Per il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale

Rapporti Sociali n. 17/18 - autunno 1996 (versione Open Office / versione MSWord )

 

Pubblichiamo questo scritto a quasi due anni dalla sua stesura. Esso era stato preparato per il n. 16 di Rapporti Sociali. Non venne pubblicato in quel numero per ragioni di spazio e convinti che l’avremmo pubblicato di lì a poco nel n. 17. In realtà la pubblicazione del n. 17 è stata rinviata di un anno e mezzo. Nel frattempo lo scritto è circolato come fascicolo a se stante ed è stato anche pubblicato in francese nel libro La seconde crise générale du capitalisme, edito a Bruxelles da Correspondances Révolutionnaires.

Pubblichiamo qui la versione comparsa nel fascicolo senza alcuna modifica, salvo l’aggiunta doverosa della manchette a pag. 60.

 

INTRODUZIONE

Le analisi politiche devono essere conseguenti con la professione di fede nel materialismo storico.

 

Finalmente i comunisti d’Europa iniziano a discutere sulla causa e sulla natura dell’attuale crisi. Nell’interpretazione generale della natura della fase attuale, finora anche tra i comunisti era prevalsa l’egemonia culturale paralizzante della borghesia imperialista. Paralizzante perché da una parte con vuote frasi altisonanti (crisi strutturale, epoca postindustriale, globalizzazione dell’economia, capitale transnazionale, rivoluzione informatica, ecc.) e dall’altra con discorsi di dettaglio (sulle trasformazioni nei processi lavorativi, nelle relazioni commerciali, negli istituti finanziari, ecc.) la cultura borghese nasconde la divisione della società in classi e la lotta tra le classi. In realtà proprio la divisione della società in classi e la lotta tra le classi costituiscono invece l’aspetto del movimento economico che permette di comprendere il movimento politico e culturale della società, di tracciare una linea politica scientifica e di condurre una lotta politica vittoriosa.(1) Infatti, come i marxisti da 150 anni sostengono e dimostrano teoricamente e nella pratica, che il movimento politico e culturale della società si eleva, come sua sovrastruttura, sulle lotte tra le classi determinate dal movimento economico della società stessa.

 

1. La relazione tra la comprensione del movimento economico, la definizione della linea politica e la lotta politica è grossomodo quella che esiste tra la conoscenza della geografia, dei venti, delle correnti e dell’imbarcazione, la definizione della rotta da seguire e la navigazione.

 

In questa fase la lotta contro il soggettivismo, la lotta contro l’economicismo e la lotta contro l’eclettismo sono aspetti indispensabili, assolutamente necessari del lavoro dei comunisti. Si sta sviluppando una nuova situazione rivoluzionaria di lungo periodo ed estesa a tutto il mondo (analoga a quella del periodo 1910-1945), i regimi politici dei singoli paesi e il sistema delle relazioni politiche internazionali sono in crisi, instabili, in preda a sussulti e a incertezze. La resistenza opposta al procedere della crisi sarà l’aspetto che caratterizzerà la vita delle masse popolari nei prossimi anni. Lo scontro tra la mobilitazione rivoluzionaria delle masse e la mobilitazione reazionaria delle masse incomincia a delinearsi e non vi è alcun dubbio che costituirà la sostanza della lotta politica nei prossimi anni in ogni paese. Una nuova ondata di rivoluzioni socialiste e di rivoluzioni di nuova democrazia si svilupperà sicuramente. Ciò che è in discussione e la loro vittoria o la loro sconfitta, in quali paesi vinceranno e in quali saranno sconfitte. Proprio la reale unità economica di tutto il mondo fa sì che lo scontro tra mobilitazione rivoluzionaria delle masse e mobilitazione reazionaria delle masse si svolgerà in ogni paese, salvo differenze di intensità, tempi e forme, secondarie per il discorso  che stiamo tacendo (ma non per lo sviluppo della lotta generale e per le possibilità di vittoria nei vari paesi); che tutti i paesi attraverseranno una situazione rivoluzionaria in sviluppo (ossia un lungo periodo di instabilità del regime politico); che quindi rivoluzioni socialiste e di nuova democrazia potranno vincere almeno in alcuni paesi nonostante la lotta accanita e senza riserve che la borghesia imperialista sicuramente condurrà per cercare di soffocarle.

Questo futuro prossimo esige che i comunisti raggiungano una buona comprensione del movimento economico della società, quindi della crisi generale in corso. È una condizione indispensabile per poter essere all’altezza dei propri compiti.

 

 

Movimento economico, movimento politico,

movimento culturale della società

 

Il movimento economico della società è il movimento (la trasformazione) delle sue forze produttive e dei rapporti di produzione (forze produttive e rapporti di produzione costituiscono la struttura materiale della società), quindi è la trasformazione che avviene nella lotta degli uomini con il resto della natura per la produzione delle condizioni materiali della loro esistenza.

Il movimento politico della società è il movimento (la trasformazione) delle istituzioni e delle concezioni in cui si esprimono i rapporti di forza tra le classi: la divisione della società in classi e la lotta tra le classi sorgono dalla struttura materiale della società e danno luogo al movimento politico della società.

Il movimento culturale della società è il movimento (la trasformazione) delle idee, delle concezioni, delle immagini, delle fantasie, dei riti, delle attività che compongono la vita non materiale degli uomini e attraverso le quali gli uomini concepiscono, rappresentano a se stessi e dirigono la loro vita materiale.

 

Classe dominante

 

Nel movimento della società umana le leggi oggettive del rapporto di produzione dominante si presentano come volontà soggettiva, personale dei membri di una classe che impersona quelle leggi ed é, in quel rapporto di produzione, la classe dominante che si contrappone alle altre.

 

Soggettivismo

 

Per quanto riguarda la trasformazione della realtà, i soggettivisti attribuiscono il ruolo principale o esclusivo agli uomini coscienti, ai personaggi, agli eroi.

Essi trascurano la verità confermata dall’esperienza che la storia la fanno le masse; che gli obiettivi, le linee, i piani si traducono nella trasformazione della realtà oggettiva quando le masse li fanno propri; che sono le masse le artefici principali della trasformazione. Esagerano il ruolo del soggetto, della personalità, dell’individuo e del partito fino a darne una rappresentazione ridicola. Quindi in sostanza sono una derivazione o un residuo dell’idealismo.

 

Economicismo

 

L’economicismo oggi, nel campo delle linee politiche e dei programmi, consiste nel proposito di “politicizzare le lotte economiche”, nell’escogitare, elaborare e proporre programmi generali fatti solo di rivendicazioni economiche, omettendo l’obiettivo che solo può unire e mobilitare le masse: la conquista del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione di una società socialista.

(da Rapporti Sociali n. 16, pag. 33)

  

Eclettismo

 

L’eclettismo consiste nel mettere insieme meccanicamente affermazioni, teorie, concezioni contrapposte. L’eclettico, nel momento in cui afferma che bisogna tenere conto di questo, di quello e di cento altre cose ancora é, per cosi dire, cento volte unilaterale.

L’eclettismo è sempre stato il punto di vista di opportunisti, revisionisti, “cercatori di terze vie” tra reazione e lotta per il socialismo.

(da Rapporti Sociali n. 9/10, pag. 51)

 

Economicisti, anarcosindacalisti o comunisti

 

La differenza fondamentale tra i comunisti e gli anarcosindacalisti (e gli economicisti di altro genere) sta in questo: mentre per questi ultimi l’aspetto centrale dell’azione della classe operaia è la sua lotta per aumentare la propria parte nella distribuzione del prodotto o per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita, per i comunisti l’aspetto centrale dell’azione della classe operaia è la sua lotta per il potere.

Il carattere riformista e utopista degli anarcosindacalisti e degli economicisti di ogni altro genere consiste proprio in quel limite dell’obiettivo che essi cercano di porre alla classe operaia; ciò vale quali che siano le forme di lotta - parlamentare o extraparlamentare, pacifiche o violente - che essi propongono per sostenere le rivendicazioni.

 

Situazione rivoluzionaria in sviluppo

 

A partire dagli anni ‘70 siamo entrati in un periodo, che si protrarrà a lungo, in cui il regime politico borghese, per precise cause economiche proprie della fase imperialista del capitalismo, non riuscirà ad avere un assetto stabile. Le forze della rivoluzione socialista possono, se sfruttano le leggi proprie del periodo e regolano su di esse la loro tattica, crescere fino a rovesciare il rapporto di forza e prendere il potere.

(da Rapporti Sociali n. 16, pag. 47; si veda anche Rapporti Sociali n. 9/10, pagg. 31-34)

 

La resistenza delle masse popolari

al procedere della crisi

 

La crisi economica e la conseguente crisi politica stanno provocando sofferenze crescenti tra le masse popolari: disoccupazione, emarginazione, emigrazione, eliminazione delle conquiste strappate nel periodo precedente, peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, coinvolgimento in guerre, in strategie della tensione, in stragi e in azioni terroristiche organizzate da gruppi imperialisti in guerra tra loro.

A fronte di tutto ciò strati sempre più vasti delle masse popolari entrano in fermento e in agitazione: è questo fermento e questa agitazione che chiamiamo resistenza delle masse popolari al procedere della crisi dell’attuale formazione economico-sociale.

La resistenza delle masse popolari al procedere della crisi si sta sviluppando in tutte le classi e in tutto il paese. Essa non consiste solo in manifestazioni, scioperi e assemblee di protesta, ma in mille altre iniziative e comportamenti individuali e collettivi.

(da Rapporti Sociali n. 16, pag. 25)

 

La mobilitazione rivoluzionaria delle masse e la

mobilitazione reazionaria delle masse

 

 La nuova costituzione materiale della società può essere costruita solo dalle masse, perché è l’insieme dei rapporti che si stabiliscono tra le varie classi che le compongono. La mobilitazione rivoluzionaria delle masse è la loro mobilitazione guidata della classe operaia quale nuova classe dirigente, per la rivoluzione socialista.

La mobilitazione reazionaria delle masse è la loro mobilitazione guidata da gruppi della borghesia imperialista, per la distruzione di una parte del capitale accumulato e l’instaurazione di nuove forme dei rapporti di produzione capitalisti e della sovrastruttura corrispondente.

(da Rapporti Sociali n.16, pagg. 6-7; si veda anche Rapporti Sociali n. 12/13, pagg. 23-31)

 

 

Per riuscire a dirigere verso la vittoria la lotta della classe operaia per conquistare il potere e le lotte delle masse popolari per eliminare la direzione della borghesia imperialista, i comunisti hanno bisogno di una giusta comprensione del movimento economico della società e quindi della comprensione della causa e della natura dell’attuale crisi. Tutta la storia del movimento comunista sia in positivo (cioè considerando i successi conseguiti) sia in negativo (cioè considerando le sconfitte subite) conferma questa tesi. Oggi dobbiamo in particolare combattere la tendenza di alcuni compagni a considerare, di fatto, l’analisi del movimento economico come un hobby, un tributo da pagare alla nostra matrice marxista, alla nostra “professione di fede” nel materialismo storico. È evidente che alcuni compagni né vedono né ritengono di dover cercare le relazioni che uniscono (a volte indirettamente, attraverso vari anelli intermedi, attraverso un percorso tortuoso) il movimento politico e culturale della società (campo in cui attualmente si svolge il nostro lavoro) al movimento economico di essa e quindi non basano né le loro analisi del movimento politico e culturale né la loro linea politica sull’analisi del movimento economico. Di fatto, nonostante la loro professione di fede nel materialismo storico, essi considerano l’economia e la politica come due campi separati. Nella loro concezione, la struttura economica della società capitalista resta grossomodo sempre eguale a se stessa. Quando trattano del movimento economico della società si limitano a richiamare quello che Marx ha scritto del capitalismo in generale e della società del suo tempo o quello che Lenin ha scritto dell’imperialismo in generale e della società del suo tempo, come se la struttura economica di ogni società borghese nel suo corso (formazione, crescita, maturità e declino) non passasse attraverso trasformazioni rilevanti. Invece quando trattano del movimento politico, dei metodi di lotta, delle forme di organizzazione a ragione esigono che si tenga conto dei fenomeni nuovi e delle forme nuove assunte dalla lotta tra le classi. Ma così nella loro concezione è come se il movimento politico si sviluppasse grossomodo arbitrariamente perché determinato unicamente (o almeno principalmente) dalle iniziative degli individui, dei partiti o delle classi. Essi non vedono che queste iniziative nascono e si sviluppano sulla base del movimento economico della società.

È quindi una cosa eccellente che tra i comunisti d’Europa finalmente sia iniziato un dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale. Occorre fare tutto il possibile perché questo dibattito si estenda e si approfondisca, fino a produrre un salto qualitativo nella conoscenza della realtà da parte dei comunisti.

Sulla rivista Rapporti Sociali abbiamo esposto e illustrato in più articoli la tesi che la crisi attuale è la seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Esattamente nel n. 0 (La crisi attuale: crisi per sovrapproduzione di capitale), nel n. 1 (Crack di borsa e capitale finanziario), nel n. 5/6 (Ancora sulla crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale), nel n. 8 (Marx e la crisi per sovrapproduzione di capitale), nel n. 9/10 (Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo), nel n. 12/13 (La seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale). Qui di seguito ci limitiamo ad illustrare alcuni punti ai quali, a nostro parere, nel dibattito dei comunisti non viene ancora data l’importanza che invece hanno nella realtà. Ci riferiamo alle posizioni espresse recentemente da alcuni compagni. In particolare a quelle contenute negli articoli Crisis de desarrollo o desarrollo de la crisis e Sobre la crisis de supoproduccion, entrambi di M.P.M. (Arenas), comparsi rispettivamente nel n. 16 (ottobre ‘91) e come allegato al n. 24  (aprile ‘94) di Resistencia,(2) rivista del Partido Comunista de Espana (recostituido). Per ora, vista la fase iniziale del dibattito, non riteniamo sia il caso di affrontare direttamente le critiche, serie e meno serie, mosse da vari lati alla nostra tesi sulla crisi attuale. Ci riserviamo di farlo nel momento che riterremo più opportuno ai fini del buon andamento del dibattito dei comunisti sulla causa e la natura dell’attuale crisi, dibattito a cui abbiamo la ferma intenzione di prendere parte.

 

2. La redazione della rivista Correspondances Révolutionnaires (BP 1310, 1000 Bruxelles 1 - Belgio) diffonde una traduzione italiana della rivista Resistencia.

I nostri lettori che vogliono prendere visione della rivista Resistencia, possono rivolgersi all’indirizzo indicato.

I due articoli indicati nel testo sono pubblicati in francese nel volume La crise générale du capitalisme, Ed Correspondances Révolutionnaires (Bruxelles). La traduzione italiana dei due articoli, come la copia dei testi in spagnolo, più essere richiesta (lire 4.000) alle Edizioni Rapporti Sociali, via Bruschetti 11, 20125 Milano, tel/fax 02 - 6701806.

