INDICE di Cristoforo Colombo

1. IL MOVIMENTO ECONOMICO DELLA SOCIETÀ

2. LA CRISI DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO

- La borghesia cavalca la crisi

- I compagni della crisi

- Il metro su cui misurare la crisi: le possibilità del movimento reale

- Le condizioni per il successo del movimento rivoluzionario del proletariato nell'epoca imperialista

- Le condizioni economiche e politiche degli anni 70

La crisi della classe dominante

Il movimento delle masse

Le organizzazioni rivoluzionarie e le Brigate Rosse

- La natura della nostra crisi e l'attuale posta in gioco

 3. I RISULTATI


Capitolo 2

 LA CRISI DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO

 

La «crisi del movimento rivoluzionario» è diventata oramai un luogo comune. E' un tema obbligato sia della borghesia e dei suoi portavoce tradizionali e nuovi, sia di molti esponenti del movimento rivoluzionario. In questo capitolo cercheremo di capire in cosa consiste questa crisi e cosa dobbiamo fare per uscirne.

 

 

 La borghesia cavalca la crisi

 

E' evidente l'interesse della classe dominante a proclamare la sconfitta storica, definitiva delle Brigate Rosse. Seminare sfiducia e disperazione tra gli avversari è un collaudato strumento di guerra. Questo interesse si avvale dell'apporto di traditori che devono recitare il mea culpa e trovano nella crisi la giustificazione del loro tradimento, di canaglie che nella difficoltà del presente trovano motivi per giustificare la vergogna della loro inerzia di ieri, di intellettualucoli che per mestiere devono parlare e scrivere sui temi di moda, di tremebondi e superstiziosi borghesucci che credono nell'efficacia degli scongiuri.

Ma finché la classe dominante trova conveniente impiegare delle energie ed elargire dei premi per far risuonare il tamtam della crisi del movimento rivoluzionario, ciò significa che essa non è ancora convinta di aver voltato pagina, che il movimento rivoluzionario è ancora per essa un incubo. E' uguale alla crisi del marxismo: se ne parla dalla fine del secolo scorso, basta ricordare Benedetto Croce, e fin che se ne continuerà a parlare vuol dire che la crisi non s'è ancora consumata.

 

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In questa fase l'obiettivo fondamentale della borghesia è spoliticizzare la lotta armata del presente, ridurla a fenomeno sociale senza progettualità politica. Cioè, in altre parole, impedire che le Brigate Rosse si costituiscano in partito. Il bilancio del passato che essa patrocina e impone con premi e castighi è in funzione di questo obiettivo presente.

La borghesia ha dovuto imporsi questo obiettivo non a seguito dei successi dei suoi poliziotti e delle sconfitte delle Brigate Rosse, ma a seguito del successo ottenuto dalle Brigate Rosse nel perseguire gli obiettivi che esse si potevano proporre nella fase della «propaganda armata».

Verso questo obiettivo convergono interessi diversi in seno alla classe dominante, perché la costituzione delle Brigate Rosse in partito, l'espansione e la concretizzazione della loro progettualità politica è un tornante per il movimento politico della società italiana ed europea.

Le varie mosse e contromosse della classe dominante verso il movimento rivoluzionario e verso i prigionieri politici diventano comprensibili se sono viste alla luce di questo obiettivo. Ovviamente la borghesia è una classe composita. Per la natura propria di questa classe, ogni suo gruppo, apparato e individuo ha interessi propri e si muove in conseguenza di interessi suoi propri. Cosicché alcune singole iniziative non rientrano nel raggiungimento di questo obiettivo e altre lo contrastano. Ma finché le Brigate Rosse non si saranno costituite in partito e la loro costituzione in partito sarà ancora possibile (e il tempo non è illimitato), l'interesse principale della borghesia è impedirlo. Di conseguenza tutte le iniziative di suoi gruppi ed apparati saranno ricondotte a servire questo obiettivo o cancellate man mano che emergerà il loro carattere  incompatibile con questo obiettivo. A questo obiettivo la borghesia subordina sia la ricerca e distruzione dei gruppi combattenti e degli apparati clandestini, sia la detenzione e il trattamento dei prigionieri politici.

Il problema attuale è impedire che la classe dominante raggiunga questo obiettivo. Vanificare quest'aspirazione della borghesia coincide con l'attuazione del nostro compito principale in questa fase: costituire il partito.

 

 

 I compagni della crisi

 

Nel movimento rivoluzionario vi sono tre tipi di atteggiamenti negativi nei confronti della crisi del movimento rivoluzionario:

- quello dei sostenitori della «sconfitta storica» delle Brigate Rosse,

- quello dei sostenitori della «tenuta di identità», diffuso in particolare tra i compagni prigionieri,

- quello dei sostenitori della resistenza in attesa degli eventi.

I compagni che macinano sconfitta storica delle Brigate Rosse mattina e sera (gli «sconfittisti storici») sono quelli che, oltre che coltivare una buona dose di inerzia, si ostinano a fare il bilancio del passato e ad analizzare il mondo con le loro categorie e concezioni sbagliate di ieri, idealiste, soggettiviste, movimentiste e militariste.

Queste concezioni sono sicuramente in crisi, infatti le cose sono andate in modo del tutto diverso dalle loro aspettative e le loro attese sono state deluse dai fatti. Ma essi, invece di tirarne le conseguenze sottoponendo a critica le loro attese e concezioni e decidere la strada da seguire in base all'andamento reale, se ne stanno ancora frastornati e sconvolti dalla rivelazione e dal colpo ricevuto. Ripetono che hanno commesso degli errori, a mo' di confessione, come se la cosa potesse interessare a qualcuno, come se qualcuno dovesse assolverli o commuoversi della loro bontà. Ma evitano di capire in che cosa e perché hanno sbagliato e di mettersi conseguentemente all'opera forti della nuova coscienza.

In questo modo perdono di vista i risultati e i successi raggiunti e non sfruttano l'esperienza conquistata. Nei fatti ovviamente, essendo questa una forma, sia pur disinteressata, di tradimento verso se stessi e i compagni che hanno lottato - e alcuni sono caduti - per conquistare quest'esperienza e quei successi, questo crea cattiva coscienza che i consulenti del Ministero di Grazia e Giustizia non esitano a sfruttare per facilitare la conversione a dissociati e a pentiti. Gli esempi sono innumerevoli.

 

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I compagni sostenitori della tenuta d'identità e della resistenza in attesa degli eventi continuano a subire gli effetti della sconfitta e non hanno trovato una via per riprendere l'iniziativa.

La resistenza individuale e di gruppo e la difesa della propria identità sono una premessa indispensabile, minima. Essa ha un ruolo importante per il movimento rivoluzionario durante tutto il periodo in cui le forze nemiche saranno preponderanti, cioè finché noi dovremo lavorare accerchiati dal nemico. Ma resistere non basta, è solo un punto di partenza. La resistenza non può protrarsi indefinitivamente se non trasformandosi in base di partenza della nostra iniziativa.

L'anello di congiunzione tra la resistenza e la nostra nuova iniziativa è l'autocritica. Dobbiamo  concretamente fare i conti con il nostro bagaglio teorico e d'esperienza. Dobbiamo tradurre in pratica e verificare nella pratica le nostre enunciazioni autocritiche generali.

A che punto siamo? Vediamo alcuni esempi di dove siamo arrivati.

 

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Tutti hanno detto che la fase della «propaganda armata» era finita, che era stato un errore gravido di conseguenze non essere passati al momento giusto alla fase superiore, quella del partito. Ma detto questo, cosa è stato fatto per passare alla fase superiore? Chi si è preoccupato di dire in cosa consisteva il passaggio al partito e il nuovo progetto politico?

Nel 1983 gli autori di Politica e Rivoluzione hanno dato un grande contributo teorico in questo senso. Ma da allora non si sono più fatti sostanziali passi avanti. Gli autori di Politica e Rivoluzione hanno lasciato perdere la loro battaglia e sono approdati nel 1987 all'Unione dei Comunisti Combattenti, abbagliati dalla ripresa, del resto effimera, dell'attività combattente che essi stessi nel 1983 avevano chiaramente detto non essere l'aspetto qualificante della ripresa.

Infatti in che cosa differiscono le esecuzioni di individui come Giorgieri o Ruffilli dalle attività combattenti degli anni 70, cioè da iniziative di «propaganda armata»? Differiscono forse per le motivazioni date e le analisi fatte nelle rivendicazioni? Un'azione si qualifica per i risultati che produce, non per le intenzioni di chi la compie. Il prestigio della Brigate Rosse è ancora così alto che i loro documenti, a condizione che le BR si impegnino a diffonderli, sono letti e studiati da tutti quanti si pongono seriamente il problema della rivoluzione socialista nel nostro paese, senza che occorra reclamizzarli con l'esecuzione di qualche agente dello Stato. Queste come altre attività combattenti hanno certamente l'effetto di tener viva la speranza e la fiducia nelle BR. Ma questo effetto non potrà essere ottenuto ancora per molto tempo se l'oggetto della speranza e della fiducia non si concretizza. E più si prolunga il periodo di crisi, tanto meno efficaci sono quelle attività combattenti. Anche se i guru idealisti della comunicazione di massa dicono il contrario, la propaganda non regge alla lunga se non è corroborata da fatti.

