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Capitolo II

Il movimento comunista in Italia

 

2.1. Bilancio dell’esperienza della lotta di classe nel nostro paese

 

2.1.1. Il presupposto e il contesto del movimento comunista in Italia

 

È proprio in Italia che incominciò a svilupparsi l’odierno modo di produzione capitalista che nel corso dei secoli si sarebbe esteso a tutta l’Europa e da essa al mondo. Esso prese il via dalla piccola produzione mercantile che viveva ai margini e nelle pieghe del mondo feudale, dalla ricchezza monetaria concentrata nelle mani del clero e dei signori feudali, dal lusso e dal fasto della Chiesa e delle corti feudali più avanzate. Già nel secolo XI Amalfi e altri comuni della penisola avevano sviluppato un’economia capitalista ad un livello relativamente alto. La forma principale del capitale era il capitale commerciale, che abbiamo già descritto nel capitolo 1.1.2. di questo MP. Lo sviluppo del modo di produzione capitalista proseguì da allora per alcuni secoli in varie parti della penisola.

Lo sviluppo del capitalismo è, in campo politico, alla base delle guerre che nei secoli XI-XVI imperversarono nella penisola, comportarono la rovina di molte famiglie e corti feudali e portarono nella penisola un colpo insanabile all’ordinamento feudale. In campo culturale è alla base della rigogliosa cultura del periodo e dell’influenza che per la seconda volta nella sua storia l’Italia ebbe in Europa e nel mondo.(78) La ragione alla base dei contrasti politici e culturali dei secoli XI-XVI è la lotta tra il nascente modo di produzione capitalista e il mondo feudale che opponeva una resistenza accanita, tanto più che esso trovava sostegno e alimento nelle relazioni con il resto d’Europa allora più arretrato. È solo alla luce di questa lotta che i vari episodi della vita politica e culturale dell’epoca cessano di essere una successione e una combinazione di eventi casuali e arbitrari ed emerge il nesso dialettico che li unisce.(79)

Il Papato è stato la causa principale per cui nella penisola non si è formata una vasta monarchia assoluta, quando esse si formarono nel resto d’Europa, nel corso dei secoli XV e XVI. Data la forza che allora aveva il Papato, era ancora inconcepibile un’unità statale della penisola costruita eliminando lo Stato Pontificio. D’altra parte né alle altre potenze europee né al Papato conveniva che la penisola venisse unificata politicamente sotto la sovranità del Papa. Per gli altri Stati europei era intollerabile uno Stato che combinasse l’autorità internazionale della corte pontificia con i mezzi politici ed economici di uno Stato comprendente l’intera penisola. D’altra parte per porsi alla testa di un vasto paese, comprendente regioni economicamente e intellettualmente già molto avanzate nello sviluppo borghese, il Papato avrebbe dovuto trasformarsi a somiglianza delle altre monarchie assolute. Questa trasformazione lo avrebbe coinvolto in un destino analogo a quello delle altre dinastie europee. Esso era incompatibile con il suo ruolo internazionale e con la sua natura intrinsecamente feudale.(80) Non a caso le iniziative prese dai Papi per porsi alla testa di una unificazione della penisola furono sporadiche e velleitarie.

Nella penisola la lotta tra il nascente modo di produzione capitalista e il vecchio mondo feudale ebbe una svolta nel secolo XVI. Con la Riforma protestante il Papato aveva e avrebbe perso il suo potere su vari paesi europei. Nella penisola con la Controriforma esso si mise con decisione alla testa delle altre forze feudali, uscì vincitore da una lotta accanita e impose un nuovo ordinamento sociale. In questo le istituzioni e le correnti borghesi venivano soffocate o mortificate e i residui feudali (in primo luogo il Papato) occupavano il posto di comando. Fu tuttavia impossibile cancellare tutto quello che era già avvenuto. Tanto più che gli elementi, le istituzioni e i portavoce dello sviluppo borghese nella penisola (delle relazioni commerciali, dell’economia monetaria, della ricerca scientifica, delle libertà individuali, ecc.) trovavano alimento nelle relazioni con il resto d’Europa oramai più avanzato. La Controriforma aspirava ad essere un movimento internazionale, quindi essa non poteva tagliare tutti i legami tra la penisola e il resto d’Europa. Il Papato stesso per trionfare aveva dovuto favorire l’intervento degli Stati europei nella penisola. Ma nel resto d’Europa l’influenza della Controriforma fu o nullo (nei paesi protestanti, ostili al Papato) o attenuato (dall’interesse delle monarchie assolute). Quindi lo sviluppo del capitalismo e della connessa società borghese continuò e mantenne la sua influenza sull’intera penisola. Anche qui quindi continuò, benché in condizioni diverse, la decadenza delle istituzioni e relazioni feudali. Essendo però esse alla direzione del paese, la loro decadenza determinò da allora la decadenza dell’intero paese, quella decadenza rispetto agli altri paesi europei da cui l’Italia non si riprese neanche con il “Risorgimento” nel secolo XIX e da cui non si è ancora ripresa (“imperialismo straccione”, “anomalia italiana”, ecc.).

Il sopravvento della Controriforma bloccò nella penisola lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Represse e in vari modi ridusse l’attività imprenditoriale della borghesia. La indusse a rinunciare in tutto o in parte agli affari e a trasformarsi in proprietaria terriera pur mantenendo la propria residenza nelle città. Con la riforma del clero e grazie anche alla scomparsa del ruolo politico proprio dei proprietari terrieri feudali, rafforzò l’egemonia della Chiesa sui contadini.(81) Stabilì in ogni classe il monopolio della Chiesa nella direzione spirituale delle donne e nell’educazione dei fanciulli. La separazione delle attività manifatturiere dall’agricoltura ad opera dei capitalisti venne interrotta. Le industrie che continuarono a sussistere e in alcuni casi anche, stentatamente, a svilupparsi, non ebbero come clienti i contadini che pur costituivano la stragrande maggioranza della popolazione. La separazione economica tra la campagna e le città venne accentuata. A grandi linee, nei tre secoli che seguirono, l’economia nella penisola risultò ovunque fondata su una massa di contadini tagliati fuori dall’attività mercantile: essi producevano in modo primitivo e nell’ambito di rapporti servili tutto quanto era loro necessario per vivere e quanto dovevano consegnare ai proprietari, al clero e alle Autorità. I proprietari terrieri, in gran parte cittadini, le Autorità e il clero, sia che consumassero direttamente sia che commerciassero nelle città o all’estero quello che estorcevano ai contadini, comunque lo scialacquavano parassitariamente.(82) Le città avevano già e conservarono un’abbondante popolazione. Essa era composta di servitori, impiegati, addetti ai servizi pubblici, poliziotti, soldati, fannulloni, ladri, prostitute, artigiani, intellettuali, artisti e professionisti che soddisfacevano, per lo più retribuiti in denaro, ai bisogni e ai vizi dei proprietari terrieri, delle Autorità e del clero. Le città, è in particolare il caso di Roma e Napoli, divennero quindi enormi strutture parassitarie: consumavano quello che il clero, i proprietari terrieri e le Autorità estorcevano ai contadini e non davano nulla in cambio ad essi. Politicamente l’Italia rimase divisa in vari Stati. Ognuno di essi divenne sempre più una versione arretrata e su scala minore delle monarchie assolute del resto d’Europa. Per tre secoli, dalla prima metà del secolo XVI alla prima metà del secolo XIX, la penisola venne dominata politicamente in successione dalla Francia, dalla Spagna e dall’Austria, a secondo degli equilibri che si formavano altrove tra le potenze europee.

L’Italia costituisce quindi un esempio storico di come, quando un paese ha sviluppato un modo di produzione superiore, se la lotta tra le classi che sono portatrici del vecchio e del nuovo modo di produzione non si conclude con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, essa si conclude con la comune rovina delle due classi.(83)

L’Italia come Stato unico e indipendente è stata creata poco più di 150 anni fa, tra il 1848 e il 1870, quando il regno dei Savoia venne esteso all’intera penisola. La borghesia che diresse l’unificazione ha dato il nome di “Risorgimento” a questo periodo e alla sua opera. Con questa pomposa denominazione essa ha preteso rappresentare nell’immaginaria resurrezione di una nazione che non era mai esistita, l’opera di costruzione di una nazione (“fare gli italiani”, disse realisticamente Massimo D’Azeglio) che non poteva compiere nella realtà perché avrebbe richiesto la mobilitazione della massa della popolazione.

Il movimento per l’unità e l’indipendenza fu effetto e riflesso dell’evoluzione generale dell’Europa, con cui la borghesia della penisola e i suoi intellettuali avevano mantenuto uno stretto legame, nonostante la Controriforma. In particolare fu un aspetto del movimento messo in moto dalla Rivoluzione francese del 1789 e culminato nella Rivoluzione europea del 1848. Questa diede infatti il via all’unità e all’indipendenza dell’Italia e della Germania, i paesi sede delle due istituzioni politiche più tipiche del mondo feudale europeo: il Papato e il Sacro Romano Impero Germanico.

Alla metà del secolo XIX il modo di produzione capitalista si era già pienamente sviluppato in Inghilterra, in Belgio, in vaste zone della Francia e altrove. Aveva eretto l’attività industriale a settore economico autonomo dall’agricoltura e ne aveva fatto il centro della produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza della società. Esso aveva conquistato in qualche misura anche l’agricoltura, aveva già chiaramente sviluppato l’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia e iniziava già ad entrare nell’epoca imperialista.

Quale era nella penisola la posizione delle varie classi rispetto al processo a cui il movimento europeo la spingeva? L’unificazione politica della penisola e lo sviluppo capitalista della sua economia comportavano per forza di cose l’abolizione dello Stato Pontificio e quindi comunque andava a danno del clero e del resto delle forze e istituzioni feudali. Ma l’ostacolo non era più insormontabile. Il Papato era arrivato al fondo della sua decadenza. Il sostegno delle potenze europee gli era venuto in gran parte meno. Il resto delle istituzioni feudali aveva seguito il Papato nella sua decadenza. Non poche delle residue famiglie nobili erano già assimilate alla borghesia o subordinate ad essa da ipoteche e da altri vincoli. La borghesia italiana non poteva restare estranea al movimento europeo che a prezzo dei propri interessi, lesi dalla borghesia dei paesi vicini che era già entrata in una fase di espansione oltre i propri confini nazionali. La borghesia aveva quindi tutto da guadagnare dall’unificazione e dall’indipendenza, ma il sistema sociale fissato dalla Controriforma contrapponeva direttamente gran parte di essa ai contadini. La variopinta popolazione delle città dipendeva economicamente dal parassitismo delle classi dominanti: era quindi incapace di un movimento politico proprio. Il proletariato nel senso moderno del termine era ancora debole numericamente e ancora di più politicamente: era quindi escluso che esso prendesse la direzione del movimento. A Milano, dove era più sviluppata, la classe operaia fu la forza principale della rivoluzione del 18 marzo 1848, fece le barricate e pagò di persona, ma fu la borghesia a raccogliere i frutti anche di quella rivoluzione. Per i contadini, che nel secolo XIX costituivano ancora gran parte della popolazione della penisola, i problemi prioritari erano il possesso della terra e l’abolizione delle residue angherie feudali. Essi erano però dispersi, disponibili a lasciarsi trascinare in rivolte ogni volta che altri ne creavano l’occasione, ma costituzionalmente incapaci di elaborare una direzione loro propria indipendente dal resto della borghesia e dal clero.

Il risultato di questi contrastanti interessi di classe fu che il movimento per l’unificazione e l’indipendenza della penisola fu diretto dall’ala conservatrice della borghesia, i moderati della Destra capeggiati da Cavour sotto la bandiera della monarchia dei Savoia. Essa riuscì a far lavorare al proprio servizio anche l’ala rivoluzionaria e popolare della borghesia, la Sinistra i cui esponenti più illustri furono Mazzini e Garibaldi. Questa infatti non volle mettersi alla testa dei contadini. Il movimento dei contadini per la terra e per l’abolizione rivoluzionaria delle residue angherie feudali cercò di farsi strada nel corso della lotta per l’unificazione politica della penisola, ma fu schiacciato proprio dalla borghesia in lotta per l’unificazione e l’indipendenza della penisola.

A causa del suo contrasto di interessi con i contadini, la borghesia unitaria dovette rinunciare a mobilitare la massa della popolazione della penisola a migliorare la proprie condizioni materiali, intellettuali e morali. Rinunciò quindi anche a stabilire la sua egemonia, la sua direzione morale e intellettuale sulla massa della popolazione. Quella riforma morale e intellettuale di massa tuttavia era necessaria per un rigoglioso sviluppo del modo di produzione capitalista. Ma il proposito di realizzarla si ridusse a tentativi e sforzi velleitari di gruppi borghesi marginali. Solo la mobilitazione in massa della popolazione a migliorare le proprie condizioni poteva infatti creare una nuova morale indipendente dalla religione, che traesse i suoi principi, i suoi criteri e le sue regole dalle condizioni pratiche di esistenza delle masse stesse. La storia unitaria del nostro paese è segnata in ogni aspetto da questo sviluppo, nel Meridione e nelle zone montane del Centro e del Nord più che altrove. Fu il nascente movimento comunista, con le sue leghe, le sue mutue, le sue cooperative, i suoi circoli, i suoi sindacati, le sue camere del lavoro, il suo partito che, dall’epoca del Risorgimento in poi, assunse il ruolo di promotore dell’iniziativa pratica delle masse popolari e quindi anche della loro emancipazione da una concezione superstiziosa e metafisica del mondo e della loro emancipazione da precetti morali che derivano da condizioni sociali di altri tempi. Un po’ alla volta si formò un’avanguardia di lavoratori. Essi, man mano che si liberavano dalla melma del passato (sostenuta dalla forza e dal prestigio dello Stato, della Chiesa e delle altre Autorità e organizzazioni parallele della classe dominante), con limiti, errori ed esitazioni ma anche con tenacia, eroismo e continuità, anziché usare la propria liberazione in termini di emancipazione e carriera personali, si organizzarono per moltiplicare le loro forze e diffondere più ampiamente la riforma intellettuale e morale necessaria per porre fine alla decadenza inaugurata dalla Controriforma. Tale riforma infatti è oramai anche la riforma necessaria per uscire dal marasma in cui la dominazione della borghesia imperialista ha condotto anche il nostro paese, per costruire un’Italia comunista.

Dovendo ribadire l’asservimento e sfruttamento della massa dei contadini, la borghesia unitaria dovette appoggiarsi alla Chiesa che da tempo assicurava le condizioni morali e intellettuali di quell’asservimento ed evitava quindi che fosse necessario ricorrere ad ogni passo alle costrizioni delle armi e degli altri mezzi coercitivi statali. La borghesia ridusse al minimo indispensabile le trasformazioni che impose alla Chiesa. Assunse la difesa di gran parte degli interessi e privilegi del clero e pagò in varie forme un riscatto per quelli che per forza di cose dovette abolire. Assicurò inoltre ai funzionari, ai notabili e ai dignitari dei vecchi Stati il mantenimento degli appannaggi, dei privilegi e in molti casi anche dei ruoli di cui i vecchi governi li avevano dotati. Accollò al nuovo Stato persino i debiti contratti dagli Stati soppressi. Infine dove, con il concorso della Chiesa e con le forze ordinarie del suo Stato non poteva assicurare la repressione dei contadini, delegò forze armate locali (mafia siciliana e organismi affini) a condurla sotto l’alta protezione e supervisione del suo Stato.(84)

Riassumendo, a causa del suo contrasto di interessi con i contadini, la borghesia unitaria non poteva spazzare via le residue forze feudali: il Papato, la sua Chiesa, la monarchia, i grandi agrari latifondisti e le restanti istituzioni, sette, ordini, congregazioni e società segrete del mondo feudale. Essa optò per la loro integrazione graduale nella nuova società borghese. Così infatti avvenne. Ma esse, integrandosi, hanno a loro volta marcato e inquinato permanentemente i più importanti aspetti politici, economici e culturali della formazione economico-sociale borghese italiana. I borghesi italiani sono rimasti a metà strada tra il loro ruolo di “funzionari del capitale”, protesi a investire il profitto estorto ai lavoratori per aumentare ulteriormente la produzione e le abitudini del clero e delle altre classi dominanti feudali protesi ad usare per il proprio lusso e sfarzo quanto estorcevano ai lavoratori. Questo è il fondamento della “anomalia italiana”, di ciò che di specifico la borghesia italiana presenta rispetto alla borghesia degli altri paesi europei: la sua tanto lamentata scarsa propensione all’investimento produttivo, alla ricerca, al rischio, ecc.(82)

Il Risorgimento fu quindi un movimento anticontadino. I contadini, cioè la stragrande maggioranza dei lavoratori della penisola, non solo non ebbero né la terra né l’abolizione delle residue angherie feudali, ma dovettero sobbarcarsi, oltre agli obblighi verso i vecchi proprietari, anche i nuovi oneri imposti dal nuovo Stato: imposte e servizio militare. Di conseguenza il Risorgimento tra i contadini generò uno stato endemico di ribellione. Essi per anni formarono ovunque una massa di manovra per quanti nelle fila della nobiltà e del clero si opponevano all’unificazione della penisola o, più concretamente, ricattavano le Autorità del nuovo Stato con la minaccia di mobilitare i contadini contro di esse.(85) Questo ruolo dei contadini venne meno solo quando e nella misura in cui la classe operaia stabilì la propria direzione sul loro movimento di ribellione alle condizioni intollerabili in cui la borghesia unitaria li aveva ridotti e lo integrò nel movimento comunista.

