’ISTAT non è aumentato in misura corrispondente (è anzi diminuito da 2 milioni 798 mila a 2 milioni 724 mila) solo perché una parte maggiore della popolazione ha smesso di cercar lavoro e quindi non viene registrata dall’ISTAT nelle Forze di lavoro. Cosa confermata dal Rapporto sull’occupazione diffuso il 31 gennaio ’96 dalla CISL (Roma) secondo cui sarebbero circa 3 milioni e 300 mila le persone che hanno rinunciato a cercare un posto di lavoro. Infatti l’ISTAT registra una “popolazione attiva”, somma degli occupati e dei disoccupati ufficiali, in calo da 24 milioni 257 mila a fine ’92 a 22 milioni e 733 mila a fine ’95, benché la popolazione residente sia leggermente aumentata.

 

1. I dati dell’ISTAT, frutto della sua indagine trimestrale sulle Forze di Lavoro, sono istruttivi per più versi. Guardiamo le serie della Tabella 2 (Fonte: Banca d’Italia, Bollettino economico n. 26, Tav. a15). Esse confermano la tesi generale indicata da noi (diminuzione del numero degli occupati), ma mostrano anche l’operazione di cosmesi compiuta dall’ISTAT tra il 1992 e 1993. Grazie a una “profonda revisione” dei metodi dell’indagine, le forze di lavoro diminuiscono, tra il ’92 e il ’93, del 6% (1 milione 456 mila unità), gli occupati diminuiscono del 4.6% (992 mila unità) e quelli in cerca d’occupazione diminuiscono addirittura del 16.4% (460 mila unità).

 

 

 

 

(Tabella 2)

Forze di Lavoro, occupati e persone in cerca di lavoro in Italia

 (Fonte: Banca d’Italia, Bollettino economico n. 26, Tav. a15)

 

Anno

1991

1992

1993

1994

1995

Forze di Lavoro

(migliaia)

24.245

24.257

22.801

22.680

22.733

Occupati

(migliaia)

21.592

21.459

20.467

20.120

20.009

In cerca

(migliaia)

2.653

2.798

2.338

2.561

2.72

Disoccupati (% delle F. di L.)

 

10.9

11.5

10.2

11.3

12.0

 

 

Se si tiene conto che il ’94 e il ’95 sono stati anni di ripresa per l’aumento delle esportazioni provocato dall’uscita della lira dal Sistema Monetario Europeo (assieme a sterlina e peseta) e la sua svalutazione,(2) non solo è dimostrata l’inefficacia dell’azione delle politiche dei governi Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini per promuovere l’occupazione, ma c’è da temere per il futuro vista la recente rivalutazione della lira e il conseguente calo delle esportazioni.

 

2. Al seguito della cultura borghese di sinistra, anche molti “gruppi di sinistra” da noi indicono convegni e manifestazioni e scrivono articoli di denuncia in cui cercano di alimentare l’indignazione delle masse contro il Trattato di Maastricht, indicato come la causa della crisi e di altri guai, senza mai chiedersi che probabilità ci siano che esso venga mai tradotto in pratica.

A questi nostri compagni facciamo notare che di moneta unica europea, per restare a questo dopoguerra, si parlava già negli anni ’50 (al tempo della creazione del Mercato Comune Europeo), poi alla fine degli anni ’60 sotto il nome di Comunità Economica; si continuava a parlarne al tempo del “serpente monetario” (1972-1978) e poi del Sistema Monetario Europeo costituito nel 1979. Ma la realtà è che il Sistema Monetario Europeo è andato a gambe all’aria sotto i colpi della  recessione del 1992-1993 con l’uscita della sterlina, della lira e della peseta e con l’ampliamento al 15% in più e in meno della banda di oscillazione dei cambi tra le altre valute, che prima era del 2.5%. Se a questo si aggiunge che l’accordo per stabilire cambi fissi tra le monete concluso nel 1944 a Bretton Woods è saltato in aria nel 1971 e che i tentativi di ristabilire qualcosa di simile (accordo del Louvre concluso tra i G7 nel 1987) non hanno dato alcun risultato, cosa è, se non la cieca credulità nell’onnipotenza e nella sincerità dei caporioni della borghesia imperialista che porta i nostri compagni a credere che il Trattato di Maastricht sarà realizzato e che sia per realizzare questo Trattato che i vari governi europei seguono la politica economica che seguono (e che, guarda caso, è simile a quella seguita da tutti gli altri Stati imperialisti e delle semicolonie, non interessati dal Trattato di Maastricht)? Ma questa credulità non è politicamente irrilevante. Infatti porta questi nostri compagni all’incapacità di sviluppare una politica autonoma dalla borghesia, una politica rivoluzionaria e a ridursi ad accodarsi al PRC nel chiedere la revisione del Trattato di Maastricht o (i più audaci) addirittura la denuncia del Trattato di Maastricht. D’altra parte, se il malessere delle masse popolari fosse davvero dovuto al Trattato di Maastricht, sarebbe giusto concentrare le forze per la sua abolizione o revisione. Se invece il malessere delle masse è dovuto alla crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (cui la borghesia cerca di far fronte anche con le misure comuni di politica economica indicate nel Trattato), è giusto concentrare le forze per sviluppare la mobilitazione rivoluzionaria delle masse, liberarsi dal capitalismo e instaurare il socialismo.