Più in generale e per riassumere, il problema che si pone è quanto è stato chiarito il ruolo dell'attività combattente nell'ambito del nuovo progetto, nell'ambito della costruzione del partito.

 

Tutti si sono pronunciati contro il militarismo e hanno riconosciuto che fu un errore catastrofico cercare di organizzare o anche solo di schierare le masse in rapporto alla loro adesione alla lotta armata (OMR, ecc.). Ma ancora nel 1987 una delle organizzazioni del movimento rivoluzionario indicava come unico possibile compito di un'immaginaria «componente legale» del partito la ... propaganda della lotta armata. Come autocritica non c'è male: dalla «propaganda armata» alla propaganda della lotta armata!

Ancora nel 1988 un'altra organizzazione del movimento rivoluzionario sosteneva che «prima del 1982» si era verificata un'«adesione di massa alla strategia della lotta armata» e che solo le sconfitte del 1982 l'avevano cancellata.

E, soprattutto, una volta chiarito che il ruolo delle masse non è quello di arruolarsi nelle formazioni combattenti, nè di fornire loro reclute, nè di fiancheggiarle, chi si è preoccupato di chiarire quale è il ruolo del movimento di massa nel nuovo progetto politico, come si legano e interagiscono partito e movimento di massa?

 

Si è continuato a ripetere che l'impianto originario è risultato inadeguato o falso: ma dov'è il nuovo impianto? E allora, su quale base si dice che quello di prima era inadeguato? In queste  condizioni l'affermazione diventa solo una concessione-cedimento agli avversari e un rifiuto di fare il bilancio dell'esperienza. Anche qui finora l'unico avvio ad un'organica reimpostazione è stato dato nel 1983 dagli autori di Politica e Rivoluzione che poi hanno abbandonato il campo.

 

«L'atteggiamento di un partito verso i suoi errori è uno dei criteri più importanti e più sicuri per giudicare se esso è un partito serio, se adempie di fatto i suoi doveri verso la propria classe e verso le masse lavoratrici. Riconoscere apertamente un errore, scoprirne le cause, analizzare la situazione che lo ha generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo: questo è indizio della serietà di un partito; questo si chiama fare il proprio dovere, educare ed istruire la classe e, quindi, le masse.» (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).

Solo chi ha il coraggio di sottoporre a verifica critica le proprie concezioni e le concezioni dei propri compagni nelle lotte del passato, può sperare di avanzare. Gli altri nel migliore dei casi resteranno ancora a constatare la crisi, esposti ogni giorno di più al rischio di cedere alle repressioni e alle lusinghe della borghesia, nel dilemma se continuare a ripercorrere una strada già percorsa e che ha già dato quanto poteva dare o accettare vie di fuga come quella offerta dal trio Curcio-Moretti-Balzerani (e mimata da Scalzone, che non manca occasione per esprimere la sua più intima natura di pagliaccio).

 

 

 Il metro su cui misurare la crisi: le possibilità reali e i compiti oggettivi

 

La crisi attuale del movimento rivoluzionario deve essere misurata sulle possibilità reali insite nella situazione di ieri e sui compiti che la situazione oggettiva attuale ci pone, non sulle aspettative e le illusioni dei protagonisti delle lotte di ieri che si aspettavano che la «conquista del potere» fosse a portata di mano, che sarebbe stata lo sbocco del movimento delle masse allora in corso.

 

Solo per una concezione idealista e meccanicista del movimento della società (18) alcuni ancora si ostinano a stabilire l'entità della crisi del movimento rivoluzionario sulla base della continuità o meno dell'azione combattente. Di conseguenza per essi il compito principale di oggi, come bandolo da afferrare per dipanare la matassa, è la ripresa dell'attività combattente. 

 

(18) Idealista perché vede le idee e i comportamenti degli altri, diffusi, di massa, come punto di partenza, su cui misurare la situazione e le possibilità dell'agire dei singoli e delle organizzazioni. Quindi si muove solo quando gli altri già si muovono, alla loro coda, salvo poi avere un comportamento estremista all'interno del movimento, fare qualcosa in più di quello che fanno gli altri, osare più degli altri e chiamare questo "essere avanguardia". Non è un caso che nel movimento degli anni 70 si è parlato più di "essere avanguardia" che di "essere comunisti": questa seconda cosa avrebbe più facilmente messo in luce la mancanza e l'eterogeneità di programmi, concezioni, analisi, progetti, organizzazioni, ecc.; mentre per "essere avanguardia" bastava essere quelli che si davano da fare di più, che si mettevano davanti, che estremizzavano le istanze del movimento di massa, ecc.

I movimenti politici e rivendicativi, i movimenti di massa in genere hanno sempre un importante significato per il rivoluzionario, ma non per quello che essi dicono di sé, per la coscienza che essi hanno di sé, nè per quel che appaiono, ma per quello di cui sono sintomo. Il problema è capire di che cosa sono sintomo. Il loro risultato va misurato su quello che hanno effettivamente realizzato, non sulle loro aspirazioni.

Ci sono movimenti che un giorno sembrano volere scalare il cielo («lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!», «carabiniere, basco nero, il tuo posto è al cimitero!», «padroni, borghesi, ancora pochi mesi!», ecc., ecc.) e il giorno dopo non esistono più. Sono come le idee delle persone: un giorno grandi ideali e proclami (i famosi «ideali comunisti») e il giorno dopo quelle stesse persone obbediscono e tacciono, alcuni addirittura irridono a quello che erano il giorno prima.

Invece il materialista vede come punto di partenza, su cui misurare la situazione e scorgere le possibilità aperte alla sua attività, la situazione oggettiva e le tendenze in essa operanti. Quindi è avanguardia in quanto facilita, aiuta a  svilupparsi quello che la realtà materiale via via fa spuntare, quello di cui essa è gravida.

Meccanicista, in quanto non vede il processo effettivo, non vede attraverso quale concatenazione e successione di anelli intermedi la situazione oggettiva genera idee e comportamenti: generazione che non è diretta, immediata, ma avviene tramite gli effetti delle iniziative culturali, politiche, rivendicative, propagandistiche, militari del partito e dei vari organismi che, con maggiore o minore coscienza, la favoriscono. La situazione oggettiva può generare, ma non è detto che generi (la 1° Guerra Mondiale in Francia non generò alcunché!), nè che cosa generi (la crisi del '29 in Germania generò il nazismo!).

 

L'arresto sostanziale dell'attività combattente nel 1982 non è stato la causa della nostra crisi, è stato solo un effetto di essa. Già da tempo la prosecuzione delle azioni combattenti sulla base dello stesso impianto teorico e politico era principalmente un danno, perché logorava le nostre forze e costituiva una giustificazione alla mancata attuazione della trasformazione necessaria.

L'ascesa del movimento delle masse aveva creato le organizzazioni comuniste combattenti e ne aveva permesso il consolidamento e la riproduzione. Ma quando il movimento delle masse iniziò a rifluire a causa dell'impossibilità di andare oltre su quel terreno, di fronte alle difficoltà che incontravano e dovevano risolvere per dirigere il grosso delle masse nella nuova situazione che si veniva creando, le «avanguardie» rifuggendo dai loro compiti confluirono nelle organizzazioni comuniste combattenti. La nuova fase del movimento delle masse poneva alle Brigate Rosse il compito pressante di estendere e rafforzare la propria attività di orientamento e direzione nel movimento delle masse, di fare il «salto a partito», anche a costo di distogliere dall'attività combattente quadri dirigenti e militanti sperimentati. Ma le BR erano intente, come le altre organizzazioni comuniste combattenti, a condurre la loro guerra che si sviluppava molto bene e credevano (dirette da buoni soggettivisti e militaristi e quindi vedendo il mondo capovolto) che l'estensione di questa guerra fosse la solida base del movimento rivoluzionario e del movimento delle masse, e che quindi arruolare uomini nelle strutture militari ed estendere le formazioni combattenti e la loro attività fosse il compito principale (come di fatti lo è quando si è allo scontro risolutivo). L'arruolamento cospicuo (delle «avanguardie» che venivano meno ai loro compiti abbandonando ai revisionisti l'orientamento e la direzione del movimento delle masse) e l'estensione conseguente delle attività combattenti davano alle BR, come alle altre organizzazioni comuniste combattenti, una falsa immagine di forza e di sviluppo. Questa le confermava nel loro errore di continuare a puntare sull'estensione della guerra e non curarsi del fatto che stavano venendo meno le forze che avevano fino allora spontaneamente permesso ed alimentato la loro nascita e la loro attività. Quando esse ebbero assorbito gran parte dell'humus che rendeva fertile il loro terreno di coltura e l'ebbero isterilito, quindi giunte al massimo del loro volume, furono pronte per la sconfitta.

L'aspetto negativo di quel periodo non fu l'arresto delle iniziative combattenti, ma il fatto che venne deciso solo sotto l'incalzare dei colpi inflitti dalle forze di polizia, come decisione a cui i successi delle forze di polizia costringevano le Brigate Rosse, quindi come misura di difesa e salvaguardia. In realtà una decisione del genere le BR avrebbero dovuto prenderla prima, sulla base dei successi conseguiti dalla «propaganda armata», nell'ambito dell'adeguamento della struttura, dell'impianto, della linea e della propria attività (e quindi anche dell'attività combattente) alla nuova fase, alla fase del passaggio al partito.

