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Georgij Valentinovič Plekhanov


LA FUNZIONE DELLA Personalità NELLA STORIA


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INDICE


Premessa


Formare e “curare” la personalità dei comunisti per creare la nuova classe dirigente del proletariato e delle masse popolari

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 59, luglio 2018. pag. 4



La funzione della personalità nella storia

Georgij Valentinovič Plekhanov pag. 22




Appendici


Cinque questioni sulla direzione

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 61, marzo 2019. pag. 56


Combattere lo scetticismo nelle nostre file!
Per dirigere un compagno bisogna imparare a conoscerlo

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 62, luglio 2019. pag. 64




PREMESSA


Formare e “curare” la personalità dei comunisti per creare la nuova classe dirigente del proletariato e delle masse popolari

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 59, luglio 2018


Indice

1. Formare dirigenti comunisti di tipo nuovo.

2. Trasformare la mentalità e la personalità è necessario e possibile.

3. Quali sono i principali problemi di mentalità e personalità di alcuni membri e candidati che influiscono negativamente sulla loro azione e sul loro ruolo nel Partito?

4. Alcuni criteri e metodi per dirigere i processi di trasformazione della mentalità e

della personalità.

5. Conclusioni.


1. Formare dirigenti comunisti di tipo nuovo

Dopo la scoperta della strategia della Guerra Popolare Rivoluzionaria, viene la scoperta della Riforma Intellettuale e Morale (RIM), seconda per importanza solo alla prima. Nell’applicazione della linea tracciata ci siamo resi conto che dobbiamo sviluppare la cura e la formazione di quanti aspirano a diventare comunisti e dei membri stessi del Partito fino a determinare la loro trasformazione. Nei paesi imperialisti, per essere all’altezza del suo compito, per essere capace di dirigere la Guerra Popolare Rivoluzionaria, il Partito deve promuovere nelle sue file una riforma intellettuale e morale, che consta di studio della concezione comunista del mondo, della storia del nostro paese, della sua composizione di classe e delle sue relazioni internazionali, del corso delle cose e della nostra linea e di processi di Critica-Autocritica-Trasformazione (CAT) per trasformare la concezione del mondo, la mentalità e in una certa misura anche la personalità dei singoli compagni. Con la RIM noi applichiamo il sesto apporto del maoismo («ogni membro del partito comunista non è solo soggetto della rivoluzione socialista, ma anche oggetto della rivoluzione socialista») per superare la prassi e la concezione della Internazionale Comunista, secondo cui un compagno aderiva al partito e si impegnava a dare – e di regola dava – il massimo del contributo di cui è capace stante quello che lui è. Il principio era: mi arruolo nel Partito e faccio con generosità tutto quello che sono capace di fare, meglio che sono capace di fare stante quello che io sono, la formazione fisico-sociale che sono e le condizioni in cui vivo.

Questo non basta. Nei partiti della prima Internazionale Comunista hanno potuto, senza infrangere la disciplina e le regole del partito, restare e anche acquisire posizione dirigente individui come Giorgio Napolitano (entrato nel PCI subito dopo la fine della II Guerra Mondiale). Ma il discorso vale anche per dirigenti che non sono arrivati al suo livello di degenerazione e depravazione. Basti pensare a Giorgio Amendola (mentore di Napolitano), a Enrico Berlinguer e altri. Ancora più istruttivo è pensare ai milioni di compagni che hanno dato generosamente tutto quello che erano capaci di dare senza che con questo il PCI arrivasse a instaurare il socialismo. Da questo abbiamo imparato che un compagno che aderisce al Partito, deve essere disposto a trasformarsi per diventare capace di dare il massimo contributo a cui può arrivare.

Ogni individuo è quello che è, ma è anche quello che non è ancora, ma che può arrivare a essere trasformando la sua concezione del mondo, la sua mentalità e in qualche misura anche la sua personalità, cioè facendosi oggetto della rivoluzione e non solo soggetto. Ogni individuo è una formazione (uso il termine nel senso con cui compare nell’espressione che un terreno o una roccia è una formazione geologica) fisico-sociale, con una componente fisica, chimica, biologica che si sviluppano secondo loro proprie leggi e una componente spirituale – psicologica, intellettuale, ecc. – che anch’essa si sviluppa secondo sue proprie leggi, combinate come in un calcolatore sono combinati l’hard e il soft. Quando aderisce al Partito, si ritrova con una concezione del mondo, una mentalità e una personalità. Ha margini notevoli, importanti, non sappiamo quanto grandi di trasformazione. Bisogna metterli in opera, valorizzarli.

Noi dobbiamo trasformarci per imparare a fare la rivoluzione: ogni compagno deve diventare un comunista migliore di quello che è al momento dell’adesione, diventare più capace di combattere la borghesia e il clero e di fare la rivoluzione.

Di fatto la trasformazione già in qualche misura si faceva anche nel passato, nel movimento comunista cosciente e organizzato: i suoi membri si trasformavano. Facevano di più e meglio perché di fatto si trasformavano grazie alla pratica in cui venivano coinvolti – in cui il Partito li coinvolgeva e in sui si coinvolgevano – e la formazione che ricevevano. Ma la trasformazione non veniva perseguita in modo consapevole, organizzato, sistematico, universale, ricavando dall’esperienza una scienza della trasformazione. Anche in questo campo la pratica precede la teoria: prima facciamo una cosa e poi ne prendiamo coscienza e grazie alla coscienza la facciamo a un livello superiore. Ci siamo resi conto che in questa lacuna vi era un fattore di debolezza. Bisognava andare più avanti. Lo facciamo e impariamo a farlo.




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La trasformazione della mentalità e della personalità è un processo concreto di lotta tra concezioni del mondo e di trasformazione (revisione critica di concezioni, mentalità e aspetti della propria personalità), che fa leva sugli aspetti ideologici e sugli obiettivi pratici connessi alla trasformazione dell’attuale struttura economica, politica e sociale per creare nel compagno una nuova personalità: un processo educativo e formativo strettamente legato al processo generale di trasformazione della società, come processo insieme oggettivo e soggettivo, in cui ogni comunista (dirigente e diretto) diventa soggetto e oggetto della trasformazione.

È un processo in cui il compagno sottoposto alla “cura” partecipa sempre più coscientemente e attivamente, fino a diventare egli stesso, già nel corso del processo, medico (curatore e formatore) di altri compagni, divulgatore di una scienza che emancipa ed eleva le persone, che costruisce gli uomini e le donne del futuro. Il processo diventa una cura sociale, in quanto alimenta e sviluppa la partecipazione sempre più attiva e cosciente alla lotta per il socialismo, l’unico sistema in grado di farla finita con i mali del capitalismo.

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Così in vari scritti del Partito1 abbiamo lanciato la parola d’ordine che “per diventare comunisti di tipo nuovo dobbiamo trasformare la nostra concezione del mondo, la nostra mentalità e la nostra personalità modellate dalla Repubblica Pontificia” e indicato la RIM come via per compiere questa trasformazione.

Coerentemente con questo orientamento, negli ultimi anni abbiamo promosso un grosso lavoro per far conoscere e studiare la scienza comunista a quadri e militanti della Carovana e fatto dei passi avanti nella comprensione e nella verifica della condivisione di essa, quindi nel passaggio dall’adesione identitaria e “incosciente” alla causa del comunismo all’adesione più cosciente.

Questo lavoro da una parte e la cura di nuovi candidati dall’altra ci hanno fatto capire che la RIM dei compagni e delle compagne del Partito deve investire ciascuno dei tre ambiti (concezione, mentalità e personalità) che caratterizzano una persona e, in particolare, che ai fini del consolidamento e rafforzamento del Partito dobbiamo dare più importanza che in passato alla cura e trasformazione della personalità e della mentalità dei compagni. La conoscenza e la condivisione della scienza comunista infatti non sono ancora – non portano automaticamente alla – assimilazione e senza assimilazione non può progredire l’applicazione sistematica della scienza comunista. Ma per avanzare nel processo di assimilazione e pratica della scienza occorre operare una trasformazione della mentalità e della personalità: cambiamento particolare e più difficile per noi comunisti dei paesi imperialisti, perché controcorrente (contro la corrente comune, contro il comune sentire imposto dalla borghesia e dal clero come modo di sentire “naturale”, “ovvio” – sistema di intossicazione e di diversione). Quindi richiede un particolare sforzo e delle forzature. Anche per questo nonostante il livello raggiunto dal Partito nel bilancio dell’esperienza del movimento comunista, nell’analisi del corso delle cose e nella definizione della linea generale e nonostante il celere procedere della crisi generale del capitalismo, oggi la formazione di quadri comunisti adeguati a svolgere il ruolo di avanguardia dirigente della classe operaia e del resto delle masse popolari capaci, con la determinazione e la lungimiranza di chi ha assimilato la scienza delle forme e delle condizioni della lotta di classe, di raccogliere le forze già oggi disponibili, formarle e dirigerle a lottare procede ancora lentamente. Ma proprio la formazione di quadri comunisti è la parte decisiva della Guerra Popolare Rivoluzionaria.


*****

Gli uomini fanno da sempre la loro storia: è una favola che l’abbia fatta dio o qualche individuo superiore agli altri. Le attività con le quali l’hanno fatta si sono svolte secondo leggi che i marxisti individuano studiandole. Il materialismo storico è una di esse. Uno dei tratti che distingue la storia che gli uomini stanno facendo oggi dalla storia che l’ha preceduta è che gli uomini riescono a farla solo grazie a un certo livello di consapevolezza di quello che stanno facendo (degli obiettivi) e dei metodi e strumenti necessari. La scienza comunista è questa consapevolezza. I comunisti la usano nel promuovere la rivoluzione socialista, cioè per guidare le masse popolari a fare la propria storia.

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2. Trasformare la mentalità e la personalità è necessario e possibile

Per aderire alla causa del comunismo, per proclamare e propagandare la causa del comunismo, basta l’adesione identitaria alla concezione comunista del mondo. Per comprendere a fondo la realtà e per trasformarla occorre un’adesione più profonda che deriva dall’assimilazione della concezione comunista e dal cambiamento della mentalità e della personalità. Cambiamento che riguarda il rapporto di un individuo con gli altri e la loro vita associata, l’individuo che diventa soggetto e oggetto dei processi: un cambiamento necessario per affrontare con successo la situazione e i compiti della fase. La trasformazione della mentalità (il modo di vedere la cose e di ragionare che una persona prende più o meno criticamente dal gruppo sociale in cui è inserita e dalla pratica sociale che ha alle spalle) e la trasformazione della personalità (le caratteristiche intellettuali, morali, psicologiche e fisiche di una persona che derivano dalla sua esperienza di vita familiare e sociale: di alcune di esse l’individuo è cosciente, di altre no) in funzione dei compiti del Partito in questa fase, hanno una rilevanza particolare per la formazione dei comunisti di tipo nuovo. La questione riguarda in modo particolare noi comunisti dei paesi imperialisti. Essa assume un carattere distinto e urgente per compagni che occupano posti dirigenti nel Partito (“partire dalla testa”), ma investe tutti i membri.

Noi esigiamo che ogni membro aderisca al marxismo-leninismo-maoismo e al nostro Manifesto Programma, cioè alla concezione comunista del mondo. Un po’ come si esige che un chimico impieghi nel suo lavoro la scienza chimica. Non esigiamo e sarebbe assurdo esigere che tutti gli individui abbiano la stessa mentalità. Tanto meno esigiamo che abbiano la stessa personalità. Tuttavia dobbiamo elevare la nostra mentalità e personalità all’altezza della nostra concezione del mondo per essere capaci di avanzare nella sua assimilazione e applicazione. Allo stesso tempo dobbiamo studiare la personalità dell’individuo che dobbiamo dirigere o con cui dobbiamo lavorare o che dobbiamo combattere.

Gli individui sono formati dalle condizioni ambientali e sociali (rapporti sociali) in cui vivono: è una delle tesi del materialismo dialettico (la terza e quarta delle 11 Tesi su Feuerbach di Marx – vedi La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 58 pp. 28-29).

I rapporti sociali hanno una loro logica: gli uomini fino a che si troveranno in rapporti determinati, sentiranno, penseranno e agiranno in un dato modo e non altrimenti. Ma, se io so in che senso cambiano i rapporti sociali in virtù di determinati mutamenti del processo sociale ed economico della produzione, so pure in che senso cambierà la psicologia sociale; di conseguenza ho la possibilità di influire su di essa. Influire sulla psicologia sociale vuol dire influire sugli avvenimenti storici. In questo senso posso fare la storia e non mi occorre aspettare che essa sia fatta”.2 Detto in altre parole, noi comunisti non stiamo ad attendere che le cose accadano, dirigiamo le masse popolari a fare la loro storia.

Nella società imperialista si scontrano due linee nella formazione degli individui: formare ogni individuo a essere individualista (cliente, consumatore, lavoratore, membro della sua famiglia) o formare ogni individuo a sentirsi, comportarsi e riconoscersi come membro di un collettivo. Ogni individuo è formato, forgiato, dalle condizioni e dalle circostanze, dai rapporti in cui cresce e vive:3 non esiste l’essere umano per natura individualista ed egoista, non esiste l’essere umano per natura collettivista e altruista. La concezione del mondo, la mentalità e la personalità di ogni essere umano si trasforma sotto l’impulso delle circostanze, della comunicazione (educazione) e della sua consapevole attività di trasformazione (RIM e processo di CAT contro il primo pilastro del regime di controrivoluzione preventiva).

Quando una persona incontra e si lega al Partito compie una svolta e un salto perché da quel momento inizia la sua consapevole partecipazione alla scienza delle attività con le quali gli uomini fanno la loro storia e all’attività di trasformazione degli individui diretta dal Partito.