“Il denaro è il potere sociale, il potere di comandare lavoro altrui che porto nelle mie tasche”, ha insegnato Marx. Credere che qualche gruppo imperialista, nell’attuale situazione di concorrenza feroce e di guerre economiche che tracimano in guerre vere e proprie, sia disposto ad abbandonare il suo potere su un numero più o meno vasto di milioni di suoi concittadini per cederlo o condividerlo con altri gruppi imperialisti, senza esservi costretto dalla forza o da un grave pericolo incombente di rivoluzione, è un’ingenuità. L’obiettivo dichiarato del Trattato di Maastricht è un sogno degli imperialisti tedeschi e francesi in competizione tra loro, che durerà finché ognuno resta convinto di essere più furbo dell’altro (attualmente nessuno dei paesi importanti dell’Unione Europea soddisfa ai tre parametri indicati dal Trattato, nemmeno la Germania e la Francia). Il Trattato verrà stracciato da quei gruppi imperialisti chi si renderanno conto di perderci.

 

Il 6 ottobre il governo Prodi e la coalizione dei sindacati di regime hanno convenuto di istituire i Contratti d’Area. In ogni zona dichiarata Area di crisi, oltre ai salari di fatto (già stracciati col lavoro nero) anche i salari contrattuali potranno essere più bassi dei minimi previsti dai Contratti Nazionali di Lavoro, il rapporto di lavoro sarà più precario di quanto lo sia già diventato nel resto del paese (a termine, in affitto, con durata e distribuzione del tempo di lavoro a disposizione del padrone, esente dal pagamento di contributi sociali, ecc.) e le imprese riceveranno contributi finanziari, esenzioni fiscali ed esenzioni dai controlli sulla sicurezza, l’inquinamento e l’igiene del lavoro. Facile la giustificazione dei sindacalisti di regime: “I posti di lavoro mancano, il lavoro nero e precario si diffonde comunque, la sicurezza sul lavo ro già non c’è (consultare l’elenco di incidenti); meglio regolarizzare la situazione, ratificarla legalmente e vincolare al riconoscimento dell’intervento dei sindacati il conferimento della legalità alle pratiche padronali già in atto. Meglio un lavoro malpagato, precario e contrattato col sindacato, che nessun lavoro o lavoro nero”. È la logica del meno peggio, occultando che immancabilmente porta al peggio. Quei pochi padroni ora in regola ovviamente passeranno al nuovo regime. Se gli incentivi funzionano, ogni padrone valuterà se chiudere dove è ora e trasferirsi nell’Area di crisi o rivendicare gli stessi privilegi minacciando di chiudere di fronte alla concorrenza installata nell’Area di crisi. Ne seguiranno un ulteriore peggioramento della condizione generale dei lavoratori (assumere qui e licenziare là non cambia la condizione generale), minore forza contrattuale per chi ne ha, maggiori difficoltà a difendersi e un terreno più fecondo per chi lavora a mobilitare lavoratori contro lavoratori (alla mobilitazione reazionaria delle masse). Insomma: divisione tra i lavoratori delle Aree di crisi e gli altri, indebolimento della forza contrattuale per entrambi, contrapposizione tra le due parti.