Non è quindi sulla ripresa dell'attività combattente che si valuta il superamento della crisi e il grado di salute del movimento rivoluzionario. Chi porta la ripresa dell'attività combattente come riprova e contenuto del superamento della crisi illude se stesso e gli altri e rinnega l'autocritica da cui era partito.

Il proposito di passare dalla fase della «propaganda armata» a quella della «guerra civile dispiegata» era frutto di una concezione libresca (cioè formulata in base alla lettura di avvenimenti di altri paesi e di altri tempi) dello sviluppo della lotta di lunga durata, non si basava sull'analisi dei caratteri propri dello scontro rivoluzionario nei paesi imperialisti e della fase  attuale del movimento della società, era una riproduzione militarista (che cioè trascurava di considerare il complesso dei fattori) dello sviluppo seguito da alcuni movimenti di liberazione nazionale. Tutti abbiamo ora capito che la natura della fase che si apre dipende dallo stato oggettivo del movimento economico e politico della società e dall'esito della fase che si chiude.

Posto questo, il salto da fare allora non consisteva nell'aumento dell'attività militare che già si era sviluppata quantitativamente oltre quanto fosse compatibile con la capacità di direzione politica dell'epoca. Consisteva invece nel rafforzare la nostra capacità di analisi ed orientamento politico, nel rafforzare la nostra direzione nel movimento delle masse, nella creazione di nostri canali e strumenti per formare e reclutare nuove leve in vista del declinare del movimento delle masse. Non avendo compiuto quel salto, le Brigate Rosse hanno subito delle sconfitte che le hanno costrette a ridurre e quasi annullare anche l'attività militare. La ripresa non è quindi principalmente ripresa dell'attività militare, ma costruzione della capacità di direzione politica e di legami col movimento delle masse.

 

 

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Solo per una concezione idealista e meccanicista del movimento della società altri cercano di stabilire l'entità della crisi del movimento rivoluzionario sulla base della continuità o meno delle lotte rivendicative e delle iniziative di protesta delle masse e in generale del movimento di massa e addirittura pongono come compito principale del momento quello di resuscitare, ricreare un movimento di massa.

 

Tutta la storia contemporanea conferma che i movimenti di massa alternano periodi di flusso e periodi di riflusso e ciò non comporta alcuna crisi del movimento rivoluzionario.

L'idea di promuovere per propria decisione e volontà un flusso di mobilitazione di massa è così inconsistente e un così palese prodotto di soggettivismo da quattro soldi che non vale la pena che ci soffermiamo a considerarla.

Il proposito di dirigere o anche solo influenzare l'attuale movimento delle masse senza avere affrontato i compiti specifici relativi alla soluzione della crisi del movimento rivoluzionario è una trovata (consapevole o no, poco importa) per addolcire la pillola della liquidazione del movimento rivoluzionario. Prima di tutto sarebbe interessante sapere dove vogliono dirigere un movimento di massa individui che non sanno essi stessi che direzione prendere! L'avanguardia ha trovato sulla sua strada ostacoli che deve superare per vivere e svilupparsi: chi rinuncia a questo lavoro, sia pure in nome dell'andata alle masse, non solo non combinerà niente di buono nel movimento delle masse, per il cui sviluppo e orientamento occorre appunto l'avanguardia alla cui costruzione egli ha rinunciato, ma inevitabilmente finirà col promuovere la liquidazione dell'avanguardia.

Individui sparsi, che rinunciano a raggiungere una concezione complessiva del movimento economico e politico della società, un programma di trasformazione della società, una linea di lotta politica che orienti e discrimini, sulla base di un unico progetto, tutte le loro diverse attività e ad organizzare unitariamente il loro lavoro in un sistema disciplinato di divisione dei compiti, ossia in una parola individui che rinunciano a costituirsi in partito, non possono esercitare alcuna influenza nel movimento di massa, possono solo «starci dentro» come qualsiasi altro. E cosa è questo se non liquidazione (indolore, silenziosa, ma liquidazione) dell'avanguardia? E' evidente che in tale logica quelle persone saranno costrette a spostarsi sempre più a destra, alla rincorsa delle masse, per essere «più interni» ad una situazione che obiettivamente in questa fase è di  riflusso e che potrà trasformarsi tanto meglio proprio quanto meglio l'avanguardia risolverà i problemi relativi al suo ruolo.

 

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Per capire la natura e la consistenza della «crisi» del movimento rivoluzionario, dobbiamo riprendere le cose più da lontano, andare a vedere le possibilità reali di ieri, i risultati obiettivi conseguiti dalle Brigate Rosse, i compiti posti dalla situazione oggettiva attuale.

 

 

 Le condizioni per il successo del movimento rivoluzionario del proletariato nell'epoca imperialista

 

I movimenti rivoluzionari che vi sono sviluppati nella fase imperialista del capitalismo, sia quelli che hanno conquistato il potere sia quelli che sono stati sconfitti, contengono profondi insegnamenti circa le condizioni in cui nasce e può aver successo un movimento rivoluzionario proletario nella fase imperialista in Europa. Dobbiamo imparare da questo patrimonio di esperienza.

Uno dei nostri testi di scuola è la storia del movimento rivoluzionario russo del 1905 e del 1917, tedesco del 1918-20 e 1923, ungherese del 1918-19, del movimento rivoluzionario dei paesi dell'Europa Orientale negli anni 1918-1919, del movimento operaio e popolare italiano e inglese degli anni 20, del movimento rivoluzionario spagnolo degli anni 30 e, ancora, la storia della lotta delle masse popolari dei paesi europei contro il nazifascismo nel contesto della 2° Guerra Mondiale: insomma la storia del movimento delle masse nei paesi europei nella fase imperialista (19).

 

 (19) Negli anni 70 invece le Brigate Rosse sono «andate a scuola» più di movimenti rivoluzionari dei paesi dipendenti (Tupamaros, Marighela, Cuba, OLP, ecc.), di movimenti di minoranze razziali e nazionali (Black Panthers, IRA, ETA, ecc.) e in genere di movimenti che avevano le armi come comune denominatore, ma facevano parte di contesti sociali assolutamente diversi dal nostro.

Anche questo fu indice dell'inizio difficile delle BR, della incomprensione che in realtà «ci si era messi in mare verso l'America e non verso le Indie».

 

Questa storia conferma l'importanza della scoperta fatta dalle Brigate Rosse, cioè i caratteri che deve assumere l'azione rivoluzionaria del partito comunista nei paesi imperialisti, cosa di cui parleremo più avanti.

Ma questa storia illustra anche i limiti delle concezioni che guidarono le Brigate Rosse negli anni 70, gli errori nella concezione del movimento della società, del movimento delle masse, del ruolo delle masse e del rapporto tra l'avanguardia e le masse che ci ha guidato. Per questo una parte della nostra autocritica attuale è comprendere l'insegnamento di questa storia.

 

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Lenin nel 1920 tirò un bilancio dell'esperienza del movimento delle masse nei paesi europei nella fase imperialista che si era avuto fino a quel momento. Lenin aveva di mira gli estremisti quali i «comunisti di sinistra», i settari, i soggettivisti, i militaristi, i meccanicisti, ecc., cioè i compagni che sottovalutavano il ruolo del movimento delle masse nella rivoluzione, ossia la sua relativa  autonomia dall'azione del partito e la relativa dipendenza del partito dal movimento delle masse. In definitiva Lenin aveva di mira i compagni che sottovalutavano il ruolo della componente oggettiva, quella su cui nulla direttamente possono l'azione e l'iniziativa consapevoli e mirate di individui, di organismi, del partito e di conseguenza avevano una concezione vaga e miracolistica del rapporto del partito con questo elemento oggettivo, nel senso: noi facciamo la nostra parte che alla fine le masse si muoveranno.

Mirando a questo bersaglio, Lenin dall'esame della esperienza del movimento delle masse nei paesi europei fino al 1920 concludeva che «la legge fondamentale della rivoluzione, confermata da tutte le rivoluzioni e particolarmente da tutte e tre le rivoluzioni russe del ventesimo secolo, consiste in questo: per la rivoluzione non è sufficiente che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell'impossibilità di vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli «strati inferiori» non vogliono più il passato e gli «strati superiori» non possono fare come per il passato, soltanto allora la rivoluzione può vincere. In altri termini, questa verità si esprime così: la rivoluzione non è possibile senza una crisi di tutta la nazione (che coinvolga cioè gli sfruttati e gli sfruttatori). Per la rivoluzione bisogna, dunque, in primo luogo, che la maggioranza degli operai (o per lo meno la maggioranza degli operai coscienti, pensanti, politicamente attivi) comprenda pienamente la necessità del rivolgimento e sia pronta ad affrontare la morte per esso; in secondo luogo, che le classi dirigenti attraversino una crisi di direzione che trascini nella politica anche le masse più arretrate (l'inizio di ogni vera rivoluzione sta in questo: che tra le masse lavoratrici e sfruttate, apatiche fino a quel momento, il numero degli uomini atti alla lotta politica aumenta rapidamente di dieci e persino di cento volte), indebolisca il governo e renda possibile ai rivoluzionari il rapido rovesciamento di esso.» (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).