Il Risorgimento non fu direttamente una rivoluzione nei rapporti sociali. Esso però instaurò nella penisola un diverso assetto politico (l’unificazione politica) e determinò un diverso inserimento di essa nel contesto politico ed economico europeo. La borghesia unitaria diede il via a una serie di trasformazioni e di opere (rete di comunicazione stradale e ferroviaria, sistema scolastico nazionale, forze armate e di polizia, sviluppo industriale e scientifico, sistema ospedaliero e di igiene pubblica, lavori pubblici, apparato e spese di rappresentanza dello Stato, ecc.) che modificarono i rapporti di produzione che la Controriforma aveva fissato. Con il rafforzamento generale delle relazioni commerciali e capitaliste e con l’espansione dei lavori pubblici, il mercato delle terre ebbe grande impulso. La terra divenne un capitale e il suo rendimento venne confrontato con quello dei capitali investiti negli altri settori.(86) Questo e lo sviluppo degli scambi interni e internazionali trasformarono sempre più i rapporti nelle campagne tra proprietari e contadini in rapporti mercantili e capitalisti. L’espulsione in massa dei contadini dal lavoro agricolo che ne seguì, il reclutamento di contadini per i lavori pubblici, l’emigrazione all’estero, lo sviluppo industriale nelle città del Nord e le migrazioni interne cambiarono la composizione di classe del paese.

Non solo quindi le masse contadine non furono mobilitate per trasformare la propria condizione, ma esse subirono, con tribolazioni e sofferenze inenarrabili, la trasformazione che la borghesia imponeva ad esse con la forza dei propri rapporti economici e del proprio Stato. L’Italia divenne comunque un paese imperialista. Da allora parlare di “completamento della rivoluzione borghese” in Italia, in senso diverso da quello che vale per ogni altro paese europeo, e andare a pescare i “residui feudali” per sostenere tale linea, è diventata una bandiera dell’opportunismo rinunciatario dell’unica ulteriore trasformazione che il movimento comunista poteva e doveva compiere nel nostro paese: la rivoluzione socialista.(87)

La rivoluzione borghese anticontadina è la causa della nascita della “questione contadina”. Questa venne risolta solo nei venti anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con l’eliminazione dei contadini. Ma è la causa anche della nascita della “questione meridionale”, della “questione vaticana”, del ruolo politico e sociale di organizzazioni armate territoriali semiautonome dallo Stato centrale come la mafia siciliana e di altre caratteristiche specifiche della borghesia italiana che perdurano tuttora.

 

2.1.1.1. La rivoluzione borghese incompiuta

Con l’unificazione la borghesia mantenne in vita molte delle vecchie istituzioni, relazioni e abitudini feudali col loro localismo, accontentandosi di sovrapporre ad esse gli organismi del nuovo Stato. Esse furono solo gradualmente assorbite nella nuova società borghese. Quindi venne conservata a lungo la diversità sociale delle varie regioni ed in parte essa permane tuttora benché nei venti anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la massa dei contadini sia stata cacciata dalle campagne e milioni di persone siano state costrette a migrare dal Sud al Nord e dal Nord-Est al Nord-Ovest. Qui sta il motivo per cui in Italia i contrasti tra classi e i contrasti tra settori produttivi sono ripetutamente diventati contrasti territoriali e hanno messo in pericolo l’unità dello Stato (movimenti federalisti e secessionisti). La questione della grande industria è stata per decenni principalmente la questione della Lombardia, del Piemonte e della Liguria; la questione della piccola e media impresa è stata principalmente la questione del Veneto e dell’Emilia-Romagna; la questione del latifondo, della piccola produzione col suo variopinto mondo di padroncini, lavoratori autonomi e dipendenti, del semiproletariato e del pubblico impiego è stata principalmente la questione delle regioni meridionali.(88) I caratteri specifici delle singole regioni e zone in parte permangono e il movimento comunista deve tenerne il debito conto, oggi nella lotta per instaurare il socialismo e domani nell’ordinamento che la rivoluzione socialista instaurerà. In particolare dobbiamo appoggiare e favorire in linea di massima i movimenti nazionali (Sardegna, Sud Tirolo, ecc.): indipendentemente dalla capacità delle piccole nazioni di assurgere effettivamente a vita autonoma, il loro movimento è oggi un aspetto importante della lotta delle masse popolari contro la borghesia imperialista per la difesa e l’ampliamento dei loro diritti democratici.

 

La Chiesa fu la maggior beneficiaria del carattere anticontadino del Risorgimento. La borghesia non condusse con energia, e data la sua natura non poteva condurre con successo, un’attività per eliminare o almeno ridurre l’egemonia morale e intellettuale che la Chiesa aveva sui contadini, sulle donne e su una parte della popolazione urbana. La sua iniziativa fu pressoché nulla sul piano morale, del comportamento individuale e sociale, per promuovere una morale adeguata alle condizioni della società moderna. La borghesia rinunciò a formulare e promuovere in termini di morale (di principi e norme di comportamento individuale) il complesso di relazioni sociali (della società civile) che il suo Stato tutelava con la violenza ed esprimeva in termini giuridici nella sua legislazione. Il poco che la borghesia fece con la scuola pubblica, ebbe effetti limitati perché riguardò solo la scuola frequentata da una minoranza delle nuove generazioni. L’analfabetismo, l’influenza della Chiesa nelle scuole inferiori specialmente nelle campagne e la permanenza di un diffuso sistema di collegi e scuole gestito dal clero prolungarono l’egemonia della Chiesa nella formazione intellettuale e morale delle nuove generazioni. Lo Stato si limitò a formare i candidati allo strato superiore della classe dominante: esso per forza di cose, per essere per quanto poco all’altezza dei suoi compiti, doveva avere una formazione intellettuale e morale diversa da quella che tramite la Chiesa la borghesia imponeva alle classi delle masse popolari e in generale alle donne.

Non solo mancarono del tutto nel Risorgimento e nei decenni successivi la mobilitazione in massa della popolazione per migliorare le proprie condizioni economiche, l’istruzione, le condizioni igieniche e sanitarie, ecc. e per promuovere tutti gli altri aspetti dell’iniziativa di massa che solo una rivoluzione contadina e la fiducia in se stessi confortata dai risultati avrebbero sviluppato in milioni di individui. Ma vi fu addirittura lo sforzo congiunto della Chiesa, dello Stato e di gran parte della classe dominante per mortificare, reprimere e scoraggiare l’iniziativa pratica e, a monte, l’emancipazione morale e intellettuale della massa degli uomini e delle donne. L’emigrazione dalla campagna nelle città venne sistematicamente usata per rafforzare l’egemonia ecclesiastica anche nelle città: le parrocchie sfruttarono il loro ruolo di ufficio di collocamento per estendere il controllo ecclesiastico sugli operai e gli altri lavoratori delle città.

La lotta della borghesia per un generale rinnovamento morale e intellettuale del paese si ridusse a iniziative private scoordinate e in gran parte settarie ed elitarie, idealiste perché prescindevano dal movimento pratico che solo avrebbe potuto farle diventare iniziative di massa.(89) Nella società borghese su una concezione del mondo e un programma politico è possibile costruire un partito. Le masse popolari è possibile mobilitarle e unirle solo in un movimento pratico, per un obiettivo pratico, quale appunto sarebbe stato il miglioramento delle loro condizioni tramite la conquista della terra e l’eliminazione rivoluzionaria delle residue angherie feudali, obiettivo che l’ala sinistra della borghesia unitaria non seppe fare proprio.(90)

Si aggiungono a tutto ciò la duratura contrapposizione che allora si instaurò e si mantenne poi tra la massa della popolazione e le Autorità del nuovo Stato che si presentavano solo o principalmente nei panni del carabiniere, dell’esattore d’imposte o dell’usciere, il servizio militare obbligatorio al servizio di uno Stato nemico imposto dopo l’Unità, l’azione di sobillazione e boicottaggio promossa a lungo dalla Chiesa e dagli altri gruppi antiunitari di cui la borghesia aveva rispettato per intero il potere sociale (ricchezza, prestigio e spesso anche cariche pubbliche). In particolare la Chiesa da una parte ottenne ricchezze, privilegi e potere dal nuovo Stato e dall’altra si atteggiò a protettrice e porta voce delle masse popolari di fronte alle Autorità del nuovo Stato in una posizione sistematica di ricatto.

La legislazione del nuovo Stato e ancor più la sua applicazione e l’attività pratica delle Autorità del nuovo Stato e della sua Pubblica Amministrazione tutelarono gli interessi della Chiesa e sostennero la sua integrazione nelle nuove condizioni della ricchezza del paese. La Chiesa e la sua “aristocrazia nera” romana trasformarono, alle condizioni dettate da loro stesse, le loro proprietà terriere ed immobiliari tradizionali in nuova ricchezza finanziaria.

 

La scarsa disponibilità di capitali per investimenti è stata un lamento che ha accompagnato tutta la storia del nostro paese dopo l’Unità e che gli storici borghesi, clericali e no, hanno riversato, compiacenti, nei loro trattati di storia a giustificazione della persistente miseria di tanta parte della popolazione e della subordinazione economica e politica dell’Italia alla borghesia tedesca, francese e inglese. In effetti i capitalisti imprenditori e persino lo Stato dovettero largamente ricorrere a banche di prestito e d’investimento straniere e alle Borse estere per finanziare gli investimenti e la Spesa Pubblica. In realtà, quando iniziò il Risorgimento, l’economia monetaria era già molto sviluppata in Italia e la ricchezza monetaria del paese era abbondante e concentrata. Ma essa fu usata solo in misura minima per investimenti capitalisti. Proprio il carattere anticontadino del Risorgimento impedì che si creassero le condizioni di classe e politiche necessarie perché la ricchezza monetaria del paese si incanalasse verso lo sviluppo economico e civile del paese e perché l’imposizione fiscale fosse trasparente, equamente ripartita e all’altezza delle spese della Pubblica Amministrazione. I proprietari terrieri continuarono fino al secondo dopoguerra a spremere ai contadini le rendite e le prestazioni personali che avevano spremuto prima dell’Unità. Ma che fine facevano queste rendite? Per la gran parte, e la Chiesa era l’esempio più macroscopico, i proprietari terrieri non erano capitalisti che investivano in imprese industriali quello che spremevano ai contadini. Erano parassiti che continuavano a scialacquare come avevano fatto prima dell’Unità, nelle città o all’estero. La speculazione finanziaria, l’usura, la speculazione fondiaria ed immobiliare, gli investimenti finanziari all’estero, la tesaurizzazione, le spese per il consumo, il lusso e lo sfarzo dei ricchi e la magnificenza della Chiesa e delle pubbliche Autorità, le loro spese di rappresentanza e di prestigio continuarono ad assorbire larga parte della ricchezza monetaria e delle forze lavorative del paese, così come, parallelamente, la retorica, la teologia e l’arte degli azzeccagarbugli continuarono ad assorbire larga parte delle sue energie intellettuali.

La Chiesa rimase il centro promotore e la fonte principale del parassitismo della classe dominante che, attraverso mille canali e capillari, ha inquinato nei 150 anni di storia unitaria e ancora oggi inquina tutto il paese, assorbe tanta parte delle sue forze produttive, occupa tanta parte della sua forza-lavoro e impone la sua ombra e impronta malefiche e detta la sua legge ovunque nel nostro paese. Non a caso in Italia la beneficenza, i favori e le elemosine sono sempre stati e sono in proporzione inversa ai diritti delle masse popolari e ai salari. È il “conservatorismo benevolo”: i lavoratori sono alla mercé del buon cuore dei ricchi, i ricchi non devono esagerare – la cultura feudale a cui la Chiesa ha messo il vestito della festa: la dottrina sociale della Chiesa! Il pizzo che la mafia e altre organizzazioni criminali pretendono, non è che la loro forma specifica di questo stato generale di sfruttamento parassitario che è oramai confluito nel generale parassitismo della borghesia imperialista.(91)

Anziché attingere risorse finanziarie per lo sviluppo dalle sacche di parassitismo che aveva trovato fino a prosciugarle, la borghesia unitaria ampliò la Spesa Pubblica per finanziare e allargare il vecchio parassitismo che divenne una nuova piaga. Queste spese si aggiunsero a quelle che il nuovo Stato dovette fare per creare le condizioni di uno Stato moderno, indipendente e con un minimo di autorità nel contesto europeo e le accrebbero: basta anche solo considerare la pletora di ufficiali di grado superiore e di funzionari pubblici invalsa già nei primi anni del Regno, dato che questi assorbì gran parte della burocrazia e delle forze armate degli Stati soppressi.

Assieme, gli oneri ereditati e i nuovi, gonfiarono enormemente la Spesa Pubblica. Vennero corrispondentemente elevate le imposte che nei primi decenni colpivano principalmente i contadini. Queste e il servizio militare obbligatorio accrebbero ulteriormente la loro ostilità verso il nuovo Stato. Crearono un terreno più favorevole alle manovre e ai ricatti delle forze antiunitarie, in primo luogo del Papa e della Chiesa che pure erano i massimi beneficiari della politica della borghesia unitaria. L’ostilità dei contadini, frutto delle condizioni oggettive e aggravata dalla sobillazione delle vecchie Autorità e in particolare della Chiesa, rese necessarie ulteriori spese per l’ordine pubblico (basti pensare al costo della guerra al “brigantaggio”) e la sicurezza nazionale.

 

Un altro lamento che ha accompagnato tutta la storia del nostro paese dopo l’Unità e che gli storici borghesi, clericali e no, compiacenti hanno riversato nei loro trattati di storia è la ristrettezza del mercato interno. Ma quale fu la fonte di tale ristrettezza?

I contadini furono ancora per molti decenni dopo l’Unità, fino al secondo dopoguerra, la maggioranza della popolazione. Essi furono oberati oltre ogni limite immaginabile dalle vecchie rendite e dalle nuove imposte. Il carico complessivo all’incirca raddoppiò con l’Unità, secondo valutazioni attendibili.(92) La situazione dei contadini fu aggravata dal fatto che ad un certo punto lo Stato, per incassare quel denaro che non aveva la forza di prendere ai ricchi come imposte, mise all’asta e svendette le terre demaniali e dei conventi, sopprimendo senza alcun indennizzo gli “usi civici” (pascolo, legnatico, ecc.) di cui i contadini da tempi immemori godevano su questi terreni. Gli usi civici, assieme alle mense dei conventi, erano state fonti dalle quali la massa dei contadini, in particolare i più poveri e tanto più nelle annate peggiori, aveva fino allora tratto di che sopravvivere.

È quindi ovvio che in queste condizioni i contadini non comperavano né attrezzi agricoli e beni strumentali per migliorare la produttività del loro lavoro né beni di consumo. Si accontentavano di poco e quel poco cercavano di produrlo direttamente essi stessi (economia naturale). Da qui la causa prima della ristrettezza del mercato interno.

Infatti il mercato interno era costituito 1. dalla domanda dei capitalisti per investimenti e dalla Spesa Pubblica per acquisto di merci, 2. dalla domanda dei capitalisti e delle classi parassitarie per i loro consumi, 3. dalla domanda di beni di consumo e di attrezzi da parte delle famiglie e dei lavoratori urbani, 4. dalla domanda di beni di consumo e di attrezzi da parte delle famiglie contadine. Il capitale si crea parte del suo mercato proprio scorporando dall’agricoltura le attività manifatturiere ausiliarie e complementari (filatura, tessitura, produzione di attrezzi, edilizia, lavorazione dei prodotti agricoli, ecc.) che nell’ambito di una economia naturale le famiglie contadine svolgono per sé e per i loro padroni ed erigendole in settori produttivi a se stanti dell’economia mercantile e capitalista che vendono i loro prodotti l’uno all’altro e alle famiglie contadine (divisione sociale del lavoro). Questa ultima quota del mercato interno era particolarmente importante per il capitalismo italiano postunitario perché le prime due quote per la loro natura e per lunga tradizione erano in larga misura soddisfatte dall’offerta dei paesi più progrediti d’Europa. Per di più il ruolo del mercato interno venne accresciuto dal fatto che subito dopo il compimento dell’Unità d’Italia incominciò la Grande Depressione (1873-1895) con il connesso ristagno o addirittura riduzione del mercato estero.