Dobbiamo considerare che la concezione del mondo è una cosa che si cambia anche in breve tempo (tramite corsi intensivi di studio), mentre la mentalità e la personalità sono più difficili da cambiare: richiedono un percorso di revisione e rettifica che trae alimento anche dalla formazione intellettuale, ma che attiene principalmente alla modifica della propria condotta (comportamento, atteggiamento, modo di fare). Ad esempio un membro del Partito può padroneggiare l’analisi della seconda crisi generale del capitalismo, può anche saperla spiegare agli altri, ma per assimilarla e farla diventare guida per la sua azione deve cambiare la sua mentalità su alcune questioni: deve capire cosa implica l’analisi della crisi in termini di trasformazione del suo modo di vedere le cose per quanto riguarda la gestione delle sue risorse economiche, l’economia dei suoi familiari, la gestione dei risparmi delle masse popolari, il futuro del capitalismo, ecc. L’assimilazione dell’analisi lo porta a modificare la sua visione del mondo, ma capita ancora che membri del Partito parlino di fase acuta e terminale della crisi, denuncino le speculazioni finanziarie con le quali la borghesia succhia risorse dalle masse popolari, ma poi essi stessi nella gestione della propria economia e di quella dei familiari si comportano come se questa analisi non avesse delle ripercussioni pratiche ben precise e tendono a gestirle sulla base del senso comune. È un esempio di quanto un limite nell’assimilazione della linea generale, nella traduzione del generale nel particolare e quindi nell’attuazione della linea deriva dal fatto che il compagno mantiene una mentalità da senso comune, non ancora basata sulla concezione comunista del mondo.

Tuttavia è possibile cambiare mentalità e in una certa misura anche la personalità immettendo l’individuo in un percorso pratico (di collaborazione con noi, di contribuzione alla nostra opera) che lo trasforma e, da un certo punto in poi, acquisendo però la sua fattiva collaborazione alla trasformazione della sua personalità e della sua mentalità. Partiamo dal fatto che è possibile: quando si unì alla rivoluzione e al PCC, Chuh Teh aveva più di 40 anni ed era cocainomane, eppure si è trasformato. Si tratta di imparare e via via fissare quello che impariamo.


*****

Nei paesi imperialisti ci sono due aspetti a cui dobbiamo prestare attenzione nella trasformazione della nostra personalità e mentalità: senso del dovere e cura del proprio stato fisico.

Per fare la rivoluzione ci vuole energia, forza e senso del dovere. La borghesia educa le classi oppresse a seguire il cuore (ma il “fate l’amore non la guerra” andava bene per i soldati americani in Vietnam, non per i proletari che dobbiamo educare oggi) e l’istinto, a ragionare di stomaco e non di testa. Però i suoi rampolli e in generale i futuri dirigenti delle sue aziende, dei suoi eserciti, ecc. non li educa così: li educa al senso del dovere.

Un compagno che non cura il proprio stato fisico non traduce in pratica la sua convinzione che faremo dell’Italia un nuovo paese socialista (è un problema di scissione tra teoria e pratica) oppure non è convinto della nostra causa (colloca il socialismo in un lontano futuro, tanto lontano da essere ininfluente su quello che fa oggi, sul suo comportamento di oggi). Nel corso folle in cui la borghesia trascina l’umanità c’è una componente malsana in termini di alimentazione (mangiare quando si ha fame come gli animali e non all’ora dei pasti, non avere un’alimentazione sana e regolare, ecc.), in termini di esercizio fisico, in termini di regole di vita, ecc. Bisogna fare sport e avere un’alimentazione sana e regolare, impostandola in un modo tale che diventi uno stile abitudinario (normale) e che sia semplice (ossia un’alimentazione nutriente, con una serie di piatti ricorrenti e che non assorbe tempo eccessivo per fare la spesa e per “inventare ricette” ogni volta: in questo modo la creatività può essere usata per le attività principali). Questo è un orientamento che ogni dirigente deve usare per sé e nella formazione. Un dirigente che “predica bene ma razzola male” è diseducativo per i compagni e alimenta la scissione tra teoria-pratica. La cura della propria salute fisica è uno dei campi in cui si manifesta la responsabilità che ci siamo assunti verso le masse popolari.

*****


3. Quali sono i principali problemi di mentalità e personalità di alcuni membri e candidati che influiscono negativamente sulla loro azione e sul loro ruolo nel Partito?

Il principale problema che il Partito deve affrontare è la carenza, se non la mancanza di spirito e piglio dirigente verso se stessi, verso gli altri (verso i compagni che si dirigono, verso le masse popolari, verso le persone con cui per qualche motivo si ha a che fare: parenti, amici e conoscenti, colleghi di lavoro o di scuola) e la loro vita associata. Si tratta di comportamenti e attitudini espressione di una mentalità da autodidatta (pensare che le cose e le persone maturino da sé, ognuno si fa da sé, “se ci sono riuscito io, possono farlo anche gli altri”) e di una personalità conciliante, remissiva, codista e fatalista, di chi non dà battaglia per vincere (orientarsi sulla base del senso comune, non fare discorsi netti, adagiarsi sull’arretrato, accontentarsi, liberalismo), di chi non ha la granitica certezza che è possibile vincere la borghesia e trasformare la società (“il socialismo è possibile e necessario”), di chi non ha fiducia nella capacità del Partito e sua di trasformare gli uomini e le donne e conquistarli alla causa (praticare la politica dei piccoli passi, non incidere a fondo per estirpare il bubbone, non “curare la malattia per salvare il malato”). Nei dirigenti del Partito sono espressione del passaggio che essi per primi devono fare dall’illustrare ai diretti e spiegare anche bene, con scritti, discorsi, lettere o riunioni, la linea e poi lasciare che ognuno di essi faccia quello su cui è d’accordo e che si sente di fare, al tradurre la linea in un programma abbastanza dettagliato di operazioni pratiche che fa attuare (impone), al portare le persone a fare cose che altrimenti non farebbero, all’andare a fondo sulle questioni tanto quanto l’attività in corso e il caso concreto lo comportano (senza “castrare” il compagno diretto, cioè senza togliergli spazio di iniziativa), al condurre processi di RIM e CAT incisivi contrastando la paura di perdere i compagni (i compagni si perdono quando non si curano secondo una linea che li fa avanzare), al rompere con l’attendismo e il fatalismo (aspettare e sperare che le cose si aggiustino da sole).

Sono comportamenti e attitudini che riflettono, in una combinazione che è particolare per ogni singolo compagno, due fattori generali:

- riguardano in generale gli elementi delle masse popolari, quindi riguardano gran parte di noi comunisti che veniamo dalle masse popolari e siamo cresciuti allo stato brado, sottomessi e impregnati del secolare oscurantismo della Chiesa Cattolica che pervade il nostro paese, che siamo vissuti nella fase di decadenza del movimento comunista (il prevalere del revisionismo moderno e poi della sinistra borghese) e nella fase iniziale della sua rinascita sulla base del marxismo-leninismo-maoismo. È vero che tra le masse popolari ci sono anche persone arroganti, ma essere arroganti è diverso dall’essere dirigenti: i dirigenti devono capire gli altri e portarli a fare cose che spontaneamente non farebbero, prendere decisioni in contesti particolari (tradurre la linea generale nel particolare), assumersi la responsabilità di dirigere e fare;

- nei paesi imperialisti il retaggio del vecchio movimento comunista di cui abbiamo detto all’inizio, che si è combinato al fatto che la borghesia imperialista con il regime di controrivoluzione preventiva (Manifesto Programma del (nuovo) Partito comunista italiano, cap. 1.3.3) e il lungo periodo di predominio dei revisionisti moderni e di “capitalismo dal volto umano” hanno alimentato anche tra le masse popolari concezioni e stili di vita decadenti, distruttivi e autodistruttivi. Da qui l’importanza particolare che ha per i comunisti dei paesi imperialisti la lotta contro il primo pilastro del regime di controrivoluzione preventiva (intossicazione e diversione) e le tre trappole.4

A questi due fattori, per quanto ci riguarda, si aggiunge che la Carovana del (nuovo)PCI è partita da un nucleo di compagni che per forza di cose in diversi campi si sono formati da autodidatti e facendo fronte ai propri errori: “provando e riprovando, ma senza arrendersi né farsi abbattere dagli errori”. Quel nucleo ha posto basi solide per lo sviluppo della nostra azione, ma vari di noi portano ancora i segni negativi di questa origine.

Quali sono le principali manifestazioni della carenza di piglio dirigente verso se stessi e gli altri?

Ci sono compagni che mescolano e rimescolano l’analisi di se stessi e delle loro vicende familiari e personali invece di:

a) guardare a se stessi come entità rappresentative di una società in una determinata fase, di una classe, di un ambiente (ogni singolo individuo riflette caratteristiche che sono sociali, della società e di parti di essa, degli scontri, delle contraddizioni e delle trasformazioni che sono in corso in essa) e come qualcosa che si trasforma,

b) analizzarle per capire cosa devono trasformare per assolvere al ruolo che il Partito ha assegnato loro nella rivoluzione socialista e come fare a trasformarsi.

Alcuni riconoscono che è necessario modificare il proprio stile di vita e di lavoro, ma continuano a mantenere uno stile di lavoro approssimativo e superficiale e non si sottopongono con serietà e costanza alla cura, più o meno lunga e profonda, indicata dal Partito (dai dirigenti e dai collettivi di riferimento).

Altri riconoscono i propri limiti (orientarsi sulla base del senso comune, dipendenza da relazioni familiari malsane, accodarsi alle situazioni e ai diretti, quieto vivere, ecc.) nella direzione della propria vita, degli organismi e degli altri compagni, ma li trattano come una colpa (concezione clericale) o una propria tara (“non sono capace”, “sono inadeguato”), invece di mettersi all’opera nello sperimentare i criteri e i metodi che il Partito ha già elaborato e in una certa misura sperimentato come validi.

Ci sono compagni che dalle vicende della loro vita sono stati formati a cercare la benevolenza e l’affetto, quindi a realizzare la loro partecipazione alla società partecipazione di cui ogni individuo ha bisogno tramite la buona condotta: “buona” nel senso di conforme ai desideri e alle prescrizioni della società di cui aspirano a far parte, quindi approvata da essa. Da qui dogmatismo e sottomissione, accondiscendenza. È un’attitudine tipica e diffusa tra le classi oppresse e arretrate.

Ci sono compagni che sono ben lanciati nello studio e nel lavoro di massa ma hanno difficoltà a organizzare e gestire la loro vita e soprattutto le loro relazioni personali in funzione del loro ruolo sociale. Le necessità della vita e le relazioni personali sono aspetti secondari nel senso che non sono quello attorno a cui ruota la vita di un membro del Partito, ma non nel senso che non se ne deve occupare. Dobbiamo quindi occuparci sistematicamente e bene (dedicare energie e una cura particolare) di come i membri del Partito organizzano e gestiscono la loro vita e le loro relazioni personali e sentimentali: verificare, spingerli e insegnare loro a organizzarle e gestirle in funzione del ruolo sociale che hanno assunto e vogliono svolgere. Il criterio è che per dirigere gli altri dobbiamo dirigere noi stessi.

Ci sono infine due tipi di candidati con i quali negli ultimi tempi abbiamo a che fare, la cui cura e formazione pone con particolare forza la necessità di avere un piglio dirigente:

- individui che hanno una personalità aggrovigliata nel senso comune, nella debolezza di volontà e nelle tre trappole. Sono persone sane in quanto vogliono lottare contro questa società malsana ma affette, a diversi livelli di gravità, dal mal di vivere:5 vengono a noi non su base identitaria (adesione al movimento comunista, alla sua storia e ai sentimenti che lo animano), ma perché sono alla ricerca di una ragione di vita che non trovano nella vita corrente. Aspirano a un mondo migliore (tendenza positiva) ma presentano problemi di scissione tra quello che dicono e quello che fanno, tra le loro aspirazioni e la loro pratica. A volte si tratta di persone che hanno cercato il senso della propria vita in qualche altra persona anziché nel partecipare (a livelli che possono essere diversi: protagonista o sostenitore) a realizzare la trasformazione, di cui il contesto in cui vive è gravido, o a compiere l’impresa in cui è occupato il gruppo di cui fa parte: la cosa crea rapporti di dipendenza personale ed espone la persona dipendente a cadute brusche, perché la persona da cui dipende è sottoposta, come ogni individuo, ai mille accidenti della vita. Sta a noi educarle, mobilitarle e dar loro un ruolo nelle file di quelli che contribuiscono alla lotta per instaurare il socialismo: la partecipazione alla lotta di classe è il modo migliore anche per curare la fragilità psicologica e il mal di vivere da cui sono affetti. Per dirigere efficacemente i processi di RIM di questi compagni occorre esaminare bene le questioni di personalità e mentalità, non basta fermarsi alla concezione. Prima di tutto dobbiamo rispondere alla domanda: “questa persona è adatta a noi? È adatta al lavoro di Partito?”. In secondo luogo dobbiamo rispondere alla domanda: “ha la volontà, oppure l’ambizione, oppure la spinta morale, oppure la curiosità intellettuale sufficiente per affrontare la trasformazione che il mettersi alla scuola del Partito e partecipare alla sua esperienza comportano?”. La riposta positiva a queste due domande è vincolante per avviare il percorso di candidatura, un percorso che richiede una direzione salda e decisa per portarlo a termine (decidere se farlo diventare un membro o un collaboratore del Partito).