 

1. E in corso una crisi attualmente?

(ossia a proposito dei compagni che negano la divisione dell’epoca imperialista in fasi)

 

Può sembrare una domanda provocatoria, ma ad alcuni compagni bisogna porla esplicitamente ed esigere da essi una risposta chiara ed inequivocabile. Infatti essi evitano il problema della causa e della natura della crisi attuale, tirando in ballo la “crisi generale” in cui il modo di produzione capitalista è entrato da quando è iniziata l’epoca imperialista.

1.1. Noi viviamo nell’epoca imperialista. Quest’epoca inizia grossomodo nell’ultimo quarto del secolo scorso e dura tuttora. Essa è l’epoca del declino, del tramonto, della crisi generale del capitalismo. È l’epoca in cui il capitalismo si avvia alla scomparsa e il socialismo si va affermando in tutto il mondo.(3) È l’epoca in cui nel movimento della società umana è diventata principale la contraddizione tra il carattere collettivo delle forze produttive e il carattere capitalista dei rapporti di produzione. Sul piano dei rapporti tra le classi, ciò significa che è diventata principale la contraddizione tra la classe operaia e la borghesia. Questa è la contraddizione che caratterizza 1’intera epoca imperialista, dal suo inizio alla sua fine. Il declino del capitalismo e l’affermazione del socialismo sono quindi la caratteristica dell’intera epoca imperialista.

 

3. Ad alcuni nostri lettori parrà un paradosso affermare nel 1994 (dopo il “glorioso” 1989!) che “l’epoca attuale è l’epoca in cui il capitalismo si avvia alla scomparsa e il socialismo avanza verso la vittoria in tutto il mondo”. In realtà è una tesi fondata sull’osservazione, sullo studio e sulla correlazione dell’insieme degli avvenimenti e delle tendenze della nostra epoca, ivi comprese le sconfitte subite dal movimento comunista nel periodo 1945-1975 e l’avvento del revisionismo moderno, le trasformazioni strutturali avvenute nelle società imperialiste a seguito della prima crisi generale e l’espansione delle forme antitetiche dell’unità sociale, il tentativo di “capitalismo dal volto umano” dello stesso periodo, la nuova crisi generale del sistema imperialista mondiale iniziata nel 1975, il crollo dei regimi dei revisionisti moderni e dei partiti revisionisti alla fine degli anni ‘80, le trasformazioni in corso nei nostri giorni e le misure economiche e politiche adottate dalla classe dominante.

A conferma della nostra tesi (apparentemente paradossale) citiamo, per quel che valgono, anche tutti i discorsi dei politici, dei sociologi e dei politologi borghesi dei nostri giorni. Essi infatti vanno ripetendo in tutte le salse che, per “uscire dalla crisi attuale”, bisogna ridurre le condizioni di vita e di lavoro delle masse, “tagliare gli alimenti” ai lavoratori inabili al lavoro (pensionati, invalidi, ecc.), far lavorare più intensamente e più a lungo i lavoratori in produzione, ridurre il numero dei lavoratori dipendenti alla mercé dei capitalisti, emarginare dal lavoro ampie masse di uomini, imprigionare o uccidere quanti non accettano il loro destino con rassegnazione, ridurre mediante il controllo delle nascite, la sterilizzazione coatta, ecc. la popolazione dei “paesi sottosviluppati” (come eufemisticamente chiamano le semicolonie), ecc. Essi insomma, forse  senza rendersene conto, vanno dicendo che per gli uomini della nostra epoca è impossibile continuare a vivere nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti. Questa è anche la nostra tesi.

 

Possono bastare questa contraddizione e questa caratteristica a individuare la causa e la natura della crisi attuale? Addurre questa contraddizione e questa caratteristica, proprie dell’intera epoca, come spiegazione della crisi attuale equivale a negare che in questi anni sia in corso una crisi.

Il modo di produzione capitalista è passato dall’epoca della sua ascesa all’epoca del suo declino (l’epoca imperialista) quando il carattere collettivo, il carattere sociale delle forze produttive e dell’attività economica prevalse sul carattere individuale di esse, divenne il loro carattere principale. Fu un salto nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Il carattere collettivo delle forze produttive è quindi l’aspetto principale rispetto al loro carattere individuale lungo l’intera epoca imperialista, dal suo inizio alla sua fine. Questo da luogo, ancora nell’ambito della società capitalista, alla formazione continua di forme antitetiche dell’unità sociale - FAUS - che altrettanto continuamente vengono distrutte. La formazione, l’azione e l’eliminazione di FAUS sono una caratteristica specifica del modo di produzione capitalista nell’epoca imperialista. È impossibile comprendere il movimento economico delle società imperialiste senza l’uso della categoria “forme antitetiche dell’unità sociale”. Quelli che non comprendono e non usano questa categoria oscillano nelle loro analisi tra negare la differenza qualitativa in campo economico tra l’epoca preimperialista e l’epoca imperialista (“non è cambiato niente”) e sostenere che sul piano economico l’imperialismo è qualcosa di completamente diverso dal capitalismo (“é cambiato tutto”, si è formato un nuovo modo di produzione, un modo che quindi non si sviluppa più secondo le leggi scoperte e illustrate da K. Marx nel Capitale).

La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione è una contraddizione antagonista lungo l’intera epoca imperialista, dal suo inizio alla sua fine. Ciò genera inevitabilmente movimenti e forze rivoluzionarie che mirano ad adeguare i rapporti di produzione al carattere collettivo delle forze produttive, ossia movimenti e forze rivoluzionarie che tendono al socialismo.

 

 

Rivoluzione socialista

 

La rivoluzione socialista comprende due aspetti:

- l’instaurazione della direzione politica della classe operaia, ossia la conquista del potere da parte della classe operaia, che è l’unica possibile classe dirigente della rivoluzione socialista;

- l’instaurazione della proprietà pubblica di tutte le principali forze produttive e la pianificazione di tutta l’attività economica del paese in vista della soddisfazione dei bisogni materiali e spirituali, individuali e collettivi della popolazione.

L’instaurazione della direzione politica della classe operaia è la premessa indispensabile per il secondo aspetto della rivoluzione socialista. Questo a sua volta è la condizione indispensabile per la permanenza del primo. La rivoluzione socialista realizza una certa trasformazione dei rapporti di produzione (in particolare nel rapporto di proprietà) e dà inizio al processo di trasformazione de rapporti di produzione e dei rapporti sovrastrutturali che complessivamente costituiscono la transizione al comunismo.

 

Rivoluzione di nuova democrazia

 

La categoria “rivoluzione di nuova democrazia” è stata elaborata da Mao Tse-tung e sta ad indicare che nell’epoca imperialista del capitalismo l’eliminazione dei caratteri feudali residui nei paesi arretrati e della loro dipendenza coloniale o semicoloniale può avvenire solo nella forma di rivoluzione democratica (basata  cioè sulla proprietà individuale e privata di varie classi e quindi una rivoluzione non ancora direttamente socialista) diretta dalla classe operaia tramite il suo partito comunista. Esempio classico di rivoluzione di nuova democrazia è la rivoluzione cinese nel periodo 1927-1949.

 

La crisi generale del capitalismo

 

La crisi del capitalismo è generale quando non riguarda solo alcuni aspetti, ma il complesso della società. Si tratta di una crisi economica, che genera una crisi politica e una crisi culturale. La crisi economica quindi non trova soluzione in campo economico, a differenza di quanto credono gli economicisti e i borghesi, che si affannano a proporre misure economiche (come “meno orario a pari salario”, “lavori socialmente utili”, “maggiore competitività”, “meno concorrenza”, ecc.), né porta al “crollo del sistema”, come proclamano i catastrofisti. Essa trapassa in crisi politica e culturale, assume le forme e i contenuti della crisi politica e culturale. Quando questo trapasso ha raggiunto un certo livello, gli idealisti iniziano a trattare della crisi politica e culturale ignorando la crisi economica che l’ha generata e la alimenta.

Il nostro paese sta attraversando una crisi generale, di lungo periodo e di estensione mondiale.

 

Forze produttive

 

Con l’espressione forze produttive indichiamo:

- la capacità lavorativa umana,

- l’esperienza e la conoscenza impiegate nel processo lavorativo,

-gli utensili, le macchine, gli impianti e le installazioni che i lavoratori usano nel processo produttivo,

- le infrastrutture sociali usate ai fini produttivi,

- gli animali, i vegetali e le altre risorse naturali impiegati nella produzione.

 

Rapporti di produzione

 

I rapporti di produzione sono essenzialmente costituiti da tre elementi:

1. La proprietà dei mezzi di produzione (individuale capitalista, individuale del lavoratore, collettiva di un gruppo di capitalisti, cooperativa di lavoratori, comune o pubblica).

2. Le relazioni tra gli uomini nell’attività economica (divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra lavoro esecutivo e lavoro di organizzazione e di direzione, gerarchia, ecc.).

3. Il sistema di distribuzione del prodotto.

 

Carattere collettivo e carattere individuale

delle forze produttive

Carattere capitalista dei rapporti di produzione

 

Le forze produttive dell’attuale società sono già collettive; ciò significa che con esse il protagonista della produzione della ricchezza non è il singolo individuo, ma solo l’insieme organizzato degli individui, il collettivo. Esso può essere diretto dalla borghesia imperialista (il capitalismo attuale) o dirigersi democraticamente (il comunismo).

Nel primo caso nei rapporti di produzione e nella sovrastruttura della società vi è una classe di individui che comandano e il resto è ad essi sottoposto; nel secondo caso non vi sono classi sociali. Una società in cui è in corso Il passaggio dalla prima situazione alla seconda è una società socialista (o fase primitiva del comunismo); durante questa fase il collettivo è diretto dalla classe operaia.

 Nel movimento della società umana le leggi oggettive del rapporto di produzione dominante si presentano come volontà soggettiva, personale dei membri di una classe che impersona quelle leggi ed è, in quel rapporto di produzione, la classe dominante che si contrappone alle altre.

La classe che attualmente impersona ed esprime le leggi oggettive del capitalismo, le impone all’intera società e le diffonde come “leggi di natura” è la borghesia imperialista.

 

Le forme antitetiche dell’unità sociale (FAUS)

 

Le forme antitetiche dell’unità sociale sono istituzioni e procedure con cui la borghesia imperialista cerca di far fronte al carattere collettivo oramai assunto delle forze produttive, pur restando sul terreno della proprietà individuale capitalista. Nella società imperialista, FAUS sono continuamente create e continuamente distrutte. Sono FAUS ad esempio le banche centrali, Il denaro fiduciario, la contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro salariato, la politica economica degli Stati, i sistemi previdenziali, ecc.

(Per maggiori dettagli consultare Rapporti Sociali , n. 4, pagg. 20-22)

 

 

Questi tratti propri del modo di produzione capitalista nella sua epoca imperialista, tratti che gli sono comuni lungo l’intera epoca, non possono spiegare il carattere specifico delle fasi contrastanti (rispettivamente di crisi e di sviluppo) in cui l’epoca imperialista si divide. Non può spiegare il passaggio da una fase di espansione a una fase di crisi. La questione è quando nel sistema imperialista mondiale, quindi nell’ambito di una contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, si passa da una fase di espansione a una fase di crisi? Alcuni compagni sostengono che la causa di questa crisi è la contraddizione tra forze produttive collettive e rapporti di produzione capitalisti. Ma questa contraddizione è la causa del movimento economico della società in tutta l’epoca imperialista, non solo nei suoi periodi di crisi (ad es. è la causa anche della formazione e della distruzione delle FAUS, della rivoluzione proletaria, ecc.). Non è la causa specifica della crisi. Non si può spiegare la successione di periodi di malattia e di buona salute nella vita di un uomo con la sua esistenza, anche se certamente non vi sarebbe né malattia né buona salute se egli non esistesse. Parimenti se non vi fosse contraddizione antagonista tra forze produttive e rapporti di produzione non vi sarebbero né i periodi di crisi né i periodi di sviluppo quali si presentano nell’epoca imperialista. Sia i periodi di crisi sia i periodi di sviluppo si danno sulla base comune della contraddizione antagonista tra forze produttive già collettive e rapporti di produzione ancora capitalisti.

Il declino del capitalismo, la putrefazione del capitalismo, la sua inevitabile sostituzione da parte del socialismo, cioè il suo superamento definitivo non si realizzano (lo abbiamo visto in questo secolo) con un atto unico per quanto traumatico, ma attraverso fasi acute della “malattia” che si alternano a fasi di benessere apparente, come succede nel decorso di molte malattie. Quando la fase acuta subentra alla fase di benessere, di guarigione apparente? Qual è la natura delle fasi acute? Ecco il problema di cui stiamo trattando, una volta data per scontata la connessione tra le due fasi, come fasi di un’unica e continua malattia dell’organismo (il modo di produzione capitalista e la società borghese di cui esso è il modo di produzione principale e dirigente) che è oramai minato.

Lenin ha rilevato e illustrato la crisi generale in cui la società borghese del suo tempo era entrata, crisi che sarebbe stata la crisi finale del capitalismo se la classe operaia dei paesi imperialisti fosse riuscita a prendere il potere almeno nei maggiori di essi. Ma cosi non è stato. La classe operaia non è riuscita a prendere il potere né nei paesi dell’Europa occidentale né in quelli dell’America settentrionale. Quella crisi generale si è chiusa grossomodo nel 1945 senza l’eliminazione generale della borghesia imperialista. La classe operaia aveva preso il potere in alcuni grandi paesi, ma in tutti i grandi paesi imperialisti si erano instaurati nuovi regimi borghesi. “Tutto” era mutato sia nei primi sia nei  secondi, sia nei paesi coloniali (avviati a diventare paesi semicoloniali). Ma non tutto era cambiato. Si era creata una situazione (un nuovo periodo di ripresa e di sviluppo del capitalismo, l’esistenza di un campo socialista, i paesi semicoloniali) che stava ai comunisti del tempo di affrontare. L’hanno affrontato come hanno potuto e ne sono venuti la costruzione del socialismo, il revisionismo moderno e la rivoluzione culturale proletaria. Poi, grossomodo a metà degli anni ‘70, è sopravvenuta la nuova crisi generale del capitalismo. I compagni che bloccano la storia all’ora di Lenin, sbagliano e travisano anche il suo stesso insegnamento. Lenin non poteva illustrare quello che ancora non c’era, comprendere un’esperienza non ancora fatta.(4) Noi troviamo in Lenin la comprensione della crisi generale del capitalismo. È impossibile che ci sia la comprensione di quello che è venuto dopo. Troviamo in Lenin la “chiave” per leggere, studiare, comprendere quello che è venuto dopo. Dobbiamo usarla questa chiave di lettura. Dobbiamo prendere atto che la prima crisi generale del capitalismo (quella iniziata grossomodo nel 1910) si è conclusa nel 1945 senza l’eliminazione generale (in tutto il mondo) e quindi neanche definitiva del capitalismo. Lenin aveva studiato questo evento? Evidentemente no. Era inevitabile questo evento? Era l’unico sbocco possibile della crisi generale iniziata nel 1910? No, esso fu un risultato della lotta politica tra classe operaia e borghesia imperialista nel corso degli anni ‘20 e ‘30. Era solo uno dei possibili sbocchi della crisi generale. L’analisi esposta da Lenin escludeva questo sbocco? Affatto, esso non lo escludeva come non escludeva l’altro, la vittoria generale del socialismo.