Per scoprire che è meglio un lavoro malpagato e precario che nessun lavoro, non occorrevano Prodi e Cofferati. È quello che da tempo hanno scoperto e ogni giorno scoprono sulla loro pelle milioni di lavoratori. Risucchiati dalla crisi del capitalismo, schiacciati dalla schiavitù salariale, senza prospettive di emancipazione, senza potere contrattuale perché ognuno è solo di fronte ai padroni, abbandonati e venduti dalle organizzazioni sindacali di regime, ridotti ad agire “ognuno per sé” dal lungo lavoro di disgregazione e di corruzione condotto dai revisionisti moderni sul partito comunista e le altre organizzazioni di massa che la classe operaia aveva costruito, milioni di lavoratori devono accettare e accettano ogni giorno un lavoro a qualsiasi condizione e a qualsiasi prezzo. Non è forse quello che fanno in particolare i lavoratori immigrati, più deboli e ricattati dei lavoratori locali? Non è quello che fanno in particolare centinaia di giovani che si adattano ad arruolarsi per poche lire al servizio dei boss della criminalità organizzata?(3)

 

3. Stando ai notiziari borghesi, a Catania ai giovani che si arruolano nelle bande malavitose viene dato 1 milione al mese, tutto compreso. Poco più di quanto riceve un impiegato dallo Stato per “lavori socialmente utili”, ma forse con migliori prospettive di continuità e maggiori speranze di carriera.

 

Prodi, il PDS, Cofferati, D’Antoni e Larizza si preoccupano di legalizzare l’esistente. Già hanno legalizzato il caporalato e le “carovane” chiamandole lavoro interinale, affitto di lavoratori. Già trafficano per legalizzare la prostituzione. Con questa logica arriveranno a legalizzare anche gli abusi sessuali sui bambini, la tratta degli immigrati, la cattura di bambini per ricavarne organi da trapianto o per adozioni, il turismo sessuale, il traffico di opere d’arte, di armi e di rifiuti tossici, ecc., salvo esigere il pagamento delle imposte sulle relative transazioni e “la contrattazione con le parti sociali”, cioè la partecipazione all’affare. Quanto alla criminalità organizzata o diffusa, quei signori al pari del resto della borghesia imperialista hanno da tempo rinunciato ad andare alle sue radici (né potevano fare diversamente perché essa è connaturata al loro potere e al loro Stato) e hanno optato per rispondere al malcontento delle masse aumentando senza fine la gravità delle pene per quelli cui capita il triste destino di fare i capri espiatori e instaurando un sistema sempre più vessatorio di controlli e divieti che colpisce la gente comune. Insomma tutto l’apparato sociale, l’enorme potere della pubblica amministrazione e la grande potenza delle forze produttive è messa al servizio dei capitalisti, dei ricchi e dei loro cortigiani; la gente comune si arrangi come può. Se li disturba, la repressione non è mai abbastanza energica; infatti ogni misura già adottata non basta ad arrestare il degrado ed è giocoforza che chi non vuole colpire la sorgente del degrado ricorra a misure più energiche e altrettanto inutili. In sintesi: un operaio metalmeccanico s’arrangi a vivere con 1 milione e 400 mila lire al mese, mentre a nessuno di quelli che impongono e difendono una tale situazione viene neanche in mente di provare a fare altrettanto loro stessi. Nessun lusso e nessuno spreco è mai troppo per loro, i soldi per il Giubileo e per il “salvataggio” delle banche li trovano; ma le misure di sicurezza sul lavoro sono troppo costose, rendono non competitive le “nostre” aziende. Il peggio è che è vero! Nell’ambito del capitalismo tutto questo è normale e necessario in un periodo di crisi generale.

Con queste premesse, e nessuno può negarle, è chiaro quali possono essere i risultati della Conferenza sull’Occupazio ne! Se si scorrono le proposte ventilate dal Ministro del Lavoro, Tiziano Treu e dagli altri esponenti del regime che si occupano del problema, come le proposte dei sindacalisti di regime, se ne ha conferma. È un gran chiacchierare di consorzi, società di promozione, lavori socialmente utili, ecc. Un susseguirsi di riunioni e di comitati e commissioni. Ma le misure concrete previste sono quelle che hanno già dato cattiva prova di sé in Germania, in Francia, negli USA e altrove.

In questi paesi le politiche di sostegno all’occupazione hanno una storia più lunga e sono gestite più sistematicamente che da noi (la crisi politica della borghesia è meno sviluppata). Quindi è utile andare a vedere quali sono e quali risultati hanno dato.

Anzitutto i risultati.