- Individui che provengono dalle classi non proletarie delle masse popolari o dalla borghesia. Sono persone che in positivo possono avere qualità utili al lavoro del Partito, ma in negativo portano concezioni, mentalità che ereditano dalla classe d’origine (individualismo, arrivismo, liberalismo, disprezzo verso le masse) e che dobbiamo combattere con decisione per contrastare l’influenza della borghesia e del clero nelle nostre file. Per questo li accettiamo se, e solo se, fanno una chiara, precisa e verificabile scelta di dedicarsi alla causa del proletariato e di dedicare la propria vita a imparare a fare la rivoluzione socialista. Devono senza riserve mettersi alla scuola e partecipare alla pratica del Partito. Se il compagno non è disposto a imbarcarsi nell’impresa tagliando i ponti alle spalle, è meglio (se comunque può essere utile al lavoro del Partito) farne un collaboratore. Anche per questo tipo di persone occorre una direzione ferma e chiara per dirigere efficacemente il percorso di RIM che si articolerà in processi di rottura (lotta tra vecchio e nuovo) e passi pratici, che necessariamente avverranno per tappe successive.6

I problemi connessi alla trasformazione della mentalità e della personalità di membri e candidati sorgono nel Partito sulla spinta delle condizioni oggettive e soggettive dei compiti della lotta rivoluzionaria in corso. Si tratta quindi di problemi che, come diceva Marx, sorgono “solo quando le condizioni materiali della loro soluzione esistono già o almeno sono in formazione”. Anche in questo campo dobbiamo applicare la scienza del movimento comunista, il materialismo dialettico, con spirito sperimentale, facendo tesoro dell’esperienza che ricaviamo dalla storia del movimento comunista e dalla nostra esperienza diretta.

4. Alcuni criteri e metodi che abbiamo messo a punto per dirigere i processi di trasformazione della mentalità e della personalità

Un processo di cura e trasformazione della mentalità e della personalità per essere condotto con successo richiede:

1. da parte del compagno oggetto della “cura”, una profonda adesione alla causa del comunismo, la volontà e decisione individuale di diventare comunista (di mettersi senza riserve al servizio della causa del proletariato e del Partito) e la disponibilità ad affidarsi alle cure del Partito;

2. da parte del soggetto responsabile (dirigente e collettivo) della “cura” del compagno:

a) di avere fiducia, basata sull’analisi concreta della situazione concreta (concreto reale del compagno), che il compagno è adatto (caratteristiche personali e volontà di mettersi alla scuola e partecipare alla pratica del Partito) a diventare membro del Partito;

b) di avere fiducia che possiamo trasformarlo (abbiamo la scienza per trasformarlo e dargli un posto nella lotta di classe), partendo da quello che è ma soprattutto guardando a quello che può e deve diventare, tenendo presente che la concezione è una cosa che si può cambiare abbastanza facilmente, mentre la mentalità e la personalità sono più difficili da cambiare.

È un percorso lungo, profondo e doloroso che porta a una rettifica più o meno profonda. Quanto? dipende dalle origini di classe della persona coinvolta e da quanto essa è impregnata da concezioni, abitudini e pratiche borghesi e clericali e della sinistra borghese.7 È come quando uno fa allenamento. L’allenamento è una costrizione dolorosa, ma quando grazie all’allenamento uno è arrivato a essere capace di correre, saltare, fare, ecc. allora è finalmente libero di correre, saltare, fare, ecc.: cose di cui prima era incapace. O quando uno studia una scienza. Lo studio è faticoso, richiede disciplina. Ma quando uno via via si ritrova capace di fare, capace di vedere, capace di capire quello che prima non era capace di fare, che non vedeva e non capiva, allora è libero dalle costrizioni cui prima soggiaceva, cui soggiace chi quella scienza non l’ha ancora assimilata.

In questo processo bisogna utilizzare il materialismo dialettico (ogni cosa è infinitamente conoscibile e può essere trasformata, causa interna e cause esterne nel processo di trasformazione, ecc.) per aiutare il compagno interessato a comprendere:

- il ruolo che hanno la sua mentalità e la sua personalità nell’adempimento del suo compito di comunista (aspetti positivi su cui far leva per superare i limiti e correggere gli aspetti negativi);

- il ruolo che hanno la gestione e la direzione delle sue relazioni familiari, affettive e sociali ai fini del suo compito principale;

- l’importanza che ha la conoscenza di se stessi (conoscere se stesso e le persone con cui ha a che fare per conoscere il mondo in cui vive e lotta; conoscere il mondo in cui vive e lotta per conoscere meglio se stesso e gli altri), del percorso (storico e logico) di formazione della sua concezione, mentalità e personalità, dell’incidenza che hanno avuto e hanno la famiglia di provenienza, le sue relazioni affettive e sentimentali, le sue esperienze politiche, sindacali, sociali (scolastiche, lavorative, hobby, sportive, ecc.), i suoi aspetti psicologici e umorali.8 Con l’accortezza, come detto sopra, che non è scavando nei meandri del passato o rimescolando l’analisi di se stessi che si trova la via di uscita: la via di uscita è analizzare le vicende personali per capire cosa dobbiamo trasformare per svolgere il nostro ruolo nella rivoluzione socialista.

Dobbiamo far leva su quello che il compagno vuole diventare (su quello che vogliamo farlo diventare):

- per fargli comprendere meglio (grazie all’aiuto e al contributo del collettivo) quello che era ed è diventato (la sua vecchia mentalità e personalità e quella nuova che sta acquisendo) e come avanzare nel processo di trasformazione (fatto un passo, bisogna fare il secondo, il terzo, ecc.);

- per farlo partecipare più attivamente al processo per trasformare il vecchio e costruire il nuovo (la nuova mentalità e la nuova personalità). Il processo di trasformazione è analogo a una terapia, ci sono i medici e c’è il paziente. Il rapporto però non è quello della medicina borghese, il massimo a cui gli uomini sono arrivati in fatto di terapia: il medico fa la diagnosi e prescrive la terapia, il paziente la applica, il medico controlla e adegua la terapia ai risultati.

Il nostro metodo è più avanzato, prende quello a cui la società borghese è arrivata e fa un passo avanti: il ruolo attivo del paziente che via via diventa medico. La guarigione è la trasformazione del paziente in medico. È come in politica. Il comunista elabora una strategia e una linea, la porta alle masse che la assimilano e la applicano e la fine del processo è il comunismo: la distinzione tra comunisti e masse è cancellata, le masse non hanno più bisogno di Stato e di Partito e sono diventate quella “associazione in cui il pieno sviluppo di ognuno è la condizione del pieno sviluppo di tutti”.

Va chiesto al compagno un ruolo attivo. Non nel senso che decide lui quale terapia applica, ma nel senso che cerca di capire la diagnosi che noi facciamo e la terapia che gli prescriviamo, il ragionamento e gli elementi sulla base dei quali noi stabiliamo la terapia e oltre ad applicare la terapia ci dice sinceramente quello che ha da dire sul ragionamento che abbiamo seguito e sugli elementi su cui ci siamo basati. Soprattutto in fatto di elementi su cui ci siamo basati, il compagno interessato ha certamente una conoscenza più diretta (non è detto più profonda e più vasta, ma più diretta certamente) di quella che abbiamo noi e quindi è importante che ci segnali quello che a suo parere noi abbiamo visto male e quello di cui noi non abbiamo tenuto conto. Attenzione: tanto è importante che segnali, quanto è importante che non cambi la terapia di sua iniziativa e tanto meno di nascosto.

Scoprire e comprendere che la formazione della propria mentalità e personalità ha principalmente una radice sociale (non è frutto di tare biologiche, del destino più o meno crudele, dei propri genitori, ecc.) diventa liberatorio e porta a una visione più pratica dell’ordinamento economico e sociale del capitalismo e della necessità di superarlo. Per questo è di fondamentale importanza far leva su quello che vogliamo diventare, partire dal senso che vogliamo dare alla nostra vita per superare gli ostacoli e le resistenze che incontriamo nel processo di trasformazione in comunisti di tipo nuovo.

La riforma intellettuale spiana la strada alla nostra riforma morale e l’alimenta ma, come spiegato sopra, ai fini della trasformazione della mentalità e della personalità l’intervento decisivo riguarda la pratica dei compagni del Partito. Per farlo è necessario che, fase per fase, nel dirigere il percorso di trasformazione di un compagno:

- individuiamo gli aspetti di mentalità e personalità che sono da trasformare (il vecchio da superare e il nuovo che dobbiamo far emergere);

- elaboriamo la combinazione di attività intellettuale (studio ed elaborazione dell’esperienza) e soprattutto di attività pratica tramite la quale si articolerà la rettifica del compagno;

- elaboriamo le condizioni di contesto (circostanze) e nei limiti del possibile creiamo circostanze tali da permettere al compagno di cimentarsi nella sua rettifica;

- dirigiamo il processo di rettifica avendo cura e spingendo il compagno ad un ruolo attivo e via via sempre più partecipe (con l’obiettivo che da paziente diventi medico di se stesso e quindi, già durante il percorso, inizi a diventare medico di altri);

- conduciamo con continuità e costanza la cura, prestando attenzione a non iniziare l’intervento e poi sospenderlo arbitrariamente (è come se un chirurgo iniziasse un intervento e poi lasciasse il paziente in attesa di concluderlo).

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Nell’approcciare ogni possibile candidato, è utile distinguere due ordini di problemi che nella pratica sono combinati e intrecciati ma logicamente sono distinti.

Il primo dobbiamo trattarlo con tutti quelli che sono preoccupati o indignati per il corso attuale delle cose. Riguarda la storia dell’umanità, la natura e la trasformazione della società attuale (il corso delle cose) e si conclude con la tesi che l’umanità per uscire dal pantano attuale deve instaurare il socialismo. La risposta a questo primo ordine di problemi è questione di scienza (non di opinione), è cosa dimostrata dall’esperienza storica e da verificare su di essa: la si studia, la si assimila e la si applica sviluppandola come avviene per ogni scienza. In questo terreno quindi siamo per la lotta a fondo contro l’eclettismo e la superficialità, il nichilismo, il relativismo che sono oggi tratti distintivi della cultura borghese e a cui sono approdati anche i Gesuiti con papa Bergoglio.

Il secondo dobbiamo trattarlo solo con quelli che, stante la conoscenza acquisita affrontando il primo dei due ordini di problemi, sono convinti che l’umanità per uscire dal pantano attuale deve instaurare il socialismo. Concerne la via da seguire, la linea. Si basa sull’esperienza del movimento comunista (della prima ondata) e sull’analisi della situazione particolare del nostro paese. Indica le conclusioni che ne abbiamo tratto e la linea che stiamo seguendo, la GPR che promuoviamo, i mezzi che ci diamo, la linea del Governo di Blocco Popolare, ecc.

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5. Conclusioni

Anche nel progresso e nella trasformazione degli individui e degli organismi l’elemento dirigente è la coscienza e non lo stato d’animo, il desiderio, l’aspirazione, l’inclinazione. La coscienza deve dirigere la trasformazione che si compie in una lotta tra vecchio e nuovo, tra vero e falso, tra avanzato e arretrato. In ogni individuo vi sono tendenze contraddittorie. Ogni individuo incarna il contrasto tra le classi fondamentali della nostra epoca, tra le due vie e le due linee. Ogni comunista lo incarna in modo particolare, dato il ruolo sociale che egli vuole svolgere nella trasformazione del mondo. Chi vuole essere comunista deve trasformarsi. Diventare comunista vuol dire assumere un atteggiamento, una coscienza e un ruolo diversi da quelli con cui il compagno si ritrova, da quelli correnti (“staccarsi dalle masse, per unirsi alle masse con un ruolo diverso, a un livello superiore”): diventare dirigente dei propri compagni in una lotta offensiva contro la borghesia per eliminarla, diventare disposti a ogni sacrificio per vincere. Ogni comunista è un’unità di opposti. Nel corso della sua vita più volte si troverà consapevolmente a operare per fare in modo che “l’uno si divide in due”. Dobbiamo riconoscere questo contrasto presente in ognuno di noi comunisti e prendere decisamente posizione a favore del temine che rappresenta il futuro, il comunismo, la lotta per instaurare il socialismo: il polo che cerca di affermarsi contro il polo che rappresenta il passato, la società basata sulla divisione in classi e sull’oppressione di classe, il capitalismo o le altre società del passato, il polo che frena la nostra partecipazione alla rivoluzione, che la ostacola, ce ne distoglie.9

In definitiva la trasformazione di cui abbiamo bisogno è il frutto di una lotta che la coscienza orienta, favorisce, accelera. Senza coscienza rivoluzionaria, non si riesce a svolgere un ruolo rivoluzionario. La coscienza (la conoscenza) indica l’orientamento, le circostanze, il metodo e gli strumenti della lotta per trasformarci e trasformare. La critica dei nostri compagni ci aiuta a formare la nostra coscienza. La loro critica e il loro esempio ci sostengono e stimolano nella lotta.

Questo è il contesto e il percorso della lotta che conduciamo per trasformare il mondo e noi stessi (in persone che hanno una comprensione più avanzata delle condizioni e delle forme della lotta per il comunismo), attraverso l’applicazione e lo sviluppo di una scienza sperimentale elaborata da Marx-Engels, Lenin, Stalin, Mao, Gramsci. In questo percorso ogni membro del Partito impara a non lasciare che le cose seguano il loro corso spontaneo: spontaneamente l’arretrato (senso comune) sottomette l’avanzato (concezione comunista). La forza dell’arretrato viene dal fatto che oggi esso ha dalla sua la forza della borghesia e del clero, la forza della tradizione e del potere di cui essi sono la personificazione, la forza che deriva loro dall’attuale debolezza del movimento comunista. È questo che rende forte l’arretrato, non la sua natura intrinseca. Non è la solfa del bene e del male, con il male per sua natura più forte del bene. Al contrario, l’arretrato è per sua natura destinato a scomparire, ma in questa fase concreta della rinascita del movimento comunista, in ognuno di noi l’arretrato gode del vantaggio della forza che complessivamente, nel complesso della società, la borghesia e il clero hanno. Importante è riconoscere i propri limiti e imparare dagli errori per avanzare. Bisogna imparare ad affrontare con serenità e con coraggio le situazioni e trovare vie di avanzamento. È importante dove siamo oggi, ma è ancora più importante che da dove siamo oggi sappiamo avanzare, verso quello che vogliamo diventare.