 

Una delle condizioni per il successo di un movimento rivoluzionario del proletariato nella società imperialista è che si sia creata una diffusa disponibilità delle masse a battersi. Che si sia creata una situazione in cui ampi strati delle masse non vedano e non abbiano altra via d'uscita che quella che esse stesse si aprono combattendo, una situazione in cui tutto lo spirito di conservazione e tutti gli istinti vitali di ampie masse, proprio quelli che la borghesia ha creato a proprio uso, si concentrino nella direzione del rovesciamento dell'ordine costituito.

Contemporaneamente occorre che la classe dominante sia anch'essa arrivata ad un punto morto, in cui non può più procedere come il solito, per via ordinaria. Un punto in cui i contrasti interni di interessi e di linee politiche da seguire determinano la paralisi delle sue istituzioni, proprio mentre al contrario alla classe dominante è necessaria un'azione più energica e straordinaria che mai, sia nei contenuti sia negli organismi che la attuano, per far uscire tutta la società dal collasso del processo di produzione e riproduzione a cui è arrivata per le leggi oggettive del vecchio sistema. Per spiegarci basta guardare alla situazione della società USA nei primi anni 30, alla vigilia dell'ascesa di Roosevelt al potere o alla situazione della Germania nei primi anni 30, prima dell'ascesa al potere di Hitler.

 

Lenin nello scritto «Il fallimento della 2° Internazionale», nel 1915, aveva esposto «le idee marxiste sulla rivoluzione, le quali, molte e molte volte, sono state esposte e accettate come indiscutibili da tutti i marxisti». Lenin questa volta aveva di vista gli opportunisti e gli attendisti, allo scopo di prevenire le loro critiche diversive.

«Per un marxista è cosa certa che nessuna rivoluzione è possibile in mancanza di una situazione rivoluzionaria. Non è poi detto che ogni situazione rivoluzionaria sbocchi in una rivoluzione. Quali sono, in generale, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliarci nell'indicare i tre seguenti elementi:

 1. L'impossibilità da parte delle classi dominanti di conservare il proprio dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli «strati superiori», una crisi nella politica della classe al potere che apre una falla nella quale si incuneano il malcontento e l'indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione ordinariamente non basta che «gli strati inferiori non vogliano», ma occorre anche che «gli strati superiori non possano» più vivere come per il passato;

2. un aggravamento, maggiore del solito, dell'angustia e della miseria delle classi oppresse;

3. in forza delle cause suddette, un incremento sensibile dell'attività delle masse le quali, nei periodi «pacifici», si lasciano tranquillamente derubare, ma che nei momenti di crisi sono spinte, sia da tutto l'insieme della crisi, che dagli stessi «strati superiori», ad un'azione storica indipendente.

In mancanza di queste modificazioni oggettive, indipendenti dalla volontà di gruppi isolati e dei partiti, nonché da quella di singole classi, la rivoluzione è, di regola, impossibile. L'insieme di queste modificazioni oggettive si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche rivoluzionarie in occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861, 1879-1880 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacita della classe rivoluzionaria di compiere azioni di massa abbastanza forti da spezzare o almeno incrinare il vecchio regime che, anche all'apice della crisi, non cade se non lo si fa cadere.».

 

Sempre Lenin, in L'estremismo, malattia infantile del comunismo, afferma che «l'esperienza della vittoriosa dittatura del proletariato in Russia ha dimostrato con evidenza, a coloro che non sanno pensare o non hanno mai dovuto meditare su questo problema, che una centralizzazione assoluta e la più severa disciplina del proletariato sono condizioni essenziali per la vittoria sulla borghesia.».

 

Ogni rivoluzione è fondamentalmente un'azione di violenza, di dittatura e d'imposizione. L'azione apparentemente autonoma di milioni di individui e di organismi confluisce nella distruzione della vecchia classe dominante e delle istituzioni del suo potere e nella creazione di nuove istituzioni che permettono la ripresa del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza e delle sovrastrutture necessarie. Nel corso di ogni rivoluzione si determinano sempre passaggi decisivi. Se non si è in grado di sfruttarli, muovendosi e colpendo tempestivamente nei punti giusti ed inesorabilmente, le rivoluzioni si sgonfiano o vengono soffocate. La rivoluzione è un'arte e in più un'arte che non ammette repliche e appelli.

Tutti i movimenti rivoluzionari nei paesi imperialisti hanno dimostrato che «una centralizzazione assoluta e la più severa disciplina del proletariato sono condizioni essenziali per la vittoria sulla borghesia». Questo presuppone una grande disciplina della sua avanguardia organizzata, il partito comunista. Presuppone una grande capacità di ogni sua parte di muoversi di propria iniziativa coerentemente con un piano comune, una grande capacità di orientare conformemente a ciò l'attività delle masse. Questo implica a sua volta che il partito abbia obiettivi conformi agli interessi fondamentali delle masse e sappia farli emergere come tali nel processo pratico delle masse; in caso contrario la direzione del movimento delle masse da parte del partito risulterà impossibile.

 

«Da che cosa è mantenuta la disciplina del partito rivoluzionario del proletariato? Da che cosa viene messa alla prova? Da che cosa viene rafforzata?

 In primo luogo, dalla coscienza dell'avanguardia proletaria e dalla sua devozione alla rivoluzione, dalla sua fermezza, dal suo eroismo.

In secondo luogo, dalla capacità di questa avanguardia di collegarsi, di avvicinarsi, di unirsi fino ad un certo punto, di fondersi se volete, con la più grande massa dei lavoratori, dei proletari innanzi tutto, ma anche con la massa lavoratrice non proletaria.

In terzo luogo, dalla giustezza della direzione politica realizzata da quest'avanguardia, dalla giustezza della sua strategia e della sua tattica politica, a condizione che le grandi masse si convincano per propria esperienza di questa giustezza.

Senza queste condizioni, la disciplina di un partito rivoluzionario, realmente capace di essere il partito di una classe d'avanguardia che deve rovesciare la borghesia e trasformare tutta la società, non è realizzabile. Senza queste condizioni, i tentativi di creare una disciplina si trasformano inevitabilmente in bolle di sapone, in frasi, in farse.» Come ben sanno, aggiungiamo noi, gli ex membri del MLS, del PC(m-l)I, dei vari servizi d'ordine degli anni 70. «D'altra parte, queste condizioni non possono sorgere di colpo. Esse sono il risultato di un lungo lavoro, di una dura esperienza; la loro elaborazione viene facilitata da una teoria rivoluzionaria giusta, e questa, a sua volta, non è un dogma, ma si forma in modo definitivo solo in stretto legame con la pratica di un movimento veramente di massa e veramente rivoluzionario.» (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).

 

Dunque la condizione necessaria per il successo - attenzione, non per l'esistenza, ma per il successo, la vittoria, la conclusione della tappa dell'eliminazione del vecchio Stato, del vecchio potere, della vecchia classe dominante e l'instaurazione del nuovo potere - di un movimento rivoluzionario del proletariato nella società capitalista moderna, quindi condizione necessaria per la rivoluzione in senso pratico e reale (non per quel processo nebuloso di cui si riempiono la bocca parolai d'ogni genere) è l'esistenza di un partito che sia:

- comunista per la concezione del mondo e il programma di trasformazione della società su cui si è formato e che vuole realizzare,

- saldamente radicato nella classe operaia di cui deve comprendere la parte d'avanguardia e in cui deve avere le proprie organizzazioni fondamentali,

- deciso a conquistare il potere per il proletariato, quindi in questo senso non «democratico», e cresciuto per questo scopo e in conformità a questo scopo,

- guidato da una giusta comprensione delle forze e delle tendenze economiche e politiche in campo;

un partito che abbia creato e collaudato tra i suoi membri un rapporto in cui le decisioni possano essere prese tempestivamente ed attuate con disciplina e spirito d'iniziativa, un rapporto in cui la percezione dello stato d'animo delle masse e la conoscenza delle situazioni siano tempestivamente raccolte e concentrate negli organi dirigenti;

un partito che riunisca membri distribuiti nella maggior parte dei punti, dati dalla configurazione effettiva della società, in cui le masse si uniscono e iniziano a muoversi, membri capaci in quei punti di indirizzare l'energia rivoluzionaria delle masse nella direzione giusta.

 

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Se per quanto riguarda l'autocritica all'idealismo, al soggettivismo, al militarismo e al movimentismo riflettiamo sulla storia delle Brigate Rosse, alla luce delle affermazioni di Lenin,  non possiamo che constatarne la profonda verità.

E non vale obiettare che Lenin in realtà parlava delle condizioni necessarie per la conquista del potere, per l'insurrezione, per «l'ultima e decisiva battaglia» e non delle condizioni per l'esistenza e la lotta di un partito comunista, per la conduzione di un'attività politica rivoluzionaria. Perché noi qui ci stiamo occupando della crisi del movimento rivoluzionario e gran parte del disorientamento in cui ristagnano i nostri compagni crisaioli deriva appunto dalla sensazione confusa per alcuni, dalla convinzione espressa per altri che negli anni 70 abbiamo «mancato il colpo», abbiamo fallito nella conquista del potere.

Finché non avremo chiaro che la conquista del potere negli anni 70 non era una possibilità reale e dunque che non è questo ciò in cui abbiamo mancato, ci precludiamo la possibilità di comprendere in cosa consiste effettivamente la nostra attuale crisi e in cosa quindi dobbiamo darci da fare per superarla.