All’inizio del ’96 i rispettivi uffici statali in Francia registrano 3 milioni e 300 mila disoccupati (12.5% della “popolazione attiva”) e in Germania 3 milioni e 900 mila (10% della “popolazione attiva”). Quanto agli USA la situazione registrata è migliore: i disoccupati sono “solo” il 5.5% della “popolazione attiva” (8 milioni 250 mila). Ma questa è l’immagine che offrono i governi e oggi non c’è governo capitalista che non debba camuffare la situazione (pur continuando a definirsi democratico). Abbiamo visto che secondo la CISL in Italia sono più i lavoratori che hanno rinunciato a cercare lavoro (3 milioni e 300 mila) di quelli registrati dal governo come disoccupati (2 milioni e 700 mila). Tutte le osservazioni concorrono a far ritenere che la situazione negli altri paesi è analoga. Un economista consigliere dell’Amministrazione USA, E.S. Phelps, ha dichiarato: “Negli USA si è costituita un’economia parallela che permette ai più poveri di sopravvivere: il traffico delle droghe, la criminalità, la prostituzione, ecc.”. Senza contare che negli USA i detenuti, persone in età da lavoro, sono oltre 1 milione e mezzo (1% della “popolazione attiva”). La conclusione è che per ricavare dalle statistiche governative indicazioni in qualche modo affidabili occorre basarsi sul rapporto tra la “popolazione attiva” e la popolazione totale. Questo rapporto è ovunque in calo, come è confermato addirittura dal calo quasi costante degli occupati registrati (Tabella 1).

 

Tabella 1

Occupati e persone in cerca di lavoro in Germania, in Francia e negli USA (Fonte: Banca d’Italia, Assemblea gen. ord. dei partecipanti, 30 maggio ’96, Appendice, Tav. aA 16)

 

Anno

1991

1992

1993

1994

1995

Occupati (variazione % rispetto all’anno precedente)

Germania

(unificazione)

-1.0

-1.4

-0.4

-0.2

Francia

-1.4

-3.3

-6.0

-2.7

-0.2

USA

-1.6

-3.5

-0.2

+1.3

+0.5

Disoccupati (% delle Forze di Lavoro)

 

 

Germania

(unificazione)

7.7

8.9

9.6

9.4

Francia

9.5

10.4

11.7

12.3

11.6

USA

6.9

7.5

6.9

6.1

5.6

 

Il calo della “popolazione attiva” rispetto alla popolazione residente (la crescita della disoccupazione) data in tutti questi paesi dagli anni ’70 (è uno degli indici che segnano l’inizio della seconda crisi generale del capitalismo). Ovviamente è un calo che avviene tra alti e bassi e con andamenti differenti da paese a paese. Questo è un dato molto istruttivo come vedremo in seguito.

In che cosa consistono le misure contro la disoccupazione prese dai governi dei paesi imperialisti?

 Le misure diverse da paese a paese e di anno in anno si possono riassumere in alcuni gruppi, riunendo misure che differiscono tra loro solo per dettagli ininfluenti.

1. Maggiore libertà per i padroni di licenziare, assumere, affittare lavoratori, stabilire durata e ripartizione del tempo di  lavoro (rapporto di lavoro più elastico).

2. Maggiore libertà per i padroni di stabilire i salari (salari più flessibili).

3. Esonero dei padroni dal pagamento di tasse e contributi assicurativi.

4. Finanziamenti ad aziende già esistenti che assumono disoccupati.

5. Contributi della Pubblica Amministrazione ai padroni perché creino nuove aziende.

6. Contributi ai lavoratori licenziati e ai giovani perché creino aziende in proprio.

7. Finanziamenti o agevolazioni (esenzioni fiscali, esenzione dai contributi assicurativi, facilitazioni creditizie, permesso di violare le norme relative all’igiene del lavoro, alla sicurezza e all’inquinamento) per le aziende che assumono particolari categorie (soprattutto giovani) o che si installano in particolari zone.

8. Finanziamenti e incentivi vari, esenzioni fiscali, facilitazioni creditizie, esenzioni dai contributi assicurativi ad aziende classificate “no profit”.

Raggruppando le varie misure, esse si dividono in due grandi famiglie.

Quelle che incentivano i padroni ad assumere concedendo ad essi finanziamenti o esenzioni a carico della Pubblica Amministrazione.

Quelle che incentivano i padroni ad assumere concedendo di trattare il lavoratore peggio di quanto sia previsto dai contratti di categoria o dalle leggi e norme vigenti: in termini di salario, di durata del lavoro, di distribuzione dell’orario, di diritti sindacali, di stabilità del posto di lavoro, di igiene e di sicurezza, di altri aspetti del rapporto di lavoro.