 

4. La teoria materialista dialettica (la teoria marxista) della conoscenza insegna che le idee vengono dalla pratica (vedasi Sulla pratica, in Opere di Mao Tse-tung, vol. 5). Come avrebbe potuto Lenin comprendere un’esperienza non ancora compiuta? Diverso è comprendere le leggi generali di un processo in corso e quindi in base ad esse delineare i tendenziali sviluppi futuri del processo.

 

Chi si ostina a ripetere come una formula la teoria della crisi generale unica finale, ultima, ecc. non rende un buon servizio né a Lenin né alla sua causa né alla causa della classe operaia e delle masse popolari.

1.2. D’altra parte vi è un ampio settore della cultura borghese che si ostina

a misurare, a celebrare o a piangere alternativamente riprese e recessione economiche, insomma quelle piccole oscillazioni di breve periodo (grossomodo da uno a tre anni) attraverso cui si svolge il movimento economico della società imperialiste. Anche questo è un modo di negare che in questi anni è in corso una crisi generale.

Sia quei compagni sia quella cultura borghese, in modi diversi e mossi da interessi diversi, eludono il fatto che a partire grossomodo dalla metà degli anni settanta, diciamo dal 1975, è iniziata una nuova crisi generale (economica, politica e culturale, una crisi mondiale e di lungo periodo), analoga per alcuni aspetti a quella che si svolse grossomodo tra il 1910 e il 1945.(5)

Più in generale quei compagni e quella cultura borghese eludono il fatto

- che l’epoca imperialista, caratterizzata in tutta la sua durata dalla contraddizione principale sopra indicata che costituisce la sua natura, si divide in fasi tra loro contrastanti (6) fasi di crisi (1873-1895, 1910-1945, 1975-?) e fasi d sviluppo (1895-1910, 1945-1975),

- che il socialismo procede verso la vittoria in tutto il mondo attraverso fasi contrastanti, di espansione e di ripiegamento.

Alcuni compagni, di fatto, nelle loro analisi negano che l’epoca imperialista si suddivida in fasi; alcuni compagni, parlando in astratto o in altri contesti affermano che l’epoca imperialista si divide in fasi, ma quando fanno l’analisi della crisi attuale prescindono da quella divisione e comunque evitano di definire il carattere delle singole fasi.(7)

L’oggetto del nostro dibattito è la definizione della fase attuale, cioè definizione della causa e della natura della crisi in corso in questi anni. L’oggetto del dibattito non è la natura generale dell’epoca imperialista (per la quale rinviamo a  Lenin e a Stalin), la natura delle riprese e delle recessioni di breve periodo attraverso cui procede il movimento economico delle società imperialiste (sia nelle fasi di crisi, sia nelle fasi di sviluppo).

 

5. Un aspetto importante della comprensione del movimento economico della società in questa fase è la comprensione delle condizioni differenti in cui si svolge l’attuale seconda crisi generale rispetto alla prima crisi generale: le caratteristiche nuove della struttura economica della società borghese (per cui rimandiamo al n. 4 di Rapporti Sociali, pag. 15 e segg.), le caratteristiche nuove del regime politico della società borghese (per cui rimandiamo a Rapporti Sociali n. 7, Democrazia e socialismo), l’esperienza accumulata dal movimento comunista nella rivoluzione e nella trasformazione socialista della società.

La seconda crisi generale deve aprirsi e sta aprendosi la strada attraverso queste nuove caratteristiche della società: ciò la rende per alcuni aspetti diversa dalla prima.

 

6. Per maggiori dettagli si veda l’articolo Le fasi in cui si divide I’epoca imperialista, in Rapporti Sociali n.12/13

 

7. L’articolo di Arenas Crisi di sviluppo o sviluppo della crisi, in Resistencia n. 16 - ottobre 1991 contiene l’impostazione teorica della divisione dell’epoca imperialista in fasi e rinviamo ad esso i nostri lettori.

 

2. L’epoca imperialista

(ossia a proposito dei compagni che attenuano l’importanza del passaggio all’epoca imperialista)

 

L’epoca imperialista è iniziata grossomodo nell’ultimo quarto del secolo scorso e dura tuttora. Nessun marxista degno di questo nome può affrontare l’analisi della fase attuale senza tener conto praticamente, cioè sia nelle analisi di singoli aspetti sia nella definizione della fase, che noi siamo nell’epoca imperialista, quindi senza tener conto non solo delle leggi generali del modo di produzione capitalista (scoperte ed esposte da Marx e valide finché questo modo di produzione esisterà, quindi anche nell’epoca imperialista), ma anche dei caratteri specifici dell’epoca imperialista. Citiamo dal capitolo 5 del Programma del PCE(r) approvato dal suo III Congresso (luglio 1993): “I1 compito ineludibile dei comunisti è analizzare da una prospettiva storica i principali metodi di lotta e le forme di organizzazione assunte dal movimento rivoluzionario; vale a dire studiarli sulla base dell’evoluzione del sistema: economico, della natura del regime politico della borghesia e dello sviluppo della lotta di classe” (pag. 81 dell’opuscolo Programa, Linea politica Estatudos, PCE(r), ottobre 1993). Analogamente nell’articolo di Arenas Sulla strategia della lotta armata rivoluzionaria (pag. 42 di Resistencia n. 24 - aprile 1994) egli afferma: “(...) né Lenin né alcun altro marxista ha descritto il contesto generale in cui si sviluppa attualmente [il corsivo è nostro] la lotta di classe il tutto il mondo; né ha illustrato in modo chiaro il contesto economico e politico dell’imperialismo, del regime dei monopoli; né ha nemmeno caratterizzato l’opportunismo che occulta o falsa con sofismi quella realtà mentre contrasta lo sviluppo della lotta di classe con tutte le sue forze”.

Nei due brani che abbiamo citato è affermato in modo molto chiaro e preciso che, ai fini politici, bisogna tener conto proprio “dell’evoluzione del sistema economico”, che “né Lenin né alcun altro teorico marxista ha illustrato in modo chiaro il contesto economico ... dell’imperialismo. Tutti i marxisti e tutti i seguaci del materialismo storico affermano d’altra parte che “la natura del regime politico della borghesia”, “lo sviluppo della lotta di classe”, “il contesto generale in cui si sviluppa attualmente la lotta di classe in tutto il mondo”, “il contesto ... politico dell’imperialismo del regime dei monopoli”, “l’opportunismo” e altre cose analoghe possono essere comprese solo sulla base della comprensione del “contesto economico dell’imperialismo”.

Tutto ciò porta a concludere che il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale deve basarsi, oltre che sulle leggi  generali del modo di produzione capitalista, anche sui caratteri economici specifici dell’epoca imperialista. Occorre caratterizzare chiaramente i caratteri economici specifici che il modo di produzione capitalista acquista nel suo passaggio alla fase imperialista, caratteri che prima esso non aveva e occorre vedere chiaramente come questi entrano in gioco nelle crisi dell’epoca imperialista. Bisogna insomma caratterizzare chiaramente il contesto economico dell’imperialismo perché è in esso che si svolge la crisi attuale. I compagni che affermano che esiste un contesto economico dell’imperialismo con suoi tratti specifici che non esistevano nell’epoca precedente, quando passano all’analisi della crisi attuale, dimenticando proprio i tratti specifici, sostengono che le crisi dell’epoca imperialista hanno medesime causa e natura delle crisi dell’epoca precedente e non ritengono nemmeno di dover dimostrare questa loro affermazione.

 

3. le crisi nell’epoca imperialista e le crisi del secolo XIX studiate da Marx

 

La nostra tesi sulla crisi attuale sottintende l’affermazione che, quando il modo di produzione capitalista è entrato nella sua fase imperialista, è cambiata la causa e la natura delle crisi. In particolare la causa e la natura delle crisi nella società imperialista sono diverse dalla causa e dalla natura delle crisi cicliche (che si ripetevano ogni 10 anni circa) che Karl Marx ha descritto ne Il capitale.

È anzitutto un dato di fatto che quelle crisi cicliche decennali sono cessate. Esse si sono avute negli anni 1815, 1825, 1836, 1847, 1857, 1867. L’ultima di queste crisi si ebbe nel 1867, come dichiara e spiega F. Engels, nella prefazione del 1886 all’edizione inglese del libro 1° de Il capitale.

È sbagliato mettere sullo stesso piano le crisi economiche cicliche dell’epoca preimperialista (proprie della fase di maturità che il modo di produzione capitalista attraversò nella prima metà del secolo XIX (8)) con le crisi generali dell’epoca imperialista, come se fossero fenomeni dello stesso genere.

 

8. K. Marx ha in più parti delle sue opere mostrato - che la possibilità della crisi economica nel senso capitalista (ossia crisi dovuta ai rapporti di produzione e non alla inadeguatezza delle forze produttive a produrre le condizioni materiali dell’esistenza in quantità sufficiente a tutta la popolazione, ma al contrario crisi con sovrapproduzione di beni) nasce con il sorgere della produzione capitalista, la quale è nella sua sostanza produzione per l’accumulazione di capitale anziché produzione per il consumo; questa possibilità quindi è connaturata al modo di produzione capitalista, è presente dal suo inizio fino alla sua fine; - che il verificarsi effettivo della crisi, la sua causa e natura vanno invece comprese sulla base delle condizioni storiche concrete delle singole società e fasi. Egli ha in particolare studiato le crisi cicliche (decennali) verificatesi nella prima metà del secolo scorso, quando il modo di produzione capitalista era arrivato alla maturità e conseguentemente le condizioni per il suo superamento venivano formandosi. Fra queste in primo luogo la classe operaia veniva costituendosi come classe politicamente autonoma dalla borghesia e dalle altre classi popolari.

 

Chi confonde le due cose, nega o attenua la qualità del salto compiuto, in campo economico, dal modo di produzione capitalista quando è passato dall’epoca della sua affermazione e della sua crescita (o dall’epoca preimperialista), all’epoca del suo declino, della sua putrefazione e della sua ineluttabile sostituzione da parte del socialismo (o all’epoca imperialista). L’incomprensione e l’attenuazione della qualità di questo salto in campo economico, hanno effetti importanti in campo politico: con essi si elimina la base materiale, la base economica del salto che è avvenuto negli obiettivi e quindi nei metodi di lotta e nelle forme di organizzazione del proletariato quando è passato dall’epoca di preparazione delle forze rivoluzionarie all’epoca delle rivoluzioni proletarie (salto la cui espressione teorica è il leninismo). Vogliamo forse che chi non comprende il movimento economico non può mai e in assoluto comprendere il movimento politico? Certamente no, la storia offre molti esempi in contrario.(9) Vogliamo dire che chiunque elabora  un’analisi del movimento politico prescindendo dalla base economica cui esso è espressione: 1. è esposto a maggiori possibilità di errori; 2. resta privo di una parte importante degli strumenti che può usare nella lotta contro le analisi e le linee politiche sbagliate; 3. lascia spazio ai seguaci soggettivisti della sua stessa analisi e linea (a quelli cioè che condividono la linea politica del momento, ma sulla base di altre concezioni, ossia di interessi di altre classi).

 

9. Un esempio illustre è offerto da Rosa Luxemburg. Questa grande protagonista del movimento comunista ebbe una concezione sbagliata del movimento economico della società del suo periodo, ma intuì giustamente il carattere rivoluzionario della fase. Occorre aggiungere che non basta una giusta comprensione del movimento economico della società per avere una giusta comprensione del suo movimento politico e tanto meno per esercitarvi il ruolo di comunisti, ossia di promotori e dirigenti della trasformazione dello stato di cose esistente. Basti ricordare due esempi illustri: Plekhanov e Kautsky.

La questione è che solo sulla base della comprensione del movimento economico della società e possibile elaborare una comprensione profonda, razionale, scientifica del movimento politico ed elaborare una linea politica scientifica. Infatti il movimento politico non è un movimento autonomo, bensì un movimento nella sovrastruttura del movimento economico. Le sue ragioni e la sua reale continuità non si possono scoprire nel movimento politico stesso, perché stanno nel movimento economico. Passaggi politici incomprensibili restando nel campo politico, diventano comprensibili se si analizza la loro base economica.

 

 

Una precisazione dovuta

 

Il traduttore del testo spagnolo ha compiuto una (involontaria) alterazione del senso del periodo. Il passo citato dell’articolo Sulla strategia della lotta armata rivoluzionaria di Arenas, nel testo originario era preceduto dall’espressione “Stando a quello che loro dicono, e come se né Lenin ecc.”. Dove il “loro” è riferito agli autori contro cui Arenas polemizza, gli articolisti di La voie prolétarienne. Quindi in sostanza Arenas afferma che “Lenin e altri marxisti hanno descritto il contenuto generale in cui si sviluppa attualmente la lotta di classe in tutto il mondo; hanno illustrato in modo chiaro il contesto economico e politico dell’imperialismo, del regime dei monopoli; hanno anche caratterizzato l’opportunismo che occulta o falsa con sofismi quella realtà mentre contrasta con tutte le sue forze lo sviluppo della lotta di classe”.