Sergio G. ed Ernesto V.

*****

Marx, Engels, Lenin, Stalin dicevano che, passando dalla società borghese (che ha forme molteplici da paese a paese e nel tempo, ma tutte sono basate sul modo di produzione capitalista come modo di produzione dominante) al comunismo, gli uomini, quindi la massa della popolazione, avrebbero dovuto trasformarsi intellettualmente e moralmente: “l’uomo nuovo” è un’espressione ricorrente nella letteratura sovietica. Questa trasformazione sarebbe avvenuta nella fase inferiore del comunismo, che hanno chiamato socialismo (Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875). Essa è una trasformazione non arbitraria, da stabilire a buon senso, a fantasia, ognuno secondo il proprio gusto, ecc.: la trasformazione degli individui è dettata dalla trasformazione della società, in quanto ogni individuo è formato dalle condizioni sociali in cui vive e a loro volta gli individui formano la società.

Mao Tse-tung ha aggiunto che i comunisti e il loro partito devono compiere questa trasformazione prima degli altri, durante la rivoluzione socialista: che “i comunisti e il loro partito non sono solo soggetto della rivoluzione socialista, ma anche oggetto di essa” è il sesto grande apporto del maoismo alla concezione comunista del mondo. L’esperienza della prima ondata ha dimostrato, e mostra a tutti quelli che ci riflettono, che se i comunisti non trattano se stessi come oggetto della rivoluzione 1. è impossibile instaurare il socialismo nei paesi imperialisti (qui il socialismo vuol dire riorganizzare il sistema delle relazioni sociali secondo una concezione del mondo che porta la specie umana oltre quello che la specie umana finora è stata) e 2. è impossibile proseguire oltre un certo limite la transizione al comunismo anche nei paesi dove al socialismo si arriva attraverso la rivoluzione di nuova democrazia (dove quindi gli uomini per un certo tratto percorrono la strada che altri hanno già fatto). In conclusione non riescono a essere soggetto della rivoluzione socialista.

Noi sulla base dell’esperienza della prima ondata e della situazione presente abbiamo tradotto che per essere in grado di promuovere e guidare la rivoluzione socialista i comunisti e il loro partito devono trasformarsi. Questo riguarda i singoli compagni (per ogni compagno riguarda la sua concezione del mondo, la sua mentalità e in una certa misura anche la sua personalità e quindi la sua condotta e il suo stile di vita) e il partito (il modo di funzionare del partito nel complesso e di ogni suo organismo).


Georgij Valentinovič Plekhanov


LA FUNZIONE DELLA PERSONALITÀ NELLA STORIA


L’articolo venne pubblicato nel giornale Naučnoe Obozrenie (Rassegna scientifica), nei numeri 3 e 4 del 1898.


I


Nella seconda metà degli anni ‘70 il defunto Kablits10 scrisse l’articolo L’intelletto e il sentimento come fattori del progresso, in cui riferendosi a Spencer dimostrava che la funzione principale nel movimento ascendente dell’umanità spetta al sentimento, mentre l’intelletto adempie una funzione secondaria e inoltre del tutto subordinata. Uno “stimato sociologo”11 obiettò a Kablits esprimendo finta meraviglia per una teoria che riduceva l’intelletto a un fattore di ultimo ordine. Lo “stimato sociologo” aveva ragione, naturalmente, difendendo l’intelletto. Però egli avrebbe avuto più ragione se, invece di discutere l’essenza del problema sollevato da Kablits, avesse dimostrato quanto fosse impossibile e inammissibile la sua stessa impostazione. In realtà la teoria dei “fattori” è per se stessa inconsistente, dato che essa scinde in modo arbitrario i vari aspetti della vita sociale e ne fa delle ipostasi, trasformandoli in forze che da varie parti e con esito ineguale trascinano l’uomo sul cammino del progresso. Ma questa teoria è ancora più infondata nel senso che le ha attribuito nel suo articolo Kablits, convertendo in ipostasi sociologiche particolari non tali o tali altri aspetti della vita sociale, ma i vari campi della coscienza individuale. Sono queste vere colonne d’Ercole dell’astrazione; non si può andare oltre perché più in là si cade nel dominio grottesco del più patente assurdo. Appunto su ciò doveva richiamare l’attenzione di Kablits e dei suoi lettori lo “stimato sociologo”; se avesse rivelato in quale dedalo di astrazioni Kablits era stato condotto dalla sua aspirazione a trovare un “fattore” dominante nella storia, lo “stimato sociologo” forse avrebbe portato per caso un contributo anche alla critica della cosiddetta teoria dei fattori. Ciò sarebbe stato molto utile per noi tutti in quel tempo. Però egli non seppe mantenersi all’altezza del compito. Lui stesso professava proprio questa teoria, differenziandosi da Kablits solo per la sua inclinazione all’eclettismo, grazie al quale tutti i “fattori” gli sembravano egualmente importanti. Le proprietà eclettiche del suo intelletto si manifestarono in modo particolarmente evidente in seguito, attraverso i suoi attacchi al materialismo dialettico, in cui intravedeva una dottrina che sacrificava al “fattore” economico tutti gli altri e riduceva a zero la funzione della personalità nella storia. Allo “stimato sociologo” non era nemmeno venuto in mente che il punto di vista dei “fattori” è estraneo al materialismo dialettico e che solamente un’assoluta incapacità di ragionare logicamente permette di vedere in esso una giustificazione del cosiddetto quietismo12. Del resto bisogna notare che nell’errore dello “stimato sociologo” non c’è niente di originale: lo commettevano, lo commettono e senza dubbio lo commetteranno ancora per molto tempo molti e molti altri…

Si cominciò a rimproverare i materialisti per la loro inclinazione al quietismo già quando essi non avevano ancora formulato la concezione materialistica della natura e della storia. Senza inoltrarci nella “lontananza dei tempi”, rammenteremo la nota polemica dello scienziato inglese Priestley13 con Price14. Analizzando la dottrina di Priestley, Price dimostrava tra l’altro che il materialismo è incompatibile con il concetto di libertà ed elimina ogni iniziativa dell’individuo. Priestley invocò in risposta l’esperienza quotidiana: «Non parlo di me stesso, sebbene, naturalmente, non mi si possa chiamare il più inerte e inanimato degli animali; però: dove voi troverete maggior forza spirituale, maggiore e indomabile energia, maggior forza e perseveranza nel conseguimento degli obiettivi più importanti, se non fra i seguaci della dottrina della necessità?». Priestley si riferiva allora alla setta religiosa democratica, detta dei christian necessarians15. Non sappiamo se in realtà questa setta fosse tanto attiva, come pensava il suo accolito Priestley. Ma ciò non ha importanza. Non vi è nessun dubbio che la concezione materialistica della volontà dell’uomo concorda magnificamente con la più energica volontà pratica. Lanson16 fa notare che «tutte le dottrine che ponevano maggiori esigenze alla volontà umana affermavano in linea di principio l’impotenza della volontà; esse hanno eliminato il libero arbitrio e abbandonato il mondo alla fatalità».

Lanson non ha ragione quando pensa che ogni negazione del libero arbitrio conduca al fatalismo, ma ciò non gli ha impedito di notare un fatto storico di grande interesse: la storia dimostra infatti che persino il fatalismo non solo non impedisce sempre l’energica attività pratica, ma al contrario, in certe epoche, è «la base psicologica necessaria di tale azione». A dimostrazione di ciò ricordiamo i puritani, che per la loro energia superarono tutti gli altri partiti inglesi del secolo XVII, e i seguaci di Maometto, che in breve tempo hanno sottomesso al loro dominio un vasto territorio dall’India alla Spagna. Si sbagliano di grosso coloro per i quali è sufficiente essere convinti del sorgere inevitabile di una serie di avvenimenti determinati, perché in noi scompaia ogni possibilità psicologica di contribuirvi o di resistervi17.

Tutto dipende dal fatto se la mia propria attività costituisca un anello necessario nella catena degli eventi necessari. Nel caso positivo, tanto minori saranno le mie esitazioni e tanto più energici i miei atti. E in ciò non c’è niente di sorprendente: quando diciamo che una data personalità considera la sua attività come un anello necessario in una catena di eventi necessari, ciò fra l’altro significa che la mancanza del libero arbitrio equivale per essa alla completa incapacità di restare inattiva, e che questa mancanza di libero arbitrio si riflette nella sua coscienza sotto la forma dell’impossibilità di agire in modo differente da quello in cui agisce. Questo è appunto lo stato psicologico che può essere espresso con le famose parole di Lutero: «Hier stehe ich, ich kann nicht anders»18 e grazie al quale gli uomini manifestano la più indomabile energia e compiono le gesta più sorprendenti. Questo stato d’animo era sconosciuto ad Amleto: appunto perciò egli era solamente capace di lamentarsi e di abbandonarsi a riflessioni.

E appunto perciò Amleto non avrebbe mai ammesso una filosofia secondo cui la libertà non è altro che la coscienza della necessità. Fichte ha detto giustamente: «Quale l’uomo, tale la sua filosofia».


II


Alcuni fra noi hanno preso sul serio le osservazioni di Stammler19 rispetto alla pretesa insolubile contraddizione che sarebbe secondo lui propria di una delle dottrine politico-sociali dell’Europa occidentale. Ci riferiamo al famoso esempio della eclissi lunare. In realtà, questo esempio è oltremodo assurdo. Tra le condizioni la cui coincidenza è indispensabile per un’eclissi lunare l’attività umana non rientra in nessun modo e non può rientrare, e già solo per questo fatto unicamente in un manicomio potrebbe costituirsi un partito per collaborare all’eclissi lunare. Ma anche se l’attività umana facesse parte delle suddette condizioni, nel partito dell’eclissi lunare non entrerebbe nessuno di coloro che, pur avendo molto desiderio di vederla, nello stesso tempo fossero convinti che essa si verifichi fatalmente anche senza il loro contributo. In questo caso il quietismo non sarebbe altro che l’astenersi da un’azione superflua, cioè inutile, e non avrebbe niente a che vedere con il vero quietismo. Affinché l’esempio dell’eclissi lunare cessi di essere assurdo nel caso da noi esaminato, la sua essenza dovrebbe essere del tutto cambiata dal partito suddetto. Bisognerebbe immaginarsi che la luna fosse dotata di una coscienza e che la posizione da essa occupata nel firmamento, causa delle sue eclissi, le sembrasse il prodotto del suo libero arbitrio e non solo le producesse un enorme piacere, ma fosse assolutamente indispensabile per la sua tranquillità morale, in conseguenza di che essa aspirerebbe con passione a mantenere questa posizione20. Immaginandosi tutto ciò bisognerebbe domandarsi: che cosa sentirebbe la luna, se finalmente scoprisse che in realtà non sono né la sua volontà, né i suoi ideali che determinano il suo movimento nel cielo, ma è al contrario il suo movimento a determinare la sua volontà e i suoi ideali? Secondo Stammler, ne risulterebbe che una tale scoperta inevitabilmente la renderebbe incapace di muoversi, se essa non riuscisse a cavarsela dagli impicci per mezzo di qualche contraddizione logica. Però tale ipotesi manca assolutamente di base. Tale scoperta potrebbe essere uno dei fondamenti formali del cattivo umore della luna, del suo disaccordo morale con sé stessa, della contraddizione tra i suoi ideali e la realtà meccanica. Ma, poiché noi supponiamo che nell’assieme lo stato psichico della luna è in fin dei conti condizionato dal suo movimento, è appunto in ciò che si dovrebbero ricercare anche le ragioni del suo malessere spirituale. Ove si esamini attentamente la questione, risulterebbe forse che la luna, quando si trova nel suo apogeo, soffre, perché la sua volontà non è libera, mentre, trovandosi nel suo perigeo, questa stessa circostanza diventa per essa una nuova fonte formale di beatitudine e di benessere morale. Oppure potrebbe anche avvenire il contrario: forse, potrebbe accadere che non è nel perigeo, ma nell’apogeo che la luna trova il mezzo per conciliare la libertà con la necessità. Comunque sia, non vi è dubbio che tale conciliazione è assolutamente possibile, e che la consapevolezza della necessità concorda perfettamente con la più energica azione pratica. Almeno così succedeva finora nella storia. Le persone che negavano il libero arbitrio superavano frequentemente tutti i loro contemporanei con la forza della propria volontà, a cui presentavano le massime esigenze. Tali esempi sono numerosi e ben conosciuti. Dimenticarli, come a quanto pare li dimentica Stammler, si può solo quando non si vuole deliberatamente vedere la realtà storica, tale quale essa è. Una simile cattiva voglia si fa sentire, per esempio, in modo molto forte fra i nostri soggettivisti e fra certi filistei tedeschi. Ma i filistei e i soggettivisti non sono uomini, bensì semplici fantasmi, come direbbe Belinskij21.

Esaminiamo però più da vicino il caso in cui le azioni passate, attuali e future dell’uomo si presentano tutte sotto l’aspetto della necessità. Noi sappiamo già che, in tal caso, l’uomo – considerando in se stesso l’inviato di Dio, come Maometto, o l’eletto da un destino ineluttabile, come Napoleone, o l’esponente di una forza invincibile del movimento storico, come alcuni uomini politici del secolo attuale – manifesta una forza di volontà quasi irresistibile, distruggendo come castelli di cartapesta tutti gli ostacoli posti sul suo cammino dai grandi e piccoli Amleti22 di tutti i distretti23. Però a noi la cosa interessa da un altro punto di vista, e cioè: quando la coscienza della mancanza di libertà del mio volere mi si presenta esclusivamente sotto l’aspetto di una completa impossibilità soggettiva e oggettiva di agire altrimenti da come agisco, e quando le mie azioni sono nello stesso tempo per me le più desiderabili di tutte le azioni possibili, in tal caso la necessità si identifica nella mia coscienza con la libertà, e la libertà con la necessità, e allora io non sono libero solamente nel senso che non posso violare questa identità tra libertà e necessità, non posso opporre l’una all’altra, non posso sentirmi limitato dalla necessità: ma una simile mancanza di libertà è, a un tempo, la sua manifestazione più completa.