 

2.1.1.2. Lo Stato a sovranità limitata 

Il nuovo Stato non affermò mai pienamente la sua sovranità unica su tutta la popolazione vivente nei suoi confini, benché questa godesse di poca o nessuna autonomia locale. Né ebbe mai la volontà di instaurare la sua sovranità unica né la fiducia di avere la forza per farlo. Nel Centro e nel Nord del paese il nuovo Stato assunse in proprio l’esercizio della violenza, la repressione e la tutela dell’ordine pubblico e contò sulla Chiesa che teneva a bada i contadini e le donne su cui essa esercitava una efficace direzione intellettuale e morale. Nel Meridione la direzione intellettuale e morale della Chiesa sui contadini era meno forte. Qui lo Stato sostenne zona per zona la forza sociale capace di tenere a bada con mezzi propri i contadini, di dettare la legge e le regole e di farle osservare. Ovviamente dovette acconsentire a che ognuna di esse dettasse la sua propria legge e le sue proprie regole e le facesse rispettare a suo modo, sia pure nell’ambito di un certo riconoscimento di una certa supremazia dello Stato.(93)

La Chiesa è stata la causa principale e il maggiore beneficiario anche della limitazione della sovranità del nuovo Stato. Già al compimento dell’Unità la borghesia riconobbe alla Chiesa e si impegnò pubblicamente e per legge a rispettare esenzioni, immunità e l’extraterritorialità. Con la legge delle Guarentigie (1871) il nuovo Stato lasciò al Papa e si impegnò a non esercitare in alcun caso e in alcun modo la sua autorità (giudiziaria, di polizia, doganale, militare, fiscale, ecc.) su una parte della città di Roma e sui rapporti che il Papa e la sua corte tenevano con il clero italiano e con l’estero. Mise inoltre a disposizione insindacabile del Papa 50 milioni di lire all’anno, più delle imposte che il Papa ricavava dallo Stato Pontificio.(94)

 

Di fatto la Chiesa, con il Papa alla testa, continuò a funzionare in tutto il paese come un potere sovrano, uno Stato nello Stato, con la sua rete di funzionari (sostanzialmente sottratti all’autorità dello Stato) che dal centro copriva tutto il paese, fino al più remoto villaggio. Ebbe inoltre il vantaggio che ora erano la polizia, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria del nuovo Stato, operanti sull’intera penisola, che facevano rispettare i suoi interessi, il suo potere, le sue speculazioni e il suo prestigio e ne assumevano la responsabilità presso le masse popolari. I funzionari della Chiesa erano selezionati, formati, nominati e dimessi su insindacabile giudizio del Papa o di funzionari superiori (vescovi) da lui delegati allo scopo. Essi però godevano delle rendite dei beni diocesani e parrocchiali, di edifici pubblici e di altre prerogative e poteri sulla popolazione (battesimi, matrimoni, funerali, ecc.). Il nuovo Stato si accontentò di stabilire che per godere dei benefici, dei poteri e delle immunità, garanzie, protezioni ed esenzioni tutelati dalle Autorità del nuovo Stato, i funzionari superiori (i vescovi) nominati dal Papa dovevano avere anche il benestare dello Stato: cosa che di fatto per tacito accordo lo Stato non fece mai mancare. La Chiesa, se da una parte faceva la fronda, dall’altra esigeva sempre di più dallo Stato, minacciando di fare peggio (nei suoi intrighi internazionali e nella sobillazione dei contadini e delle donne) e facendo leva sulla soggezione morale e la paura che essa incuteva alla Corte e alla maggior parte dei più alti esponenti della classe dirigente. Questa era infatti in larga misura composta da pie persone su cui la minaccia della scomunica, delle pene dell’inferno domani nell’aldilà e delle maledizioni di Dio subito qui in terra aveva un grande effetto. Forte di questa situazione, la Chiesa, la “aristocrazia nera” romana, parenti e uomini di fiducia del Papa e degli altri esponenti della Curia di Roma parteciparono, per conto proprio e per conto della Chiesa, al “sacco di Roma” (la speculazione sui terreni e sugli immobili) che ebbe luogo nei decenni dopo l’Unità e alla speculazione finanziaria i cui scandali da allora hanno ripetutamente sconvolto il sistema finanziario e bancario dell’intero paese, fino ai recenti affari Sindona (Banca Privata Italiana), Calvi (Banco Ambrosiano), Parmalat, Fazio. Queste attività della Chiesa non ebbero e non hanno effetti solo finanziari. Esse paralizzarono il sistema giudiziario dello Stato, che deve arrestarsi ogni volta che va a sbattere su esponenti o mandatari della Chiesa. Limitarono il potere legislativo dello Stato, che deve contenersi ogni volta che le disposizioni toccano interessi della Chiesa – che sono presenti in ogni campo. Condizionarono gli apparati investigativi e polizieschi dello Stato. Accrebbero il segreto di cui la borghesia già di per sé circonda l’attività del suo Stato e della sua Pubblica Amministrazione. Gettarono un’ombra sull’affidabilità dell’intero sistema finanziario e statale italiano e ne sminuirono il ruolo nel sistema capitalista internazionale. Cose di cui ovviamente hanno approfittato e approfittano tutti gli avventurieri nazionali e stranieri che hanno interesse a farlo.

La situazione di doppia sovranità (o di sovranità limitata) determinata dalla sopravvivenza della Chiesa ha contribuito a conservare e a creare altri poteri sovrani nel paese. Il più noto tra quelli di antica data, a parte la Chiesa, è la mafia siciliana. Al momento dell’unificazione della penisola essa rimase un potere, di fatto riconosciuto e delegato dallo Stato italiano, nella zona occidentale della Sicilia. Successivamente allargò il suo terreno d’azione negli USA, in Italia e in altri paesi. Dalla situazione di sovranità limitata in cui è lo Stato italiano dalla sua nascita, trae origine la situazione attuale. Sotto l’apparente sovranità ufficiale dello Stato italiano, in Italia esistono zone territoriali e relazioni sociali in cui non vale la sua legge. Operano una serie di poteri sovrani, indipendenti dallo Stato italiano. Ognuno di essi detta le sue regole e dispone di mezzi propri per imporre la sua volontà ed esercita un’influenza extralegale sulle Autorità dello Stato e sulla Pubblica Amministrazione. Questa è ampiamente infiltrata da ognuno dei poteri sovrani. Ognuno di essi dispone di uomini che gli devono la loro carriera e il loro ruolo nella Pubblica Amministrazione. Questi operano quindi nella Pubblica Amministrazione e per conto di essa, ma secondo le direttive di un potere che non porta ufficialmente responsabilità alcuna delle operazioni e dei comportamenti che esso comanda. Il Vaticano è il principale di questi poteri. Nel nostro paese oggi non c’è angolo o ambiente in cui esso non possa raccogliere informazioni ed esercitare la sua influenza. Esso ha nel paese un’influenza ben più capillare, efficace e centralizzata di quella dello Stato ufficiale. Per di più, può avvalersi di gran parte della struttura dello Stato e della Pubblica Amministrazione. Al Vaticano seguono gli imperialisti USA (direttamente e tramite la NATO), i gruppi sionisti, la mafia, la camorra, la n’drangheta e altri gruppi della criminalità organizzata e quanti altri hanno la volontà e i mezzi per approfittare della situazione. Le vicende della Loggia P2 hanno mostrato uno dei modi per farlo.

La doppia sovranità Stato/Chiesa sulla penisola ha tuttavia un carattere particolare. Essa ha creato un regime unico nel suo genere. La sua particolarità consiste nel fatto che in Italia la Chiesa non è una religione. La religione è solo il pretesto e la veste ideologica di una struttura politica monarchica feudale. Questa ha a Roma e in ogni angolo del paese dirigenti nominati dal monarca. Essi sono selezionati in funzione della loro fedeltà al capo, giurano fedeltà a lui, le fortune e il ruolo di ognuno di essi dipendono dalla insindacabile volontà del monarca il cui potere è assoluto e si pretende di origine divina. Ai suoi fedeli la Chiesa domanda fedeltà e obbedienza. Le loro opinioni e la loro esperienza non decidono dell’orientamento dell’attività della Chiesa: al contrario esse devono adeguarsi alle decisioni della Chiesa. Le sue direttive sono insindacabili e pretendono addirittura di godere di un’autorità divina. Essa e il suo capo assoluto, il Papa, formano il governo supremo di ultima istanza dell’Italia. Essa non annuncia né programmi né orientamenti né presenta alcun bilancio del suo operato, perché sul suo operato essa non riconosce al popolo italiano alcun diritto di voto e nemmeno d’opinione. Questo governo, occulto e irresponsabile, dirige però il paese attraverso una struttura statale che pretende essa di essere, come in ogni repubblica borghese costituzionale, legittimata dalla volontà popolare e di avere alla sua testa un Parlamento e un governo che devono essere sanzionati dal voto popolare. Ufficialmente questa struttura è l’unico Stato. A differenza di ogni altra monarchia costituzionale, i confini delle competenze tra lo Stato costituzionale e la Chiesa sono arbitrariamente, insindacabilmente e segretamente decisi dalla Chiesa caso per caso. Proprio questo conferisce a tutto il regime una certa dose di precarietà, ma anche quella flessibilità che consente rapporti di unità e lotta con tutti gli altri poteri autonomi che hanno piede nel paese. Un simile regime non è descritto in nessun manuale di dottrine politiche, ma non per questo esso è meno reale ed è quello con cui il movimento comunista deve fare i conti nel nostro paese. La storia della sua formazione ha attraversato cinque fasi diverse.

 

Fase 1

La borghesia ha condotto il Risorgimento con l’intenzione di creare un suo Stato, ma riconoscendo che per governare aveva bisogno della collaborazione della Chiesa, stante l’ostilità dei contadini. Oggetto del contendere era la delimitazione dei poteri tra le due istituzioni. Si ebbe allora una fase di guerra non guerreggiata, di armistizio Stato/Chiesa, riassunta per quanto riguarda lo Stato nella Legge delle Guarentigie e per quanto riguarda la Chiesa nella linea del “non expedit”(95) Questa fase va all’incirca dal 1848 al 1898. Nella borghesia hanno ancora un certo peso le correnti che vorrebbero promuovere una propria diretta egemonia sulle masse popolari e disfarsi della Chiesa. Il distacco tra l’ala sinistra della borghesia unitaria e il nascente movimento comunista italiano non è ancora netto. La borghesia lascia alla Chiesa il tempo e le condizioni per riorganizzare le sue forze in Italia e nel mondo. Nella seconda parte del secolo XIX la borghesia passa a livello internazionale alla fase dell’imperialismo, della controrivoluzione preventiva, della mobilitazione delle residue forze feudali in una nuova “santa alleanza” per arrestare l’avanzata del movimento comunista. È la trasformazione già descritta nel capitolo 1.3. di questo MP. La Chiesa Cattolica, diretta tra il 1878 e il 1903 dal Papa Leone XIII, sfrutta questa situazione internazionale per uscire dalle difficoltà in cui l’ha messa l’unificazione della penisola. Essa diventa il principale puntello della borghesia imperialista a livello internazionale e da questa nuova condizione affronta la definizione del suo nuovo ruolo in Italia.

 

Fase 2

La borghesia e la Chiesa riconoscono, con accordi come il Patto Gentiloni (1913), che esse devono collaborare nell’interesse comune contro il movimento comunista, dividendosi i compiti. Il movimento comunista ha oramai raggiunto una discreta autonomia ideologica e politica dalla borghesia. Per tenerlo a bada e limitare il nascente collegamento operai-contadini la borghesia chiede alla Chiesa di restaurare e rafforzare la sua egemonia sui contadini e sulle donne indebolita dall’avanzata del movimento comunista e di prendere iniziative per stabilire la sua egemonia almeno su una parte degli operai. La Chiesa accetta la sfida, ma esige l’aiuto della borghesia per realizzare quest’opera dall’esito incerto. Questa fase va grosso modo dai moti contadini e operai del 1893-1898 fino al 1928. I cattolici partecipano alle elezioni parlamentari e all’attività parlamentare a sostegno del governo. La Chiesa crea organizzazioni di massa in ogni classe e ceto, in particolare tra i lavoratori per bloccare l’avanzata del movimento comunista, impedire l’unità degli operai e ostacolare l’unità operai-contadini. Con esse la Chiesa appoggia l’azione del governo, dall’impresa libica (1911) alla partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale (1915-1918). Quando la guerra incomincia a produrre una rivolta generale delle masse popolari, il cui momento più alto è la Rivoluzione d’Ottobre, assume la direzione del movimento per la conclusione di un armistizio. Di fronte alla diffusa ribellione delle masse popolari che segue la conclusione della guerra, la Chiesa accetta il fascismo, dittatura terroristica della borghesia imperialista, come soluzione necessaria di governo per ristabilire l’ordine. Essa appoggia il suo avvento al potere e il consolidamento del regime.

 

Fase 3

La borghesia per bocca di Benito Mussolini (1883-1945) riconosce formalmente la sovranità particolare della Chiesa in cambio del suo impegno ufficiale e pubblico di fedeltà alle Autorità dello Stato – sulla base di un giuramento fatto a Dio da cui la Chiesa può sciogliere i propri funzionari quando vuole, mentre i reati contro lo Stato di cui questi si rendono responsabili sono protetti dalle immunità e comunque vanno in prescrizione. Il Trattato del Laterano, il Concordato e la Convenzione finanziaria, firmati l’11 febbraio 1929 inaugurano questa fase che si protrarrà fino al 1943. La Chiesa rinuncia ufficialmente alla pretesa di restaurare il vecchio Stato Pontificio e riceve a compenso delle imposte perdute 750 milioni di lire in contanti, 1 miliardo in Buoni del Tesoro al 5% al portatore e una serie interminabile di privilegi, proprietà, diritti, esenzioni e immunità. Ma il fascismo era anche l’estremo tentativo della borghesia di rendersi pienamente padrona del paese e quindi anche politicamente autonoma dalla Chiesa. La Chiesa contrattò accuratamente e incassò tutto quanto il fascismo le dava, ma si oppose con fermezza al tentativo condotto dalla borghesia tramite il fascismo di costruire una propria diretta egemonia sulle masse popolari. A questo lato del fascismo corrispondono uno sforzo e un dinamismo eccezionali della borghesia per rafforzare la struttura economica e politica del paese. Durante il fascismo essa ha cercato di estendere il potere dello Stato italiano nel Mediterraneo e ha introdotto gran parte delle innovazioni sul piano strutturale di cui è vissuto anche il regime DC; banca centrale, industria di Stato, grandi lavori pubblici, strutture per la ricerca, consorzi agrari, enti previdenziali, ecc. Insomma le innovazioni e gli istituti che si riassumono nella creazione di un sistema di capitalismo monopolistico di Stato. Il tentativo della borghesia si concluse però in modo per essa disastroso. Il fascismo fu travolto dall’esito della guerra e dall’avanzata del movimento comunista. Il rischio che in Italia la classe operaia guidasse le masse popolari a instaurare il socialismo non era mai stato così grave. Per scongiurare il rischio, la borghesia si rimise completamente alla Chiesa e all’imperialismo americano. Le sue velleità di governare politicamente il paese cessarono definitivamente.

 

Fase 4

È la fase della direzione della Chiesa sullo Stato legale tramite la Democrazia Cristiana; una fase che va all’incirca dal 1947 al 1992. Con l’accordo dell’imperialismo americano, l’Italia divenne un nuovo tipo di Stato Pontificio allargato. La Chiesa è la più alta autorità morale del regime, una specie di monarchia costituzionale senza però costituzione. Lo Stato legale opera sotto la sua alta e insindacabile direzione. La Chiesa dirige lo Stato ufficiale e governa il paese indirettamente, tramite il suo partito, la DC. La Chiesa mantiene intatta e anzi rafforza la sua struttura territoriale (curie, parrocchie, associazioni, congregazioni e ordini religiosi, scuole, strutture ospedaliere e opere pie, istituzioni finanziarie, ecc.) indipendente da quella dello Stato e in più stringe una salda alleanza con l’imperialismo americano per condurre insieme a livello internazionale la lotta contro il movimento comunista. L’imperialismo americano comunque si installa in Italia anche direttamente, con forze proprie. Lo Stato ufficiale fa valere l’autorità papale, nei limiti richiesti dalle necessità della Chiesa e nei limiti consentiti dalla effettiva composizione di classe del paese e dai rapporti di forza interni e internazionali risultati dalla sconfitta del nazifascismo ad opera del movimento comunista. La Costituzione dello Stato ufficiale è una finzione: ogni istituzione repubblicana deve fingere di prenderla sul serio (e quindi imbrogliare le masse), mentre in realtà serve solo a ordinare l’attività subordinata degli organismi dello Stato legale, a tacitare con promesse da attuare in un indefinito futuro le esigenze degli “amici del popolo” e a stendere un velo di bell’aspetto sulle relazioni reali. In compenso il Vaticano non porta alcuna responsabilità per le conseguenze del proprio governo. È insomma un potere irresponsabile e di ultima istanza, tacitamente accettato da tutti i firmatari del “patto costituzionale” e dai loro eredi.