Fatto questo doveroso riconoscimento del pensiero di Arenas e dell’alterazione che di esso è stata fatta nella traduzione da noi usata, nulla però cambia quanto alla sostanza della nostra argomentazione. Resta a nostro parere innegabile che il modo di produzione capitalista ha assunto, nel corso del suo sviluppo, caratteristiche la cui nascita, la cui natura e il cui sviluppo possono essere compresi solo con l’analisi che Marx ha fatto del modo di produzione capitalista, ma che sostanzialmente negano il modo di produzione capitalista che tuttavia “sopravvive a se stesso”. Sono mediazioni, sul terreno del capitalismo e del dominio della borghesia imperialista, tra i rapporti di produzione capitalisti che sopravvivono e il carattere collettivo dell’attività economica e delle forze produttive. Sono ciò che fa dell’imperialismo l’anticamera del socialismo. È quindi sbagliato trasporre pari pari nel presente la teoria delle crisi cicliche (decennali) elaborata da Marx. Già nel 1891 F. Engels (Critica al programma di Erfurt) aveva messo in luce che il capitalismo della fine del secolo non era più quello della libera concorrenza, ma era il “capitalismo dei monopoli sulla base dello scambio e della concorrenza”. Già nel 1917 Lenin aveva messo in luce il passaggio in atto dal capitalismo monopolistico al capitalismo monopolistico di Stato, cosa che lo portava a dire che “un capitalismo in cui lo Stato è il committente unico o di gran lunga prevalente di interi settori produttivi è un capitalismo sui generis”. Da allora la struttura economica capitalista ha fatto numerosi passi avanti. Le forme antitetiche dell’unità sociale  (FAUS) si sono moltiplicate e approfondite (basti una per tutte: la creazione di un sistema monetario mondiale su base fiduciaria). Tutte queste trasformazioni sono il fondamento necessario per comprendere le leggi secondo cui si è sviluppata e si svilupperà la rivoluzione proletaria e quindi la natura del partito comunista e la sua strategia. I compagni spagnoli dovranno prima o poi chiarire la natura di queste trasformazioni che stanno alla base della loro linea politica.

 

 

Facciamo un esempio. Noi abbiamo illustrato la tesi sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo (nell’articolo omonimo pubblicato nel n. 9/10 di Rapporti Sociali). Questa tesi è l’espressione, in termini politici, della tesi che la crisi attuale è la seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Alcuni compagni condividono la prima tesi (sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo), ma non condividono la seconda. Ferme restando le possibilità di collaborazione politica con essi, è evidente che la loro adesione alla prima tesi è di tipo empirico, cioè fondata unicamente sull’attenta osservazione, da un punto di vista e con spirito rivoluzionari, degli avvenimenti politici correnti. Essi cioè collezionano, scelgono gli avvenimenti politici che indicano l’instabilità degli attuali ordinamenti politici (quello mondiale e quelli dei singoli paesi), colgono in qualche modo la connessone che li unisce tra loro e che fa essere ognuno di essi la manifestazione singola e particolare di un’unica tendenza e scartano come secondari o trascurabili gli avvenimenti politici di segno contrario. Ma come si troverebbero se (cosa possibile) per alcuni anni avvenimenti politici numerosi e importanti indicassero una stabilizzazione della situazione politica? Quali argomenti oppongono a quanti collezionano, mettono in primo piano e contrappongono alla tesi della situazione rivoluzionaria in sviluppo, i numerosi e reali avvenimenti politici che anche adesso, presi uno ad uno, indicano una stabilizzazione della situazione politica (ad es. la soggezione dell’attuale governo russo alla NATO e al Fondo Monetario Internazionale, l’amplificazione dell’azione di gendarme internazionale svolta dagli USA, ecc.)? In realtà anche gli avvenimenti politici di questo secondo ordine confermano e verificano la nostra tesi anziché smentirla. Ma la connessione (indiretta, mediata) tra essi e la situazione rivoluzionaria in sviluppo non sta nel movimento politico, ma nel movimento economico della società; quindi resta oscura e inconoscibile a chi non comprende questo. E questa comune incomprensione che fa apparire a volte il contrasto tra i sostenitori della tesi della situazione rivoluzionaria in sviluppo e i sostenitori della tesi della situazione controrivoluzionaria come una questione “di carattere”, “dì volontà”, “dì inclinazione”. È questa incomprensione che rende debole, esposta alle vicissitudini (inevitabilmente alterne) della vita individuale e della lotta politica l’adesione alla tesi della situazione rivoluzionaria in sviluppo, la rende a volte in alcuni compagni più un atto di fede, più un frutto solo dell’”ottimismo della volontà” che frutto anzitutto della ragione.(10)

 

10. “Ottimismo della volontà e pessimismo della ragione” e la formula usata da questi compagni per giustificare il contrasto che vivono e che solo la comprensione del movimento economico della società potrebbe risolvere; essa infatti mostrerebbe le validissime ragioni dell’ottimismo e che il “pessimismo della ragione” è in realtà “pessimismo della ragione borghese”, cioè della ragione che elabora l’esperienza di declino vissuta dalla borghesia.

 

Una parte dei partiti comunisti della III Internazionale (l’Internazionale comunista), in particolare quelli dell’Europa occidentale, non sono riusciti a dirigere vittoriosamente la lotta condotta dalle masse popolari contro la borghesia imperialista durante la prima crisi generale di questo secolo (1910-1945). Perché? Proprio perché non avevano compreso sufficientemente il salto computo dal modo di produzione capitalista in campo economico passando dall’epoca preimperialista all’epoca imperialista. Essi non avevano compreso né che era in corso una crisi generale di lungo periodo, né che di conseguenza operavano in una situazione rivoluzionaria in sviluppo, né il ruolo delle forme  antitetiche dell’unità sociale (FAUS) che i gruppi imperialisti venivano mettendo in campo nel corso della loro lotta contro la classe operaia e delle lotte tra loro stessi. I gruppi dirigenti della III Internazionale(11) e di questi singoli partiti comunisti videro unicamente, nel movimento economico delle società degli anni venti, trenta e quaranta, la successone di periodi di crisi e di periodi di stabilizzazione (cioè unicamente la successione di recessioni e riprese di breve periodo) e non videro la crisi generale specifica di quegli anni che invece trasformò l’assetto economico, politico e culturale di tutto il mondo e che si concluse solo nel 1945. Questa incomprensione rese la loro azione politica priva di lungimiranza e di respiro strategico, favorì l’elaborazione di tattiche senza strategia (tentatavi insurrezionali senza accumulo di forze, scontri mirati a una rapida conclusone, riassunzione della difesa e dell’allargamento della democrazia borghese come obiettivo strategico del movimento operaio, ecc.), impedì la trasformazione delle guerre vittoriose contro la prima aggressione imperialista all’URSS e contro il nazifascismo in una lotta vittoriosa per l’instaurazione del socialismo. Alla fine divenne il limite che, quando la crisi generale ebbe fine, impedì ai comunisti di contrastare vittoriosamente i gruppi revisionisti. La tesi che il maoismo è la terza superiore tappa del pensiero comunista, dopo il marxismo e il leninismo, si basa (oltre che sul bilancio della costruzione del socialismo e sulla continuazione della lotta di classe nella società socialista che ne sono l’altra parte integrante) anche sul bilancio che Mao Tse-tung ha fatto delle esperienze della rivoluzione proletaria durante la prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (1910 - 1945).

 

11. Si vedano in proposito le tesi dei Congressi e le risoluzioni delle riunioni dell’Esecutivo della III Internazionale sul movimento economico e in particolare le tesi elaborate dall’autorevole economista della III Internazionale, E. Vargas.

Un utile strumento di partenza per questa analisi sono gli indici de l’Internationale communiste (1921-1939) e de La correspondance Internationale (1921-1939), pubblicati (in francese) dal Centro di Documentazione Filorosso, C.so Garibaldi 89/A ang. via Cazzaniga, 20121 Milano, tel. 02-654908.

Significativi in questo senso sono anche

- la parte sulla situazione internazionale del Rapporto presentato da Stalin al XV Congresso del PC(b) dell’URSS (1927), reperibile in Opere complete, vol. 10,

- i documenti del XIX Congresso del P.C.(b) del l’U RSS (1952), reperibili in Verso il comunismo, Ed. di Cultura Sociale, Roma 1952.

 

I compagni che attenuano o ignorano il salto compiuto nel passaggio dall’epoca preimperialista all’epoca imperialista non sono in grado di comprendere quali sono stati gli errori e quali i limiti soggettivi (cioè di comprensione, di analisi, di linea politica, di metodo) che hanno impedito a vari partiti comunisti (in particolare a quelli dei maggiori paesi imperialisti) di guidare alla vittoria le lotte condotte dalle masse popolari nel corso della lunga situazione rivoluzionaria 1910-1945. Da qui provengono i limiti con cui abbiamo condotto negli anni ‘60 e ‘70 la lotta contro il revisionismo moderno. Alcuni compagni concepirono la lotta contro il revisionismo moderno essenzialmente come lotta per continuare il corso seguito dal PCI fino all’ottavo Congresso (è il limite che contraddistingue il Partito Comunista d’Italia m-1); altri compagni concepirono la lotta contro il revisionismo moderno essenzialmente come rovesciamento di un aspetto (certamente importante) del revisionismo moderno e rovesciarono la “via pacifica al socialismo” di Togliatti e di Kruscev in “lotta armata per il comunismo” (è il limite che contraddistingue le Brigate Rosse nel periodo in cui perseguirono l’obiettivo di ricostruire il partito comunista). In generale a causa dell’incomprensione del movimento economico della società molti compagni partiti dalla lotta contro il revisionismo moderno approdarono al distacco e all’isolamento dalle masse popolari e dalla classe operaia, contrapponendo la propria “coscienza avanzata” (in realtà la propria adesione dogmatica alla parola del marxismo-leninismo) al movimento reale delle masse popolari e della classe operaia che attraversavano il periodo del “capitalismo dal volto umano”.

 Insomma, in generale è difficile elaborare una linea politica giusta ed è impossibile difenderla dai suoi avversari restando unicamente in campo politico. Infatti da una parte solo la comprensione del movimento economico della società assicura fondamenti sicuri alla strategia della lotta politica (ed elaborare tattiche senza avere una strategia è come navigare a vista: se si indovina la rotta è una fortuna e nella lotta politica ogni errore si paga). Dall’altra la lotta politica non è mai fatta solo di vittorie e di avanzate; nella lotta politica sono inevitabili insuccessi, sconfitte, ritirate, periodi di stasi e periodi di preparazione paziente ed oscura, cioè periodi in cui “i fatti correnti” non soccorrono a confermare essi stessi in modo chiaro e incontrovertibile (caso del resto assai raro) la bontà della nostra linea politica e di ciò è inevitabile che si avvantaggino i suoi avversari.

 

4. Crisi generali e crisi economiche

 

Quando parliamo delle crisi generali che hanno sconvolto già alcune volte tutti i paesi da quando è iniziata l’epoca imperialista, indichiamo una crisi economica che genera una crisi politica (la classe dominante non riesce più a regolare con le istituzioni e con le concezioni esistenti i rapporti tra i gruppi che la compongono né a governare le classi sottomesse: di conseguenza i regimi politici dei singoli paesi e il sistema delle relazioni politiche internazionali diventano instabili, si sviluppano lotte per la loro trasformazione, cioè si entra in una situazione rivoluzionaria in sviluppo) e una crisi culturale (gli uomini non possono gestire con le precedenti abitudini, idee e concezioni le lotte che la situazione impone, inevitabilmente le vecchie abitudini, idee e concezioni muoiono e ne nascono di nuove, in qualche modo adeguate a condurre le lotte in corso).

Non si tratta quindi di una crisi economica, di un periodo di ristagno degli affari, di crollo degli investimenti, di chiusura di impianti, di licenziamento di operai, ecc. dopo la quale, una volta eliminate le scorte e le eccedenze di merci e messe fuori uso le unità produttive eccedenti, sopravviene un nuovo periodo di ripresa degli affari e dell’attività economica in generale.

 

 

Il periodo del capitalismo dal volto umano

 

Grazie agli sconvolgimenti politici ed economici e distruzioni operate dalle due guerre mondiali, che aprirono alla borghesia lo spazio per una ripresa dell’accumulazione del capitale con la conseguente nuova espansione nel suo ambito del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza, nei trent’anni successivi alla II Guerra Mondiale (1945-1975) il modo di produzione capitalista poté espandersi nuovamente in tutto il mondo cui la borghesia aveva mantenuto il potere.

In questa nuova situazione il proletariato e le masse lavoratrici dei paesi imperialisti, forti anche dell’esperienza rivoluzionaria acquisita nel periodo precedente, riuscirono a strappare una serie di miglioramento nelle condizioni economiche, lavorative, politiche culturali: miglioramento delle condizioni materiali dell’esistenza, politiche di pieno impiego e di stabilità del posto di lavoro, diritti di organizzazione sul posto di lavoro, diritti di intervento nell’organizzazione del lavoro, riduzione delle discriminazioni per razza, sesso ed età, scolarizzazione di massa, misure di previdenza contro l’invalidità e la vecchiaia, sistemi di assistenza sanitaria, edilizia a prezzi amministrati, ecc. In tutti i paesi imperialisti si avviò di fatto la costruzione di un “capitalismo dal volto umano” ossia di una società in cui, pur sempre nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti e del lavoro salariato (quindi della capacità lavorativa come merce e del lavoratore come venditore di essa), ogni uomo disponesse dei mezzi necessari per un’esistenza normale per il  sostentamento e l’educazione delle persone a suo carico, avesse nella vita produttiva della società un ruolo in qualche misura confacente alle sue caratteristiche, progredisse ragionevolmente nel diminuire la fatica, avesse sicurezza nella malattia, invalidità e vecchiaia.

( da Rapporti Sociali n. 9/10, pagg. 25-26 )

 

 

 

Tali erano le crisi cicliche decennali della prima metà del secolo XIX (dal 1815 al 1867), studiate anche empiricamente da K. Marx.

Da quando siamo entrati nell’epoca imperialista si tratta invece

1. di una crisi generale di tutta la società, in tutti i suoi aspetti strutturali e sovrastrutturali: non solo di una crisi economica;

2. di una crisi di lunga durata, di alcuni decenni, nel corso della quale l’attività economica della società, pur procedendo sempre attraverso recessioni e riprese di breve periodo, complessivamente “va male” (la natura di questo “andar male” è, in una certa misura, illustrata negli articoli di Rapporti Sociali sopra citati);

3. di una crisi mondiale che colpisce tutti i paesi che fanno parte del sistema imperialista mondiale, in modo tanto più devastante quanto maggiore è il grado di capitalizzazione (ovvero di proletarizzazione) dell’attività economica in ognuno di essi;

4. di una crisi che trasforma qualitativamente tutta la società, la trasforma inevitabilmente o in una società socialista o in una società borghese diversa (diversi rapporti tra le classi, diversa “costituzione materiale”, nuove e più sviluppate forme antitetiche dell’unità sociale); una crisi che genera una trasformazione che nessuna forza può impedire. Nel corso di una crisi di questo tipo anche nella borghesia imperialista prevalgono in definitiva forze soggettive e sovversive, gruppi imperialisti eversori degli ordinamenti e della cultura esistenti, gruppi promotori di mobilitazioni reazionarie delle masse dirette a trasformare la società secondo gli interessi di essi;

5. di una crisi che si risolve solo o attraverso rivoluzioni in cui la classe operaia prende il potere instaurando il socialismo e avvia il superamento del modo di produzione capitalista, o attraverso guerre interimperialiste con cui alcuni gruppi imperialisti “inventano” e impongono un nuovo ordinamento della società (nuove FAUS, nuovi rapporti e nuove istituzioni politiche, nuove culture), perché la ripresa dell’accumulazione del capitale nell’ambito dei vecchi ordinamenti è impossibile.