Simmel24 dice che la libertà è sempre libertà rispetto a qualcosa e che laddove non viene concepita come l’opposto di una restrizione non ha senso. Ciò naturalmente è vero. Però si deve, fondandosi su questa piccola verità elementare, smentire la tesi, che costituisce una delle scoperte più geniali del pensiero filosofico, la tesi che la libertà è la necessità resa consapevole. La definizione di Simmel è troppo limitata: si riferisce solamente alla libertà in relazione a ostacoli esteriori. Finché si tratta solamente di tali ostacoli, l’identificazione della libertà con la necessità sarebbe oltremodo ridicola: un ladro non è libero di rubarvi di tasca un fazzoletto nuovo, se voi glielo impedite e finché non abbia in un modo o nell’altro superato la vostra resistenza. Ma, oltre a questo concetto elementare e superficiale della libertà, ne esiste un altro molto più profondo. Questo concetto non esiste affatto per le persone incapaci di possedere un pensiero filosofico, e le persone capaci di possederlo vi pervengono solamente quando riescano a disfarsi del dualismo e a comprendere che fra il soggetto da una parte e l’oggetto dall’altra non esiste affatto quell’abisso che suppongono i dualisti.

Il soggettivista russo oppone i suoi ideali utopistici alla nostra realtà capitalistica e non va oltre tale contrapposizione. I soggettivisti si sono impantanati nella palude del dualismo. Gli ideali dei cosiddetti “discepoli”25 russi somigliano alla realtà capitalistica incomparabilmente meno degli ideali dei soggettivisti. Ma, nonostante ciò, i “discepoli” hanno saputo gettare un ponte che unisce gli ideali alla realtà. I “discepoli” si sono elevati fino al monismo. Essi ritengono che il capitalismo, attraverso il suo sviluppo, condurrà alla negazione di sé e alla realizzazione degli ideali propri dei “discepoli” russi, e non solamente di quelli russi. Questa è una necessità storica. Il “discepolo” è uno degli strumenti di questa necessità e non può non esserlo, tanto per la sua situazione sociale quanto per il suo carattere intellettuale e morale, creato da tale situazione. Anche questo è un aspetto della necessità. Però, dato che la sua situazione sociale ha elaborato in lui precisamente questo carattere e non un altro, egli non solo serve da strumento alla necessità e non solo non può non servirle, ma brama ferventemente e non può non bramare di servirle da strumento. Questo è un aspetto della libertà, e per giunta di una libertà sorta dalla necessità, o più esattamente è una libertà identificatasi con la necessità, è una necessità trasformatasi in libertà26. Una tale libertà è anch’essa libertà nei riguardi di certi ostacoli; essa è altresì opposta a certe restrizioni: le definizioni profonde non smentiscono quelle superficiali ma, completandole, le contengono in se stesse. Ma di che ostacoli, di che restrizioni può dunque trattarsi? È chiaro: degli ostacoli morali da cui è frenata l’energia degli uomini che non l’abbiano fatta finita col dualismo; delle restrizioni a cui è soggetto chi non abbia saputo gettare un ponte attraverso l’abisso che separa gli ideali dalla realtà. Finché non abbia conquistato questa libertà attraverso uno sforzo virile del pensiero filosofico, l’individuo non è ancora pienamente padrone di sé stesso e con le proprie sofferenze morali paga un tributo obbrobrioso alla necessità esteriore che gli si contrappone. Però, in cambio, appena si libera dal giogo di questi obbrobriosi e tormentosi ostacoli, lo stesso individuo si eleverà a una vita nuova, piena, fino allora sconosciuta per lui, e la sua libera attività si convertirà in una espressione cosciente e libera della necessità27. Allora essa diventerà una grande forza sociale e nessuno potrà impedirle e niente impedirà di


lanciarsi con la furia degli dèi

sulla perfida iniquità…


III


Ancora una volta: la coscienza della necessità assoluta di un dato fenomeno non può che accrescere l’energia dell’uomo che simpatizza con esso e si considera una delle forze che provocano tale fenomeno. Se quest’uomo incrociasse le braccia, dopo aver preso coscienza di tale necessità, mostrerebbe con ciò di conoscere male l’aritmetica. Supponiamo che il fenomeno A debba necessariamente prodursi, se esisterà una determinata somma di condizioni S. Voi mi avete mostrato che una parte di questa somma già esiste e che l’altra parte si realizzerà in un determinato momento T. Convintomi di ciò, io che simpatizzo con il fenomeno A esclamo: «Molto bene!», e mi metto a dormire fino al giorno felice in cui si realizzerà l’avvenimento da voi predetto. Che cosa ne risulterà? Ecco che cosa. Secondo i vostri calcoli, la somma S, necessaria perché avvenga il fenomeno A, comprendeva anche la mia attività, che chiameremo a. Però, siccome io mi ero messo a dormire, la somma delle condizioni favorevoli all’avvento di tale fenomeno nel momento T non sarà più S ma S-a, il che cambierà la situazione. Può succedere che il mio posto venga occupato da un altro, anch’egli propenso a restare inattivo, ma su cui abbia esercitato un’influenza salutare l’esempio della mia apatia, che gli era sembrata molto indegna. In tal caso la forza a sarà sostituita dalla forza b, e se a sarà uguale a b, la somma delle condizioni favorevoli all’avvento di A resterà uguale a S, e il fenomeno A si produrrà cionondimeno nello stesso momento.

Ma, se la mia forza non può esser considerata uguale a zero, se io sono un lavoratore abile e capace e se nessuno mi avrà sostituito, allora la somma S non sarà completa e il fenomeno A si produrrà più tardi rispetto al nostro calcolo, o non si produrrà in modo così completo come ce lo aspettavamo, o addirittura non si produrrà affatto. Questo è chiaro come la luce del sole e, se io non me ne rendo conto, se io penso che S continuerà a essere S anche dopo il mio tradimento, ciò avviene esclusivamente perché io non so contare. Ma sono forse solo io a non saper contare? Nel dirmi che la somma S si sarebbe prodotta inevitabilmente nel momento T, voi stesso non avevate previsto che io mi sarei messo a dormire subito dopo aver conversato con voi; eravate convinti che avrei continuato a restare fino alla fine un buon lavoratore, avevate preso una forza meno sicura per una più sicura. Di conseguenza anche voi avete calcolato male. Supponiamo però che non vi siate sbagliati di nulla, che abbiate tenuto conto di tutto. Allora il vostro calcolo assumerà quest’aspetto: voi dite che nel momento T avremo la somma S; di tale somma di condizioni entrerà a far parte come grandezza negativa il mio tradimento; vi entrerà anche come grandezza positiva l’effetto incoraggiante che negli uomini di spirito forte produce la certezza che le loro aspirazioni e i loro ideali sono l’espressione soggettiva della necessità oggettiva. In tal caso la somma S esisterà veramente nel momento da voi calcolato e il fenomeno A avrà luogo. Tutto ciò sembra chiaro, ma se è chiaro, perché allora mi ha sconcertato l’inevitabilità del fenomeno A? Perché mi è sembrato che mi condanni all’inattività? Perché, riflettendo su di essa, ho dimenticato le più elementari regole di aritmetica? Probabilmente perché, data la mia educazione, avevo già una tendenza verso l’inattività, e la mia conversazione con voi è stata soltanto la goccia che ha fatto traboccare il vaso di questa lodevole aspirazione. Ecco tutto. Solo in questo senso – nel senso di un pretesto per far rivelare la mia fiacchezza e inettitudine morale – figurava qui la coscienza della necessità. Essa però non può in nessun caso essere considerata la causa della mia fiacchezza. La causa non consiste in ciò, ma nelle condizioni della mia educazione. Di conseguenza…di conseguenza l’aritmetica è una scienza oltremodo rispettabile e utile, le cui regole non devono dimenticare nemmeno i signori filosofi, anzi particolarmente i signori filosofi.

Ora, come influirà la coscienza della necessità di un fenomeno determinato sull’uomo forte, che non simpatizza per esso e che gli si oppone? Qui la cosa cambia un poco, ed è molto probabile che la coscienza indebolirà l’energia della sua resistenza. Ma quand’è che i nemici di un fenomeno determinato si convincono nella sua ineluttabilità? Quando le circostanze che lo favoriscono diventano molto numerose e molto forti. La coscienza che i nemici di questo fenomeno acquistano della sua ineluttabilità e l’indebolimento della loro energia non sono altro che la manifestazione della forza delle condizioni a esso favorevoli. Tali manifestazioni entrano a loro volta nel numero delle condizioni favorevoli.

Però l’energia della resistenza non diminuirà in tutti i suoi avversari. In alcuni essa non farà che aumentare come conseguenza del riconoscimento della sua ineluttabilità, trasformandosi in energia della disperazione. La storia in generale e la storia della Russia in particolare ci presentano non pochi esempi istruttivi di un’energia di tal genere. Ci auguriamo che il lettore se ne ricordi senza il nostro aiuto.

Qui ci interrompe il signor Kareev28, il quale sebbene naturalmente non condivida il nostro punto di vista sulla libertà e la necessità e inoltre non approvi la nostra predilezione per gli eccessi degli uomini forti e appassionati, accoglie ciononostante con piacere l’idea sostenuta dalla nostra rivista29, secondo cui l’individuo può diventare una grande forza sociale. Il rispettabile professore esclama con gioia: «Io l’ho sempre detto!». Ed è vero. Il signor Kareev e tutti i soggettivisti hanno sempre attribuito alla personalità una funzione assai notevole nella storia. Ci fu un tempo in cui ciò suscitava grande simpatia verso di essi fra la gioventù d’avanguardia, che aspirava a un nobile lavoro per il bene comune e appunto perciò era naturalmente propensa ad apprezzare altamente l’importanza dell’iniziativa personale. In sostanza però i soggettivisti non hanno mai saputo non solo risolvere, me nemmeno impostare giustamente la questione della funzione della personalità nella storia. Essi contrapponevano l’attività delle persone pensanti criticamente all’influsso delle leggi del movimento storico sociale e in tal modo venivano a creare quasi una nuova variante della teoria dei fattori: gli individui pensanti criticamente costituivano uno dei “fattori” di questo movimento, mentre l’altro “fattore” lo costituivano le sue proprie leggi. Ne risultò una profonda assurdità, di cui ci si poteva contentare solamente finché l’attenzione delle personalità attive era concentrata sui problemi pratici del giorno ed esse perciò non avevano il tempo di occuparsi dei problemi filosofici. Ma da quando la calma sopraggiunta negli anni ottanta dette a coloro che possedevano la capacità di pensare la possibilità di dedicarsi a riflessioni filosofiche in ore di ozio involontario, la dottrina dei soggettivisti cominciò a scomporsi a brandelli e persino a sfasciarsi del tutto, come il celebre cappotto di Akakij Akakijevic30. Nessun rattoppo poteva portarvi rimedio e gli uomini di pensiero cominciarono uno dopo l’altro a rinunciare al soggettivismo, come a una dottrina completamente ed evidentemente inconsistente. Ma, come sempre avviene in tali casi, la reazione contro di esso trasse alcuni dei suoi avversari all’estremo contrario. Se alcuni soggettivisti, cercando di attribuire alla personalità una funzione la più vasta possibile nella storia, si rifiutavano di riconoscere il movimento storico dell’umanità come un processo basato su leggi determinate, alcuni dei più recenti loro avversari, cercando di sottolineare nel miglior modo possibile che tale movimento è conforme a leggi determinate, a quanto pare erano propensi a dimenticarsi che la storia viene fatta dagli uomini e che perciò l’attività degli individui non può non avervi la sua importanza. Essi hanno considerato l’individuo come una quantitè negligeable31.Teoricamente quest’estremismo è altrettanto inammissibile quanto quello a cui sono giunti i più zelanti soggettivisti. Sacrificare la tesi all’antitesi è altrettanto inconcepibile quanto dimenticarsi dell’antitesi in pro della tesi. Il punto di vista giusto potrà esser trovato solo quando sapremo unire in una sintesi gli elementi di verità che esse contengono32.


IV


Già da tempo ci interessa questo problema e già da tempo volevamo invitare il lettore ad affrontarlo insieme con noi. Però ci trattenevano certe apprensioni: pensavamo che forse i nostri lettori lo avevano già risolto per proprio conto e che il nostro invito sarebbe venuto in ritardo. Ma ora non abbiamo più tali apprensioni. Ce ne hanno sbarazzato gli storici tedeschi. Lo diciamo sul serio. In effetti, durante gli ultimi tempi, fra gli storici tedeschi si è svolta una polemica abbastanza vivace sui grandi uomini della storia. Gli uni erano inclini a vedere nell’attività politica di questi uomini la molla principale e quasi esclusiva dello sviluppo storico, mentre gli altri affermavano che tale punto di vista è unilaterale e che la scienza storica deve tener conto non solo dell’attività dei grandi uomini e non solo della storia politica, ma in generale di tutto il complesso della vita storica (das Ganze des geschichtlichen Lebens). Uno dei rappresentanti di quest’ultima corrente è Karl Lamprecht33, autore di una Storia del popolo tedesco, tradotta in russo da P. Nikolaev. Gli avversari hanno accusato Lamprecht di collettivismo e di materialismo e – horribile dictu! – lo avevano persino collocato su uno stesso piano con gli atei socialdemocratici, come egli stesso venne a esprimersi concludendo la discussione. Quando siamo venuti a conoscenza dei suoi concetti, abbiamo constatato che le accuse lanciate contro il povero scienziato erano completamente infondate. Nello stesso tempo ci siamo convinti che gli storici tedeschi attuali sono incapaci di risolvere la questione della funzione della personalità nella storia. Così, abbiamo ritenuto di avere il diritto di supporre che il problema continuava a restare irrisolto anche per alcuni lettori russi, e che a proposito di esso si può ancora dire qualcosa che non è del tutto privo di interesse teorico e pratico.