 

Anche la storia degli anni 70 mostra che non c'è scappatoia: abbiamo bisogno di un partito centralizzato, disciplinato, ma nello stesso tempo la disciplina e la compattezza di questo partito è inevitabilmente, oltre che un obiettivo consapevolmente perseguito dai suoi membri e quindi frutto della loro coscienza e della loro dedizione alla causa, un risultato di una linea giusta e di un giusto legame con le masse.

Chi paventa i rischi di una simile concentrazione di forze e di un simile rapido succedersi delle azioni, è come chi vuol nuotare senza bagnarsi.

 

Nel partito un rapporto tra i suoi membri, come quello descritto sopra, non si improvvisa, nè bastano gli statuti a crearlo. L'esperienza dei partiti comunisti improvvisati in Europa nel corso stesso della mobilitazione rivoluzionaria delle masse negli anni 1918 - 1920 dimostra chiaramente la prima tesi. L'esperienza dei partiti comunisti disciplinati dalla 3° Internazionale durante gli anni 20 dimostra chiaramente anche la seconda tesi. Un tale rapporto nel corpo del partito è basato, oltre che sulla linea organizzativa e sullo statuto, su un'esperienza collettiva che l'avanguardia sedimenta dalle masse e sul prestigio e sull'autorità che chi dirige acquista, grazie alla ripetuta dimostrazione di saper affrontare e risolvere vittoriosamente situazioni difficili.

Un rapporto del genere indicato da Lenin tra il partito e le masse non si instaura con qualche comizio o con l'esposizione di un bel programma, ma con la ripetuta esperienza pratica che il partito sa trovare soluzioni, che il partito sa trovare risposte, che sa resistere e combattere con successo, che sa assorbire e valorizzare quanto di sano, di attivo e di rivoluzionario si sviluppa nel proletariato e in generale nella società, che sa guidare le masse alla vittoria.

 

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Queste sono lezioni che si traggono dal movimento storicamente avutosi nelle società imperialiste. Esse sono espresse in altro modo dalla teoria del movimento economico delle stesse società. Nelle società in cui il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza ha raggiunto un alto grado di socializzazione (di divisione del lavoro e di integrazione, interdipendenza e connessione dei diversi lavori), una rivoluzione può vincere solo se il meccanismo sociale di produzione è comunque già di per se stesso bloccato, indipendentemente e prima della rivoluzione (20). Solo a quel punto le iniziative politiche, e tra esse quelle militari, di organismi, individui e classi assumono un ruolo determinante ai fini degli sviluppi ulteriori.

 

 (20) Da qui emerge l'inconsistenza delle discussioni e delle accuse relative al «tanto peggio, tanto meglio». Nascono tutte da una concezione soggettivistica del movimento economico della società. Il «peggio» non arriva per volontà, desiderio, scelta, opera di individui, gruppi e classi. Sono le leggi oggettive del modo di produzione capitalista che lo generano inevitabilmente. L'attività dei comunisti consiste:

1.- Nell'evitare che il peggio generi nelle masse panico, rassegnazione, soggezione e docilità alla classe dominante. Ma nel far sì che generi un'azione efficace, mirata allo scopo di superare il peggio in cui la vecchia società le ha precipitate, eliminando la vecchia classe dominante e prendendo nelle proprie mani il proprio destino, ossia la ricostruzione della società su nuove basi. E non c'è maggiore stimolo all'azione, per masse ridotte allo stremo e animate di odio contro chi le ha precipitate nella condizione in cui si ritrovano, che il successo - che presuppone la giusta direzione - delle iniziative che comunque le masse iniziano a prendere. Questo è un tratto caratteristico delle situazioni rivoluzionarie: che le masse sono comunque costrette a muoversi, perché la società deve comunque cambiare, o in senso rivoluzionario o in senso controrivoluzionario dal momento che il vecchio ordine non può continuare, è rotto. Quello che è in sospeso ed è ancora da decidere, è in quale direzione le masse si muoveranno. Quì - e non nel «creare il peggio»: che sarebbe un proposito vano in pratica e controproducente come tesi - è quindi essenziale il ruolo di un partito legato alle masse e dotato di una giusta linea politica, cose entrambe che non si improvvisano.

2.- Nell'impedire, rompere i tentativi della classe dominante di riorganizzare su nuove basi il proprio potere, quindi di uscire a suo modo dal peggio, dalla situazione di collasso del processo di riproduzione e di disgregazione del suo apparato politico. E anche in questo è essenziale il ruolo del partito, sia con azioni proprie (ad esempio, non possiamo escludere che l'eliminazione di Hitler nel 1930 avrebbe reso impossibile alla borghesia tedesca e internazionale di trovare nel regime nazista una nuova forma vincente del proprio potere in Germania e questa eliminazione poteva essere opera anche solo di un organismo di partito), sia indirizzando giustamente a tal fine l'attività delle masse (il partito bolscevico che bloccò l'azione di Kornilov contro il Governo Provvisorio nel giugno del 1917 portando a battersi contro Kornilov le masse in subbuglio contro il Governo Provvisorio).

Le menate sul «tanto peggio, tanto meglio» oltre che armi propagandistiche della borghesia contro i comunisti e a favore della collaborazione delle classi oppresse con la classe dominante, possono essere serio (per quanto possono essere seri!) oggetto di riflessione solo per i soggettivisti che credono che il movimento economico della società dipenda dall'attività delle loro persone e quindi possono porsi seriamente il dilemma se incepparlo o no!

 

Alla luce di queste lezioni dobbiamo esaminare le possibilità che la situazione della società italiana degli anni 70 offriva al movimento rivoluzionario. Chi sentenzia indipendentemente da queste esperienze deve dimostrare perché queste esperienze non sono valide per la società italiana degli anni 70.

 

 

 Le condizioni economiche e politiche degli anni 70

 

In Italia esisteva qualcosa di simile alle condizioni necessarie allo sviluppo e al successo di una rivoluzione sopra indicate e desunte dalle esperienze di tutti i moti rivoluzionari avvenuti in Europa in questo secolo?

Se non esistevano, chi parla di crisi perché non abbiamo vinto, non abbiamo fatto la rivoluzione, persiste a sostituire i propri desideri all'analisi materialista dei modi e delle cause del movimento della società.

Facendo cosi, butta via inevitabilmente anche le conquiste reali della lotta di quegli anni.

 

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 La crisi della classe dominante

 

Nel periodo compreso tra il 1968 e il 1978 si hanno nella classe dominante italiana contraddizioni acute ed un notevole sbandamento.

 Questo è dimostrato da:

- lo sviluppo eccezionalmente elevato di progetti eversivi da parte di gruppi della classe dominante (Rosa dei Venti, P2, ecc.),

- lo sviluppo del terrorismo di Stato (da P.za Fontana in avanti) e l'ampiezza assunta dal progetto di una parte della classe dominante di rianimare lo squadrismo fascista come forza di repressione parallela ed extralegale,

- le continue modificazioni di maggioranze di governo (non solo cambi di governo, visto che questo in Italia è un dato costante dal 1948),

- lo sbandamento d'indirizzo che portò tanti esponenti della classe dominante e in particolare i loro figli a flirtare col movimento di protesta delle masse, e vari esponenti della burocrazia statale, inclusi esponenti delle Forze Armate e delle Forze di Polizia, a intrecciare rapporti con esponenti del movimento di massa,

- l'incapacità, durata vari anni, dei gruppi industriali di reagire efficacemente alla conflittualità diffusa nelle fabbriche e all'ingovernabilità delle fabbriche,

- la tolleranza delle forze di polizia verso i servizi d'ordine dei gruppi e la diffusa cooperazione tra servizi d'ordine e forze di polizia,

- il succedersi caotico sia di concessioni economiche (aumenti salariali, servizio sanitario nazionale, presalario scolastico, punto unico di contingenza, ecc.), normative (Statuto dei lavoratori, ecc.) e legislative, sia di conati repressivi (repressione militare di manifestazioni di piazza e stragi di Stato),

- il via dato all'indebitamento pubblico e all'inflazione,

- la fuga dei capitali all'estero,

- il grande sviluppo della criminalità organizzata, mafia e affini, interna alla classe dominante,

- la lotta all'ultimo sangue attorno al progetto Moro della nuova maggioranza governativa di «solidarietà nazionale».

Questo inizio di sbandamento è dovuto all'inversione della fase economica (culmine del boom e inizio del declino, crollo di alcune strutture internazionali su cui si era retto il ciclo economico: sistema monetario di Bretton Woods, shock petrolifero, lotta acuta tra gruppi capitalistici internazionali, ecc., indebolimento dell'egemonia USA acuita dalla sconfitta inflitta dal popolo del Vietnam) e allo sviluppo delle premesse del progetto di costruire una società del benessere oltre quanto compatibile con le concrete condizioni della valorizzazione del capitale (assemblearismo diffuso, diritto di sciopero portato all'estremo come esercizio individuale del diritto, ecc.).

Lo sbandamento non è limitato alla classe dominante italiana, ma in Italia è più acuto e più persistente che negli altri paesi imperialisti. In Francia è una crisi acuta ma breve, nella RFT si risolve col cambio al governo tra DC e SPD, in Inghilterra e negli USA la crisi nella classe dominante è ancora più contenuta.