Una prima crisi di questo genere si ebbe nel periodo 1873-1895 (la Grande Depressione). Essa si concluse con la completa occupazione del mondo da parte dei gruppi imperialisti e dei loro Stati. Di essa parla Engels nella prefazione del 1886 all’edizione inglese del volume 1 de II capitale.

La prima vera crisi generale dell’epoca imperialista la si ebbe nel periodo 1910-1945: fu il periodo delle prime rivoluzioni proletarie vittoriose, delle due guerre mondiali, dell’eliminazione del sistema coloniale.

La seconda è iniziata circa a metà degli anni ‘70, per semplicità diciamo nel 1975, ed è tuttora in corso.

 

5. La teoria della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale

 

Il capitale è valore che si valorizza

Nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti, il lavoro non può perdere il carattere servile e coercitivo di mezzo di valorizzazione del capitale (Rapporti Sociali n. 3, pag. 40). Infatti il lavoratore non è in produzione principalmente per produrre dei beni e dei servizi, ma per produrre plusvalore; la legge  suprema che regola il suo rapporto col mondo del suo lavoro è la massima estorsione possibile di pluslavoro (da Rapporti Sociali n. 4, pag. 40).

 

La teoria della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale mira a spiegare la causa e la natura dell’attuale crisi economica (da cui derivano l’attuale crisi politica, detta anche situazione rivoluzionaria in sviluppo e l’attuale crisi culturale). Della sovrapproduzione assoluta di capitale Marx disse (nel cap. 15 del volume 3 de Il capitale, steso nel 1865 in forma di scritti non ancora pronti per la stampa, curato da Engels e da questi pubblicato nel 1894) solo che era una tendenza inevitabile del capitalismo, una situazione in cui il capitalismo si sarebbe prima o poi impantanato a causa della caduta tendenziale del saggio del profitto e che avrebbe creato così le condizioni della sua sostituzione ad opera del socialismo, prima tappa (o tappa inferiore) del comunismo.(12) Marx quindi individuò, mediante l’analisi delle leggi che reggono il funzionamento del modo di produzione capitalista, che il capitalismo andava verso un limite; che lo sviluppo del capitalismo, allora ancora in corso (nonostante le crisi economiche cicliche decennali), sarebbe arrivato a un punto morto, a una crisi dovuta ad un limite allo sviluppo per esso possibile, un limite che era nella natura stessa del capitalismo e che avrebbe determinato la sua crisi storica. Egli non disponeva ancora di dati empirici su questo tipo di crisi, stante che questo evento non si era ancora verificato. Egli quindi indicò questa crisi come il punto d’arrivo teorico del capitale; teorico nel senso che nel 1865 il capitale non l’aveva ancora raggiunto, ma la teoria (cioè l’insieme delle leggi secondo cui il modo di produzione capitalista si svolge nel tempo, leggi scoperte ed esposte da Marx) indicava che l’avrebbe prima o poi raggiunto, se non fosse scomparso prima. Marx fece nel campo della scienza del movimento economico della società quello che altri fecero ad esempio nel campo dell’astronomia, in cui una giusta teoria dialettica (cioè del movimento) permise di prevedere l’esistenza di alcuni corpi celesti, il passaggio di alcune comete, ecc. prima che i fenomeni stessi potessero essere osservati.

 

12. Per la distinzione tra la fase inferiore del comunismo (o socialismo) e la fase superiore, si veda K. Marx, Critica al Programma di Gotha (1875).

 

Agli esponenti rivoluzionari del movimento socialista dell’inizio del secolo XX (cioè agli esponenti rivoluzionari della II Internazionale nel periodo tra la lunga crisi 1873-1895 e l’inizio della prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale che sopravveniva a spartizione del mondo oramai compiuta), fu chiaro

1. che la crisi economica dell’epoca imperialista era diversa dalle crisi cicliche dell’epoca preimperialista (la prima differenza che balzava agli occhi era la durata, la seconda era il carattere generale della crisi: crisi non solo economica ma anche politica e culturale);

2. che restava ancora da spiegare la causa e la natura di questa crisi economica (che generava una crisi politica e una crisi culturale, quindi una crisi generale) della società capitalista nell’epoca imperialista;

3. che questa teoria non si riduceva alla teoria delle crisi cicliche dell’epoca preimperialista.

Rosa Luxemburg scrisse sull’argomento un volume (L’accumulazione del capitale), Bukharin scrisse L’imperialismo e l’accumulazione del capitale, Lenin ne trattò più volte e, benché non abbia prodotto una trattazione sistematica e un’opera specificatamente dedicata all’argomento, individuò chiaramente i caratteri nuovi dell’epoca imperialista in campo economico (e in parte anche in campo politico e culturale).

Quindi ad essi era chiaro che la causa e la natura della crisi economica nell’epoca imperialista non andavano confuse ed erano diverse (almeno in alcuni aspetti essenziali) da quelle delle crisi cicliche del XIX secolo che Marx aveva spiegato esaurientemente.

 

 6. Crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale e caduta tendenziale del saggio del profitto

 

K. Marx nella terza sezione del volume 3 de Il capitale (capitoli 13, 14 e 15) indica chiaramente la connessione tra la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la sovrapproduzione assoluta di capitale.

Una volta chiarito

1. che il saggio del profitto è una funzione del capitale esistente, e più precisamente una funzione decrescente del capitale esistente (cioè il saggio di profitto diminuisce man mano che il capitale accumulato aumenta),

2. che il plusvalore estorto dai capitalisti ai lavoratori in ogni ciclo di valorizzazione del capitale è aritmeticamente eguale al prodotto del saggio di profitto per il capitale impiegato,(13)

risulta evidente che, anche se la diminuzione del saggio del profitto si combina con un capitale accumulato crescente, il risultato della moltiplicazione dei due può ad un certo punto incominciare a diminuire.

 

13. Facciamo un esempio. Se il saggio del profitto è 0.03 (ossia il 3%) e il capitale accumulato è 5.000, il plusvalore estorto è 0.03 x 5.000 = 150. Quando il capitale accumulato è arrivato a 10.000, se il saggio del profitto è sceso a 0.015 (ossia 1.5%), il plusvalore estorto è 0.015 x 10.000 = 150. È insomma evidente che il plusvalore estorto in un ciclo di valorizzazione può aumentare o diminuire o restare costante, rispetto a quello estorto nel ciclo di valorizzazione precedente, a secondo della entità delle variazioni delle due grandezze: 1. saggio del profitto e 2. capitale con cui si inizia il ciclo di valorizzazione. Ovviamente il processo aritmetico indicato inverte e capovolge il processo reale. Nel processo aritmetico dal saggio del profitto e dal capitale si ricava il plusvalore. Nel processo reale il saggio del profitto risulta dal rapporto tra il plusvalore e il capitale.

Questa questione è trattata in dettaglio nell’articolo La crisi attuale: crisi per sovrapproduzione di capitale in Rapporti Sociali n. 0.

 

Questa è la semplice relazione tra la caduta tendenziale del saggio del profitto e la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale. Ovviamente si tratta di uno schema molto astratto, come lo sono tutte le leggi generali. Tuttavia è uno schema che permette di comprendere la realtà (di scoprire le relazioni esistenti tra i vari elementi della realtà), uno schema che permette di comprendere in cosa consiste la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale, cosa la rende possibile e addirittura inevitabile e come essa si collega a tutto il resto dell’analisi del capitale compiuta da K. Marx. Non è, invece, una dimostrazione dell’esistenza o meno, proprio in questi anni, di una crisi per sovrapproduzione assoluta di capitali dimostrazione che va cercata e verificata nei fatti, nella pratica.

Nei capitoli indicati, Marx dimostra solo che il capitale ha davanti a se quel limite insito nella sua stessa natura, cosi come vi è insita la caduta tendenziale del saggio del profitto, pur contrastata da alcuni elementi che Marx analizza uno a uno.(14)

 

14. Questo particolare aspetto della teoria della crisi generate per sovrapproduzione assoluta di capitale è dettagliatamente illustrato nell’articolo Marx e la crisi per sovrapproduzione di capitale in Rapporti Sociali n. 8.

 

K. Marx non studiò in dettaglio la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale né poteva farlo, perché non disponeva dei dati empirici per farlo, dati storici che si produssero solo dopo la sua morte e che noi oggi possediamo in larga misura. Egli ne indicò solo l’inevitabilità in base alla natura del capitale, così come, in un altro campo della teoria, indice l’inevitabilità della creazione di forme antitetiche dell’unità sociale (FAUS), senza svilupparne sistematicamente  la teoria per la qual mancava di una massa sufficiente di dati empirici.

 

7. Sovrapproduzione di merci e sovrapproduzione di capitale

 

Alcuni compagni sostengono che la causa della crisi attuale è la sovrapproduzione di merci (beni di consumo, materie prime, mezzi di produzione). I lamenti di ogni industriale e commerciante sulla difficoltà che incontra a piazzare i prodotti e l’acuirsi della concorrenza tra produttori di merci (concorrenza che non è la causa della crisi, come sostengono i borghesi che invocano la protezione dello Stato a difesa dei loro interessi (protezionismo), ma è solo uno degli effetti della crisi), gli impianti che lavorano al di sotto della loro capacità, gli stabilimenti chiusi e i campi abbandonati sono lì a confermare che c’e sovrapproduzione di merci. L’affermazione di quei compagni sembra confermata dai fatti. Cercheremo di mostrare che la loro tesi sulla causa e la natura dell’attuale crisi è vuota e superficiale come lo sarebbe la diagnosi di un medico che di fronte a un ammalato, anziché comprendere se ha la TBC, l’influenza, un’infiammazione dell’appendice o altro si accontentasse di affermare che l’ammalato ha la febbre, che la causa della malattia è la febbre! Certo che c’è sovrapproduzione di merci, ma la sovrapproduzione di merci è un effetto, una manifestazione della crisi. La sovrapproduzione di merci può avere varie cause. Qual è la causa dell’attuale sovrapproduzione di merci? Perché all’incirca dal 1975 i tassi di espansione del mercato mondiale (della massa di merci annualmente oggetto di compravendita) hanno smesso di crescere e anzi hanno iniziato a diminuire, sia pure con alti e bassi? Queste sono le domande a cui occorre dare risposta.

In cosa consiste la sovrapproduzione di merci?

I capitalisti producono più merci di quelle che riescono a vendere, ovvero i lavoratori e i capitalisti acquistano meno merci di quelle che i capitalisti producono, ovvero i capitalisti incontrano difficoltà crescenti a vendere tutte le merci che producono o tutte le merci che potrebbero produrre data la capacità produttiva delle loro aziende, ovvero il mercato (il volume delle merci comperate-vendute) non si espande a sufficienza o si espande da un anno all’altro a un ritmo decrescente (anziché crescente come il capitale richiede) o addirittura si contrae. In tutte queste descrizioni della sovrapproduzione di merci, il dato comune è che la domanda di merci non cresce al ritmo adeguato alla valorizzazione di tutto il capitale esistente. Il capitale è “valore che si valorizza”. Valorizzazione del valore vuol dire aumento (quantitativo) del valore, quindi ingrossamento continuo della massa di valore che percorre il cammino denaro - merci - produzione - merci - denaro, come un fiume che percorre una spirale ingrossando a ogni giro, acquistando maggiore forza ad ogni giro. Infatti ad ogni ciclo di valorizzazione (D - M - P - M’ - D’) il capitale cresce dal valore dato (C), composto da capitale costante (c) e capitale variabile (v) [C = c + v] a un valore maggiore (C’) composto dal capitale costante e variabile di prima più il plusvalore prodotto [C’ = c + v + pv]. Le merci prodotte nel ciclo precedente avevano un valore complessivo C, quelle prodotte nel nuovo ciclo hanno un valore complessivo maggiore C’. Il volume (il numero, la quantità) di merci prodotte cresce ancora di più di quanto cresca il loro valore (stante l’aumento della produttività del lavoro umano). Ciò determina (fissa) ritmo a cui la domanda di merci dovrebbe espandersi perché tutte le merci prodotte potessero essere vendute e quindi tutto il capitale potesse compiere per intero il ciclo della sua valorizzazione come ciclo dì produzione di merci (D - M - P - M’ - D’) e potesse gettarsi nel nuovo ciclo con potenza aumentata. Dire sovrapproduzione di merci è dire che la realizzazione delle merci prodotte (vale a dire la loro trasformazione in denaro, la loro vendita) non tiene dietro alla loro produzione, pone un limite alla loro produzione, all’aumento della loro produzione.

Cosa determina la domanda effettiva di merci nell’attuale società? Se assumiamo (per semplicità) che i lavoratori spendano tutto il loro salario nell’acquisto di merci (cioè che non facciano alcun risparmio), la domanda effettiva di merci è determinata dal volume degli investimenti dei capitalisti stessi sia in capitale costante (mezzi di produzione e  materie prime) sia in capitale variabile (beni di consumo acquistati dai lavoratori con i loro salari). Se il volume degli investimenti dei capitalisti nella produzione di merci (in capitale costante e in capitale variabile) è eguale a tutto il capitale esistente, la domanda effettiva di merci è eguale all’offerta di merci. Il capitale C (sotto forma di denaro) con cui il nuovo ciclo produttivo inizia, è eguale al capitale C (sotto forma di merci) con cui è finito il ciclo precedente. L’ultimo passaggio del ciclo precedente M’ - D’ coincide con il primo passaggio del nuovo ciclo D - M. In questa ipotesi il denaro funge solo da mezzo di scambio e non costituisce alcun problema (Lenin lo dimostra ampiamente negli scritti citati appresso, mentre Rosa Luxemburg naufragò proprio su questo punto, avendo assunto che l’impossibilità o difficoltà della realizzazione derivassero dalla mancanza di denaro). In questa ipotesi si hanno le condizioni di equilibrio dinamico della riproduzione allargata, illustrate da Marx nel volume 2 de Il capitale. Lenin, nello scritto A proposito della cosiddetta questione dei mercati e negli altri scritti contro i populisti contenuti nei vol. 1, 2 e 3 delle sue Opere, ha dimostrato che ciò (ossia le condizioni di equilibrio dinamico della riproduzione allargata) è in prima istanza indipendente dal “consumo delle masse popolari”: questo consumo può anche addirittura diminuire (fenomeno effettivamente verificatosi in alcuni paesi nella fase di accumulazione primitiva o nei periodi di guerra) perché “tutta” la domanda di merci può essere fornita dal “consumo produttivo” (ossia dalla richiesta di mezzi e di materiali per la produzione da parte dei capitalisti stessi) o dallo Stato o dal mercato estero.(15)

 

15. La tesi che la causa della crisi è il sottoconsumo delle masse popolari (in altre parole, i bassi salari o in generale i bassi redditi delle masse popolari) fu esposta sistematicamente dall’economista svizzero Sismondi e confutata dai marxisti, soprattutto da Lenin. Su di essa tuttavia si sono basate e si basano le illusorie ricette con cui nei periodi di crisi i politici riformisti e le varie specie di “amici del popolo” cercano di distogliere le masse dalla rivoluzione. Essa è la base anche delle interpretazioni della crisi date dai “rivoluzionari” economicisti e in generale da quanti limitano l’azione delle masse alle rivendicazioni, a spese della lotta per la conquista del potere. Secondo loro le masse popolari non devono lottare per il socialismo, ma per una diversa ripartizione del reddito.