 

Fase 5

È la fase attuale, caratterizzata da un intervento più diretto della Chiesa nel governo del paese. La crisi politica, un aspetto della crisi politica generale del capitalismo, travolge nel 1992 il regime DC costituito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Chiesa è costretta dalle circostanze a impegnarsi nel governo del paese più direttamente. I contrasti tra i gruppi imperialisti e i contrasti tra la borghesia imperialista e le masse popolari sono giunti a un livello tale che gli esponenti politici della borghesia non riescono più a formare una struttura stabile e affidabile, che governi il paese tacitamente per conto del Vaticano dandogli quello di cui esso e la sua Chiesa hanno bisogno e che nello stesso tempo riesca a essere espressione di una maggioranza elettorale, per quanto l’opinione pubblica sia manipolata e intossicata. Siamo nella fase attuale: della putrefazione del regime DC i cui veleni appestano il nostro paese e della rinascita del movimento comunista nell’ambito della seconda ondata della rivoluzione proletaria che avanza in tutto il mondo.

 

 L’obiettivo del movimento comunista è l’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale: l’adeguamento dei rapporti di produzione al carattere già collettivo delle forze produttive e l’adeguamento corrispondente del resto dei rapporti sociali e delle idee e dei sentimenti che vi corrispondono. La rivoluzione politica, la conquista del potere politico da parte della classe operaia alla testa del resto delle masse popolari, è la premessa indispensabile della rivoluzione sociale. Conquistare il potere politico in Italia in concreto significa soprattutto eliminare la Chiesa: gli altri puntelli dell’attuale regime politico (l’imperialismo americano, le organizzazioni criminali, i partiti e le altre organizzazioni politiche della borghesia, i sionisti, la Confindustria, ecc.) hanno infatti un ruolo ausiliario. Il Vaticano e la sua Chiesa sono il principale pilastro del regime politico che impone e mantiene il dominio della borghesia imperialista nel nostro paese, a tutela del suo ordinamento sociale. Non è possibile per la classe operaia condurre le masse a instaurare la dittatura del proletariato senza eliminare il Vaticano e la sua Chiesa. In Italia non è possibile compiere alcuna rivoluzione sociale senza eliminare questo ostacolo. Quindi è per noi comunisti essenziale da una parte portare alla classe operaia e alle masse popolari questo compito e dall’altra distinguere nettamente la lotta per realizzare il compito politico di eliminare il Vaticano e la sua Chiesa e con loro il regime politico di cui sono l’asse principale, dalla lotta per realizzare quella riforma morale e intellettuale di cui le masse popolari hanno bisogno per assumere quel ruolo dirigente senza del quale non è possibile un nuovo ordinamento sociale all’altezza delle forze produttive, materiali e spirituali, di cui oggi dispone l’umanità.

La prima lotta è tra classi antagoniste e in definitiva le masse popolari dovranno risolverla con la forza.

La seconda è una trasformazione interna alle masse popolari, riguarda contraddizioni non antagoniste e non può essere condotta e risolta che attraverso un movimento delle masse popolari stesse, riguarda contraddizioni in seno al popolo. Ovviamente le due lotte sono per molti versi connesse. La Chiesa e la borghesia hanno bisogno della religione e la religiosità delle masse popolari trova nella Chiesa una facile via di appagamento.

La borghesia e la Chiesa hanno tutto l’interesse a confondere le due lotte, a difendere il loro potere all’ombra della religione. È invece nell’interesse delle masse popolari, della classe operaia e nostro distinguerle più nettamente possibile.

L’eliminazione della Chiesa e del Vaticano è una questione che riguarda tutto il movimento comunista internazionale, dato il ruolo controrivoluzionario che il Vaticano e la sua Chiesa svolgono a livello internazionale, parallelo al ruolo di gendarme mondiale che svolge l’imperialismo americano. Tuttavia nell’adempimento di questo compito internazionale il movimento comunista italiano ha un ruolo particolare, analogo a quello che il movimento comunista americano ha nell’adempimento del compito internazionale di eliminare l’impe-rialismo americano.

 

2.1.2. Il primo Partito comunista italiano 

 

Dopo l’unificazione politica della penisola (1861), nel nostro paese la lotta tra le classi è stata molto acuta, con grande partecipazione delle masse popolari. Essa però, in Italia come negli altri paesi imperialisti, ha risentito della particolare difficoltà incontrata dalla classe operaia, proprio nei paesi imperialisti, a dotarsi di un partito comunista all’altezza del suo ruolo, capace di venire a capo del regime di controrivoluzione preventiva che la borghesia ha eretto a difesa del suo ordinamento sociale.

A partire dal compimento dell’unità politica del paese è incominciato lo sviluppo del movimento comunista come movimento cosciente e organizzato. Il compito strategico dei comunisti era mobilitare la classe operaia alla lotta per instaurare il socialismo. Essi dovettero anzitutto rendersi autonomi ideologicamente e separarsi organizzativamente dall’ala sinistra della borghesia unitaria. I compiti politici con cui dovettero misurarsi furono:

L’influenza dell’ala sinistra della borghesia unitaria tra i lavoratori urbani: quest’ala della borghesia era rivoluzionaria perché unitaria e anticlericale, ma lo era in modo idealista e quindi inconcludente perché anticontadina.

La contraddizione tra la borghesia unitaria e i contadini, che costituivano la grande maggioranza della popolazione e l’egemonia reazionaria (del clero e dei nobili antiunitari) sui contadini.

Il monopolio della Chiesa nella direzione spirituale delle donne e nell’educazione delle nuove generazioni.

Questi compiti erano analoghi a quelli che i comunisti dovevano affrontare in altri paesi europei, stante il compromesso con cui la borghesia concluse nel 1848 la sua rivoluzione politica in Europa Occidentale.(35) Il contrasto tra la borghesia unitaria e la Chiesa presentava però anche aspetti favorevoli per lo sviluppo del nascente movimento comunista: la lotta tra il clero e la borghesia metteva in pubblico il carattere antipopolare di entrambi e la lotta che conducevano l’uno contro l’altra indeboliva entrambi.

I comunisti italiani ricevettero un grande aiuto dal movimento comunista internazionale, che era più avanzato di quello italiano.

Marx ed Engels misero ben in luce il carattere inconcludente e velleitario del rivoluzionarismo dell’ala sinistra della borghesia unitaria, in particolare di Mazzini, carattere che la portava inevitabilmente a subire la direzione dell’ala destra della borghesia unitaria.

La lotta condotta dalla I Internazionale (1864-1872) contro gli anarchici e le lezioni della Comune di Parigi (1871) aiutarono molto il nascente movimento comunista italiano a sviluppare la propria autonomia ideologica e organizzativa dall’ala sinistra della borghesia unitaria (Andrea Costa 1851-1910), a dare un orientamento non corporativo alle rivendicazioni economiche e a rivolgere la sua attenzione al movimento contadino, nonostante l’egemonia che i reazionari ancora vi esercitavano.

La II Internazionale (1889-1914) e l’opera assidua di Engels sorressero e guidarono il movimento comunista nel rafforzare ulteriormente la propria autonomia ideologica dall’ala sinistra della borghesia e a sviluppare, una volta raggiunto un certo grado di autonomia ideologica, una larga rete di organizzazioni proletarie in campo educativo e culturale (circoli, pubblicazioni, scuole serali, associazioni sportive, musicali, ecc.), economico (cooperative e casse di mutuo soccorso), sindacale (sindacati di categoria, camere del lavoro, confederazione sindacale nazionale) e infine a fondare il Partito socialista italiano (1891). Nei primi anni del secolo XX in Italia il movimento comunista cosciente e organizzato era oramai organizzativamente e politicamente autonomo dall’ala sinistra della borghesia grossomodo nei limiti in cui lo era nel resto d’Europa e al contrario esercitava, come nel resto d’Europa, una certa influenza su di essa e ne attraeva gli elementi migliori. La sua autonomia ideologica invece era, come nella maggior parte dei paesi europei, ancora troppo limitata rispetto a quella necessaria per affrontare con successo i compiti politici che la situazione internazionale e nazionale poneva all’ordine del giorno. Uno dei grandi e durevoli risultati di questo periodo fu l’instaurazione di un legame tra il movimento comunista e il movimento contadino, che ruppe finalmente l’egemonia del clero e dei nobili antiunitari nel movimento contadino.(96)

Durante la prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (1900-1945) e la connessa lunga situazione rivoluzionaria, dapprima vi fu un diffuso movimento rivoluzionario delle masse nel corso e dopo la Prima Guerra Mondiale (Biennio Rosso). Visto alla luce della teoria delle guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata,(*) è evidente che l’accumulazione di forze rivoluzionarie compiuta negli anni precedenti e la guerra imperialista avevano creato una situazione in cui il movimento comunista poteva progredire solo passando alla prima alla seconda fase della guerra popolare rivoluzionaria, cosa che in particolare comportava la creazione delle forze armate rivoluzionarie (*) per cui esistevano condizioni favorevoli. La borghesia imperialista italiana si trovò in difficoltà: essa non aveva ancora elaborato un regime di controrivoluzione preventiva efficace e la repressione nel vecchio stile non bastava. Ma il movimento rivoluzionario mancava delle caratteristiche adeguate alle necessità del momento: l’accumulazione delle forze rivoluzionarie compiuta negli anni precedenti non aveva avuto di mira coscientemente il passaggio a una fase superiore né aveva posto spontaneamente le premesse indispensabili di esso. Il PSI non cercò nemmeno di assumere la direzione del movimento, tanto era inadeguato allo scopo.(97) La borghesia imperialista ne venne a capo ricorrendo essa stessa alla mobilitazione reazionaria delle masse. Prima al mondo creò un regime di dittatura terroristica della borghesia imperialista: il fascismo. Il fascismo rispondeva a una necessità difensiva della borghesia italiana: il regime di controrivoluzione preventiva era in Italia ancora troppo debole perché la borghesia facesse fronte altrimenti allo slancio rivoluzionario delle masse popolari. Con esso la borghesia italiana si illuse però anche di riuscire a stabilire una sua diretta egemonia sulle masse popolari, eliminando il movimento comunista ed emarginando anche la Chiesa. Tra gli operai cercò di far breccia facendo leva su arretratezze che il movimento comunista ancora manteneva, in particolare il corporativismo.

Le lotte rivendicative e sindacali sono un’attività di cui gli operai, e in generale i proletari, non possono fare a meno. Esse sono anche per loro una scuola di comunismo di cui non possono fare a meno. Un partito comunista che non dirigesse le lotte rivendicative e sindacali degli operai e in generale dei proletari, non avrebbe ancora la forza per dirigere la rivoluzione socialista, non riunirebbe in sé tutti o almeno la maggior parte degli operai avanzati, non sarebbe quindi ancora quello Stato Maggiore di cui la classe operaia ha bisogno per condurre con successo la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata fino a instaurare il socialismo. Ma la lotta politica rivoluzionaria della classe operaia, la lotta per instaurare il socialismo non è il prolungamento delle sue lotte rivendicative, né il loro allargamento, né la loro radicalizzazione, né la loro politicizzazione, né la loro trasformazione in lotta politica, né la loro generalizzazione. La concezione corrente nella II Internazionale e degli anarcosindacalisti, trasposta poi come altre tra i comunisti dai trotzkisti, confondeva invece il movimento della classe operaia per il miglioramento delle proprie condizioni con il movimento per emanciparsi dalla borghesia e instaurare il socialismo, annegava la via alla rivoluzione nell’allargamento e generalizzazione delle lotte rivendicative.(98) Il leninismo condusse una lotta accanita e decisiva contro questa concezione, propria di tutti gli economicisti, che isola la classe operaia dal resto delle masse popolari e apre la strada al corporativismo. Con il fascismo in Italia, e su scala più grande in Germania col nazismo, la borghesia cercò di sfruttare tra gli operai quella concezione arretrata e di instaurare la propria egemonia facendo intravedere, ad essi come ai contadini e ad altre classi delle masse popolari, la possibilità di migliorare le proprie condizioni grazie all’eliminazione del movimento comunista, dei suoi propositi internazionalisti e della lotta di classe e grazie allo sfruttamento di altri popoli, nazioni e paesi. Questa è la sostanza della mobilitazione reazionaria delle masse popolari, di cui il fascismo fu la prima edizione a livello mondiale.

È anche grazie all’aiuto della prima Internazionale Comunista e dell’Unione Sovietica che il movimento comunista italiano riuscì a superare la trappola tesa dalla borghesia col fascismo. È grazie al loro impulso che nel 1921 venne fondato il primo Partito comunista italiano e che esso fu posto, a partire dal 1923, sotto la direzione di Antonio Gramsci (1891-1937). Questi è stato il suo primo e unico grande dirigente. Egli cercò di fare di esso il partito rivoluzionario della classe operaia.(99) Nella lotta contro il regime fascista, che il PCI diresse nel quadro dell’Internazionale Comunista, il partito fece raggiungere alle masse popolari e alla classe operaia un livello di forza quale non avevano mai avuto prima, culminato nella guerra partigiana (Resistenza) degli anni 1943-1945.(100) Tuttavia sotto la sua direzione la classe operaia non riuscì a condurre le masse popolari del nostro paese a instaurare il socialismo. Perché?

Alla sua fondazione il partito raccolse indubbiamente la parte più avanzata della classe operaia italiana. Esso tuttavia non riuscì a realizzare il compito della bolscevizzazione, come trasformazione di un partito che riuniva già la parte migliore della classe operaia, in un partito rivoluzionario. In cosa consiste il carattere rivoluzionario del partito comunista ? Anzitutto nella teoria rivoluzionaria che lo guida, cioè nella concezione materialista dialettica del mondo e nel metodo materialista dialettico di conoscenza e d’azione dei suoi membri e delle sue organizzazioni. In secondo luogo nel suo statuto da Stato Maggiore della classe operaia che organizza la sua attività, impiega le sue forze e quelle che riesce a mobilitare, definisce le sue organizzazioni e il loro funzionamento, la selezione, la formazione e le relazioni dei suoi membri e dei suoi dirigenti in funzione della conquista del potere da parte della classe operaia. In terzo luogo nella sua capacità, che si basa sulle due caratteristiche anzidette, di elaborare una linea specifica e concreta per avanzare verso l’instaurazione del socialismo (la sua strategia, la via alla rivoluzione socialista) nel nostro paese e di perseguirla con fermezza compiendo con flessibilità tutte le operazioni tattiche che le situazioni varie e mutevoli richiedono.

L’obiettivo della bolscevizzazione del partito era stato chiaramente posto dall’Internazionale Comunista già negli anni ‘20. Il PCI stesso aveva dichiarato la bolscevizzazione il compito fondamentale del partito.(101) Le Tesi di Lione avevano dichiarato chiaramente anche che “non esiste in Italia la possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista” e avevano con lungimiranza messo in guardia il partito dalla incombente deviazione di destra.(102) Ma nella pratica il partito non riuscì a combinare la lotta contro il fascismo con la lotta per la rivoluzione socialista. Cadde proprio nella deviazione di destra consistente nel porsi come l’ala sinistra della coalizione di tutte le forze che cospiravano all’abbattimento del fascismo. Il partito, diretto dalla sua ala destra (di cui Togliatti fu il capofila), rifiutò sistematicamente di condurre le masse popolari a far valere i propri interessi materiali e spirituali fino a rischiare che la borghesia ricorresse al terrorismo e alla guerra civile e ad affrontarla su questo terreno decisivo. L’ala sinistra del partito, il cui esponente più importante fu Pietro Secchia (1903-1973), si limitò a fare la fronda, a lamentarsi dei limiti del partito nella mobilitazione delle masse popolari, paralizzata da una concezione dogmatica della disciplina di partito e dalla concezione che l’insurrezione era la strategia della rivoluzione socialista.(103)

I limiti del Partito comunista italiano nella sua comprensione delle leggi della rivoluzione socialista in Italia si manifestarono nel fatto che esso fu sorpreso dalla svolta repressiva del regime fascista nel 1926 (incarcerazione della direzione del partito); nel fatto che nel 1943 fu sorpreso dagli eventi del 25 luglio e dell’8 settembre; nel fatto che sostanzialmente non si era preparato alla guerra civile quale sbocco inevitabile della crisi generale del capitalismo e della mobilitazione reazionaria delle masse popolari (fascismo); nel fatto che nella guerra partigiana non mantenne con fermezza la sua autonomia politica, costringendo da questa posizione le altre forze antifasciste a unirsi alla guerra contro i fascisti e contro i nazisti; nel fatto che condusse la guerra partigiana più come una campagna militare che come strumento per creare e rafforzare il potere popolare; nel fatto che non si rese conto che con la fine della Seconda Guerra Mondiale il sistema capitalista, nonostante il suo indebolimento grazie ai successi del movimento comunista e al crollo del sistema coloniale, era uscito dalla sua prima crisi generale; nel fatto che accettò di svolgere il ruolo di cui il regime DC aveva assoluto bisogno per consolidarsi: occultare il potere monarchico del Vaticano, nascondere il carattere fittizio della Costituente e della Costituzione, avallare il carattere democratico del regime di “sovranità limitata” che tacitamente il Vaticano e gli imperialisti USA imposero al paese, minimizzare il significato dell’installazione politica e militare dell’imperialismo USA in Italia, liquidare la forza politica e militare che la classe operaia e le masse popolari avevano raggiunto. Negli anni della sua lunga e gloriosa lotta contro il fascismo, il partito oscillò più volte tra isolamento settario e dogmatismo da una parte e collaborazione opportunistica (senza principi) e revisionismo dall’altra, tra lotta senza unità e unità senza lotta, come del resto fecero altri partiti comunisti europei della prima IC. Il bilancio della sua esperienza conferma che il partito comunista deve avere una concezione del mondo e un metodo di lavoro materialista dialettico e che deve elaborare una strategia per la conquista del potere giusta e abbastanza concreta: una strategia che gli opportunisti denigrano come “piano steso a tavolino”, ma che in realtà è quel “preparare e organizzare” la rivoluzione che già Lenin ci ha insegnato. Se non raggiunge questo livello, per grandi che siano l’eroismo e la disciplina, il partito comunista non è in grado di sfruttare le circostanze varie e mutevoli con una tattica flessibile. Non ha alcun senso pratico discutere di tattica, se non si ha una strategia. Grazie alla direzione dell’IC il PCI realizzò giuste e importanti operazioni tattiche e di medio periodo, ma non riuscì ad elaborare una sua strategia conforme alle condizioni specifiche del nostro paese e alla situazione internazionale in cui era inserito. Quindi non riuscì ad adempiere al suo compito, nonostante l’eroismo di gran parte dei suoi membri e dei suoi dirigenti.