Alla classe dominante italiana però restano ampi margini di manovra. Infatti la situazione economica è ancora florida, il processo produttivo è lungi dal collasso, le classi borghesi degli altri paesi imperialisti sono in grado di prestarle larghi aiuti. La classe dominante può prendere tempo e riorganizzarsi.

Lo sbandamento viene superato senza cambiamento traumatico di regime, avviando una modificazione strisciante attraverso il cambio del Presidente della Repubblica, la direzione del governo affidata ad esponenti non democristiani, il pentapartito, la decretazione d'urgenza, il  licenziamento dei 60 alla FIAT, l'autunno 1980 alla FIAT, ecc.

 

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 Il movimento delle masse

 

Il movimento di massa degli anni 70 era tutto rivendicativo e di protesta.

Fu più una prosecuzione ed un portare all'estremo i contenuti e le forme delle lotte degli anni precedenti, fino a renderne chiare i limiti e l'impossibilità pratica, che un prodotto della nuova situazione. Era un movimento che lottava per avere di più, sul piano della distribuzione del reddito, delle condizioni di vita e di lavoro, della partecipazione agli istituti della democrazia borghese, non un movimento di masse che lottavano per sopravvivere. Anche se, avvenendo nel periodo di passaggio dal culmine del boom economico postbellico all'inizio della crisi economica, aveva in sé la contraddizione tra la massimizzazione e l'estremizzazione delle richieste da parte del movimento e l'impossibilità, o almeno la riduzione delle possibilità, di dare di più da parte della borghesia. Ma la rivoluzione non è solo il confluire di lotte rivendicative e di protesta, specie se esse trovano ancora parziale soddisfazione.

Se, come si deve, si parte dall'analisi del movimento economico della società, gli anni 70 sono solo l'inizio di una nuova fase, e segnano la fine del tentativo della borghesia di costruire una società di benessere nella metropoli imperialista. La propensione delle masse a combattere non è assente, e da questo infatti nascono le organizzazioni comuniste combattenti, ma non si traduce praticamente in più di qualche decina di migliaia di uomini mobilitati in armi o coinvolti in operazioni di appoggio a gruppi armati. La diffusione e autonomia dei gruppi armati testimonia però del loro carattere di massa: erano il risultato estremo, la punta più avanzata del movimento delle masse. Questa fu la loro forza, la ragione del loro sorgere e la possibilità del loro perdurare nonostante la debolezza dell'impianto politico.

 

 

 

 

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 Le organizzazioni rivoluzionarie e le Brigate Rosse

 

Le organizzazioni rivoluzionarie che si contendono la guida del movimento di massa negli anni 70 sono tutte nuove, sorte nel corso delle lotte rivendicative e di protesta di quegli anni (movimento studentesco, autunno caldo, ecc.). Dovevano costruirsi e nello stesso tempo costruire anche il loro rapporto con le masse.

Esse non hanno alcuna continuità con l'esperienza rivoluzionaria della 3° Internazionale. I trent'anni di predominio del revisionismo moderno hanno fatto piazza pulita.

 

Dapprima le organizzazioni rivoluzionarie sorgono su rivendicazioni immediate, poi esprimono parole d'ordine più generali, ma proprio per questo meno corrispondenti alla loro reale pratica.

 Fondamentalmente le prime organizzazioni che si formano sono rivendicative estremiste nell'ambito dell'esistente regime politico ed economico.

La seconda ondata che si forma è caratterizzata dalla lotta armata ed è quì che si determina oggettivamente il salto, che i protagonisti non avvertono. Le Brigate Rosse sono la parte più avanzata, perché dotata di un impianto teorico e politico più organico, con legami meno tenui con la tradizione comunista, più sistematicamente tesa a porre l'azione combattente all'interno di un progetto di mobilitazione del proletariato e delle masse per la conquista del potere.

Ma anche le organizzazioni combattenti sono un prodotto dello slancio del movimento popolare dell'epoca, con le generosità, le velleità e le ingenuità di un movimento nuovo.

Solo man mano che il movimento avanza, che la situazione politica attraversa fasi contrastanti, si incomincia a consolidare un'esperienza, si inizia una verifica pratica delle teorie, delle strutture e degli uomini. Nelle organizzazioni combattenti vengono in luce, e si cristallizzano in organizzazioni distinte, le varie anime che erano confluite nella lotta armata. Ognuna si caratterizza sempre più, man mano che viene meno il comune retroterra e motore: la possente spinta del movimento di massa che unificava, dava forza e permetteva di eludere la verifica della linea nella pratica.

Prima Linea si rompe in spezzoni sempre più simili a cricche attorno ad un capo, fino a liquidarsi nella dissociazione.

Alcuni gruppi si danno all'esproprio per le masse, altri ad amministrare la «giustizia proletaria» colpendo i borghesi «colpevoli», altri si danno al sindacalismo armato, altri all'organizzazione dell'emarginazione e del ribellismo vitalistico, altri si pongono il problema della costruzione e del salto al partito.

Inizia una fase in cui si tratta non più di procedere sull'onda dell'entusiasmo, ma di raccogliere, selezionare, verificare e rendere organici e sistematici i risultati e gli insegnamenti della fase trascorsa.

Questa seconda fase è ancora in corso e al suo travaglio viene dato il nome di crisi del movimento rivoluzionario.

 

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Nelle analisi delle organizzazioni combattenti il predominio della cultura borghese progressista è pressoché completo, come abbiamo cercato di mostrare.

Il PCI non era solo la via democratica e parlamentare al socialismo, cui contrapporre la lotta armata. Era anche - ed anzi la via democratica e parlamentare trovava giustificazione in - una data concezione del movimento economico e politico della società borghese (catastrofista fino allo VIII congresso (1956) in contrasto con l'andamento reale; apologetica dopo l'VIII congresso, non vedendo la crisi che si avvicinava e anzi sostenendo che la società capitalista aveva trovato il rimedio alla tendenza alla crisi e alla guerra). Il PCI degli anni 40 e 50, anche nelle sue correnti di sinistra, non si era reso mai conto che la partita era momentaneamente chiusa perché il capitalismo grazie alla 2° Guerra Mondiale avrebbe avuto davanti 30 anni di sviluppo sostanzialmente ininterrotto, salvo le essenziali oscillazioni cicliche, non tali da riunire in alcun momento le condizioni per un'insurrezione vittoriosa. Dopo l'ottavo congresso esso approda sempre più ampiamente alla cultura borghese, anche se continua ancora per anni a stampare letteratura del movimento rivoluzionario e comunista internazionale.

Come dicono gli autori di Politica e Rivoluzione «la guerriglia in Italia ha avuto come ascendenti più i Tupamaros che non la Terza Internazionale, più la mistica dell'azione audace che non il  respiro profondo dell'insurrezionalismo!» e ancora «Per molti versi la base teorica della Lotta Armata si è formata da zero, riesumando un po' di ricordi resistenziali, raccogliendo frammenti di esperienze da innestare sui filoni del marxismo-leninismo o dell'operaismo. In questo senso ha imparato da sé, teorizzando su se stessa e autocondannandosi all'empirismo.».

Consideriamo la concezione del mondo, le linee e i programmi delle organizzazioni combattenti, compreso anche il meglio di esse, le Brigate Rosse: cosa resta oggi, se non sistematizzazioni di alcune delle banalità della cultura corrente (SIM, ecc.)? (21)

 

(21) E' da notare che la tesi del SIM viene elaborata quando oramai il predominio USA nel sistema capitalistico mondiale è in declino, cioè proprio quando ricominciano a divaricarsi interessi e linee dei vari gruppi imperialisti. Questo conferma che la teoria del SIM non è stata prodotta da incomprensione della realtà, da una errata analisi della realtà, ma solo dall'influenza delle preesistenti teorie superimperialiste della cultura borghese (e operaista), cioè che è stata una costruzione libresca, versione «di sinistra», «arcirivoluzionaria», «combattente», insomma ad uso delle organizzazioni comuniste combattenti e a giustificazione della loro pratica, delle varie teorie dello Stato-piano.

 

 

Una disanima esauriente delle basi teoriche e della genesi delle tesi delle Brigate Rosse è stata fatta dagli autori di Politica e Rivoluzione e a questo libro rimandiamo. La disanima conferma che non è in questo campo che le Brigate Rosse hanno dato il loro contributo positivo al movimento comunista. Per poter avanzare, sarà utile che venga fatto anche un inventario degli elementi di analisi della società, messi in campo dalle organizzazioni combattenti, che sono stati confermati dalla pratica e quindi vengono a costituire nostro patrimonio per il futuro.

 

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Sulla debolezza delle organizzazioni, dei capi e dei membri delle Brigate Rosse e delle organizzazioni combattenti in generale, tipica di organizzazioni di massa nuove, non occorre perdere molte parole, visto che i fatti successivi si sono già incaricati di mostrare abbondantemente la cosa. Quanti capi e membri hanno resistito e fatto fronte alla nuova situazione?