Lamprecht riunì tutta una collezione, eine artige Sammlung, com’egli dice, di opinioni espresse da eminenti uomini di Stato sulla loro attività in relazione all’ambiente storico in cui si produsse; però, nella sua polemica, l’autore si è limitato finora a citare alcuni discorsi e opinioni di Bismarck. Egli cita le seguenti parole pronunciate dal cancelliere di ferro al Reichstag della Germania del nord il 16 aprile 1869: «Noi non possiamo, signori, ignorare la storia del passato, né creare il futuro. Vorrei prevenirvi contro l’errore in virtù del quale certuni mettono avanti il loro orologio, immaginando con ciò di poter accelerare il corso del tempo. Generalmente si esagera molto la mia influenza sulle vicende su cui mi sono appoggiato; però, nonostante tutto, a nessuno verrà in mente di esigere da me che io faccia la storia. Questo mi sarebbe impossibile persino col vostro aiuto, pur se noi, agendo insieme, avremmo potuto resistere al mondo intero. Non possiamo fare la storia; dobbiamo aspettare che essa sia fatta. Non accelereremo il maturare dei frutti se li collocheremo sopra una lampada e, se li coglieremo acerbi, non faremo che impedirne la crescita e li rovineremo». Fondandosi sulla testimonianza di Joly34, Lamprecht cita anche le opinioni che Bismarck ha espresso più di una volta durante la guerra franco-prussiana. Il loro senso generale è sempre lo stesso: «Noi non possiamo creare i grandi avvenimenti storici, ma prendere in considerazione il corso naturale delle cose e limitarci a garantire per noi ciò che è già maturato». Questa è per Lamprecht una verità profonda e completa. Secondo lui, lo storico odierno non può ragionare altrimenti, se guarda a fondo negli avvenimenti e non limita il proprio orizzonte a un periodo di tempo troppo breve. Avrebbe forse potuto Bismarck far tornare la Germania all’economia naturale? Ciò gli sarebbe stato impossibile persino nel periodo in cui era all’apice della sua potenza. Le condizioni storiche generali sono più forti delle più influenti personalità. Il carattere generale di un’epoca è per il grande uomo una necessità data empiricamente.

Così ragiona Lamprecht chiamando la sua concezione universale. Non è difficile notare quale sia il punto debole di questa concezione universale. Le succitate opinioni di Bismarck sono molto interessanti come documento psicologico. Si può non simpatizzare con l’attività dell’ex cancelliere germanico, ma non si può affermare che sia stata insignificante, né che Bismarck abbia sofferto di quietismo. Proprio di lui Lassalle35 diceva: «I servitori della reazione non sono buoni oratori, però voglia Dio che la causa del progresso disponga del massimo numero di servitori di tal genere». E quest’uomo, che più di una volta ha dato prova in un’energia veramente ferrea, si considerava completamente impotente di fronte al corso naturale delle cose, considerandosi, a quanto pare, un semplice strumento dello sviluppo storico; ciò dimostra ancora una volta che si possono considerare i fenomeni dal punto di vista della necessità e nello stesso tempo essere un uomo d’azione molto energico. Però solo da questo punto di vista ci interessano le opinioni di Bismarck, che non sono da considerare una risposta alla domanda «Qual è la funzione della personalità nella storia?». Secondo quanto afferma Bismarck, gli avvenimenti si producono da sé, e noi possiamo solamente garantirci ciò che essi preparano. Ma ogni atto di garanzia è anche un fatto storico: allora in che cosa si distinguono gli uni dagli altri? In realtà, quasi ogni avvenimento storico è a un tempo qualcosa che garantisce a qualcuno i frutti già maturati dello sviluppo anteriore e uno degli anelli di quella catena di eventi che prepara i frutti dell’avvenire. Come dunque contrapporre gli atti di garanzia al corso naturale delle cose? Evidentemente, Bismarck voleva dire che le personalità e i gruppi di individui, agenti nella storia, non sono mai stati né saranno mai onnipotenti. Ciò è chiaro e indiscutibile. Ma noi vorremmo sapere da che cosa dipenda la loro forza (che certo è ben lungi dall’essere onnipotente), in quali circostanze aumenti e in quali diminuisca. Né Bismarck, né il sapiente difensore della concezione universale della storia, che ne cita le parole, rispondono a tali domande.

È vero che in Lamprecht si possono trovare anche citazioni più comprensibili. Egli per esempio riporta le parole di Monod36, uno dei rappresentanti più eminenti della scienza storica in Francia: «Nella storia si è troppo abituati a limitarsi soprattutto alle manifestazioni brillanti, rumorose ed effimere dell’attività umana, ai grandi avvenimenti o ai grandi uomini, invece di insistere sui grandi e lenti movimenti delle istituzioni, delle condizioni economiche e sociali, che sono la parte veramente interessante e permanente dell’evoluzione umana, quella che può essere analizzata con una certa sicurezza e che è in una certa misura soggetta a leggi. Gli avvenimenti e i personaggi veramente importanti sono soprattutto segni e simboli delle differenti tappe di quest’evoluzione, ma la maggior parte dei fatti cosiddetti storici sono per la vera storia solo ciò che per il movimento profondo e costante delle maree sono le onde che sorgono alla superficie del mare, brillano per un istante di mille barbagli di luce, e poi vengono a infrangersi sulla costa sabbiosa senza lasciar traccia di sé». Lamprecht si dichiara pronto a sottoscrivere ogni parola di Monod. È noto che agli scienziati tedeschi non piace essere d’accordo con quelli francesi e a quelli francesi con i tedeschi. Perciò lo storico belga Pirenne37 rileva con particolare soddisfazione nella Revue historique questo coincidere delle condizioni storiche di Monod con quelle di Lamprecht. «Quest’accordo è molto significativo – egli nota – esso mostra chiaramente che l’orientamento storico nuovo ha di fronte a sé l’avvenire».


V


Per parte nostra, non condividiamo le speranze di Pirenne. Il futuro non può appartenere a concezioni vaghe e indefinite, ma le concezioni di Monod e soprattutto quelle di Lamprecht sono precisamente tali. Beninteso, non si può non salutare la tendenza che dichiara esser compito principale della scienza storica lo studio delle istituzioni sociali e delle condizioni economiche. Questa scienza andrà molto lontano allorché in essa si sarà definitivamente consolidata tale tendenza. Ma anzitutto Pirenne sbaglia nel considerare nuova la tendenza indicata. Essa è sorta nella scienza storica fin dagli anni venti: Guizot, Mignet, Augustin Thierry e più tardi Tocqueville e altri ne furono i più brillanti e conseguenti rappresentanti. Le concezioni di Monod e di Lamprecht non sono altro che una pallida copia di un vecchio originale molto ricercato. Inoltre, per quanto fossero profonde le concezioni di Guizot, Mignet e deglialtri storici francesi, molti punti di esse sono rimasti non chiariti. Non vi si trova una risposta esatta e completa sul problema della funzione della personalità della storia. Ora, la scienza storica potrà veramente risolvere questo problema, se i suoi rappresentanti sapranno emanciparsi da una visione unilaterale del loro oggetto. Il futuro appartiene a quella scuola che saprà dare fra l’altro la migliore soluzione anche a questo problema.

Le concezioni di Guizot, Mignet e altri storici di questa tendenza sono una specie di reazione alle concezioni storiche del secolo decimottavo e ne costituiscono l’antitesi. Nel secolo scorso le persone che si occupavano di filosofia della storia riducevano tutto all’attività cosciente delle personalità. Naturalmente, non mancavano neanche allora le eccezioni alla regola: per esempio, l’orizzonte storico di Vico, Montesquieu e Herder era molto più vasto. Ma non ci riferiamo qui alle eccezioni: l’enorme maggioranza dei pensatori del secolo decimottavo interpretava la storia nel modo indicato. Da questo punto di vista è molto interessante rileggere ora le opere storiche, per esempio, di Mably38. Secondo Mably fu Minosse a organizzare completamente la vita sociale e politica e a creare i costumi a Creta, e Licurgo rese lo stesso servizio a Sparta. Se gli spartani disprezzavano la ricchezza materiale, ciò sarebbe dovuto appunto a Licurgo, che «penetrò per così dire in fondo al cuore dei cittadini e vi soffocò ogni germe di passione per le ricchezze». Ma, se gli spartani abbandonarono in seguito il cammino indicato loro dal savio Licurgo, la colpa fu di Lisandro, il quale li convinse che «altri tempi e altre circostanze esigevano da essi un nuovo spirito e una nuova politica». I trattati scritti dal punto di vista di questa concezione avevano ben poco di comune con la scienza e venivano scritti come prediche, unicamente per le lezioni di morale che da essi si potevano trarre. Precisamente contro tali concezioni insorsero gli storici francesi dell’epoca della Restaurazione. Dopo gli straordinari eventi della fine del secolo XVIII era già assolutamente impossibile che la storia fosse opera di personalità più o meno eminenti e più o meno nobili e illustri, che a loro arbitrio inculcavano a una massa ignorante, ma docile, questi o quei sentimenti o concetti. Inoltre, tale filosofia della storia indignava la fierezza plebea dei teorici della borghesia. Qui si fecero sentire quegli stessi sentimenti che fin dal secolo XVIII si erano manifestati con la nascita del dramma borghese. Nella sua lotta contro le vecchie concezioni storiche Thierry39 impiegava tra l’altro anche gli stessi argomenti che furono usati da Beaumarchais40 e da altri contro la vecchia estetica. Infine, le tempeste attraverso le quali poco tempo prima era passata la Francia, mostravano molto chiaramente che il corso degli eventi storici non è determinato soltanto dalle azioni coscienti degli uomini; già questa sola circostanza doveva suggerire l’idea che tali avvenimenti si producono sotto l’influenza di una certa larvata necessità, agente ciecamente, come gli elementi della natura, ma conforme a leggi inesorabili. È assai sintomatico (sebbene finora, per quanto ne sappiamo, non sia stato indicato da nessuno) il fatto che le nuove concezioni della storia, come processo basato su leggi determinate, siano state applicate nel modo più conseguente dagli storici francesi della Restaurazione, appunto nelle opere consacrate alla Rivoluzione francese. Tali erano, tra l’altro, le opere di Mignet e di Thiers. Chateaubriand chiamò la nuova scuola storica una scuola fatalistica. Formulando i compiti che essa poneva al ricercatore, gli scriveva: «Bisogna che lo storico, in questo sistema, racconti senza indignazione le più grandi atrocità, e parli senza amore delle virtù più elevate, che con sguardo glaciale egli consideri la società come sottomessa a leggi irresistibili, grazie alle quali ogni cosa accade appunto così come doveva inevitabilmente accadere»41. Ciò naturalmente è inesatto. La nuova scuola non esigeva affatto che lo storico rimanesse impassibile. Augustin Thierry dichiarò persino apertamente che le passioni politiche, aguzzando il cervello del ricercatore, possono costituire un’arma possente per scoprire la verità. E basta avere una conoscenza anche superficiale delle opere di Guizot, Thiers o Mignet per sapere che essi simpatizzavano ardentemente per la borghesia, sia nella sua lotta contro l’aristocrazia laica ed ecclesiastica, sia nella sua tendenza a soffocare le rivendicazioni del proletariato nascente. Ma questo è indiscutibile: la nuova scuola storica è sorta negli anni venti, cioè in un periodo in cui l’aristocrazia era già stata vinta dalla borghesia, sebbene tentasse ancora di ristabilire alcuni dei suoi vecchi privilegi. L’orgoglio, suscitato dalla coscienza che essi avevano della vittoria riportata dalla loro classe, si rifletteva in tutti i ragionamenti degli storici della nuova scuola. E, siccome la borghesia non si è mai distinta per una finezza cavalleresca di sentimenti, era naturale che negli argomenti dei suoi dotti rappresentanti si facesse sentire talvolta un atteggiamento crudele nei riguardi dei vinti. «Le plus fort absorbe le plus faible – dice Guizot in uno dei suoi opuscoli polemici – et cela est de droit»42. Non meno crudele è l’atteggiamento verso la classe operaia. Precisamente questa crudeltà, che a volte acquistava la forma di una tranquilla impassibilità, trasse in inganno Chateaubriand. A quel tempo, inoltre, non era ancora abbastanza chiaro come si dovesse concepire la conformità del movimento storico a leggi determinate. Infine, la nuova scuola poteva sembrare fatalistica appunto perché, tendendo ad appoggiarsi fermamente sulla concezione che la storia è regolata da leggi, si occupava poco delle grandi personalità storiche43. Con ciò difficilmente potevano conciliarsi uomini educati alle idee storiche del secolo decimottavo. Da tutte le parti cominciarono a piovere sui nuovi storici obiezioni, e allora s’ingaggiò una discussione che, come abbiamo visto, non è ancora terminata.

Nel gennaio 1826 Sainte-Beuve44 scrisse sul Globe45 a proposito dell’uscita del quinto e sesto volume della Storia della rivoluzione francese di Thiers: «In realtà l’uomo può in ogni momento, con decisioni subitanee della sua volontà, far intervenire negli avvenimenti a cui partecipa una forza nuova, inaspettata e variabile, che in molti casi ne modifica seriamente il corso, ma che non si può tuttavia misurare, data la sua mobilità».