Studiata alla luce della teoria della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, la storia del PCI è ricca di grandi e importanti insegnamenti. Essa mostra come le guerra imperialista e l’opera del movimento comunista internazionale creassero negli anni ’40 le condizioni sufficienti perché il partito comunista costituisse proprie forze armate ed entrasse, per forza di cose, nella seconda fase della guerra popolare rivoluzionaria. Né avrebbe potuto procedere se non avesse compiuto questi passaggi. Essa mostra anche che il partito non aveva però coscienza di quello che in realtà stava facendo, in particolare che la sinistra del partito era assolutamente impreparata, dal punto di vista ideologico e politico, ad assumere la direzione del partito e che a causa di questo il movimento comunista retrocedette dalla seconda alla prima fase della guerra stessa una volta venute meno le condizioni esterne che lo avevano spinto in avanti.(103)

A causa dei limiti ed errori del suo partito, la classe operaia non conquistò il potere benché la borghesia con il fascismo si fosse cacciata in una situazione estremamente difficile che le tolse da allora in avanti ogni velleità di indipendenza politica. Il potere rimase alla borghesia imperialista che creò un suo regime politico imperniato sul ruolo preminente della Chiesa capeggiata dal Vaticano sotto la supervisione USA; il regime DC che ha governato da allora il paese e lo governa tuttora, nonostante la fase di putrefazione in cui il regime è entrato nel 1992.

Questo regime si consolidò grazie al lungo periodo (1945-1975) di ripresa e di sviluppo dell’accumulazione capitalista e di espansione dell’apparato produttivo che il capitalismo ebbe in tutto il mondo. Le masse popolari e la classe operaia in quegli anni riuscirono a strappare con lotte puramente rivendicative grandi miglioramenti in campo economico, politico e culturale. Il PCI divenne l’interprete organico di questa fase dei rapporti della classe operaia e delle masse popolari del nostro paese con la borghesia imperialista. Per questo il PCI in quegli anni fu contemporaneamente sia il partito della classe operaia italiana nel senso preciso che praticamente tutti gli operai attivi nell’organizzazione della propria classe facevano parte del PCI, sia uno dei partiti della corrente revisionista moderna guidata dal PCUS. Il periodo 1945-1975 fu, anche nel nostro paese, il periodo del “capitalismo dal volto umano”. Esso fu tanto più sviluppato quanto più forte era stato nel nostro paese il movimento comunista, a conferma del fatto che le riforme sono il sottoprodotto, il lascito delle rivoluzioni mancate.

Durante quel periodo sono avvenute alcune grandi trasformazioni nella composizione di classe del nostro paese, di cui ci occupiamo nel capitolo 2.2. di questo MP. Esse configurano il contesto in cui si svolge oggi la rinascita del movimento comunista. Le principali sono le seguenti.

 

1. L’eliminazione dei contadini dediti ad un’economia di autosussistenza.

La sussunzione (*) della produzione agricola nel capitalismo, la cacciata in massa dei contadini e dei braccianti dalla terra, le migrazioni all’estero e interne, dal Sud al Nord e dal Nord-Est al Nord-Ovest, dalla campagna alle città, hanno enormemente ridotto il numero di lavora tori agricoli e cambiato la loro natura di classe. Il regime DC ha risolto la “questione contadina” creata nel Risorgimento dalla borghesia unitaria spopolando le campagne. Il posto delle famiglie e delle aziende contadine è stato in gran parte preso da aziende capitaliste, da terra lasciata incolta, da installazioni turistiche, da ville per i ricchi italiani e stranieri.

 

2. La crescita del numero dei proletari non operai.

Il grande sviluppo della Pubblica Amministrazione, dei servizi pubblici, delle cooperative e degli enti senza fine di lucro hanno creato alcuni milioni di proletari non operai, prossimi per mille versi alla classe operaia. Essi hanno preso il posto dei contadini come più vicini e più sicuri alleati della classe operaia nella lotta per instaurare il socialismo.

 

3. La crescita del numero di donne che lavorano come proletarie.

In aperto contrasto con le dottrine reazionarie a cui il regime DC si ispirava, nel periodo in cui esso ha dominato il nostro paese la segregazione delle donne nelle famiglie e nelle mura domestiche è stata in larga misura eliminata sia pure al modo borghese: ossia nel modo più tormentoso per le masse popolari e in primo luogo per le donne stesse. È cresciuto il numero delle donne che partecipano alla produzione, sia come proletarie sia come lavoratrici autonome. La lotta delle donne per la loro emancipazione economica, intellettuale e sentimentale dagli uomini, la lotta per la parità salariale, per un ruolo paritario nella vita sociale, per la maternità consapevole, per un’organizzazione sociale della vita dei bambini e degli anziani, per relazioni dignitose tra uomini e donne, per la libertà delle relazioni sessuali dalla morale medioevale patrocinata dalla Chiesa Cattolica, per un’effettiva eguaglianza di diritti hanno fatto delle donne operaie e delle donne delle altre classi delle masse popolari una componente del movimento comunista ancora più importante che nel passato. Molte donne si sono già liberate dall’influenza della Chiesa Cattolica e del clero e ciò ha fortemente indebolito l’egemonia morale e intellettuale del clero su cui si basa il potere politico del Vaticano e la sua utilità per la borghesia. Ora in modo sempre più diretto e palese la Chiesa Cattolica e il Vaticano sono i capifila dell’opposizione borghese all’emancipazione delle donne. La lotta per eliminare il potere politico della Chiesa Cattolica e il Vaticano è un aspetto essenziale della rivoluzione socialista nel nostro paese e proprio a questo aspetto è direttamente legata anche la lotta delle donne per la loro emancipazione.(76)

 

4. Il grande sviluppo dei servizi forniti da imprese capitaliste.

I lavoratori dipendenti da imprese capitaliste che producono e vendono servizi sopravanzano attualmente per numero i lavoratori dipendenti da imprese capitaliste che producono e vendono beni. Le aziende in cui sono riuniti questi lavoratori non hanno ancora l’esperienza di organizzazione, di lotta sindacale e di lotta politica acquisita dalla classe operaia delle aziende capitaliste industriali. I lavoratori dei servizi stanno in questi anni facendo la loro scuola di lotta di classe che gli operai dell’industria hanno fatto alcuni decenni fa. Vi sono le condizioni perché imparino rapidamente. Con l’esperienza della lotta di classe raggiungeranno i dipendenti delle imprese capitaliste tradizionali e comporranno assieme la nuova classe operaia che instaurerà il socialismo.

 

5. La formazione di una vasta “aristocrazia operaia”.

Nel nostro paese l’aristocrazia operaia comprende varie centinaia di migliaia di individui. Essa è composta da promotori, dirigenti, organizzatori, funzionari di organizzazioni popolari come sindacati, partiti, cooperative, associazioni, patronati, case editrici, giornali, radio e TV, ecc., da persone elette o designate a far parte di organismi di rappresentanza, organismi paritetici, commissioni di studio, ecc. Si tratta di una massa di individui che immediatamente e individualmente traggono i maggiori vantaggi intellettuali, morali e sociali, in termini di relazioni e di prestigio sociale, dal movimento dei lavoratori e delle masse popolari e che di regola ricevono almeno una parte importante del loro reddito dal ruolo che vi svolgono. Ogni membro dell’aristocrazia operaia ha socialmente un ruolo che la società borghese nega al semplice proletario, “vale” quanto un certo numero di proletari (un sindacalista parla ad un certo numero di proletari, ha relazioni con essi, li influenza, ecc.). Un settore particolarmente numeroso e importante dell’aristocrazia operaia è costituito dai dirigenti e funzionari dei sindacati di regime e degli altri sindacati. Quelli tra i membri dell’aristocrazia operaia che si avvalgono della loro condizione sociale per favorire gli interessi dei lavora tori e delle masse popolari costituiscono la sinistra dell’aristocrazia operaia. Quelli che usano la loro condizione sociale a fini e a vantaggio personale o di parenti o di conoscenti o di amici ecc. costituiscono la destra dell’aristocrazia operaia. Questi non fanno altro che riproporre il sistema democristiano-mafioso del clan, delle famiglie, degli amici degli amici, ecc. Con l’avanzare della crisi generale, della resistenza e della lotta di classe, la sinistra e la destra dell’aristocrazia operaia sono destinate a dividersi sempre più nettamente o con le masse popolari o con la borghesia imperialista. La sinistra dell’aristocrazia operaia si metterà al servizio dei lavoratori e delle masse popolari e contribuirà alla rinascita del movimento comunista e in particolare al rinnovamento del movimento sindacale. Il partito comunista deve orientarla e farne una sua componente. La destra dell’aristocrazia operaia sarà dalla forza delle cose costretta ad allinearsi sempre più sulle posizioni della destra borghese, a perdere seguito tra i lavoratori, a diventare inutile per la borghesia a meno che diventi efficace promotrice della mobilitazione reazionaria delle masse popolari. Le forme, i tempi e la ripartizione dell’aristocrazia operaia tra ala sinistra e ala destra dipenderanno anche dalla linea del partito comunista e dall’azione che questi condurrà su di essa, sia direttamente sia tramite gli operai e il resto delle masse popolari.(104)

 

6. L’immigrazione di operai dai paesi ex-socialisti e dai paesi oppressi dall’imperialismo.

Da paese di emigrazione, l’Italia è divenuta paese di immigrazione. La mobilitazione e organizzazione di questi nuovi lavoratori e la loro combinazione con i lavoratori autoctoni è un compito nuovo ma imprescindibile per il movimento comunista italiano. Questo compito, già di per sé difficile, è reso ancora più difficile dalla debolezza del movimento comunista a livello nazionale e internazionale.(105) D’altra parte l’immigrazione costituisce una delle vie attraverso cui si costituisce concretamente un proletariato internazionale. Quindi è uno strumento prezioso per il movimento comunista, per promuovere una più forte unità internazionalista della classe operaia. Il partito comunista deve mobilitare lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati per l’assoluta parità di diritti civili, sindacali e politici. Il supersfruttamento e l’oppressione dei lavoratori immigrati indebolisce anche i lavoratori autoctoni. Il partito comunista deve mobilitare tutti i lavoratori nella lotta contro la borghesia imperialista e in questo modo unirli.

 

7. La decentralizzazione delle unità produttive e la disoccupazione cronica.

La classe operaia è oggi, in Italia come nel mondo, più concentrata di quanto non lo sia mai stata. Alcuni grandi monopoli mondiali hanno ognuno centinaia di migliaia di dipendenti sparsi in vari paesi. Anche per questa via si è così costituito un proletariato internazionale come settore particolare del proletariato. Cosa che offre al movimento comunista un’altra possibilità di promuovere una più forte unità internazionalista della classe operaia. D’altra parte per vari motivi sono diminuite le aziende che riuniscono in un unico luogo decine di migliaia di lavoratori, benché resti un numero abbondante di grandi e medie aziende. La borghesia tende a organizzare unità produttive più piccole, a combinare nello stesso luogo lavoratori dipendenti da aziende diverse e sottoposti a contratti e condizioni di lavoro diversi, a delocalizzare aziende e a scombinare frequentemente l’organizzazione del lavoro, a generalizzare rapporti di lavoro precario, atipico, in nero, subappalti, esternalizzazioni, ecc. Ciò permetterà al movimento comunista di “contagiare” più facilmente l’intera classe operaia, una volta che avrà creato un solido legame con gli operai avanzati.

 

8. La proletarizzazione dei lavoratori autonomi.

La massa dei lavoratori autonomi è in realtà composta da individui sempre meno autonomi. Molti lavoratori autonomi dipendono strettamente dai monopoli industriali e dei servizi e dalle banche per le forniture, per le vendite, per le tecnologie, per il credito e dallo Stato per i regolamenti che inquadrano le loro attività, per il regime fiscale e per i contributi pubblici al loro bilancio. Ciò apre grandi orizzonti di egemonia per il movimento comunista, una volta superate le tendenze corporative e affermato il suo ruolo di promotore della lotta di tutte le masse popolari contro la borghesia imperialista.

 

9. La costituzione dell’Unione Europea e la creazione della moneta unica europea.

 L’unificazione dell’Europa è iniziata dopo la Seconda Guerra Mondiale, come progetto della borghesia imperialista USA per mobilitare più fortemente l’Europa contro il movimento comunista europeo e l’Unione Sovietica. Con l’inizio negli anni ‘70 della nuova crisi generale, il progetto è stato preso in mano dai gruppi imperialisti franco-tedeschi. Essi lanciarono su grande scala la loro offensiva per crearsi uno “spazio vitale” in Europa, da usare nella competizione internazionale contro gli USA. L’Unione Europea ha un futuro solo come tentativo dei gruppi imperialisti franco-tedeschi di unirsi e coalizzare sotto la loro direzione tutti i capitalisti europei e i rispettivi paesi per una nuova spartizione del mondo contro il predominio dei gruppi imperialisti USA e per meglio assicurare la permanenza del dominio della borghesia imperialista sulle masse popolari europee nonostante lo sviluppo della crisi generale, favorendo l’abolizione delle conquiste che durante la prima ondata della rivoluzione proletaria le masse popolari europee le hanno strappato. L’UE ha dato e sta dando un forte sostegno alla borghesia nella eliminazione delle conquiste e ha creato un quadro politico nuovo ma ancora precario. Infatti i gruppi imperialisti tedeschi esitano. Sono presi in una morsa. Da una parte i gruppi imperialisti USA non possono più concedere nulla ai loro soci, anzi succhiano da ogni paese capitali, risorse e uomini per mantenersi a galla negli USA: la controrivoluzione preventiva negli USA ha come essenziale pilastro portante importanti concessioni economiche alle masse popolari americane. Restare subordinati ai gruppi imperialisti USA vuol dire contribuire a tenerli in piedi, con conseguenze politiche nefaste però in Germania, perché anche la controrivoluzione preventiva tedesca poggia su importanti concessioni economiche. Dall’altra parte sui gruppi imperialisti tedeschi grava come un incubo il ricordo di come è finito il loro ultimo tentativo di conquistare con Hitler uno “spazio vitale”. Un incubo tanto più inquietante perché per competere realmente con i gruppi imperialisti USA i gruppi imperialisti franco-tedeschi dovrebbero incominciare a imporre una maggiore disciplina proprio alle masse popolari tedesche.

Quanto al Vaticano e all’Italia, l’Unione Europea mette in gioco il ruolo politico della Chiesa nel nostro paese. L’alternativa è vivacchiare all’ombra dei gruppi imperialisti USA, che però non concedono più nulla. È l’alternativa per la quale probabilmente opterà il Vaticano se il suo disegno non incontrerà un’incontenibile opposizione nelle masse popolari italiane. Infatti rimanere sotto la tutela dei gruppi imperialisti USA permetterebbe allo Stato Pontificio di protrarre la sua esistenza, salvaguardando quello che per il Papato è essenziale ottenere in Italia: le condizioni e le risorse per compiere liberamente, a spese delle masse popolari italiane, la sua “missione divina nel mondo”.

Per i comunisti italiani è diventato ancora più importante che nel passato rafforzare il legame internazionalista con i partiti comunisti degli altri paesi europei. Noi dobbiamo mobilitare le masse popolari a lottare sia contro il polo imperialista USA sia contro il polo imperialista europeo, per i propri interessi. Questi sono legati alla rinascita del movimento comunista internazionale.