La sorte di vari membri delle Brigate Rosse e di altre organizzazioni comuniste combattenti, in particolare di quelli prigionieri, conferma pienamente che le organizzazioni comuniste combattenti negli anni 70 nacquero e si svilupparono come organizzazioni di massa. In particolare lo confermano il folto gruppo di compagni che non cedono alla collaborazione con lo Stato, ma si rinchiudono in una rassegnata resistenza, incapaci di sviluppare, da soli e nella situazione di disgregazione, iniziative di ripresa e assumono un atteggiamento tipico del proletario con coscienza di classe tenace ma elementare, che si mobilita quando c'è movimento e ripiega quando questo viene meno.

L'atteggiamento più comune è stato quello dello scioperante e del dimostrante, che nel caldo della lotta si butta in avanti, trascina i propri compagni, porta all'estremo i loro sentimenti e le loro forme di lotta, ma che quando l'atmosfera si raffredda e si ritorna "a ragionare", si ritrova grosso modo con il livello di capacità e di coscienza di prima. E' a quel punto che avviene la divisione tra

- quelli che ritornano alla sottomissione ed inerzia di prima, con in più ricordi che vengono rielaborati e sistemati sulla base della cultura corrente, cioè della cultura della classe dominante;

- quelli che sull'esperienza vissuta ragionano, ne fanno la chiave per una nuova lettura della società e del mondo, la comprendono nel suo ruolo reale e collocata nel suo contesto storico e sociale, ne fanno il punto di partenza per la loro attività futura.

  

 

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Questo aspetto della debolezza del movimento rivoluzionario dell'epoca mette in luce però un fatto importante che dovremo riprendere più avanti. Il fatto cioè che nel corso del suo sviluppo il movimento delle masse genera iniziative combattenti. E' un fatto confermato dal movimento degli anni 70, ma che si è verificato in ogni fase di ascesa del movimento delle masse in tutta l'epoca imperialista. E' proprio perché succede questo, che l'iniziativa combattente è una componente necessaria dell'attività del partito e non una forma escogitata da intellettuali a tavolino. E' proprio solo in questo che sta la possibilità della sua affermazione come aspetto stabile della lotta del proletariato anche nella fase di accumulazione delle forze in condizioni di accerchiamento da parte delle forze della borghesia, quando cioè le forze militari della borghesia sono assolutamente preponderanti rispetto alle forze militari del proletariato.

In questo senso è rilevante la polemica, apparentemente nominalistica, tra quanti sostengono che la lotta armata è una forma di lotta e quanti invece sostengono che è una strategia. Quelli che sostengono che la lotta armata è una forma di lotta vogliono sottolineare il fatto inoppugnabile, ma tuttavia negato da alcuni, che essa non è l'unico campo di azione del partito e che l'importanza del suo ruolo varia a seconda delle situazioni. Tra questi confluiscono quelli che sostengono la tesi che i protagonisti della lotta armata seguono l'andamento del ciclo, gli alti e bassi delle lotte di massa e che la lotta armata è propria solo della fase culminante del movimento. La polemica è alimentata dal fatto che effettivamente nel corso delle lotte degli anni 70 sorsero molte iniziative armate, prive di progettualità strategica, appunto perciò iniziative, forme di lotta di massa che sono scomparse quando il movimento delle masse è rifluito (Prima Linea e la miriade di gruppi ed organismi combattenti, fino all'iniziativa militare di singoli o sporadica, che non dava luogo alla costituzione di un gruppo combattente di una certa continuità). Questa tendenza spontanea è inevitabile, è comune ad ogni periodo di crescita del movimento delle masse: è anzi un indice della sua crescita. Essa presentava molti lati positivi. L'attrazione che il movimento esercitava su elementi sbandati, avventurieri, ecc. aveva aspetti positivi. Era un segno dell'egemonia e della forza del movimento. L'errore fu di lasciarsi influenzare dagli aspetti negativi che inevitabilmente questi si portavano dietro. Ancora una volta siamo alla mancanza di una salda concezione, di una salda linea, di una salda organizzazione capace

- di influenzare gli elementi non proletari, latori della coscienza e dell'esperienza di altre classi, privi di esperienza politica,

- di orientare, dirigere e valorizzare anche elementi sbandati, avventurieri, ecc. che inevitabilmente affluiscono nelle file del movimento rivoluzionario quando il movimento delle masse cresce,

- di non lasciarsi influenzare da essi.

Avviene per la lotta armata quello che avviene in altri campi della nostra lotta. Quando il movimento delle masse è in ascesa vi affluiscono nuovi e numerosi militanti, proletari e anche di altre classi che le conseguenze negative della sopravvivenza del rapporto di capitale nella fase imperialista predispongono al ribellismo e al sovversivismo. Allora essere all'altezza dei suoi compiti per il partito consiste nel sapere incanalare i nuovi militanti nella giusta direzione, nel non lasciarsi travolgere dai loro limiti e difetti senza chiudersi a riccio e respingerli, nel saper far fruttare il loro apporto. Questo è possibile solo se il partito ha preparato le sue forze nei periodi di riflusso del movimento delle masse, nei periodi «tranquilli». Cioè se il partito non ha seguito il riflusso del movimento delle masse.

 La lotta armata è una forma della lotta del movimento proletario nella fase imperialista, le cui dimensioni e il cui ruolo si espandono nei momenti di espansione del movimento delle masse e si riducono inevitabilmente se esso rifluisce. Appunto perciò è uno stabile campo di lavoro del partito, una forma stabile della sua attività, i cui obiettivi però cambiano di fase in fase.

Quanti sostengono che la lotta armata non è una forma di lotta ma una strategia, vogliono dire che essa rientra tra le attività stabili del partito comunista, che la sua esistenza, praticabilità e necessità non sono sottomesse agli alti e bassi del movimento delle masse. Quindi portano argomenti a favore della continuità dell'attività armata dei militanti anche nei periodi di stasi della mobilitazione di massa. La lotta armata non è una forma di lotta che sorge solo nei momenti dello scontro decisivo, durante i momenti acuti della crisi, ma fa parte delle attività con cui si accumulano forze e si preparano condizioni favorevoli al successo della rivoluzione.

Tra questi confluiscono anche quelli che sostengono la tesi che la lotta armata è l'unica attività rivoluzionaria, è l'unica attività dei comunisti, è in ogni momento l'attività principale dei comunisti. Confluiscono quelli che sostengono il carattere taumaturgico della lotta armata. Confluiscono quelli che sostengono una lotta armata d'elite e da gruppo emarginato, una lotta armata avulsa dal complesso del movimento delle masse, cioè una lotta armata destinata alla sconfitta o alla marginalizzazione. Da questi individui dobbiamo guardarci. Essi con le migliori intenzioni portano acqua all'obiettivo della borghesia di isterilire la lotta armata spoliticizzandola, riducendola a devianza sociale e ad attività da ghetto.

Il ruolo e il peso specifico che la lotta armata ha in ogni specifico passaggio della lotta del proletariato per il potere è ben determinato, come per qualsiasi altra attività, dalla concreta situazione politica. La combinazione delle varie forme di lotta, il loro peso è questione di tattica.

L'unica lotta armata d'avanguardia che può interessare i comunisti è quella che è elemento di mobilitazione, organizzazione, orientamento e direzione delle masse.

 

 

 La natura della nostra crisi e l'attuale posta in gioco

 

Concludendo, negli anni 70 vi sono alcuni sintomi di situazione rivoluzionaria, crisi nella classe dominante, fermento tra le masse; ma manca quasi completamente l'elemento soggettivo.

Non si può dire, nè quindi ci interessa, se la presenza di elementi soggettivi diversi, quindi di una diversa attività politica consapevole da parte di un'avanguardia avrebbe potuto far prendere una piega diversa agli avvenimenti, togliere alla classe dominante la possibilità del recupero che attuò a cavallo tra gli anni 70 e 80 e quindi far precipitare la sua crisi.

Certamente se avessimo tempestivamente impegnato le nostre forze per passare al partito, avremmo potuto imprimere una piega diversa agli avvenimenti, giovandoci di tutte le forze che avevamo raccolto e che in larga misura abbiamo sprecato nella prosecuzione della «propaganda armata» e sotto i conseguenti colpi delle forze di polizia e delle organizzazioni politiche fiancheggiatrici del regime. Avremmo potuto «tirare per le lunghe», protrarre lo scontro, raccogliere nuove forze nella nuova situazione, evitare insomma la «serrata finale» che in quelle condizioni era solamente nell'interesse della borghesia.

Ostinandoci a proseguire nella «propaganda armata», ora chiamata «guerra civile dispiegata», nonostante essa fosse oramai superata, abbiamo lasciato che la borghesia riprendesse in mano l'iniziativa ed è impossibile dire come sarebbero andate le cose se l'avessimo mantenuta saldamente in mano noi.

 

 Già la fase della «propaganda armata», fin che le Brigate Rosse ebbero l'iniziativa, ha mostrato a sufficienza che una politica rivoluzionaria (che non vuol dire solo un'azione politica che si serve della lotta armata, ma un'azione politica adeguata ai processi sociali in corso) modifica la situazione politica. Quindi non si possono predire i suoi esiti sulla base delle condizioni esistenti al suo inizio, come se essa fosse una cosa che si aggiunge alle altre, con un ragionamento del tipo «a parità di condizioni», ma solo comprendendo le modificazioni che essa produrrà nelle condizioni politiche esistenti e quindi, ancora una volta, avendo una concezione dialettica della società.