La Francia è il paese il cui governo ha praticato la gamma più variata di misure del primo tipo. Alcuni studiosi del settore ne hanno censite 476 di cui 56 che comportano l’esonero dal pagamento degli oneri sociali. La conclusione generale è che ogni misura presa ha fatto passare alcuni disoccupati davanti ad altri o li ha fatti assumere in cambio di nuovi licenziati e ha portato molti soldi nelle tasche dei padroni, ma ha inciso poco o nulla sulla situazione. Un caso recente e rappresentativo e quello del CIE. Chirac durante la sua campagna elettorale aveva lanciato la brillante idea: “Meglio finanziare un’azienda perché crea un posto di lavoro in più che pagare un sussidio di disoccupazione”. Ne erano nati i Contrats Initiative-Emploi (CIE), per cui un’azienda che assumeva con contratto di almeno un anno e al salario minimo (SMIC, pari a 6.250 franchi lordi) alcuni tipi di disoccupati (disoccupati da almeno un anno, disabili, con più di 50 anni, non qualificati e altre categorie) riceveva dallo Stato un contributo di 2.000 franchi al mese e il rimborso totale dei contributi sociali (altri 1.000 franchi al mese). Il governo aveva promesso di creare in questo modo 350.000 nuovi posti di lavoro all’anno. Dal 1 luglio ’95 al 10 maggio ’96 sono stati firmati ben 272.925 CIE, ma lo stesso governo ha concluso che meno di 50.000 erano effettivamente nuovi posti; negli altri casi si è trattato di aziende che dovendo comunque assumere hanno approfittato del CIE. Didier Livio, presidente del Centre des jeunes dirigeants d’entreprise ammette: “Quando hanno davanti un candidato che ha solo 10 mesi di disoccupazione, i capi del personale gli chiedono di aspettare ancora due mesi per poter rientrare nel CIE o più semplicemente di lavorare due mesi in nero in attesa del CIE”.

Gli USA sono il paese dove sono state sperimentate su scala più grande le misure del secondo tipo. Il già citato prof. Phelps deve riconoscere che grazie a queste misure il salario dei lavoratori meno qualificati è diminuito di circa il 25% tra il 1975 e il 1995, mentre la disoccupazione dei lavoratori meno qualificati è aumentata lo stesso, tra il 1975 e il 1995, dal 5% al 12%. In più si è sviluppata quella “economia parallela” di cui si parlava sopra e una situazione di insicurezza generale cui, in mancanza di meglio, le autorità rispondono aumentando le pene e i controlli di polizia.

Concludendo, la differenza tra gli effetti dei due tipi di misure non è gran che. Per quel che si può dire che la linea dell’Europa (primo tipo di misure) è “miseria senza lavoro”, la linea degli USA e degli altri paesi anglosassoni (secondo tipo di misure) è “lavoro con miseria”. Quanto alle semicolonie (i paesi del Terzo Mondo) la linea è “schiavitù ed emarginazione (emigrazione)”.

Questo quadro è indubbiamente fosco, ma è veritiero. La riduzione dei consumi delle famiglie manifestatasi in Italia  quest’anno ne è una conferma. Anche se sul piano strettamente economico occorre tener presente i margini che ancora esistono presso molte famiglie di lavoratori finché almeno un membro della famiglia lavora, finché i giovani possono vivere in famiglia, finché non si sono esauriti i risparmi accumulati negli anni precedenti, finché si incide prevalentemente su consumi non ancora entrati profondamente nell’uso e quindi facenti parte solo in qualche misura della riproduzione della forza-lavoro. Segnali significativi sono anche la ripresa dell’analfabetismo, la ripresa di epidemie (TBC, pidocchi, ecc.) che erano state praticamente debellate. Ma ancora più significativi sono segnali come il calo delle nascite, il calo dei matrimoni, la degenerazione morale e culturale, la diffusione del teppismo e della delinquenza comune, della prostituzione e della malavita organizzata. Su tutto questo dovrebbero riflettere quei compagni che sono oppressi dalla sensazione di stabilità del sistema attuale e di mancanza di prospettive per il comunismo. La crisi politica e culturale è lo sbocco inevitabile della crisi economica che sarà infatti risolta sul piano politico, con una trasformazione anzitutto politica che consentirà di instaurare nuovi rapporti di produzione. È questa situazione che indichiamo con l’espressione “situazione rivoluzionaria in sviluppo”.(4)

Questo per quanto riguarda la prospettiva e quindi la nostra strategia. Ma per quanto riguarda la nostra tattica? È possibile impedire che la società attuale vada di male in peggio?