 

10. La nascita della “questione ambientale”.

Nei decenni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale il regime DC ha mostrato su grande scala quale capacità di distruzione fisica e morale, sugli uomini e sull’ambiente, sul patrimonio artistico e sull’eredità storica il capitalismo ha raggiunto. Il periodo di grande sviluppo economico mondiale che ha coinciso con la prima fase del regime (1945-1975), ha messo pienamente in luce questo carattere. Lo sfascio morale e ambientale prodotto da cinquant’anni di regime DC non ha precedenti nella storia moderna italiana. Permeato dalla concezione medioevale che il Papato e la Chiesa hanno del potere, il regime DC ha prestato molta attenzione ai problemi della stabilità del potere e del consenso delle masse, ma è stato assolutamente indifferente a tutte quelle questioni del benessere delle masse popolari, a breve e ancor meno di quello a lungo termine, di cui il movimento comunista, dominato dai revisionisti, non ha fatto un problema di ordine pubblico, come la protezione e conservazione dell’ambiente.

Lo sfascio territoriale, ambientale e morale prodotto in Italia dal regime DC si è combinato, come aggravante nazionale, con la devastazione ambientale prodotta dal sistema capitalista a livello mondiale. La ricerca del profitto, le aziende che hanno come loro scopo la produzione di profitti, comportano che ogni capitalista sfrutti uomini, risorse e ambiente secondo il suo privato e immediato tornaconto e che il sistema nel suo complesso aumenti esponenzialmente di anno in anno il volume della produzione, condizione necessaria per la crescita del Prodotto Interno Lordo e dei profitti. Ciò crea un corso delle cose suicida per l’umanità. Porvi fine è diventato una questione di vita o di morte. L’incompatibilità del sistema capitalista con il progresso dell’umanità diventa palese anche dal lato della salvaguardia dell’ambiente in cui essa vive. Solo la rinascita del movimento comunista e la formazione di nuovi paesi socialisti creeranno le condizioni per affrontare in modo razionale, sistematico e internazionale la questione ambientale. I comunisti devono sostenere e promuovere mille singole lotte, anche contraddittorie tra loro nell’immediato, sulla questione ambientale e fare in modo che ognuna di esse contribuisca all’accumulazione delle forze rivoluzionarie e funzioni come scuola di comunismo, contribuendo così, oltre che a dare soluzioni tampone a singoli problemi, a creare la condizione per una soluzione definitiva della questione ambientale. La questione ambientale è una questione strettamente legata alla lotta di classe. L’interclassismo ci condannerebbe al disastro ecologico.(76)

 

 

2.1.3. I primi tentativi di ricostruire il partito comunista

 

Nel nostro paese la lotta contro il revisionismo moderno riprese e continuò la lotta contro la deviazione di destra che aveva accompagnato tutta la vita del partito.

Nell’ottavo congresso (dicembre 1956) la destra del PCI, al riparo del successo riportato dal gruppo revisionista di Kruscev nel ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (febbraio 1956), liquidò quanto restava delle basi programmatiche comuniste. Fino allora la deviazione di destra, secondo cui il partito comunista era l’ala sinistra di uno schieramento progressista diretto dalla borghesia che lottava per modernizzare il paese, eliminare i residui feudali e allargare alle masse i diritti democratici, si era presentata nel partito come una linea provvisoria da praticare in attesa di tempi migliori. Da allora essa invece venne posta come linea strategica, coerentemente con la concezione dei revisionisti moderni. Questi infatti sostenevano che la forza raggiunta dalla classe operaia rendeva oramai superflua la rivoluzione socialista e possibile un passaggio graduale e pacifico al socialismo. La via pacifica, democratica, parlamentare al socialismo tramite riforme di struttura e l’allargamento continuo dei diritti democratici delle masse, venne proclamata la via italiana al socialismo e proposta addirittura in sede internazionale come modello (eurocomunismo).

Dopo l’ottavo congresso la lotta spontanea, istintiva e diffusa contro la destra prese nuovo vigore. Essa fece un salto di qualità nella seconda metà degli anni ‘60, nell’ambito della lotta lanciata a livello internazionale dal Partito del lavoro d’Albania e soprattutto dal Partito comunista cinese.(106) Nacque allora il movimento marxista-leninista e poi nel 1966 il Partito comunista d’Italia (Nuova Unità) che si sciolse solo agli inizi degli anni ‘90 per confluire in Rifondazione comunista (RC).

La causa della debolezza del PCd’I e di tutto il movimento marxista-leninista fu la stessa che aveva portato la sinistra del PCI alla sconfitta rispetto alla destra: l’insufficiente autonomia ideologica e teorica dalla borghesia e la conseguente mancanza di una strategia per la conquista del potere. Il movimento marxista-leninista fu per alcuni versi costantemente inficiato di dogmatismo: prova ne è il fatto che non riconobbe mai che esisteva una terza superiore tappa del pensiero comunista, il maoismo né mai comprese, benché lottasse contro la destra del PCI, i limiti e gli errori della sinistra del PCI. Per altri versi quello stesso movimento marxista-leninista si confuse con le varie deviazioni “di sinistra” (bordighiste, anarcosindacaliste, ecc.) che erano una vecchia malattia del movimento comunista italiano con cui il PCI non aveva mai regolato veramente i conti.

Alla fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 in Italia come in altri paesi vi fu una grande stagione di lotte (il ‘68 e l’Autunno caldo). La lotta per strappare alla borghesia nuove conquiste di civiltà e di benessere raggiunse il suo culmine e toccò il suo limite: per andare oltre doveva trasformarsi in lotta per la conquista del potere e l’instaurazione del socialismo. La lotta contro il revisionismo moderno raggiunse un grande sviluppo in campo politico negli anni ‘70 quando dalle lotte rivendicative della classe operaia e delle masse popolari nacque un diffuso movimento di lotta armata, impersonato dalle Brigate Rosse. Esso raccoglieva e dava espressione politica alla necessità di conquistare il potere e di trasformare la società che le stesse lotte rivendicative alimentavano nella classe operaia e nelle masse popolari. Da qui il sostegno, l’adesione e il favore delle masse popolari nei confronti delle Brigate Rosse, testimoniati dal loro radicamento in fabbriche importanti (FIAT, Alfaromeo, Siemens, Pirelli, Petrolchimico, ecc.), ma più ancora dalle misure che la borghesia dovette adottare per contrastarne l’influenza e isolarle dalle masse e dalla persistenza della loro influenza anche dopo la loro sconfitta.

Con la loro iniziativa pratica le Brigate Rosse ruppero con la concezione della forma della rivoluzione socialista che aveva predominato tra i partiti comunisti dei paesi imperialisti nel corso della lunga situazione rivoluzionaria 1900-1945.(107) A differenza del Partito comunista d’Italia (Nuova Unità), le Brigate Rosse iniziarono a fare i conti con gli errori e i limiti che avevano impedito ai partiti comunisti dei paesi imperialisti di condurre a conclusione vittoriosa la situazione rivoluzionaria generata dalla prima crisi generale del capitalismo. Da qui la ricchezza di insegnamenti che si possono ricavare dalla loro attività, in particolare a proposito delle leggi dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie (che è il compito principale della prima fase della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (*)) e del passaggio dalla prima alla seconda fase (*) di questa (costruzione delle forze armate rivoluzionarie (*)).

Esse tuttavia non riuscirono a liberarsi dall’influenza della cultura borghese di sinistra, in particolare nella versione datane dalla Scuola di Francoforte (75) che il revisionismo moderno aveva reso cultura corrente e pressoché incontrastata. Questo fatto ebbe due importanti conseguenze.

Le Brigate Rosse non riuscirono a correggere gli errori di analisi della fase che avevano in quella cultura il loro fondamento. Quanto ai rapporti tra le masse popolari e la borghesia imperialista, scambiarono la fase culminante della lotta delle masse per strappare conquiste nell’ambito della società borghese con l’inizio della rivoluzione. Quanto ai rapporti tra gruppi e Stati imperialisti, scambiarono l’attenuazione delle contraddizioni connessa al periodo 1945-1975 di ripresa e sviluppo del capitalismo con la scomparsa definitiva dell’antagonismo. Ignorarono l’alternarsi delle crisi generali del capitalismo con periodi di ripresa dell’accumulazione del capitale: gli anni ‘70 erano giusto il periodo di passaggio dal periodo di ripresa e sviluppo seguito alla Seconda Guerra Mondiale alla nuova crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale.

Le Brigate Rosse non riuscirono ad appropriarsi consapevolmente del metodo della linea di massa(*) onde restare all’avanguardia del movimento delle masse anche nella nuova fase prodotta dall’inizio, alla metà degli anni ‘70, della nuova crisi generale. Non fecero un bilancio giusto del movimento comunista: combinarono illusioni nei revisionisti moderni, nei paesi socialisti e nei partiti comunisti da essi diretti, con l’abbandono dell’esperienza storica del movimento comunista a causa del successo che i revisionisti moderni erano riusciti a raggiungere in esso.

In conseguenza di questi errori, il legame delle Brigate Rosse con le masse smise di crescere e cominciò anzi ad affievolirsi, le Brigate Rosse si diedero ad imprecare contro l’arretratezza delle masse e annegarono nel militarismo (*) (teoria della “supplenza”).(*) In questa maniera favorirono l’attacco della borghesia che era centrato sullo sfruttare i loro errori e limiti per isolarle dalle masse.

È a causa di questi passi avanti non compiuti, di questa autocritica non portata a termine che il loro legame con le masse popolari, anziché svilupparsi, si indebolì e le Brigate Rosse vennero travolte dall’offensiva della borghesia, cui i revisionisti moderni parteciparono come a impresa per loro vitale.(108)

La lotta condotta dalle Brigate Rosse mostra, per la terza volta nella storia del movimento comunista del nostro paese dopo il Biennio Rosso e la Resistenza, come in un paese imperialista si possano presentare le condizioni per il passaggio dalla prima alla seconda fase (*) della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.(*) Essa mostra anche, d’altra parte, che la possibilità di sfruttare con successo le condizioni favorevoli dipende strettamente dalla qualità dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie che ha preceduto il loro presentarsi.

Il PCd’I e le BR costituiscono i due maggiori tentativi falliti di ricostruzione del partito comunista. Ambedue cercarono di dare una risposta a questa necessità della classe operaia e delle masse popolari del nostro paese. Ma né l’uno né l’altro raggiunsero il loro obiettivo. Per raccogliere quanto di positivo hanno prodotto e trarre insegnamenti della loro esperienza, è indispensabile comprendere il motivo dell’insuccesso.

 

 La storia del movimento comunista è ricca di successi e di sconfitte. Gli uni e le altre ci mostrano che la contraddizione tra teoria e pratica si manifesta nelle contraddizioni tra teoria rivoluzionaria e costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria, tra partito rivoluzionario e movimento delle masse e in altre ancora. Qual è il giusto rapporto tra i due termini di ognuna di queste contraddizioni? La storia del movimento comunista ci insegna:

l’unità dei due termini: uno può procedere nel suo sviluppo oltre un certo limite solo se l’altro si sviluppa anch’esso in misura adeguata;

che nella lotta della classe operaia per il potere, in generale, salvo eccezioni, la priorità spetta al primo termine, benché in assoluto, cioè considerando le cose in un orizzonte più vasto, la priorità spetti al secondo.

Infatti in termini generali la teoria del movimento comunista è il riflesso nella nostra mente, è l’elaborazione dell’esperienza pratica della lotta della classe operaia e delle masse popolari. Marx ed Engels hanno prodotto una teoria rivoluzionaria elaborando l’esperienza della lotta degli operai. Ma è grazie a questa loro teoria che il movimento comunista ha creato le Internazionali e i partiti socialisti prima e comunisti dopo. Lenin ha riassunto la lotta che condusse nei primi anni del nostro secolo dicendo: “Senza teoria rivoluzionaria, non ci può essere movimento rivoluzionario”. Mao Tse-tung nel 1940 ha fatto il bilancio della rivoluzione cinese dicendo: “Per quasi vent’anni noi abbiamo fatto la rivoluzione senza avere una concezione chiara e giusta della rivoluzione, agivamo alla cieca: da qui le sconfitte che abbiamo subito”.

Analogamente, in termini generali il partito rivoluzionario è un prodotto della ribellione delle masse oppresse. Ma nelle condizioni a cui è giunto il movimento comunista, il movimento delle masse oppresse riesce a svilupparsi oltre un livello elementare, rivendicativo, solo grazie all’attività del partito comunista. I comunisti non sono riusciti a costruire un partito comunista all’altezza del suo ruolo e del compito di promuovere e dirigere la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, e questo ha impedito l’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti. Non è “l’integrazione della classe operaia nel sistema capitalista”, non è “l’incorporazione dei rapporti di produzione capitalisti nelle forze produttive” (quindi la scomparsa della contraddizione tra rap porti di produzione e forze produttive), come sostiene la Scuola di Francoforte,(75) quello che ha impedito la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti. L’anello mancante è il partito comunista adeguato al compito storico e al suo ruolo e ciò che è principale per rendere il partito comunista adeguato al compito storico e al suo ruolo è la concezione del mondo su cui si fonda e con la quale orienta la sua attività. Quindi la soluzione è nella lotta tra le due linee nella costruzione del partito comunista.

La borghesia cerca con tutte le sue forze di impedire la costruzione di simile partito. È un aspetto essenziale della controrivoluzione preventiva. Con la repressione quando non può fare altrimenti, ma normalmente con la sua influenza tra i comunisti. In ogni partito comunista e in ogni suo organismo, di fronte a ogni passaggio e decisione importante, vi è una sinistra e una destra. La sinistra riflette la posizione della classe operaia che lotta per il potere; la destra riflette la posizione della borghesia. La destra impersona l’influenza della borghesia nel movimento comunista e la veicola. La borghesia è al potere da secoli e ha ereditato molto dalle precedenti classi sfruttatrici. La classe operaia lotta per il potere solo da 160 anni e lo ha esercitato solo per brevi periodi e solo in alcuni paesi dove il capitalismo era relativamente poco sviluppato. Quindi la borghesia oggi ha ancora un’esperienza di potere incomparabilmente più vasta di quella che ha la classe operaia. Nel campo sovrastrutturale la borghesia ha un sistema completo di concezioni, linee e metodi. La sua concezione del mondo si è consolidata in abitudini e pregiudizi. Ha acquistato la forza, l’evidenza e l’ovvietà del luogo comune. Ne segue che nei partiti comunisti la destra ha la vita più facile della sinistra. La destra si appoggia su quello che esiste già, è evidente, è ovvio, è abitudine, “si è sempre fatto così”, “tutti la pensano così”. La sinistra deve elaborare, scoprire, inoltrarsi nel nuovo, rischiare di commettere errori, correggere la rotta fino a trovare la strada alla vittoria. Alla destra non occorre una teoria rivoluzionaria; la sinistra non può procedere senza e deve elaborarla. La destra si può fare forte degli errori della sinistra e della confusione della contraddizione tra teoria rivoluzionaria e influenza della borghesia con le contraddizioni tra teoria giusta e teoria sbagliata, tra nuovo e vecchio. La destra ostacola la creazione di una teoria rivoluzionaria, la sinistra la promuove e senza teoria rivoluzionaria non può dirigere. Gli errori del partito nel comprendere la situazione giovano alla destra, sono deleteri alla sinistra.

La sinistra del PCI non riuscì ad elaborare una teoria della rivoluzione socialista nel nostro paese nel corso della prima crisi generale del capitalismo, benché il partito si fosse proposto di guidare la rivoluzione socialista. Per questo la destra riuscì a prevalere nel partito. Mao ci ha insegnato che se un partito non applica una linea giusta ne applica una sbagliata, che se non applica coscientemente una politica, ne applica una alla cieca. È molto difficile che il partito comunista riesca a raggiungere la vittoria con una linea applicata alla cieca: è più probabile che una linea applicata alla cieca favorisca ciò che già esiste: la direzione della borghesia, anziché ciò che deve sorgere: la direzione della classe operaia.

 

Il Partito comunista d’Italia e le Brigate Rosse non compresero che per avanzare occorreva un bilancio dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e della costruzione del socialismo che era sintetizzata al suo livello più alto nel maoismo; non compresero che il revisionismo moderno non consisteva solo nel rinnegamento della rivoluzione come mezzo per instaurare il socialismo, ma sfruttava i limiti della concezione del mondo e del metodo di direzione e di lavoro dei comunisti: questi bisogna superare per battere il revisionismo moderno; infine non compresero che il capitalismo anche nel nostro paese era al culmine di un periodo di sviluppo e che la seconda crisi generale del capitalismo si annunziava appena. Per questo i loro tentativi di ricostruire il partito comunista furono sconfitti.

 

2.1.4. Il regime DC e la sua putrefazione

 

Fu solo nel corso degli anni ‘70 che il sistema capitalista mondiale passò dal periodo di ripresa dell’accumulazione di capitale e di sviluppo dell’economia iniziato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale alla seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Anche nel nostro paese ciò comportò che la classe operaia e le masse popolari non poterono più strappare alla borghesia con lotte rivendicative conquiste progressive, durature e su larga scala. L’accordo (1975) Confindustria-sindacati per il punto unico di contingenza che aumentò i salari inferiori e accorciò le differenze salariali fu l’ultima conquista della serie che aveva scandito il periodo del capitalismo dal volto umano. La classe dominante incominciò a cancellare gradualmente, una ad una, le conquiste fino allora strappate. Il processo è proseguito regolarmente fino al 1992, con i governi del “compromesso storico” prima e del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) poi. Da allora, con la crisi del regime DC e l’inizio della fase della sua putrefazione, il processo di eliminazione delle conquiste è stato fortemente accelerato. Da allora è cambiato il ruolo politico dei partiti, delle correnti e delle scuole riformiste: sono diventati “riformisti senza riforme”.