E' ovvio che oggi, come dicono alcuni, «non si riesce a vedere» come la rivoluzione possa vincere in Italia. Semplicemente perché, stante le condizioni di oggi, non può vincere. La politica rivoluzionaria è appunto la conduzione di un processo di trasformazione delle esistenti condizioni politiche in condizioni politiche nell'ambito delle quali la rivoluzione possa vincere. Se uno ci obiettasse che non si può masticare la farina di grano, gli risponderemmo che certamente è vero, ma che appunto per questo prima di masticarla la si impasta e se ne fa del pane (22).

 

(22) Altrettanto banale è l'obiezione che non è possibile la vittoria del proletariato in Italia se non vince contemporaneamente anche negli altri principali paesi europei, che è impossibile staccare l'Italia dalla catena imperialista.

 Certamente è così se si considerano le condizioni di oggi. Ma oggi neanche in Italia è all'ordine del giorno la rivoluzione; è all'ordine del giorno solo la conduzione, nei modi a noi più favorevoli, del processo di trasformazione delle condizioni attuali che sappiamo bene non essere ancora favorevoli alla vittoria della rivoluzione. E non è forse evidente che man mano che il nostro lavoro per trasformare le condizioni politiche in Italia avrà successo (e lo avrà perché è nel corso delle cose, se solo non ci rimettiamo a volerle incanalare in un corso diverso da quello loro proprio), proprio per gli stretti legami esistenti si modificherà anche la situazione politica degli altri paesi d'Europa e i legami stessi tra i vari paesi si modificheranno? Non sappiamo dire oggi come si modificheranno, che forma precisamente prenderanno. Ma è certo che si modificheranno. Nel senso che si creeranno condizioni per la vittoria della rivoluzione anche in altri paesi? Nel senso che la rivoluzione trionferà prima in altri paesi? Nel senso che gli Stati europei avranno ognuno talmente tanti problemi in casa propria da non essere in grado di intervenire all'estero? Nel senso che un intervento all'estero estenderà la guerra a vari paesi europei? Non lo sappiamo. Di sicuro anche l'evoluzione della situazione internazionale è una delle cose di cui dobbiamo tener conto nel lavoro per creare le condizioni per la vittoria della rivoluzione socialista nel nostro paese, che è poi un aspetto dell'internazionalismo proletario.

In realtà l'obiezione avanzata parte da una percezione giusta: la relativa unità mondiale creata nell'ambito del modo di produzione capitalista. Ma questo fatto ci porta, al contrario, a concludere che man mano che si crea una situazione rivoluzionaria in uno dei paesi imperialisti importanti, inevitabilmente il comune corso delle cose crea situazioni analoghe anche negli altri paesi imperialisti. E' solo la gravità e l'esito della crisi che possono differire da paese a paese, date le caratteristiche specifiche ancora esistenti dei movimenti dei singoli paesi in campo oggettivo e soggettivo. Ed è esattamente questo quello che ci mostra la storia delle società borghesi nella fase imperialista.

 

Il problema oggi non è se la rivoluzione può vincere, ma come si deve agire perché si attui il processo di formazione delle condizioni per la sua vittoria.

La relativamente breve e debole azione delle Brigate Rosse negli anni 70, nonostante l'inesperienza, la debolezza dell'impianto politico e gli errori di concezione e di linea, oltre ad impedire l'affermazione del «compromesso storico» determinò una serie di trasformazioni nelle strutture della classe dominante, nel suo modo di gestire il potere e in tutte le altre formazioni politiche. Basta pensare a:

- trasformazione delle strutture addette all'ordine pubblico e delle loro modalità operative,

- creazione di corpi militari speciali e di speciali servizi di spionaggio,

- creazione di magistrature speciali,

- mutamento della legislazione sulla residenza, sulla locazione e la vendita di immobili,

- mutamento delle procedure e dei regolamenti relativi al segreto bancario e in generale ai movimenti di denaro,

 - mutamento della legislazione relativa all'acquisto, possesso e porto di armi,

- mutamento delle competenze tra i vari organi statali,

- internazionalizzazione dell'attività di polizia politica e di magistratura speciale (spazio giuridico europeo),

- pubblicizzazione della dottrina della Sicurezza Nazionale, le leggi d'emergenza e le leggi antiterrorismo,

- difesa del movimento delle masse, che grazie all'azione delle Brigate Rosse poté in Italia svilupparsi più a lungo e più profondamente,

- ridimensionamento sulla scena politica dei gruppi opportunisti e dei gruppi parolai,

- compromissione palese dei revisionisti con lo Stato, perfino nelle loro strutture di base con il conseguente indebolimento delle stesse,

- difficoltà a cavalcare le tigre delle lotte rivendicative da parte dei revisionisti e dei riformisti.

Niente nella vita politica italiana è più stato come prima e ancora non è tornato ad essere come prima! Chi rimpiange i tempi della sottomissione sordida e della pace dei cimiteri, dello smarrimento tra le masse e dell'onnipotenza della borghesia e dell'imperversare di gruppetti velleitari, ha ben da piangere!

Solo degli ingenui possono non comprendere che le trasformazioni delle strutture di potere e del regime politico, anche quelle introdotte solo come mezzo per eliminare le Brigate Rosse, ledono in realtà anche interessi costituiti di alcune parti della classe dominante a vantaggio degli interessi di altre e diventano inevitabilmente terreno e strumenti impiegati dalle cosche della classe dominante nella loro lotta intestina e quindi elementi di sviluppo delle contraddizioni nella classe dominante e quindi di forza per noi, se imbocchiamo la strada giusta.

 

Se le Brigate Rosse avessero fatto il salto qualitativo necessario, forse avrebbero potuto impedire l'inizio del periodo di stabilizzazione del potere che si è avuta all'inizio degli anni 80 sotto Pertini e Craxi nell'ambito dell'alternanza alla direzione del governo. Ma sicuramente si sarebbe trattato solo di una piega diversa degli avvenimenti, di un corso diverso, non di uno sbocco immediato diverso, della «vittoria finale».

La nostra è una lotta di lunga durata e l'idea di aver avuto l'occasione e averla persa, di avere avuto la vittoria a portata di mano ed essersela lasciata scappare è solo frutto di una concezione primitiva e infantile del movimento della società imperialista e dei nostri compiti.

 

Quindi se guardiamo le possibilità oggettive dell'iniziativa di allora, dell'iniziativa della Brigate Rosse, è evidente che non esisteva alcuna possibilità di conquista del potere, di sviluppo continuo di quel movimento delle masse, di quel «ciclo di lotte» fino alla conquista del potere. Chi sostiene il contrario, deve di conseguenza sostenere che era giusta la decisione folle e fallimentare di passare alla «guerra dispiegata» e quindi non può che spiegare la sconfitta che ne è derivata con l'onnipotenza, l'invincibilità e la solidità del regime (e quindi prosternarsi davanti ad esso).

In realtà, come hanno detto gli autori di Politica e Rivoluzione, con la fine degli anni 70 è finito «il periodo dell'infanzia della lotta armata per il comunismo». Gli anni 70 non sono stati che l'inizio di un lungo cammino! Ed è del seguito di quell'inizio, del suo successo o del suo fallimento, che si decide ora, in questi anni.

Resterà un'esperienza chiusa, priva di continuità e di sviluppo, come lo fu la Resistenza (grazie  all'azione del gruppo dirigente del PCI e alla fase economica), o resterà nella storia come l'inizio di un percorso rivoluzionario, l'inizio della storia di un nuovo movimento rivoluzionario che si concluderà con il ribaltamento della situazione politica ed economica in Europa e di conseguenza nel mondo?

Questa è la posta in gioco oggi. Proprio per questo la borghesia nell'ambito della controrivoluzione preventiva ha oggi come obiettivo principale la spoliticizzazione della lotta armata. Proprio per questo vi è un'accesa e premiata corsa a soffocare quel germe: Curcio, Moretti, Balzerani in alleanza con Piccoli, Rossanda. La sproporzione tra l'entità delle organizzazioni combattenti residue e l'impegno di quei signori sull'argomento - soluzione politica - non è dovuta a passione maniacale. E' la conseguenza dell'importanza storica della posta in gioco. Alcuni borghesi ne sono consapevoli e sono disposti a premiare chi collabora a risolvere il loro problema. La "soluzione politica" non è volta principalmente, come lo furono il "pentimento" e la "dissociazione", a smantellare le organizzazioni combattenti ancora esistenti, alla vittoria militare su di esse. Non è un'operazione prevalentemente poliziesca in senso tradizionale. E' un'operazione poliziesca nel senso della controrivoluzione preventiva. E' volta ad impedire che i protagonisti di quell'iniziativa ne tirino le lezioni in senso rivoluzionario. Quindi anche l'opposizione a quella manovra, non sta fondamentalmente, e quindi non sta solo e neanche principalmente, nel serrare le fila e buttare fuori quelli che oscillano, ma sta nel tirare le lezioni che servono ad avanzare, a fare il salto al partito e nel farlo!

La crisi del movimento rivoluzionario è il travaglio di questo parto che si prolunga oltre ogni dire. Non altro! E' alla soluzione di questo problema che sono chiamati quanti sono fedeli alla causa del comunismo.


INDICE di Cristosforo Colombo - Capitolo 3 - I RISULTATI

Indice della letteratura comunista