Non bisogna credere che Sainte-Beuve supponesse che le decisioni subitanee della volontà umana si verifichino senza alcuna ragione. Ciò sarebbe troppo ingenuo. Egli affermava soltanto che le qualità intellettuali e morali dell’uomo che svolge una funzione più o meno importante nella vita sociale, il suo talento, le sue conoscenze, la sua decisione o irresolutezza, il suo coraggio o la sua codardia etc., non possono non esercitare un’influenza sensibile sul corso e sull’esito degli avvenimenti, e ciò non di meno queste qualità non si spiegano con le sole leggi generali di sviluppo di un popolo, bensì si formano, sempre e in gran parte, sotto l’influenza di ciò che si potrebbe chiamare la casualità della vita privata. Citiamo alcuni esempi per chiarire quest’idea che, del resto, ci sembra di per sé abbastanza chiara.

Nella guerra di successione austriaca46, le truppe francesi riportarono varie brillanti vittorie, e la Francia avrebbe senza dubbio potuto ottenere dall’Austria le cessione di un territorio abbastanza vasto nel Belgio attuale, ma Luigi XV non pretese questa cessione, perché secondo le sue parole, guerreggiava non come un mercante, ma come un re, e la pace di Aquisgrana non dette niente ai Francesi; però, se Luigi XV avesse avuto un altro carattere, o se al suo posto ci fosse stato un altro re, forse il territorio della Francia si sarebbe ingrandito, in conseguenza di che sarebbe cambiato alquanto il corso del suo sviluppo economico e politico.

Com’è noto, la Francia condusse la guerra dei Sette Anni47 in alleanza con l’Austria. Dicono che l’alleanza fu conclusa per la forte pressione di madame de Pompadour, che si riteneva molto onorata del fatto che la superba Maria Teresa l’avesse chiamata in una lettera, a lei indirizzata, sua cugina o sua cara amica (bien bonne amie). Si può dire perciò che, se Luigi XV avesse avuto dei costumi più austeri o si fosse lasciato meno influenzare dalle sue favorite, madame de Pompadour non avrebbe acquistato tanta influenza sul corso degli avvenimenti, che avrebbero quindi preso un’altra piega.

Inoltre, la guerra dei sette anni fu infausta per la Francia: i suoi generali subirono molte vergognosissime sconfitte e si comportarono in modo più che strano. Richelieu si dedicava alla rapina, mentre Soubise e Broglie continuamente si neutralizzavano a vicenda. Così, per esempio, quando Broglie attaccò il nemico presso Willinghausen, Soubise, che aveva sentito i colpi di cannone, non venne in soccorso al suo compagno, come era stato convenuto e com’egli, senza dubbio, avrebbe dovuto fare, e Broglie fu costretto a ritirarsi48. Soubise, che era del tutto incapace, veniva protetto dalla stessa madame de Pompadour. Si potrebbe dire di nuovo: se Luigi XV fosse stato meno favorevole ai piaceri o se la sua favorita non si fosse immischiata nella politica, gli avvenimenti non sarebbero stati così sfavorevoli alla Francia.

Gli storici francesi affermano che la Francia non avrebbe dovuto guerreggiare sul continente europeo, bensì concentrare tutti i suoi sforzi sul mare per difendere le colonie dagli attacchi dell’Inghilterra. Se agì diversamente, la colpa è di nuovo dell’inevitabile madame de Pompadour, che desiderava far cosa grata alla sua cara amica Maria Teresa. Con la guerra dei sette anni, la Francia perdette le sue migliori colonie, il che senza dubbio influì grandemente sullo sviluppo delle sue relazioni economiche. La vanità femminile appare qui davanti a noi come un “fattore” che influisce sullo sviluppo economico.

Occorrono altri esempi? Citiamone ancora uno, che forse è il più sorprendente. Nell’agosto del 1761, durante la stessa guerra dei sette anni, le truppe austriache, unitesi a quelle russe in Slesia, circondarono Federico II presso Striegau. La sua situazione era disperata, ma gli alleati non si affrettavano ad attaccare, e il generale russo Buturlin, dopo esser rimasto per venti giorni inattivo di fronte al nemico, se ne andò via del tutto dalla Slesia, lasciandovi solo una parte delle proprie forze come rinforzo a quelle del generale austriaco Laudon. Laudon prese Schweintiz, nei cui dintorni si trovava Federico. Ma questo successo ebbe poca importanza. Al contrario, se Buturlin avesse posseduto un carattere più energico, se gli alleati avessero attaccato Federico senza dargli tempo di trincerarsi nel suo accampamento, forse lo avrebbero sbaragliato completamente, ed egli si sarebbe dovuto inchinare dinanzi a tutte le condizioni dei suoi vincitori. Ciò avvenne qualche mese prima che un fatto casuale, la morte dell’imperatrice Elisabetta, mutasse di colpo e radicalmente la situazione in favore di Federico. C’è da domandarsi cosa sarebbe accaduto se Buturlin fosse stato più risoluto o se al suo posto vi fosse stato un uomo come Suvorov49.

Esaminando le concezioni degli storici fatalisti, Sainte-Beuve ha espresso un’altra considerazione sulla quale occorre richiamare l’attenzione. Nell’articolo, già citato, sulla Storia della rivoluzione francese di Mignet, egli cerca di dimostrare che il corso e l’esito della rivoluzione francese non furono condizionati solamente dalle cause generali che l’avevano provocata e non solo dalle passioni, che essa a sua volta aveva suscitato, ma anche da una moltitudine di piccoli fenomeni, che sfuggono all’attenzione del ricercatore e che non fanno affatto parte dei fenomeni sociali propriamente detti. «Mentre queste cause e queste passioni avevano il loro corso – egli scrive – le forze naturali, fisiche e fisiologiche, non restavano in sospeso: la pietra continuava a essere sottomessa alla forza di gravità, il sangue a circolare. L’andamento delle cose non sarebbe forse cambiato se, supponiamo, Mirabeau non fosse morto di febbre, se un mattone o un colpo di apoplessia avessero ucciso Robespierre, se una palla avesse colpito Bonaparte? Il loro corso sarebbe rimasto invariato? E osereste voi affermare che l’esito ne sarebbe stato il medesimo? Citando un numero sufficientemente grande di simili accidenti, e ne ho ben il diritto, dato che essi non implicano contraddizione alcuna, né con le cause che hanno determinato la rivoluzione, né con le passioni da esse sollevate, le uniche forze di cui sembra che voi teniate conto, non mi sarebbe difficile concepire un esito completamente opposto da quello che affermate esser necessario». Egli cita quindi la famosa osservazione, secondo cui la storia si sarebbe svolta in modo completamente diverso se il naso di Cleopatra fosse stato un poco più corto e, in conclusione, riconoscendo che in difesa della concezione di Mignet si potrebbero dire ancora molte cose, indica ancora una volta in che cosa consista l’errore di questo storico: Mignet attribuisce solamente all’azione delle cause generali quei risultati al verificarsi dei quali hanno contribuito numerose altre cause piccole, oscure, imponderabili; la sua mente severa sembra non voler riconoscere l’esistenza di ciò in cui egli non scorga né un ordine né leggi determinate.


VI


Sono fondate le opinioni di Saint-Beuve? Sembra che contengano una parte di verità. Ma quale precisamente? Per determinarla esaminiamo dapprima l’idea che l’uomo può, mediante decisioni subitanee della propria volontà, introdurre nel corso degli avvenimenti una forza nuova, capace di modificarlo sensibilmente. Abbiamo citato vari esempi che, secondo noi, spiegano molto bene tale idea. Riflettiamo sugli esempi.

A tutti è noto che durante il regno di Luigi XV l’arte militare decadde in Francia sempre più. Secondo Henri Martin50, durante la guerra dei sette anni le truppe francesi, che erano sempre seguite da prostitute, mercanti e servi e possedevano tre volte più cavalli da tiro che da sella, ricordavano piuttosto le orde di Dario e di Serse che non gli eserciti di Turenne e di Gustavo Adolfo51. Archenholz52, nella sua storia di questa guerra, afferma che gli ufficiali francesi abbandonavano spesso i posti di guardia e si recavano a ballare nelle vicinanze, eseguendo gli ordini dei superiori solo quando lo consideravano necessario e comodo. Tale deplorevole stato delle cose militari era causato dalla decadenza della nobiltà (che, ciò nonostante, continuava a detenere le massime cariche dell’esercito) e dal dissesto generale del vecchio ordine, che marciava rapidamente verso la sua distruzione. Queste cause generali erano di per sé più che sufficienti per imprimere alla guerra dei sette anni uno svolgimento sfavorevole alla Francia. Ma è indubbio che l’incapacità di generali come Soubise accrebbe le probabilità di disfatta per l’esercito francese, provocate dalle cause generali. E siccome Soubise si manteneva al suo posto grazie a madame de Pompadour, bisogna riconoscere che la vanitosa marchesa fu uno dei “fattori” che aggravarono considerevolmente l’influenza negativa delle cause generali sulla situazione della Francia, durante la guerra dei sette anni.

La marchesa di Pompadour traeva la sua forza non da se stessa ma dal potere del re, sottomesso alla sua volontà. Possiamo dire che il carattere di Luigi XV era appunto tale quale doveva inevitabilmente essere, data la linea generale dello sviluppo dei rapporti sociali in Francia? No di certo. Senza che cambiasse il corso di questo sviluppo, il posto del re avrebbe potuto essere occupato da un altro, il cui atteggiamento verso le donne fosse differente. Sainte-Beuve avrebbe detto che perciò sarebbe stata sufficiente l’azione di cause fisiologiche oscure e impercettibili. E avrebbe avuto ragione. Ma, se è così, ne deriva che queste oscure cause fisiologiche, influendo sul corso e sull’esito della guerra dei sette anni, avrebbero influito anche sull’ulteriore sviluppo della Francia, che si sarebbe svolto altrimenti se la guerra dei sette anni non l’avesse privata della maggior parte delle sue colonie. Resta da domandarsi se tale deduzione non contraddica al concetto secondo cui lo sviluppo sociale è regolato da leggi.

Non lo crediamo. Per quanto sia indubbia l’azione delle particolarità individuali nei casi indicati, non è meno certo che essa poté prodursi soltanto in condizioni sociali determinate. Dopo la battaglia di Rossbach, i francesi si indignarono molto con la protettrice di Soubise, la quale riceveva ogni giorno un gran numero di lettere anonime piene di minacce e offese. Madame de Pompadour ne era molto impressionata; cominciò a soffrire di insonnia. Ma continuò a proteggere Soubise. Nel 1762, dopo avergli fatto notare in una lettera che egli non aveva giustificato le speranze riposte in lui, aggiungeva: «Non temete però di niente: mi curerò dei vostri interessi e cercherò di farvi rifare la pace col re…». Come si vede, la marchesa non aveva ceduto di fronte all’opinione pubblica. Ma perché non aveva ceduto? Probabilmente perché la società francese di allora non aveva la possibilità di obbligarla a cedere. E perché la società francese di allora non aveva tale possibilità? Perché era ostacolata dalla sua organizzazione, che a sua volta dipendeva dalla correlazione delle forze sociali in Francia in quell’epoca. Di conseguenza è appunto la correlazione di queste forze a spiegare in ultima analisi perché il carattere di Luigi XV e i capricci delle sue favorite hanno potuto esercitare una così deplorevole influenza sulle sorti della Francia. Infatti, se non fosse stato il re a distinguersi per la sua debolezza verso il bel sesso, ma un qualsiasi cuoco o scudiero del re, ciò non avrebbe avuto nessuna importanza storica. È chiaro che qui non si tratta di debolezza, ma della situazione sociale della persona che ne soffre. Il lettore comprenderà che questi ragionamenti potrebbero essere applicati a tutti gli altri esempi suindicati. In questi ragionamenti basta cambiare solamente ciò che deve essere cambiato: per esempio, invece della Francia mettere la Russia, invece di Soubise, Buturlin etc. perciò non staremo a moltiplicarli.

Ne risulta che gli individui, in virtù di determinate particolarità del loro carattere, possono influire sulle sorti della società. Talvolta la loro influenza può essere persino molto importante. Però tanto la possibilità stessa di tale influenza, quanto le sue proporzioni vengono determinate dall’organizzazione della società, dal rapporto delle sue forze. Il carattere dell’individuo è un “fattore” dello sviluppo sociale solamente dove, quando e in quanto lo permettano i rapporti sociali.

Ci potrebbero obiettare che le proporzioni dell’influenza personale dipendono anche dal talento degli individui. Siamo d’accordo. Però l’individuo può manifestare il suo talento solo quando occupi nella società la posizione a ciò necessaria. Perché le sorti della Francia sono state nelle mani di una persona priva di ogni capacità e desiderio di servire la società? Perché tale era l’organizzazione sociale della Francia. È appunto questa organizzazione a determinare in ogni epoca concreta quella funzione, e di conseguenza quell’importanza sociale, che può esser destinata dalla sorte a individui dotati o privi di talento.

Ma, se le funzioni degli individui sono determinate dall’organizzazione della società, come potrebbe allora la loro influenza sociale, condizionata da queste funzioni, trovarsi in contraddizione col concetto dello sviluppo della società regolata da leggi? Essa non solamente non è in contraddizione con tale concetto, ma ne costituisce anzi una delle illustrazioni più brillanti.