Di conseguenza iniziò la crisi inarrestabile dei revisionisti moderni. I revisionisti avevano subordinato da tempo alla borghesia le istituzioni che essi dirigevano (partiti, sindacati, cooperative, associazioni culturali, case editrici, periodici, feste, ecc.). In Italia come dovunque quelle istituzioni avevano un effettivo ruolo politico grazie alla egemonia sulle masse popolari che il movimento comunista aveva conquistato durante la prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale. Subordinate alla borghesia, esse hanno subito per prime le conseguenze della sua crisi e hanno anticipato la sua sorte. La nuova fase del movimento economico non permetteva più di combinare soggezione politica alla borghesia imperialista e conquiste di civiltà e di benessere per le masse. Il PCI iniziò nel 1991 la sua dissoluzione che è ancora in corso (PRC, PdCI, ecc.). Contrariamente a quanto proclamano i nostalgici della pratica revisionista di rivestire la collaborazione con la borghesia di sacri principi e di un frasario comunista (da Cossutta a Rossanda, da Ingrao a Bertinotti), Occhetto che sciolse il PCI nel 1991 non ruppe con i suoi predecessori, ma fu l’esecutore testamentario del fallimento del progetto di conciliazione tra le classi e di subordinazione della classe operaia alla borghesia imperialista portato avanti dai revisionisti moderni diretti prima da Togliatti e poi da Longo e da Berlinguer. I tentativi di continuare quella pratica sono stati e sono impersonati dal PRC, dal PdCI e da partiti e gruppi minori. Questi tentativi falliscono e falliranno uno dopo l’altro, perché manca la base materiale su cui il PCI revisionista si era retto. Assieme a loro va in crisi anche l’egemonia borghese sull’aristocrazia operaia. L’aristocrazia operaia è utile alla borghesia finché riesce a manipolare le masse. È utile alle masse finché traduce le richieste delle masse in riforme e concessioni effettive, sia pure nell’ambito del modo di produzione capitalista. Con la crisi del regime DC l’aristocrazia operaia perde la sua sponda nelle istituzioni e nel governo. Questo e la delusione che si diffonde tra le masse per i risultati della sua azione erodono la base del suo potere: il consenso delle masse e la capacità di manipolarle. Le forme, i tempi e gli effetti diretti del fallimento dei revisionisti moderni, dei loro aspiranti successori e dell’aristocrazia operaia saranno decisi dalla lotta politica in corso. È nel corso di questa lotta che il nuovo partito comunista italiano può e deve raccogliere, educare e accumulare le forze rivoluzionarie che faranno dell’Italia un nuovo paese socialista.

Il regime DC è in crisi, ma la soluzione di ricambio può risultare solo dalle lotte tra gruppi imperialisti e dalla lotta tra le masse popolari e la borghesia imperialista a cui la seconda crisi generale del capitalismo sta dando luogo. L’Italia è un caso particolare del problema generale. La crisi politica non è italiana, è generale. Fare dell’Italia un nuovo paese socialista è l’esito che noi comunisti possiamo, dobbiamo e vogliamo dare a questa crisi in Italia, contribuendo così alla seconda ondata della rivoluzione proletaria mondiale: alla vittoria della rivoluzione socialista o della rivoluzione di nuova democrazia in altri paesi.

Nel corso di questa lotta risolveremo definitivamente, per noi e per il movimento comunista internazionale, anche il problema del Papato, della sua Chiesa e del loro ruolo controrivoluzionario, anticomunista a livello internazionale. Grazie al regime DC, il Papato e la sua Chiesa hanno infatti legato il loro destino a quello dello Stato della borghesia imperialista in Italia.

Il fascismo, regime terroristico della borghesia imperialista, era stato l’ultimo tentativo della borghesia italiana di assorbire nella Pubblica Amministrazione e di gestire nell’ambito di un regime pubblico, necessariamente esso stesso terroristico ed extralegale, le varie forme e i vari aspetti della sua dominazione sulle masse: dalla beneficenza, all’intimidazione, all’eliminazione dei comunisti e degli altri oppositori. Nonostante il grande sforzo profuso dalla borghesia italiana durante il ventennio, il fascismo si concluse in modo fallimentare per la borghesia che l’aveva promosso: il suo Stato e le sue forze armate dissolte, una classe operaia forte, il paese occupato. Essa si salvò solo grazie ai limiti del PCI, all’occupazione americana e al Vaticano. Il risultato fu la creazione di uno Stato Pontificio allargato di tipo nuovo. Il Vaticano con la DC creò la versione specificamente italiana di un regime di controrivoluzione preventiva.

Nei suoi cinquant’anni di vita, il regime DC ha ulteriormente sviluppato una particolarità della società borghese italiana. Essa consiste nel fatto che le attività (finanziarie e politiche) che si svolgono al di fuori e contro la legge ufficialmente vigente, la violenza parastatale e privata, i complotti e gli intrighi che sono diventati strumenti dell’attività economica, commerciale e finanziaria dei gruppi imperialisti in ogni paese imperialista (e da qui tracimano, vengono esportati nei paesi dipendenti), queste caratteristiche moderne e d’avanguardia della borghesia imperialista, in Italia si sono rigogliosamente sviluppate combinandosi con le vecchie società segrete, con le vecchie associazioni criminali, con le sette, con le chiese, con gli ordini religiosi e cavallereschi, in particolare con le organizzazioni della Chiesa (congregazioni ecclesiastiche e laiche, conventi, diocesi, parrocchie, opere pie, confraternite). La sintesi di questa particolarità è l’esistenza di un governo di fatto, il Vaticano con la sua Chiesa, che dirige il governo ufficiale, legale.

Il Vaticano e la sua Chiesa sono un residuato medioevale nella società moderna. Ciò che in Europa rese le Autorità medioevali funzionali e necessarie (la difesa e la sopravvivenza delle popolazioni in un contesto caratterizzato da invasioni, epidemie, precarietà, carestie), è scomparso con le società medioevali. Del ruolo delle Autorità medioevali il Vaticano e la Chiesa hanno conservato solo il diritto a esigere dalle popolazioni le risorse necessarie alla loro opulenza e alla loro magnificenza e a imporre alle popolazioni le condizioni confacenti all’esercizio della loro autorità. Quindi un ruolo e una concezione del potere puramente parassitari che non reggerebbero alla prova dei fatti se il Vaticano e la Chiesa assumessero direttamente il ruolo di governare il paese. Ciò era già diventato palese nel vecchio Stato Pontificio. La direzione indiretta permette invece che questa concezione del potere si traduca concretamente in una piovra che parassitariamente succhia risorse e impone costrizioni alla popolazione di un paese moderno, mentre le Autorità legali, ufficiali provvedono come possono al resto dei compiti che lo Stato assolve in una società borghese. A questa condizione il Vaticano e la Chiesa possono sopravvivere nello Stato Pontificio creato col regime DC. Essi esigono completa libertà d’azione in tutti i campi che essi reputano attinenti all’esercizio della loro “missione divina in terra” in Italia e nel mondo e attingono dal paese le risorse di cui reputano di avere bisogno. Quanto ai comportamenti personali dei loro sudditi, essi tollerano qualsiasi cosa, purché i comportamenti contrari ai loro precetti siano praticati senza ostentazione, discretamente, senza “dare scandalo”, non siano legittimati da leggi e da atti della Pubblica Amministrazione, non diventino segno di ribellione alla loro autorità e esteriormente i sudditi non facciano mancare l’espressione del loro ossequio al magistero della Chiesa. Lo Stato legale può statuire quindi su tutto come meglio crede, salvo che su quello che il Vaticano e la Chiesa reputano attinenti ai loro interessi, al loro prestigio e alla loro autorità. Fedeli alla loro concezione medioevale del potere, essi sono del tutto indifferenti alle condizioni materiali, morali e intellettuali della popolazione, alla sola condizione che la ribellione delle classi oppresse alle condizioni loro imposte non metta in pericolo l’ordine esistente. Provvedere in proposito era compito dello Stato legale del regime DC. Allo stesso regime gli imperialisti USA non chiedevano di più.

Il regime DC tollerò quindi quello che le masse popolari avevano conquistato con la loro lotta vittoriosa contro il fascismo e che nessun potere avrebbe potuto cancellare senza ricorrere al terrore e alla guerra civile e provvide a che le rivendicazioni portate avanti dal movimento comunista fossero soddisfatte in misura sufficiente a non diventare un pericolo per il regime. In questo compito per trent’anni (1945-1975) il regime DC fu aiutato dalla congiuntura economica internazionale, oltre che dalla collaborazione del vecchio PCI. Questi infatti tacitamente si impegnò a non superare i limiti propri del regime DC. La borghesia a sua volta si accontentò della libertà di condurre i suoi affari, sotto la protezione del regime DC. Ovviamente dovette intenderli in maniera ristretta, gretta e meschina. Dovette lasciare al parassitismo del Vaticano e della sua Chiesa tutto il campo d’azione, sul terreno materiale, morale e intellettuale, che essi volevano e ne fu a sua volta largamente partecipe, cosa a cui la predisponevano non solo le condizioni generali della borghesia specifiche dell’epoca imperialista (capitalismo decadente e parassitario) ma anche la sua storia particolare. Donde la sua cronica debolezza e sudditanza nel consesso internazionale.

Il carattere moderno del regime DC nella storia del nostro paese consistette in questo: la borghesia prese atto che è impossibile gestire la repressione della classe operaia e delle masse popolari nell’ambito della Pubblica Amministrazione e di un’attività codificata in leggi. Sviluppò su grande scala le più svariate forme di repressione extralegali: private e criminali, aperte e occulte. Il regime DC combinò magistralmente, con la connivenza e l’appoggio determinanti dei revisionisti moderni, la creazione di sindacati gialli con lo squadrismo fascista e con l’intimidazione e l’agguato mafiosi. In ciò le fu maestra la borghesia imperialista USA, che per prima aveva creato un efficace regime di controrivoluzione preventiva. Le vecchie associazioni feudali (fa testo per tutte la mafia siciliana) si svilupparono rigogliosamente e assunsero forme modernissime, divennero le vesti attuali, d’avanguardia della borghesia imperialista, nella sua marcia trionfale verso il baratro. Liggio andò a scuola da Agnelli, lo superò e diede vita alla nuova multinazionale finanziaria, mondiale e globale. Dopo il fascismo, l’Italia regalò a tutto il mondo un altro nome: mafia.

Nel regime democristiano si combinavano dunque caratteristiche generali, comuni a tutti i regimi politici espressione della borghesia imperialista nel secondo dopoguerra, nel periodo detto del capitalismo dal volto umano, con caratteristiche specifiche sue proprie, dettate dai tratti specifici della composizione di classe del nostro paese, della storia del nostro paese, dei gruppi politici che impersonavano il regime. Essi provenivano dall’associazionismo cattolico, dalle organizzazioni parrocchiali e, nel meridione, dalle tradizionali escrescenze intellettuali del potere degli agrari. Tra i tratti caratteristici del regime democristiano vi erano dunque il clientelismo, l’assistenzialismo, la conservazione delle condizioni di riproduzione di un certo tipo di borghesia rurale e urbana e di imprese capitaliste individuali, la mitigazione degli effetti più traumatici del capitalismo tramite il settore economico pubblico, la spesa pubblica e la beneficenza. Il regime DC si è occupato del benessere delle masse popolari solo nella misura in cui il movimento comunista faceva di esso un problema di ordine pubblico, quindi un problema politico. Quindi se ne è occupato in modo stentato, spintovi a forza, in misura gretta e meschina, il meno possibile, l’indispensabile, al traino del resto del mondo. Le risorse della società e i suoi mezzi d’azione non sono mai stati mobilitati dal regime per trovare soluzioni durature ai problemi delle masse. Le soluzioni tampone, l’assistenza e la beneficenza privata erano le sue risorse.

I tratti peculiari del regime DC si erano comunque ben combinati con le caratteristiche generali del dominio della borghesia imperialista del periodo del capitalismo dal volto umano. Essi invece rendevano questo regime inadatto a gestire i rapporti con le masse popolari in conformità con le esigenze del nuovo periodo caratterizzato dalla crisi economica iniziata negli anni ‘70. La crisi economica spingeva all’estremo gli aspetti specifici del regime DC e con ciò stesso li rendeva incompatibili con la dominazione della borghesia imperialista: in un periodo di vacche grasse l’assistenza serve ad aggiustare le cose e ad arrotondare gli spigoli; in un periodo di vacche magre porta alla “dilapidazione del patrimonio”. La Spesa Pubblica, il deficit di bilancio, il Debito Pubblico, gli squilibri finanziari, la corruzione, il degrado dei servizi pubblici crebbero esponenzialmente negli ultimi anni dei governi CAF. Craxi fu l’esponente emblematico di quegli anni.

Il regime DC è entrato in crisi quando, a causa della crisi generale, divenne impossibile per la borghesia imperialista proseguire a dare risposta alle aspirazioni delle masse, quando queste si esprimevano con forza, con la politica clientelare, tramite l’uso della Pubblica Amministrazione e del settore economico statale e pubblico in generale. Quando l’IRI non poté più, a causa della crisi generale, assorbire e mantenere in vita le aziende private in fallimento e chiuse essa stessa le sue aziende.

A questa causa si aggiunge che, nel contesto della crisi generale, i contrasti tra i gruppi della borghesia imperialista stessa, italiani e stranieri, si acuirono quando i gruppi imperialisti franco-tedeschi lanciarono nuovamente su grande scala la loro offensiva per crearsi uno “spazio vitale” in Europa, da usare nella competizione internazionale. L’Europa di Maastricht non poteva imbarcare il regime DC.

 

 Il regime DC fino al 1992 aveva proclamato di essere in grado di risolvere il problema del lavoro e in generale della vita delle masse. In questo senso aveva accettato la “sfida del comunismo”, nella veste riduttiva e meschina, unicamente rivendicativa e passiva, in cui la ponevano i revisionisti moderni. La rinuncia, dal 1992 praticata e dichiarata, della Pubblica Amministrazione ad assicurare un lavoro a tutti e a risolvere i problemi della sopravvivenza delle masse popolari e la delega di questo compito alle imprese capitaliste, agli imprenditori, alla iniziativa privata, è la dichiarazione di fallimento del regime DC di fronte al vicolo cieco in cui esso ha condotto il paese: la nuova crisi generale. Per alcuni versi equivale alla fuga del re nel 1943 di fronte al vicolo cieco in cui si era cacciato con il fascismo.

La dichiarata abdicazione della Pubblica Amministrazione della borghesia imperialista, del suo Stato a “creare lavoro” e in generale a risolvere i problemi della vita delle masse, mascherata appena con la reintroduzione del famigerato “elenco dei poveri” cui promette qualche elemosina, dal “nuovo welfare”, dalla “flexi security” e da altre analoghe istituzioni, è tanto più grave

perché essa arriva in un contesto economico in cui è impossibile che la stragrande maggioranza della popolazione risolva individualmente questi problemi. Il carattere collettivo raggiunto dalle forze produttive toglie, oggi ancora più di 50 anni fa, la possibilità che i singoli individui risolvano su larga scala individualmente i problemi della loro vita (agricoltura di autosussistenza, piccoli lavori, ecc.). La borghesia che rigetta come assistenzialismo il compito di occuparsi con i pubblici poteri della soluzione dei problemi della vita delle masse, le condanna a morte come esuberi, perché l’iniziativa privata dei capitalisti non vi provvede a causa della crisi generale (guerra di sterminio non dichiarata);

perché questa abdicazione arriva mentre in tutta Europa la borghesia imperialista adotta la stessa linea di condotta, costrettavi dalla concorrenza con i gruppi imperialisti USA. Infatti questi, nella lotta generata dalla crisi generale, oltre a sconvolgere la stessa società americana, fanno valere tutto il peso dell’egemonia mondiale che hanno ereditato dalla storia precedente, il loro ruolo di fornitori di moneta fiduciaria per tutto il mondo, la rete dei loro interessi costituiti che come una piovra schiaccia e succhia quasi tutti i paesi, anche se sempre più spesso per farli valere devono riesumare la politica delle cannoniere che segnò la fine dell’impero britannico.