 

 

Produttività del lavoro

La produttività del lavoro è la quantità di beni o servizi prodotta nell’unità di tempo per ogni lavoratore impiegato nella produzione.

 

Struttura e sovrastruttura della società

Forze produttive e rapporti di produzione costituiscono assieme la struttura della società, le sue istituzioni politiche e culturali e la coscienza (le concezioni, gli istituti, le norme, le idee e i sentimenti) che vi corrisponde costituiscono la sovrastruttura della società.

 

 

Quindi la ricerca del perché la domanda di merci nelle società imperialiste ad un certo punto della loro vita (quindi non sempre, non in permanenza) ha smesso di crescere al ritmo necessario alla valorizzazione di tutto il capitale esistente, si trasforma nella domanda: “Perché l’investimento dei capitalisti nella produzione di merci (in capitale costante o in capitale variabile) non cresce più al ritmo necessario per occupare nella produzione di merci tutto il capitale esistente?”. La nostra risposta è: “Perché se quell’investimento crescesse a quel ritmo, è vero che i capitalisti non incontrerebbero problemi di realizzazione, ma il plusvalore prodotto non aumenterebbe o addirittura diminuirebbe”. In breve, perché si è  prodotto più capitale di quello che può esistere secondo le leggi del capitale stesso, perché vi è sovrapproduzione assoluta (cioè estesa a tutti i settori) di capitale. Questa risposta è illustrata con maggior dettaglio negli scritti di Rapporti sociali citati all’inizio. In essi è illustrato anche il meccanismo, interno al capitalismo, attraverso il quale si verifica l’arresto della crescita o la diminuzione del plusvalore prodotto. In essi noi mostriamo, sulla scorta dell’analisi del capitale condotta da Marx e delle sue leggi che egli ha illustrato, che nell’ambito del modo di produzione capitalista si crea ad un certo punto (16) un conflitto inconciliabile e insolubile tra la produzione di plusvalore e la realizzazione del valore del prodotto. Per non aver problemi nella realizzazione del valore del prodotto, i capitalisti dovrebbero investire nel processo produttivo tutto il capitale accumulato anche se così facendo il plusvalore estorto diminuisce, quindi dovrebbero accettare di produrre meno plusvalore.(17) Per non produrre meno plusvalore, i capitalisti devono non investire nel processo produttivo tutto il capitale accumulato, cioè devono produrre meno valore e non valorizzare tutto il capitale accumulato: da ciò sovrapproduzione di merci e sovrappopolazione (disoccupazione ed emarginazione).(18) Ma per sua natura il capitale non può accettare né una cosa (produzione di meno plusvalore) né l’altra (non valorizzazione di tutto il capitale). Donde la crisi generale, il sovvertimento degli ordinamenti esistenti cui il capitale è costretto e la situazione rivoluzionaria in sviluppo. Non quindi il “crollo del capitalismo”, ma l’acuirsi di tutti i contrasti: dei contrasti tra gruppi imperialisti (e quindi tra i loro Stati e le loro associazioni varie), dei contrasti tra borghesia imperialista e masse popolari e i due sviluppi possibili di questo: mobilitazione rivoluzionaria delle masse o mobilitazione reazionaria delle masse, rivoluzione socialista o guerra. La crisi economica non sbocca nel crollo del sistema, ma trapassa nella crisi politica e culturale, assume le vesti, la forma e il contenuto della crisi politica e culturale.

 

16. Il certo punto è una certa dimensione raggiunta dal capitale accumulato e un certo livello raggiunto (di conseguenza) dal saggio medio del profitto. Quando il capitale accumulato è giunto ad un certo livello e (di conseguenza) il saggio medio del profitto è sceso ad un certo altro livello, un’ulteriore accumulazione crea quel conflitto. Questo, e non altro, è il limite dello sviluppo che gli uomini contemporanei realmente incontrano sulla loro strada (non la mancanza di materie prime, di fonti energetiche o di altre risorse naturali, come vanno predicando vari, ingenui o malintenzionati apologeti del capitale - dal Club di Roma in poi).

 

17. Stante la divisione tra capitalista imprenditore e capitalista banchiere o finanziere, la diminuzione del plusvalore si presenterebbe immediatamente come bilancio in rosso dell’azienda. Questa deve corrispondere (di fatto o nominalmente) un interesse fisso al capitale di prestito, alle obbligazioni, ecc. e una rendita fissa ai titolari delle condizioni naturali della produzione (terreni, giacimenti, ecc.). Se la massa del plusvalore diminuisse mentre la massa degli interessi e delle rendite resta fissa, il bilancio dell’azienda andrebbe in rosso. Da qui si vede l’inconsistenza scientifica di tutte le teorie della “scienza economica” borghese che postulano il bilancio in attivo di ogni singola azienda e impongono, in nome di esso, ristrutturazioni, licenziamenti, riduzione di salari, ecc.

 

18. Quindi la contraddizione è tutta interna al modo di produzione capitalista. Infatti in esso, e soltanto in esso, la produzione di beni e di servizi non è fatta per soddisfare i bisogni degli uomini, ma come veicolo della produzione di plusvalore.

 

È con questa risposta che i nostri critici devono misurarsi e allora noi saremo lieti di misurarci con le loro critiche; tutto ciò produrrà un progresso comune nella comprensione della causa e della natura dell’attuale crisi, quindi nella  comprensione del movimento economico della società attuale e quindi nella comprensione del movimento politico e culturale di essa.

Da quanto abbiamo esposto deriva che nelle crisi generali della società imperialista la sovrapproduzione di merci è una conseguenza, una delle conseguenze inevitabili, della sovrapproduzione di capitale. In astratto (ossia astraendo dall’effettivo rapporto di produzione, cioè dal rapporto di produzione capitalista), la società può consumare tutto e potrebbe consumare anche una quantità di beni e di servizi maggiore di quella che oggi produce (cioè riesce a produrre stante il rapporto di produzione capitalista in essa dominante). Ma in certe situazioni la società non può, nel rispetto del rapporto di produzione capitalista, consumare tutti quei beni e servizi che nell’ambito di quel rapporto può produrre; quindi quel rapporto impone che la produzione effettiva sia minore della produzione possibile, fa si che, se si produce di più, vengono compromesse le condizioni di realizzazione di tutta la produzione e quindi questa viene ridotta. Ma, nello stesso tempo, ogni frazione del capitale deve per sua natura crescere: ciò provoca inevitabilmente lo sconvolgimento generale della società stessa. Diviene quindi necessario e possibile superare il modo di produzione capitalista, iniziare la costruzione di una società comunista. Il sistema capitalista impedisce che la società possa consumare tutti i beni e i servizi che produce proprio perché non può investire nel nuovo ciclo produttivo tutto il capitale che alla fine del ciclo produttivo appena terminato esiste nella forma di merci, pena la produzione di un plusvalore minore o eguale a quello prodotto, ma con un capitale minore, nel ciclo appena terminato.(19)

 

19. “Alla buon’ora, potrebbe dire il nostro lettore, allora basta che i capitalisti smettano di voler produrre di più. Riproduzione semplice anziché riproduzione allargata”. Ma il capitale deve per sua natura crescere, valorizzarsi, produrre plusvalore. Il capitale è “valore che si valorizza”. Questa legge propria del capitalismo si impone a ogni capitalista come legge esterna tramite la concorrenza: o cresce o fallisce. Ove non vi può essere riproduzione allargata del capitale, non vi può essere nemmeno riproduzione semplice. Vi è al contrario sconvolgimento generale dell’economia e di conseguenza di tutta la vita sociale, concorrenza senza esclusione di colpi per i mercati, per i campi di nuovi investimenti e per le rendite, guerra (non per “smerciare le merci invendute”, come suggeriscono alcuni seguaci di una caricatura del marxismo, ma come strumento necessario per risolvere le crisi politiche che la crisi economica ha prodotto, come risultato della mobilitazione reazionaria delle masse che la crisi ha reso necessaria alla borghesia imperialista).

 

La sovrapproduzione di merci è la prima manifestazione della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale? Sì, in ordine di tempo comunemente è la prima manifestazione. Il primo allarme per i capitalisti è che gli ordini che ricevono non crescono “abbastanza”, non crescono più o diminuiscono. La sovrapproduzione di merci è la manifestazione più eclatante, chiara e diretta della crisi? Sì, salvo che nei settori e per il periodo in cui i capitalisti riescono con accordi di cartello e con il monopolio a limitare la produzione. Oggi la maggior parte degli impianti produttivi (salvo quelli che lavorano a pieno ritmo perché i loro padroni hanno appena eliminato i concorrenti e ingrandito il loro mercato) lavorano a capacità ridotta, adeguando la produzione alla domanda, finché l’accordo per la limitazione della produzione o i finanziamenti pubblici a chi non produce (es. a chi lascia incolta la terra, a chi abbatte il bestiame da latte, a chi chiude miniere, a chi smantella impianti di produzione di fibre sintetiche o acciaierie, ecc.) riescono a essere efficaci.

Quanto esposto sopra dimostra anche che la creazione da parte dello Stato (con una politica di lavori pubblici e di investimenti pubblici) di una domanda aggiuntiva di merci, non pone fine alla crisi, perché la crisi non ha origine dalla scarsa domanda di merci. Quindi la “soluzione della crisi” proposta dai riformisti è inefficace, è un’illusione (come misura per porre fine alla crisi). La sovrapproduzione di merci, pur arrestata per un momento, si ricrea o la crisi si manifesta in altri modi (ad esempio, come espansione illimitata del debito pubblico). È tuttavia chiaro che aumento della spesa pubblica e degli investimenti pubblici sono una giusta rivendicazione dei lavoratori per difendere la propria  vita, sono una giusta linea difensiva dei lavoratori “in attesa” di eliminare la reale causa della crisi, il modo di produzione capitalista e porre così fine alla crisi. Altrettanto inefficace è la soluzione proposta (e attuata) dai reazionari: riduzione della produzione (con “meno orario, meno salario” e altre simili misure).

Tuttavia la sovrapproduzione di merci non è, neppure in campo economico, l’unica manifestazione di sovrapproduzione assoluta di capitale. In varie parti degli scritti di Rapporti sociali citati all’inizio, in particolare nello scritto Crack di borsa e capitale finanziario (Rapporti Sociali n. 1, pagg. 13-18), abbiamo elencato ed illustrato altre manifestazioni dell’attuale crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale e per brevità rimandiamo a quello scritto.

8. Sovrappopolazione e crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale

Nella crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale si forma o aumenta la sovrappopolazione (cioè la popolazione che il capitale non impiega nel processo produttivo, che per il capitale è “superflua”, che deve sopravvivere con attività ripiego)? Certamente. Sotto i nostri occhi sta lo spettacolo milioni e milioni di uomini emarginati dalla produzione, dichiarati “esuberi”, superflui, carne umana che se sparisse dalla circolazione farebbe alla borghesia imperialista un favore (benché contemporaneamente, esistendo, le faccia il servizio di aiutare a tener bassi i salari e, a lungo andare, di abbassare il valore della forza-lavoro). Solo nei paesi dell’OCSE le statistiche governative conteggiano 35 milioni di disoccupati e 15 milioni di sottoccupati. Alla barba delle tesi terzomondiste con cui alcuni compagni fanno eco inconsapevolmente al tentativo della borghesia imperialista di mobilitare le masse dei paesi imperialisti contro le masse delle semicolonie “che sono la causa della nostra rovina”. Milioni di uomini, in particolare di giovani, sono spinti dalle circostanze materiali (ben più efficacemente che dalle suggestioni culturali, dalla propaganda o dalle mode che questa base materiale vengono sviluppate e che solo grazie essa sono efficaci) a cercare, in qualsivoglia modo, una identità, un ruolo che non può più essere quello di realizzarsi nel lavoro produttivo che il capitale nega loro o a voler scomparire ad aprirsi una strada a spese di altri o ad accettare di sparire, a “uccidere” o a “suicidarsi”,(20) Ciò costituisce un fattore potente della trasformazione politica e culturale che questa crisi sta capillarmente producendo.

Ma anche la sovrappopolazione è solo una manifestazione della crisi attuale,(21) non la causa.

 

20. Non si tratta di condannare, esaltare o giustificare questo o quell’atteggiamento. Non siamo né preti né magistrati. Si tratta di comprendere l’origine materiale della crisi culturale in corso onde dividere tendenze positive da appoggiare e tendenze negative da contrastare, onde svolgere in pieno tutto il lavoro di trasformazione di cui la condizione materiale offre la possibilità.

 

21. Tutto il chiasso che le maggiori autorità imperialiste (dall’ONU, agli USA, al FMI, ecc.) fanno sulla sovrappopolazione del pianeta (chiasso che ha avuto la sua cassa di risonanza nella Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, 5 -13 settembre 1994) è solo una difesa del modo di produzione capitalista per il quale milioni e milioni di lavoratori sono effettivamente superflui. È propaganda per preparare i “popoli civili” dei paesi imperialisti alla guerra per sterminare i “popoli incivili” e prolifici delle semicolonie, è propaganda per mobilitare alcune classi delle società imperialiste all’eliminazione degli strati emarginati che la crisi stessa produce. È propaganda per predisporre i lavoratori dei paesi imperialisti ad accettare sacrifici perché loro “stanno già molto meglio” dei lavoratori delle semicolonie (anche se ogni sacrificio finora accettato è anche rovina per i lavoratori delle semicolonie). La mancanza di risorse naturali viene sfrontatamente proclamata in una situazione di sovrapproduzione di merci e di sovrabbondanza di materie prime, di risorse alimentari e di materiali energetici.