 

4. Si veda in proposito l’articolo Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10.

 

5. Sulle Forme Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS) vedasi Rapporti Sociali n. 4, pag. 20-22.

 

6. Sulla possibilità dei singoli Stati di creare denaro vedasi Il denaro soggettivo in Rapporti Sociali n. 4, pag. 22-23.

 

Sopra abbiamo detto che il calo della “popolazione attiva” rispetto alla popolazione residente (la crescita della disoccupazione) è iniziato in tutti questi paesi negli anni ’70, ma è proseguito tra alti e bassi e con andamenti differenti da paese a paese e che questo è un dato molto istruttivo. Infatti proprio questo sta ad indicare che è possibile “condizionare il capitalismo”. La società capitalista attuale ha costruito molte forme antitetiche dell’unità sociale,(5) in particolare ha reso il denaro una variabile sino ad un certo punto indipendente. I singoli Stati possono creare denaro.(6) La pratica di ogni giorno lo dimostra. Lo Stato francese ha “creato dal nulla” 30.000 miliardi di lire per tappare il buco del Crédit Lyonnais. Lo Stato USA ha “creato dal nulla” svariati miliardi di dollari prima per colmare il buco delle Savings Banks poi per tener in piedi l’attuale governo messicano. Nel suo piccolo, il governo Prodi ha trovato 3.000 miliardi di lire per il Giubileo e oltre 4.000 miliardi di lire (per ora) per sanare il Banco di Napoli, benché passi da una manovrina a una finanziaria. Quindi i lavoratori possono strappare dai relativi governi “ogni cosa”: la salvaguardia dei posti di lavoro di un’azienda, un programma di “lavori socialmente utili” e qualsiasi altra cosa. Basta che abbiano la forza per incutere alla classe dominante sufficiente paura, che riescano a fare della loro lotta rivendicativa un problema di ordine pubblico, un problema politico, in modo da farlo trattare per quello che realmente è: un problema che riguarda l’intera società. I problemi di un’azienda in un periodo di crisi non si risolvono in azienda. È un pregiudizio dei capitalisti ritenere che la singola azienda sia autonoma: essi credono ancora nella proprietà individuale e nell’iniziativa economica individuale. Le sorti di un’azienda in periodo di crisi non dipendono dalla bravura dei suoi dirigenti e dalla collaborazione e dai sacrifici dei suoi lavoratori, ma dall’ordinamento generale della società. Bravura e spregiudicatezza dei dirigenti e collaborazione e sacrifici degli operai possono solo, e solo in alcuni casi, consentire di fare le scarpe a un’altra azienda, cambiare l’ordine in cui le aziende vanno al massacro.

Ovviamente questa libera creazione di denaro ha delle contropartite sul piano economico e sul piano politico. Sul piano politico una classe dominante non subisce a lungo imposizioni e ricatti, senza ricorrere a contromisure. Sul piano economico la “libera” creazione di denaro imprime alla crisi economica date direzioni anziché altre, lede interessi che a loro  volta reagiscono. Quindi la classe dominante, se può essere tatticamente condizionata con adeguati rapporti di forza, non può esserlo indefinitamente. Essa, avvalendosi dei suoi privilegi di classe dominante, alla lunga riuscirà a raccogliere e coalizzare nella società stessa e tra le masse popolari stesse, forze sufficienti per distruggere chi la “condiziona”, a meno che siano questi a distruggerla. È per questo che il capitalismo non può essere condizionato alla maniera indicata da Bertinotti. Può essere “condizionato” solo da una classe operaia e dal suo partito comunista decisi a rovesciare la borghesia imperialista e ad instaurare il socialismo; decisi quindi a usare ogni singola lotta di difesa non solo per mantenere una vecchia conquista o strapparne una nuova, ma anche per accumulare forze per rovesciare a proprio favore l’attuale rapporto di forza.

Non si tratta quindi di incanalare il malcontento, le attese e le energie della classe operaia e delle masse verso una Conferenza Nazionale per l’Occupazione con il governo Prodi, la Confindustria e la coalizione dei sindacalisti di regime, ma di mobilitarle e organizzarle per la difesa accanita delle proprie condizioni di vita e di lavoro, per la ricostruzione del partito comunista, per l’instaurazione del socialismo.

 

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