La crisi del regime DC apre un ampio spazio d’azione al nuovo movimento comunista. La crisi mette a nudo i limiti del regime e ne porta all’estremo le caratteristiche antipopolari. Esso non ha più la sponda dei revisionisti moderni. Esso non può più assicurare al Vaticano e alla sua Chiesa le risorse e le condizioni che essi esigono e che il regime ha assicurato per quasi cinquanta anni. La borghesia deve eliminare le conquiste che le masse popolari hanno strappato, non può concedere più nulla. È ridotta a far balenare guadagni dalla partecipazione sotto la bandiera dell’imperialismo USA all’aggressione e al saccheggio dei paesi oppressi (Iraq, Afganistan, ecc.) e degli ex paesi socialisti (Jugoslavia, ecc.). È l’unico programma che la borghesia può presentare: il programma comune della borghesia imperialista. A questo punto tutte le idee, le affermazioni di diritti e le promesse che i revisionisti hanno usato per decenni per mascherare il triste presente, gli ideali che essi in combutta con il clero e i suoi chierichetti hanno inscritto nella Costituzione e che le masse popolari hanno ampiamente assimilato, possono diventare una forza materiale contro il regime che non può soddisfarle, che di sacrifico in sacrificio deve rinnegarle, se il nuovo movimento comunista ne fa la sua bandiera. I frutti della prima ondata della rivoluzione proletaria possono e devono diventare una forza per la seconda ondata.

I revisionisti moderni hanno lasciato svolgere per decenni la recita del fatuo teatrino della politica borghese. Vi hanno anzi partecipato giocandovi un ruolo indispensabile alla buona riuscita della recita. Il nuovo movimento comunista può e deve far leva sulla partecipazione delle masse popolari a cui questo teatrino, per il ruolo che svolge nel regime di controrivoluzione preventiva, è e deve essere almeno in qualche misura aperto. Deve portare le masse popolari a irrompere sulla scena sotto la sua direzione. Scopriranno così per esperienza diretta che è una messinscena, ma soprattutto impediranno la continuazione della recita. La borghesia sarà costretta a buttare essa stessa in aria il teatro, a chiuderlo. Già oggi la governabilità del paese è per la borghesia un problema di soluzione sempre più difficile. La governabilità in fatti è la pretesa di avere le apparenze della rappresentanza popolare per una recita che deve seguire un copione predisposto dal Vaticano, dagli imperialisti USA, dalla Confindustria e dagli altri minori padroni del paese. Sarà un’esperienza diretta attraverso la quale, se il partito comunista saprà fornire una giusta direzione, le masse popolari supereranno le illusioni che sia possibile uscire dal marasma e dall’incubo attuale senza rovesciare il vecchio potere e le illusioni che ci si possa liberare dalla miseria, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dal degrado morale e intellettuale, dalla crisi ecologica senza abolire l’economia capitalista e l’economia mercantile.

 

2.1.5. La costruzione del nuovo partito comunista italiano

 

La Pubblica Amministrazione della borghesia imperialista si ritira, abdica al compito di provvedere a creare lavoro e in generale di provvedere alla soluzione dei problemi elementari della vita delle masse popolari, per quanto intesi in modo gretto, meschino e volgare.

La classe operaia col suo nuovo partito comunista raccoglie la sfida: le masse popolari possono trovare la loro strada e risolvere tutti i problemi della loro vita e progredire ben oltre; la classe operaia può dirigerle in questa impresa, in modo che dalla loro esperienza pratica imparino a organizzarsi e a risolvere i propri problemi immediati e a prendere in mano la propria vita. L’ostacolo principale perché le masse possano risolvere i loro problemi è proprio la direzione della borghesia imperialista, il regime che ha il suo asse centrale nella Chiesa. Eliminare la direzione della borghesia imperialista e instaurare la direzione della classe operaia è il compito storico che si pone al partito comunista per i prossimi anni.

Il nuovo partito comunista riprende in mano la tesi enunciata dal primo partito comunista nel suo Congresso di Lione (gennaio 1926): l’Italia è un paese imperialista e non esiste possibilità di una rivoluzione popolare che non sia la rivoluzione socialista. Non c’è altra via di avanzamento per la classe operaia, per il proletariato, per le masse popolari, che non sia la rivoluzione socialista.

I revisionisti moderni di Togliatti e Berlinguer avevano dichiarato che la rivoluzione socialista non era più necessaria alla classe operaia e alle masse popolari del nostro paese, che le masse popolari del nostro paese potevano risolvere i loro principali problemi strappando riforme su riforme fino a creare una società socialista, che il sistema capitalista non portava più a crisi e a guerre. La realtà ha mostrato che le loro tesi non stanno in piedi, che servivano solo a disgregare e corrompere il vecchio partito e portarlo allo sfacelo.

La borghesia elimina sotto i nostri occhi le conquiste che le masse popolari hanno strappato col sudore e col sangue nel periodo 1945-1975 e che i revisionisti avevano assicurato che sarebbero continuate fino a creare una società socialista; si moltiplicano i crimini della borghesia imperialista contro le masse popolari del nostro paese, contro i lavoratori immigrati, contro i paesi oppressi dall’imperialismo e contro i paesi ex-socialisti. Solo l’eliminazione della borghesia imperialista permetterà alle masse popolari di dedicare le proprie energie a soddisfare i propri bisogni elementari, a risolvere i problemi della propria vita, a creare quell’umanità superiore che corrisponde alle possibilità dell’epoca attuale, alle migliori aspirazioni e ai sentimenti più avanzati delle masse popolari.(2) Solo la classe operaia può eliminare la borghesia imperialista dal potere e prendere la direzione delle masse popolari e dell’intera società e condurle a realizzare i loro obiettivi.

Contro questo ripiegamento della borghesia imperialista dettato dalla crisi generale (gli squilibri finanziari tra le parti che la compongono, la concorrenza e la lotta a coltello tra gruppi imperialisti, ecc.), il partito comunista deve guidare la mobilitazione delle larghe masse in ogni campo, ad ogni livello e con ogni mezzo.

La crisi politica e culturale della borghesia imperialista spinge le masse alla mobilitazione. La difesa delle conquiste strappate nei trent’anni di capitalismo dal volto umano e la ribellione contro l’attuale regime fino alla sua eliminazione sono le due componenti (difesa e attacco) della resistenza delle masse al procedere della crisi.

Tutti quelli che sono disposti a lottare contro l’attuale regime, devono trovare nel partito comunista la direzione più sicura e più lungimirante, quali che siano le ragioni dichiarate della loro lotta. La classe operaia deve diventare il centro della mobilitazione delle masse, la guida della loro resistenza al procedere della crisi generale del capitalismo.(109)

 La linea generale del nuovo partito comunista italiano nel suo lavoro di massa è quindi

 

“unirsi strettamente e senza riserve alla resistenza che le masse oppongono ed opporranno al procedere della crisi generale del capitalismo, comprendere ed applicare le leggi secondo cui questa resistenza si sviluppa, appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far prevalere in essa la direzione della classe operaia fino a trasformarla in lotta per fare dell’Italia un nuovo paese socialista, adottando come metodo principale di lavoro e di direzione la linea di massa.

 

Il primo passo sulla strada di questo ampio lavoro di massa per fare dell’Italia un nuovo paese socialista era la ricostruzione del partito comunista.

Il compito principale nella ricostruzione del nuovo partito è consistito nell’elaborare, dal bilancio dell’esperienza dei circa 160 anni di lotte del movimento comunista e dall’analisi concreta dei rapporti economici, politici e culturali del nostro paese e dei suoi legami internazionali, la strategia per la conquista del potere. La pratica della linea generale del partito, l’analisi delle esperienze condotta partendo dalla concezione materialista dialettica del mondo e col metodo del materialismo dialettico (marxismo-leninismo-maoismo (*)) hanno permesso al partito di scoprire la via per raccogliere e accumulare le forze rivoluzionarie fino a che il rapporto di forza tra borghesia imperialista e classe operaia sarà rovesciato e la classe operaia potrà prendere il potere (via alla rivoluzione socialista nel nostro paese).

Lenin e Mao ci hanno insegnato che un partito deve avere una concezione, chiara e fondata su una scrupoloso esame della realtà, della via che il partito deve seguire per condurre la classe opera a conquistare il potere. Gli opportunisti di ogni genere si oppongono a questa tesi. Difendere e applicare questa tesi è in realtà particolarmente importante nel nostro paese.

Il movimentismo è una tendenza diffusa, una malattia storica del movimento comunista italiano; la tendenza a sottovalutare il ruolo della teoria rivoluzionaria, a trascurarla e a trattare con sufficienza e con insofferenza le persone e le iniziative che sviluppano e propagandano la teoria rivoluzionaria. Una tendenza che è il riflesso speculare della tendenza costituita dagli intellettuali accademici “di sinistra”, quelli che non fanno parte di organizzazioni rivoluzionarie, che si occupano di problemi che non c’entrano con i problemi del movimento pratico e che non si preoccupano di verificare nel movimento pratico le loro teorie.

Il movimentismo è una tendenza che, per quanto si richiami alla pratica, non è affatto pratica.

Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito coeso, disciplinato, forte e alla lunga un partito rivoluzionario può essere coeso e disciplinato solo se i suoi membri sono uniti su una sua concezione del mondo (per i movimentisti questo sa di setta, ma è un’accusa che i comunisti si sono spesso sentiti fare) e se personifica ciò che unisce gli operai al di là delle differenze e dei contrasti di categorie e di mestieri, di culture, di nazionalità, di sesso, di tradizioni e che li costituisce come nuova classe dirigente delle masse popolari: la concezione comunista del mondo e l’obiettivo di instaurare il socialismo.

Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito che sappia orientarsi nelle svolte e nei meandri della lotta politica, che sappia quindi orientare le masse: la capacità di orientamento di un organismo complesso come un partito non si improvvisa di fronte agli avvenimenti. È frutto di un’educazione del partito a considerare e comprendere gli obiettivi e il contesto della propria lotta.

Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito legato alle masse profondamente e in mille modi, perché le masse lo alimentino e a sua volta alimenti il movimento delle masse. Il legame tra le masse e il partito è fondato principalmente sull’attività politica, ma il partito non riuscirà mai a svolgere il suo compito educativo nei confronti delle masse e a trarre dalle masse non solo seguaci della politica del momento ma nuovi comunisti, se non è basato su una teoria rivoluzionaria.

Questo è anche l’insegnamento universale del movimento comunista. Ma per noi comunisti italiani la questione della concezione del mondo e della teoria rivoluzionaria riveste un’importanza particolare a causa di una nostra particolarità nazionale. Quando nel secolo XVI le forze feudali guidate dal Papato soffocarono la nascente borghesia, esse soffocarono (col rogo, con la prigione, col terrore, con la tortura e con la corruzione) anche la riforma intellettuale e morale che aveva accompagnato la nascente borghesia e che ha avuto i suoi ultimi e massimi esponenti in Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Giordano Bruno, Galileo Galilei e Tommaso Campanella. Da allora nel nostro paese la Chiesa Cattolica, al di là delle apparenze e dei fuochi fatui alla Benedetto Croce, ha mantenuto il monopolio nel campo della cultura e della concezione del mondo, della teoria. Il Risorgimento non ha cambiato sostanzialmente la situazione. I figli della grande borghesia italiana sono stati educati nelle scuole dei preti, fin quando nel dopoguerra hanno incominciato a frequentare quelle degli imperialisti USA. Si pone quindi per il proletariato del nostro paese, per condurre in porto la propria emancipazione, anche il compito di fare un salto particolarmente grande in campo teorico e in primo luogo di rompere con l’indifferenza, la rinuncia e la delega a creare nel campo della teoria: atteggiamento e comportamenti che da caratteristica della borghesia italiana hanno finito per diventare una nostra peculiarità nazionale. Già nelle Tesi di Lione del vecchio PCI (1926) Antonio Gramsci aveva affermato che “il Partito Comunista d’Italia ... non trova ... nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi” (Tesi 25). Il concetto è ribadito nelle prime tre tesi dello stesso capitolo IV delle Tesi di Lione.

Il proposito, agitato da Togliatti e dagli altri revisionisti moderni del vecchio PCI, di una egemonia culturale e spirituale del proletariato nella società italiana prima della conquista del potere, è velleitario nonostante la debolezza della borghesia italiana in questo campo. Per essere la cultura dominante bisogna avere gli strumenti della classe dominante. La classe operaia riesce a fare della sua cultura la cultura dominante solo costruendosi gli strumenti di classe dominante, cioè instaurando il suo potere. Inoltre l’esperienza dei paesi socialisti ha mostrato che la classe operaia incontra particolare difficoltà a prendere il potere in campo culturale, proprio perché la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è una delle divisioni di classe che nel socialismo vengono eliminate solo gradualmente. Ma il nucleo razionale della lotta condotta da Antonio Gramsci per una riforma intellettuale e morale e per l’egemonia culturale e spirituale del proletariato sta nel fatto che il partito della classe operaia italiana, per adempiere al suo compito politico, deve diventare portatore di una teoria rivoluzionaria che rompe con la tradizione clericale prima e americana poi della classe dominante del nostro paese. La sconfitta delle Brigate Rosse negli anni ‘80 è in sostanza dovuta al non essersi sottratte all’egemonia della cultura borghese di sinistra, alle carenze in campo teorico. L’indifferenza per la lotta in campo teorico, così diffusa e tenace nel movimento comunista italiano dai suoi inizi fino ai nostri giorni in contrasto con la ricchezza di lotte e iniziative pratiche, è figlia dell’indifferenza e della rinuncia che sono state caratteristiche della borghesia italiana in questo campo a partire dalla sua sconfitta nel XVI secolo. È per noi più difficile superare un ostacolo che è diventato parte della nostra tradizione nazionale. Proprio per questo è indispensabile che dedichiamo a questo campo più energie di quelle che devono dedicarci compagni di altri paesi, stante il fatto che “senza teoria rivoluzionaria il movimento rivoluzionario non può svilupparsi fino a conseguire la vittoria”. L’origine e la pericolosità dei negatori della teoria rivoluzionaria stanno proprio in questa nostra peculiarità nazionale. Lotta Continua e l’Autonomia Operaia sono il peggior retroterra del movimento che noi ereditiamo. La sconfitta del movimento degli anni ‘70 lo ha dimostrato.

L’opposizione al lavoro per definire la nostra strategia (l’inerzia, il non fare niente, la passività, ecc. sono una forma di opposizione), se si richiama al materialismo storico, si richiama in realtà a una caricatura del materialismo storico. Il materialismo storico ci insegna da dove vengono le idee, ma il materialismo dialettico ci insegna che le idee una volta assimilate dagli uomini, una volta diventate guida dell’azione delle masse diventano una forza materiale che trasforma il mondo. Ci insegna l’importanza delle idee nella pratica degli uomini e nella lotta delle classi. La classe operaia ha bisogno di idee giuste, di una concezione del mondo e di un programma.

Chi trascura il lavoro per definire la strategia del partito, o è contrario (o indifferente) alla costruzione del partito o ha una concezione movimentista del partito, cioè concepisce il partito solo come un’organizzazione di lotta, alla maniera di Lotta Continua o di Autonomia Operaia o di una Organizzazione Comunista Combattente.(*) Lenin, Mao e altri eminenti rivoluzionari comunisti hanno più volte indicato che la teoria rivoluzionaria è condizione indispensabile perché un movimento rivoluzionario possa svilupparsi fino alla vittoria. “Il movimento è tutto, il fine nulla”, affermava invece nel 1899 Bernstein, il padre di tutti gli opportunisti e promotore del primo movimento revisionista. Questa e non il comunismo è anche la concezione di quanti si oppongono alla definizione della nostra strategia e in generale all’elaborazione della nostra teoria rivoluzionaria per la rivoluzione socialista nel nostro paese.

Sulla base di questi criteri, alla metà degli anni ottanta, in Italia alcuni compagni provenienti da organizzazioni in linea di massima aderenti al marxismo-leninismo-maoismo e dal vasto movimento di lotta contro la repressione, si sono aggregati con l’obiettivo di creare le quattro condizioni per la ricostruzione del partito comunista; 1. formare compagni capaci di ricostruire il partito in modo che sia all'altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell'esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria; 2. sviluppare il lavoro sul programma del partito, sul suo metodo di lavoro, sull'analisi della fase e la linea generale del partito; 3. legare al lavoro di ricostruzione del partito i lavoratori avanzati, in particolare gli operai avanzati, i giovani e le donne delle masse popolari; 4. creare la base finanziaria per il futuro partito comunista.

Conseguentemente questi compagni hanno condotto una lotta tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista del nostro paese per migliori in campo per la ricostruzione del partito comunista. Così è nata la “carovana del nuovo partito comunista”. Le organizzazioni e i compagni della “carovana”, tra cui emergono il Coordinamento dei Comitati Contro la Repressione, la Redazione della rivista Rapporti Sociali, i Comitati di Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo (CARC), l’Associazione di Solidarietà Proletaria (ASP) ed altre organizzazioni di massa ad essi collegate, sono stati il terreno della lotta tra le due linee nel movimento comunista italiano.

Attraverso questa esperienza politica, organizzativa e di lotta una parte del movimento comunista del nostro paese è giunto nel 1999 a costruire, nella clandestinità, la Commissione Preparatoria del Congresso del (nuovo)Partito comunista italiano, a formare i primi Comitati di Partito e, nell’ottobre del 2004, a costituire il (nuovo)Partito comunista italiano.

 

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