 

Non è perché i disoccupati non possono più comperare beni di consumo che vi è crisi; al contrario i capitalisti licenziano operai (e creano quindi disoccupati) perché non vendono “abbastanza”, quindi in ultima analisi (come abbiamo visto sopra), perché non investono “abbastanza”. È vero che i disoccupati non possono comperare merci e  quindi riducono ulteriormente la domanda di merci, cosi come è vero che i licenziamenti e la riduzione dei salari non sono una soluzione della crisi, non pongono fine alla crisi, ma la accelerano. Ma perché i capitalisti non investono “abbastanza”? Perché se investissero fino ad occupare tutta la popolazione disponibile, il pluslavoro estorto anziché aumentare diminuirebbe. I capitalisti rifuggono naturalmente, spontaneamente da questo limite a cui naturalmente tendono; essi non lo riconoscono come tale, ma esso si annuncia ad essi in mille forme fenomeniche (competitività scadente, profitti scadenti, ecc.).

Parimenti la causa della crisi non sta nel fatto che vi sarebbero troppi lavoratori, nel fatto che la popolazione sarebbe troppo numerosa, per cui si tratterebbe di diminuire un po’ la popolazione, di ridurre il monte ore-uomo lavorate.

Quanto detto sopra dimostra anche che i sussidi di disoccupazione, che permettono ai disoccupati di comperare merci, sono un efficace rimedio alla fame dei disoccupati (e quindi giustamente i lavoratori il reclamano), ma non possono porre fine alla crisi perché essa non è generata dal fatto che la domanda di merci da parte dei disoccupati è diminuita. Ciò dimostra che la “soluzione della crisi” proposta dai riformisti (sussidi, ecc.) è inefficace, è un’illusione. Ma è inefficace ed è un’illusione anche la soluzione proposta e praticata dai reazionari: l’austerità predicata e imposta dal FMI, riduzione dei salari e riduzione dell’occupazione (infatti conclusa una riduzione, un’altra diventa necessaria), ecc. Sia i licenziamenti che le assunzioni, sia la riduzione dei salari (delle pensioni, ecc.) sia il loro aumento non fanno che aggravare la crisi di questa società: la crisi non può essere risolta nell’ambito degli attuali rapporti politici e culturali.(22)

 

22. Il risultato è che i diversi “programmi per uscire dalla crisi” proposti dagli economicisti alle masse sono illusori e devianti. Questi programmi consistono di alcune misure economiche che le autorità borghesi dovrebbero prendere (per es.: riduzione generale dell’orario di lavoro, programmi pubblici di “lavori socialmente utili”, ecc.), la cui attuazione dovrebbe porre fine alla crisi. L’effetto reale della propaganda di questi programmi da parte degli economicisti è di distogliere i lavoratori dalla lotta per il socialismo e di provocare il contrasto tra i gruppi di lavoratori interessati ad una data misura economica e gli altri lavoratori che al contrario sono danneggiati dalla stessa misura.

 

9. Il capitale finanziario e la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale

 

Il capitale finanziario (23) è la causa o la forza motrice della crisi? Assolutamente no. Il gonfiamento (l’accrescimento rapido, tumultuoso e illimitato) del capitale finanziario è un effetto, una delle manifestazioni della crisi (come lo è la sovrapproduzione di merci e la sovrappopolazione); è anch’esso una manifestazione eclatante, chiara e diretta, benché nota solo ai capitalisti e agli studiosi del movimento economico della società. Esso è descritto in Rapporti sociali n. 1 a cui rimandiamo.

 

23. Il capitale finanziario ovviamente è una cosa diversa dal capitale monetario; è la combinazione del capitale produttivo di merci con il capitale monetario che nella seconda metà del secolo scorso è arrivata a generare la nuova forma dirigente del capitale: il capitale finanziario.

 

Il capitale finanziario è una categoria tipica dell’epoca imperialista, dell’intera epoca imperialista. Lenin ha mostrato che la formazione del capitale finanziario e l’assurgere del capitale finanziario al ruolo dirigente su tutte le altre forme di capitale (industriale, monetario, commerciale) è uno dei tratti caratteristici dell’imperialismo in campo economico, tra i quattro che egli illustrò: il predominio dei monopoli, il predominio del capitale finanziario, il prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci, la completata spartizione del mondo tra gruppi imperialisti e i loro Stati.(24) Il capitale finanziario è il capitale dirigente lungo 1’intera epoca imperialista del capitalismo. Tutti i  grandi gruppi capitalisti sono anzitutto gruppi finanziari, non gruppi produttori di merci, legati ad un determinato settore di merci. Essi si appropriano dei loro profitti principalmente tramite le attività finanziarie (anche se il valore di cui essi si appropriano è stato creato - da altri - nel ciclo produttivo di merci). Anche grandi gruppi industriali si appropriano della parte prevalente dei loro profitti tramite le attività finanziarie. L’andamento delle attività finanziarie determina la redditività del complesso delle loro attività.

 

24. V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo

 

Cosa succede di specifico nei periodi di crisi? Nei periodi di crisi i capitalisti moltiplicano le loro attività finanziarie e la creazione di capitale finanziario (un castello che cresce in altezza verso il cielo, il capitale finanziario alla duplice, triplice, quadruplice potenza di cui parla Lenin - oltre a Hilferding), perché non possono riversare tutto il capitale esistente nel settore produttivo di merci. Man mano che rallenta la crescita del capitale che può essere impegnato nella produzione di merci, cresce la parte di capitale impegnato in attività finanziarie; esso diventa così non più solo la parte dirigente, ma anche la parte principale, la parte più grossa dell’intero capitale di un paese o del capitale mondiale.(25) Basta confrontare le “attività finanziarie” (titoli azionari, obbligazioni, titoli dei debiti pubblici dei vari Stati, degli enti, delle società e delle famiglie, monete, depositi, ecc.), con il capitale impegnato nella produzione di merci per verificare questa affermazione. Di più ancora, il prezzo di varie componenti del capitale produttivo (materie prime, installazioni industriali) equivale al prezzo dei titoli finanziari che li rappresentano. Il rame in deposito nel magazzino in un’azienda ha un prezzo che è dettato dalla quotazione del rame sulla Borsa di Londra, uno stabilimento è ceduto alla quotazione di Borsa delle azioni della società proprietaria (non al prezzo del macchinario, degli edifici, del terreno, ecc.), ecc.(26)

 

25. Stando alle stime correnti, solo il mercato dei titoli finanziari derivati (cioè non titoli di proprietà di aziende produttrici di beni o servizi, ma titoli su titoli) ha raggiunto nel 1994 i 14.000 miliardi di dollari USA, ossia circa il doppio del prodotto interno lordo (PIL) annuale degli USA.

 

26. Questo è, in un caso particolare, una conferma del fatto che i prezzi delle merci nell’epoca imperialista sono lontano mille miglia dalla idea semplicista che ne hanno coloro che propagandano il “libero mercato” come rimedio alle “distorsioni” della vita economica nella società attuale.

 

 

Masse popolari

 

Sono l’insieme delle classi che, nel corso della crisi generale della società capitalista, possono essere raccolte sotto la direzione della classe operaia e contrapporsi al campo della borghesia imperialista.

Appartengono alle masse popolari

- la classe operaia,

- le altre classi proletarie (le classi il cui reddito proviene essenzialmente dalla vendita della propria forza-lavoro),

- i lavoratori autonomi,

- i proprietari di piccole aziende individuali o familiari il cui reddito proviene principalmente dal proprio lavoro,

- i piccoli professionisti,

- i soci lavoranti di cooperative di produzione,

 - i pensionati e i familiari dei gruppi sopra indicati,

- alcune altre categorie minori.

(Per maggiori dettagli vedasi Rapporti sociali n. 12/13, pag. 35)

 

Borghesia imperialista

 

La borghesia imperialista è costituita

- dai proprietari delle grandi imprese finanziarie, banche, assicurazioni, industrie e società di servizi,

- dai funzionari di alto livello dell’amministrazione statale civile e militare, degli enti locali e di enti affini,

- dai dirigenti di livello superiore delle imprese pubbliche e private e delle istituzioni culturali, religiose, ecc.,

- dai grandi personaggi della politica borghese, del Vaticano e degli enti stranieri insediati in Italia,

- dai titolari di grandi rendite (di rendite che costituiscono almeno la parte prevalente del rispettivo reddito),

- dai familiari di questi.

In tutto il nostro paese si tratta di alcune centinaia di migliaia di persone.

È la classe che impersona ed esprime le leggi oggettive del capitalismo, le impone all’intera società e le difende come leggi di natura. È la classe che attualmente dirige il movimento economico, politico e culturale della maggior parte dei paesi del mondo.

 

Paesi semicoloniali

 

La maggior parte dei paesi dell’Africa, dell’America Latina e di parte dell’Asia mediorientale sono paesi semicoloniali: paesi che hanno un’amministrazione statale locale, ma con una classe politica formata e selezionata da gruppi e Stati imperialisti, in generale in concorrenza tra loro, che li dominano anche economicamente e culturalmente.

Nel corso del lungo periodo rivoluzionario 1910-1945 e negli anni immediatamente successivi quasi tutte le colonie si trasformarono in semicolonie.

 

 

All’inizio della crisi la crescita del capitale finanziario nasconde, maschera la crisi. Il capitalista che non può investire in macchine, materie prime e operai, investe in titoli finanziari e ciò evita che il suo capitale faccia concorrenza rovinosa al resto del capitale investito nella produzione di merci. Quando però il capitale finanziario è cresciuto oltre un certo limite (e prima o poi sicuramente oltrepassa quel limite dato che la crisi è di lungo periodo, dato che la creazione di capitale finanziario non è una soluzione della crisi, ma solo una manifestazione di essa e quindi prosegue accelerandosi), la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale (che nasce ed ha la sua base nel processo produttivo capitalista) assume le vesti di crisi finanziaria, di squilibrio del sistema finanziario. I movimenti propri del sistema finanziario diventano essi stessi un fattore ulteriore di sconvolgimento del capitale impegnato nella produzione di merci e una via attraverso cui la crisi compie il suo cammino. La crisi economica si manifesta anche nelle crisi finanziarie (crack di Borsa, crolli valutari, indebitamento autoalimentantesi, ecc.). Basta pensare agli effetti che ha sulle aziende produttive un crollo azionario in Borsa causato da movimenti speculativi, agli effetti che ha sulla produzione di materie prime (agricole o minerarie) un crollo dei loro prezzi nelle Borse merci, agli effetti che ha sulle attività commerciali un’alterazione dei cambi tra le valute. Basta pensare agli oneri finanziari (il pagamento degli interessi) che portano al fallimento di Stati, aziende e famiglie.(27)

 

27. Basta al riguardo consultare qualsiasi buon riepilogo statistico sul debito degli Stati dei maggiori paesi imperialisti e  ricavare la dimensione dei pagamenti annuali che l’indebitamento rende necessari all’equilibrio finanziario del sistema anche se, per assurdo, non si producesse nulla.

 

Quindi non è il capitale finanziario, né l’offerta “eccedente” di capitale finanziario, né i movimenti del capitale finanziario che determinano, causano la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Al contrario è questa crisi che fa crescere il capitale finanziario oltre ogni limite e amplifica e accelera i suoi movimenti, che a loro volta diventano un elemento della crisi, una manifestazione della crisi, a volte la “goccia che fa traboccare il bicchiere” o il “sasso che dà origine alla valanga”. Le singole aziende capitaliste che hanno aumentato i1 loro settore finanziario sono colpite, e a volte colpite a morte, da movimenti del capitale finanziario (es. un crack di Borsa che fa crollare il prezzo delle azioni che hanno in portafoglio o un crack valutario che fa crollare il cambio della moneta in cui sono espressi i loro crediti) o soffocate dagli interessi che devono pagare.

 

10. Il ruolo rivoluzionario delle contraddizioni oggettive e il ruolo rivoluzionario dell’iniziativa soggettiva

 

Con la rivista Rapporti Sociali dal 1985 in avanti abbiamo tenuto alta la bandiera della lotta contro il soggettivismo, perché tra i rivoluzionari del nostro paese il soggettivismo era ed è la deviazione principale, il maggior ostacolo al successo della loro attività. Questo ha portato e porta alcuni compagni a rimproverarci di sottovalutare il ruolo dell’iniziativa rivoluzionaria delle forze soggettive della rivoluzione socialista. Anche a proposito della nostra tesi sulla crisi attuale viene in qualche modo avanzata la stessa critica. Effettivamente noi sosteniamo che l’attuale ordinamento economico, politico e culturale del mondo inevitabilmente sarà spazzato via e sostituito, perché non solo le masse popolari, ma neanche il capitale può più convivere con esso. Questo avverrà anche se i “rivoluzionari stanchi di combattere” cercheranno di “deporre le armi”; infatti le circostanze materiali costringeranno (e già hanno incominciato a costringere) milioni di uomini a impugnare le armi. La nostra lotta può influire solo sul tipo di trasformazione che avverrà, ma il mondo si trasformerà anche se i rivoluzionari attuali cercassero di “tirarsene fuori”. Di più, anche se i rivoluzionari attuali cercassero di “tirarsene fuori”, nessuna controrivoluzione preventiva e nessun tradimento potranno impedire che sorgano migliaia di comunisti che cercheranno di indirizzare verso la rivoluzione socialista la trasformazione in corso, perché l’attuale crisi è in definitiva un prodotto della contraddizione antagonista tra le forze produttive collettive e i rapporti di produzione capitalisti e ciò crea le condizioni materiali che spingeranno milioni di uomini a compiere tutti gli sforzi di cui saranno capaci per adeguare i rapporti di produzione alle forze produttive già collettive. Da ciò si deduce che il compito dei comunisti non consiste nel “creare un movimento rivoluzionario”, ma nello scoprire, raccogliere, organizzare, educare e indirizzare gli uomini spinti alla lotta dalle condizioni materiali e dal complesso della loro esperienza.

Alcuni compagni affermano che il programma della rivoluzione socialista in campo economico, quindi uno dei compiti dei comunisti, è “cambiare le forze produttive e i rapporti di produzione”. È giusta questa tesi? Noi siamo convinti che essa è sbagliata. Il contenuto economico della trasformazione socialista della società consiste nell’adeguare i rapporti di produzione e le istituzioni della società al carattere sociale già raggiunto dalle forze produttive e nello sviluppo di questo carattere sociale delle forze produttive (vedasi Rapporti sociali n. 5/6, Forze produttive e rapporti di produzione, pag. 31-36, in particolare pag. 33 e Rapporti sociali n. 7, Ancora sul bilancio dell’esperienza dei paesi socialisti, pag. 3-12). Le forze produttive sono già collettive, sociali. È il modo di produzione capitalista che ha trasformato le forze produttive fino a farle diventare sociali, collettive e ha ridotto ad un aspetto secondario le forze produttive individuali. Proprio per questo le forze produttive sono in contraddizione con i rapporti di produzione capitalisti alla cui essenza appartengono anche la proprietà individuale (o di gruppo) delle forze produttive, l’iniziativa  economica individuale e il profitto (la valorizzazione di ogni frazione di capitale) come forza motrice e scopo della produzione di beni e di servizi. Il compito della trasformazione socialista della società sta nell’instaurare rapporti di produzione fondati sulla proprietà pubblica e sulla gestione pubblica delle forze produttive, sulla iniziativa economica pubblica e sulla soddisfazione dei bisogni materiali e spirituali, individuali e collettivi della popolazione.(28)

 

28. Questo compito della trasformazione socialista della società è uno degli elementi che fanno si che, tra tutte le classi popolari, solo la classe operaia può dirigere l’instaurazione di questi nuovi rapporti di produzione e la creazione della sovrastruttura ad essi corrispondente.

 

La contraddizione tra forze produttive già collettive e sociali e rapporti di produzione ancora individuali-capitalisti è la forza motrice della trasformazione della società capitalista in società comunista; la concezione materialista dialettica della storia è in sostanza questo. Noi ci opponiamo a quelli che sostengono che la società socialista ha come compito principale quello di creare forze produttive diverse dalle attuali, a quelli che sostengono che le attuali forze produttive non sono in contraddizione con i rapporti di produzione capitalisti, a quelli che sostengono che le attuali forze produttive incarnano, materializzano, oggettivano il rapporto di produzione capitalista (vedasi Rapporti sociali n. 5/ 6, Tre questioni importanti non eludibili, pag. 18-20). I sostenitori accaniti della tesi che le attuali forze produttive sono omogenee ai rapporti di produzione, che esse incarnano i rapporti di produzione sono stati gli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Pollock, Marcuse, ecc.) e, in Italia, anche un gruppo di economisti “marxisti-leninisti” (La Grassa, Turchetto). I loro seguaci in campo rivoluzionario appartengono tutti alla corrente soggettivista e moralista: infatti a chi nega la realtà (cioè nega che la forza motrice del rivoluzionamento della società attuale, che ciò che spinge gli uomini ad aver bisogno, a volere, a pensare, a progettare e a realizzare il rivoluzionamento della società attuale è la contraddizione tra le loro forze produttive e i loro rapporti di produzione) non resta che inventare, immaginare, creare nella sua fantasia le ragioni della sua attività pratica, della sua attività per la rivoluzione e il socialismo, come ad esempio le idee di “Giustizia”, di “Libertà”, di “Verità”, di “Eguaglianza”, l’”Intelligenza”, i “Diritti umani”, la “Volontà di dio”, la “Coscienza rivoluzionaria”, ecc. ecc. (29)

 

29. “Giustizia”, “Libertà”, “Intelligenza”, “Verità”, “Eguaglianza”, “Diritti umani”, “Volontà di dio”, “Coscienza rivoluzionaria”, ecc. esistono effettivamente come “realtà di pensiero”, come contenuto della coscienza degli uomini.

Come tali a loro volta non nascono dal nulla, ma

- per un verso sono la veste che la necessità materiale, esterna al singolo individuo, assume nella sua coscienza, cosi come la gioia si esprime in canti, in danze, in poesie, in risa, ecc.;

- per l’altro verso sono il risultato di una limitata comprensione della natura di quella necessità materiale.

Proprio perché la contraddizione materiale spinge gli uomini a combattere una battaglia, essi devono anche immaginarne e pensarne l’obiettivo e, finche non l’hanno compreso scientificamente, rappresentarselo come “Giusto”, “Dovere”, “Volontà di dio”, “Vero cristianesimo”, ecc.

 

Noi affermiamo che la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione è la forza motrice del rivoluzionamento della società attuale, è ciò che spinge gli uomini ad aver bisogno, a volere, a pensare, a progettare e a realizzare il rivoluzionamento della società attuale. Questo equivale a negare che la trasformazione della società è compiuta dalle masse popolari dirette dalla classe operaia, negare la lotta di classe, negare il ruolo della coscienza e della volontà degli uomini, negare il ruolo dell’attività politica, il ruolo del partito comunista? Assolutamente no. Vuol dire solo riaffermare la concezione materialista dialettica della storia; vuol dire affermare che le masse popolari e la classe operaia non sono mosse né da Dio né da grandi personaggi “carismatici” né dalla loro coscienza, ma dalle  contraddizioni della loro esistenza materiale (la principale delle quali nell’epoca imperialista è la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione) e che, al contrario, è da queste che hanno origine la loro coscienza, l’autorevolezza e l’efficacia dell’azione degli uomini carismatici, la forza di volontà degli individui, l’efficacia dell’azione del partito comunista. L’azione di questa contraddizione della vita materiale è anzi tanto forte che si presenta all’individuo come una volontà esterna ad esso, superiore alle sue forze, cui egli non può sottrarsi, come volontà di Dio o destino. Vuol dire affermare che l’attività del partito comunista, la lotta della classe operaia per il potere e la stessa trasformazione socialista della società, per arrivare alla vittoria devono conformarsi alle leggi oggettive del movimento della società.

 

11. Impadronirsi della teoria della crisi attuale e tradurla nella linea politica

 

La causa e la natura della crisi attuale è un argomento di enorme importanza politica. La tesi della situazione rivoluzionaria in sviluppo (vedasi Rapporti sociali n. 9/10) è fondata su di essa. Essa è la chiave per comprendere il movimento politico e culturale della società, per comprendere il ruolo delle varie forme di organizzazione e di lotta del proletariato e delle masse popolari, per comprendere le leggi cui deve conformarsi la loro lotta, per comprendere il motivo per cui in Europa occidentale i partiti comunisti della III Internazionale non riuscirono a guidare le masse popolari alla conquista del potere nel periodo 1910-1945, per comprendere il ruolo del leninismo e del maoismo, rispettivamente come seconda e terza tappa del pensiero comunista. Noi crediamo che tutti i comunisti devono affrontare l’argomento con energia, con tenacia, con onestà e con modestia: discutere tra loro (finora non si è ancora sviluppato un dibattito adeguato all’importanza che l’argomento ha per la nostra lotta), confrontare le opinioni e le esperienze, cercare di capire a fondo le opinioni degli altri, astenersi dal travisare le opinioni degli altri per non faticare a criticarle. Ogni critica che mette in luce errori e lacune ci fa fare un passo avanti nella comprensione e nell’unità. Ogni critica basata sul travisamento crea confusione e alimenta la confusione (benché anch’essa possa essere rovesciata in un fattore di crescita).

È sulla base della tesi che “la crisi attuale è la seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale” che noi sosteniamo che tutti i programmi generali che non comprendono la conquista del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione del socialismo, programmi che oggi tutti i gruppi economicisti si affannano ad elaborare e a proporre ai lavoratori, sono illusori come soluzione della crisi attuale e fertilizzano il terreno per la mobilitazione reazionaria delle masse perché provocano inevitabilmente il risultato di contrapporre una parte delle masse a un’altra. Il movimento pratico delle masse spazzerà via questi programmi, se i comunisti sapranno lavorare bene, ossia combinare la difesa di ogni conquista strappata da una parte delle masse con l’attacco al potere della borghesia imperialista per affermare il potere della classe operaia e instaurare cosi la società socialista nella quale tutte le masse popolari troveranno la possibilità di lavorare e vivere.

La tesi della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale e la tesi della crisi per sovrapproduzione di merci (o per sovrappopolazione) sono, nella situazione attuale, punti di partenza per linee politiche diametralmente opposte.

La prima comporta come unico esito possibile la rivoluzione socialista o la guerra mondiale o una combinazione di entrambe (e quindi comunque una crisi rivoluzionaria, un periodo rivoluzionario, uno sconvolgimento generale della società mondiale, fino a farle assumere una forma diversa, fino a raggiungere una trasformazione qualitativa della società).

La seconda comporta una politica di sostegno alla domanda di merci (lavori pubblici, sussidi, trasferimenti di reddito alle famiglie, creazione di denaro, ecc.), insomma una politica keynesiana. Se la seconda teoria corrispondesse alla realtà, sarebbe solo per incomprensione della situazione o per disprezzo delle classi popolari che gli attuali governi non  abbracciano una soluzione del genere, cioè una politica keynesiana. La storia invece mostra che tutti i governi borghesi che si erano incamminati su questa strada (vedasi ad es. Mitterrand nel 1981-1982) hanno dovuto rapidamente abbandonarla. La stessa cosa è confermata dall’esperienza degli anni ‘30 e ‘40: in nessuno dei grandi paesi imperialisti le politiche economiche keynesiane dei governi posero realmente fine alla crisi economica, che terminò solo con la II Guerra Mondiale (vedasi Rapporti sociali n. 5/6, Tre questioni importanti non eludibili, pag. 16-20).

Ogni frazione delle masse popolari deve difendere (e difenderà) con ogni mezzo le proprie conquiste, il posto di lavoro, i diritti conquistati, il proprio reddito, ecc., deve rivendicare e rivendicherà salari, sussidi, lavori pubblici, ecc. Tutto ciò attenuerà sofferenze delle masse e soprattutto può contribuire, se diretta dalla classe operaia e dal suo partito, a mobilitare, raccogliere ed accrescere le forze rivoluzionarie onde renderle capaci di sferrare con successo l’attacco all’attuale classe dirigente per conquistare i1 potere e avviare la trasformazione socialista del società. La classe operaia deve perciò porsi alla testa di ogni singola lotta di difesa condotta anche solo da frazioni delle masse popolari; il partito comunista deve appoggiarla, promuoverla, dirigerla e farla convergere contro la borghesia imperialista.

Ma secondo noi, e coerentemente con la teoria che identifica l’attuale crisi come seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, l’attuale crisi può finire solo in una rivoluzione socialista o in una guerra mondiale o in una combinazione di entrambe le cose.

Ovviamente noi non sosteniamo la prima teoria perché “siamo rivoluzionari” e dobbiamo giustificare con teorie economiche inventate la nostra scelta politica. Al contrario cerchiamo di comprendere dall’analisi materialista dialettica degli avvenimenti la causa e la natura della crisi attuale

- per comprendere qual è la linea di condotta politica che la classe operaia oggi deve adottare per avvicinarsi alla conquista del potere e al socialismo,

- per verificare la giustezza della linea politica da noi tracciata per i prossimi anni: “unirsi alla resistenza delle masse popolari al procedere della crisi dell’attuale società, appoggiarla, promuoverla e far prevalere in essa la direzione della classe operaia trasformandola così in lotta per il socialismo”.

Riteniamo indispensabile che i comunisti facciano una ricerca, onesta e conclusiva sulla causa e sulla natura della crisi, per comprendere le leggi oggettive del movimento economico della società nel cui contesto essi conducono la lotta politica della classe operaia, per poterla condurre con successo.

 

Linea di massa

In ogni ambiente ad ogni fase della sua trasformazione, la contraddizione principale si manifesta sempre in due tendenze contrapposte:

- la tendenza positiva è quella che, se si sviluppa e prevale, porta a confluire nel fiume della rivoluzione socialista;

- la tendenza negativa è quella che, se si sviluppa e prevale, porta a confluire sotto la direzione della borghesia imperialista. Compito dei comunisti è individuare in ogni ambiente e ad ogni fase le due tendenze ed intervenire per far prevalere la tendenza positiva ed ostacolare la tendenza negativa.

In ogni ambiente ad ogni fase della sua trasformazione vi è sempre una sinistra, un centro e una destra.

- la sinistra è formata da quelli che impersonano la tendenza positiva (non importa se ne hanno o no coscienza, se usano o no parole d’ordine di sinistra);

- la destra è formata da quelli che impersonano la tendenza negativa (quali che siano le loro intenzioni e le loro parole d’ordine);

- il centro è formato da quelli che non sono ancora schierati: all’inizio di un processo in generale costituiscono la maggioranza: non perché “le masse sono stupide e devono essere illuminate dalla minoranza”, ma perché  ogni contraddizione si manifesta gradualmente e l’esperienza produce gradualmente i suoi effetti nell’atteggiamento delle persone.

Compito dei comunisti è mobilitare e organizzare la sinistra perché unisca a sé il centro e isoli la destra.

 

 

Quanto abbiamo detto sulle conseguenze politiche delle due teorie sulla crisi attuale non mira a bollare come riformisti gli avversari della teoria della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale; mira solo a rendere più chiara l’importanza per i comunisti di un’analisi scientifica della realtà, l’importanza cioè di una ricerca onesta e condotta fino in fondo sulla causa e sulla natura della crisi attuale. Noi non abbiamo paura del riformismo in un periodo in cui le riforme sono possibili, come lo erano nel periodo 1945-1975. Anzi riteniamo che in quel periodo la lotta per le riforme fosse la linea politica principale attenendosi alla quale i comunisti avrebbero potuto accumulare forze che oggi ci porrebbero in una situazione mille volte migliore di quella in cui siamo.(30) Ma non abbiamo neanche paura della rivoluzione socialista. Alcuni obiettano che non possiamo “fare la rivoluzione solo in Italia”. La realtà storica e quella che abbiamo sotto gli occhi fornisce loro la risposta. Nell’epoca dell’imperialismo (quindi quando già esistono un sistema capitalista mondiale, un mercato mondiale, ecc.) non si crea una situazione rivoluzionaria in un paese solo, ma è possibile che la rivoluzione si sviluppi e vinca in un paese solo. Tutto il mondo è sconvolto dalla crisi generale, tutti i paesi sono in preda alla crisi economica, politica e culturale le cui manifestazioni sono molteplici e contrastanti: tutto è possibile, tranne che uno sviluppo regolare (sia pure tra alti e bassi, con fluttuazioni e sbandamenti di segno opposto), universale e complessivo della produzione e dell’apparato produttivo. In ognuno di essi mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria delle masse si confronteranno a morte. In alcuni prevarrà la prima, in altri può darsi che prevalga la seconda, come risultato della lotta politica delle forze soggettive di un campo e dell’altro.

Non è un caso che la cultura borghese non si occupa della causa e della natura della crisi attuale: la borghesia è occupata a trovare pezze e rattoppi alla situazione, per mantenere il potere e impedire lo sviluppo del movimento rivoluzionario. La teoria della crisi è il cuore della teoria rivoluzionaria in questa fase. Ogni comunista deve ricercare con energia, con tenacia, con onestà e con modestia. Questo è quello che intendiamo fare e a cui invitiamo tutti i comunisti. È una questione decisiva per essere all’altezza dei compiti che nella nostra epoca spettano ai comunisti.

 

30. Il fatto che in quel periodo i comunisti non abbiano compreso che la lotta per le riforme era, in quel periodo, la linea politica principale cui attenersi, lasciò tra le masse libero campo ai revisionisti moderni e ridusse i comunisti a gruppi settari, staccati dalle masse e impregnati di concezioni idealiste (il tradimento dei capi come causa principale del successo temporaneo del revisionismo, l’arretratezza delle masse e la coscienza “troppo” avanzata dei comunisti, l’avanguardismo e l’attendismo, ecc.).

 

 

 

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