È qui opportuno notare che la possibilità dell’influenza sociale degli individui, condizionata dall’organizzazione della società, apre le porte all’influenza della cosiddetta casualità sul destino storico dei popoli. Il libertinaggio di Luigi XV era una conseguenza necessaria dello stato del suo organismo, che però, nei riguardi della linea generale dello sviluppo della Francia, era casuale. Ma, come abbiamo già detto, esso influì tuttavia sull’ulteriore destino della Francia e a sua volta entrò a far parte delle cause che ne condizionarono il destino. La morte di Mirabeau, naturalmente, era stata provocata da processi patologici del tutto conformi a leggi. Però la necessità di questi processi non derivava affatto dalla linea generale di sviluppo della Francia, ma da alcune particolarità individuali dell’organismo del famoso oratore e dalle condizioni fisiche in cui esso si infettò. Rispetto alla linea generale di sviluppo della Francia, queste particolarità e queste condizioni furono casuali: ciò nondimeno, la morte di Mirabeau influì sul corso ulteriore della rivoluzione e fu una delle ragioni che lo condizionarono.

Ancora più sorprendente è l’influenza delle ragioni casuali nel caso già citato di Federico II, che riuscì a venire fuori da una situazione oltremodo imbarazzante grazie all’indecisione di Buturlin. La nomina di Buturlin persino rispetto al corso generale di sviluppo della Russia poteva essere casuale, nel senso da noi attribuito a questo termine, e naturalmente non aveva nulla a che vedere col corso generale di sviluppo della Prussia. Ciò nondimeno, non è infondata l’ipotesi che l’indecisione di Buturlin abbia salvato Federico da una situazione disperata. Se al posto di Buturlin ci fosse stato Suvorov, può darsi che la storia della Prussia si sarebbe svolta altrimenti. Ne risulta così che la sorte degli stati talvolta dipende da casualità, che noi potremmo chiamare causalità di secondo grado.

«In allem Endlichen ist ein Element des Zufaelligen»53 diceva Hegel. Nella scienza abbiamo a che fare solamente col finito; perciò si potrebbe dire che in tutti i processi da essa studiati c’è un elemento di casualità. Non esclude esso la possibilità di una conoscenza scientifica dei fenomeni? No. La casualità è un che di relativo. Essa appare solamente nel punto di intersezione dei processi necessari. L’apparizione degli europei in America fu per gli abitanti del Messico e del Perù una casualità, nel senso che essa non derivava dallo sviluppo sociale di quei paesi; ma non era una casualità la passione per la navigazione, che aveva pervaso gli occidentali alla fine del Medioevo; non era casuale la circostanza che la forza degli europei avesse facilmente vinto la resistenza degli indigeni. Non furono nemmeno casuali le conseguenze della conquista del Messico e del Perù da parte degli europei. Queste conseguenze furono determinate in fin dei conti dalla risultante di due forze: la situazione economica dei paesi conquistati, da un lato, e la situazione economica dei conquistatori, dall’altro. Orbene, queste forze, come pure la loro risultante, possono essere oggetto di ricerche scientifiche rigorose.

Le casualità della guerra dei sette anni ebbero una forte influenza sull’ulteriore storia della Prussia. Ma la loro influenza non sarebbe stata tale, se l’avessero colta in un’altra fase del suo sviluppo. Le conseguenze della causalità anche qui furono determinate dalla risultante di due forze: da un lato, la situazione sociale e politica della Prussia e, dall’altro, la situazione sociale e politica degli stati europei, che esercitavano la loro influenza su di essa. Quindi nemmeno qui la casualità impedisce minimamente lo studio scientifico dei fenomeni.

Ora sappiamo che le personalità esercitano spesso una grande influenza sulle sorti della società, ma che questa influenza viene determinata dal regime interno della società stessa e dalle sue relazioni con altre società. Pure, non si esaurisce con questo il problema della funzione della personalità della storia. Dobbiamo trattarlo infatti anche da un altro punto di vista.

Sainte-Beuve pensava che, se ci fosse stato un numero sufficiente di cause piccole e oscure del tipo di quelle da lui indicate, la rivoluzione francese avrebbe potuto avere un esito opposto a quello che conosciamo. Questo è un grave errore. Per intricate che fossero le combinazioni di piccole cause psicologiche e fisiologiche, esse non avrebbero in nessun modo potuto eliminare le grandi necessità sociali che determinarono la rivoluzione francese; fin quando queste necessità non fossero state soddisfatte, in Francia non sarebbe cessato il movimento rivoluzionario. Perché il suo esito potesse essere opposto a quello che fu, a queste necessità se ne sarebbero dovute sostituire altre, opposte ad esse; ma naturalmente, nessuna combinazione di piccole cause sarebbe stata in condizione di farlo.

Le cause della rivoluzione francese consistevano nel carattere stesso dei rapporti sociali, mentre le piccole cause indicate da Sainte-Beuve avrebbero potuto consistere soltanto nelle particolarità individuali di singole persone. La causa ultima dei rapporti sociali è lo stato delle forze produttive. Questo dipende dalle particolarità individuali delle singole persone solamente nella misura in cui tali persone sono capaci di realizzare perfezionamenti tecnici, scoperte e invenzioni. Non a tali particolarità allude Sainte-Beuve. Ma tutte le altre particolarità possibili non assicurano ai singoli un’influenza diretta sullo stato delle forze produttive e di conseguenza sui rapporti sociali che da esse sono condizionati, cioè sui rapporti economici. Quali che siano le particolarità di un individuo, costui non può eliminare i rapporti economici corrispondenti a un certo stato delle forze produttive. Ma le particolarità individuali di una personalità la rendono più o meno adatta a soddisfare le necessità sociali che sorgono sulla base di determinati rapporti economici o a impedire che siano soddisfatte. La necessità sociale più urgente della Francia alla fine del XVIII secolo consisteva nella sostituzione delle istituzioni politiche invecchiate con altre corrispondenti al suo nuovo regime economico. Gli uomini politici più eminenti e utili del tempo furono precisamente quelli che meglio di tutti gli altri furono capaci di contribuire al soddisfacimento di quella necessità impellente. Ammettiamo che tali siano stati Mirabeau, Robespierre e Bonaparte. Che cosa sarebbe successo, se la morte prematura non avesse eliminato Mirabeau dalla scena politica? Il partito della monarchia costituzionale sarebbe rimasto per maggior tempo una forza considerevole e perciò la sua resistenza ai repubblicani sarebbe stata più energica. Ma niente di più. Nessun Mirabeau poteva allora impedire un trionfo dei repubblicani. La forza di Mirabeau si fondava completamente sulla simpatia e sulla fiducia del popolo nei suoi riguardi, e il popolo bramava la repubblica, giacché la corte lo irritava con la difesa ostinata del vecchio regime. Il popolo, non appena si fosse convinto che Mirabeau non simpatizzava con le sue tendenze repubblicane, avrebbe cessato di simpatizzare per Mirabeau, e allora il grande oratore avrebbe perduto quasi tutta la sua influenza e in seguito probabilmente sarebbe caduto vittima di quello stesso movimento che avrebbe invano tentato di contenere. Pressappoco lo stesso si può dire di Robespierre. Ammettiamo che egli rappresentasse nel suo partito una forza assolutamente insostituibile. In ogni caso, non ne era l’unica forza. Se la caduta casuale di un mattone lo avesse ucciso, poniamo, nel gennaio 1793, al suo posto sarebbe naturalmente subentrato un altro, e anche se quest’altro gli fosse stato inferiore in tutti i sensi, gli avvenimenti tuttavia si sarebbero svolti nella stessa direzione per cui si erano avviati con Robespierre. Così, ad esempio, i girondini54 non avrebbero potuto evitare la sconfitta, ma forse il partito di Robespierre avrebbe perduto il potere un po’ prima, e oggi si parlerebbe non della reazione termidoriana, ma di quella floreale, pratile o messidoriana55. Alcuni potranno forse obiettare che Robespierre col suo implacabile terrorismo ha accelerato, e non ritardato, la caduta del suo partito. Non esamineremo qui tale ipotesi, la daremo per dimostrata. In tal caso bisognerebbe supporre che la caduta del partito di Robespierre sarebbe avvenuta non nel termidoro, ma nel fruttidoro o nel vendemmiaio o brumaio. In altre parole, essa sarebbe avvenuta forse prima o forse dopo, però in ogni caso avrebbe avuto inevitabilmente luogo, giacché lo stato del popolo, su cui poggiava questo partito, non era affatto preparato a mantenere lungamente il potere. Di risultati contrari a quello che si ebbe grazie all’energica cooperazione di Robespierre, in ogni caso, non si poteva neppure far menzione.

Essi non avrebbero potuto ave luogo nemmeno nel caso in cui una palla avesse colpito Bonaparte, per esempio durante la battaglia di Arcole56. Ciò che egli fece nella campagna d’Italia e nelle altre lo avrebbero fatto altri generali. Essi forse non avrebbero manifestato un genio pari al suo, e non avrebbero ottenuto vittorie così brillanti. Però, la repubblica francese sarebbe uscita vittoriosa dalle guerre che stava conducendo, giacché i suoi soldati erano incomparabilmente migliori di tutti i soldati europei. Per ciò che si riferisce al diciotto brumaio57 e alla sua influenza sulla vita interna della Francia, anche in questo caso il corso generale e l’esito degli avvenimenti in fondo sarebbero stati probabilmente gli stessi che sotto Napoleone. La repubblica colpita a morte il 9 termidoro stava agonizzando lentamente. Il Direttorio era incapace di ristabilire l’ordine che la borghesia più di tutto bramava in quel momento, dopo essersi liberata del dominio delle caste superiori. Per ristabilire l’ordine occorreva una “buona spada”, come disse Sieyès58. Dapprima si pensava che la funzione di questa spada benefica dovesse svolgerla il generale Joubert, ma quando questi fu ucciso presso Novi cominciarono a farsi sentire i nomi di Moraeu, McDonald e Bernadotte59. Di Bonaparte si cominciò a parlare più tardi e, se egli fosse stato ucciso come Joubert, nessuno si sarebbe ricordato di lui e si sarebbe fatta avanti una qualsiasi altra spada. S’intende che un uomo elevato dagli avvenimenti al rango di dittatore doveva, da parte sua, aprirsi infaticabilmente il varco verso il potere, sgominando e gettando da parte in modo implacabile tutti coloro che gli sbarrassero il cammino. Bonaparte possedeva un’energia ferrea e non risparmiava nessuno sforzo per raggiungere i propri obiettivi. Ma oltre a lui esistevano allora anche non pochi egoisti energici pieni di talento e di ambizione. Il posto che egli riuscì a occupare non sarebbe certamente rimasto vuoto. Si può supporre che un altro generale, avendo ottenuto questo posto, sarebbe stato più pacifico di Napoleone e non avrebbe aizzato contro di sé tutta l’Europa e che perciò sarebbe morto alle Tuileries, e non nell’isola di Sant’Elena. Allora i Borboni non sarebbero affatto tornati in Francia. Per loro naturalmente un tale risultato sarebbe stato contrario a quello che fu in realtà, ma nei riguardi della vita interna della Francia non si sarebbe differenziato di molto dal risultato effettivo. Una “buona spada”, dopo avere ristabilito l’ordine e assicurato il dominio della borghesia, ben presto l’avrebbe infastidita con le sue abitudini da caserma e il suo dispotismo. Sarebbe sorto un movimento liberale simile a quello che si produsse sotto la Restaurazione, la lotta avrebbe cominciato a poco a poco a inasprirsi e, poiché le buone spade non cedono facilmente, forse il virtuoso Luigi Filippo sarebbe salito al trono dei suoi teneramente amati parenti non nel 1830, ma nel 1820 o nel 1825. Mutamenti simili nel corso degli avvenimenti avrebbero potuto influire in parte sull’ulteriore vita politica dell’Europa e, attraverso di essa, su quella economica. Però l’esito finale del movimento rivoluzionario non sarebbe stato in nessun caso contrario al suo risultato effettivo.

Le personalità influenti, grazie alle particolarità del loro intelletto e del loro carattere, possono cambiare la fisionomia individuale degli avvenimenti e alcune delle loro conseguenze parziali, ma non possono mutarne l’orientamento generale, che viene determinato da altre forze.


VII


Bisogna inoltre notare quanto segue. Quando discutiamo sulla funzione delle grandi personalità nella storia, veniamo quasi sempre a esser vittime di una certa illusione ottica, che converrà indicare ai lettori.

Napoleone, presentandosi nella sua funzione di “buona spada” salvatrice dell’ordine sociale, impedì con ciò ad altri generali di assumersi tale funzione, che alcuni di loro avrebbero forse svolto come lui o quasi. In quanto il bisogno sociale di un governante militare energico era stato soddisfatto, l’organizzazione sociale sbarrò a tutti gli altri militari di talento la strada verso il posto di governante militare. La forza di quel bisogno si convertì in una forza sfavorevole alla manifestazione di altri uomini dotati di quel talento. Di qui l’illusione ottica di cui abbiamo parlato. La forza personale si presenta a noi in forma iperbolica, in quanto le attribuiamo tutta la forza sociale che l’ha generata e sostenuta. Essa ci sembra del tutto eccezionale, perché le altre forze dello stesso genere da potenziali non sono diventate reali. E, quando ci domandiamo che cosa sarebbe successo se non fosse esistito Napoleone, allora la nostra immaginazione si confonde, e ci sembra che senza di lui non avrebbe potuto prodursi tutto il movimento della società, su cui si basavano la sua forza e la sua influenza.

Nella storia dello sviluppo intellettuale dell’umanità è incomparabilmente più raro che il successo di una persona impedisca il successo di un’altra. Però anche in tal caso non siamo liberi dall’illusione ottica indicata. Quando una situazione determinata della società umana pone dinanzi ai suoi esponenti spirituali certi compiti, questi ultimi attirano su di sé l’attenzione degli intelletti eminenti, fin quando essi non riescono ad assolverli. Però, una volta che ciò sia stato ottenuto, la loro attenzione si orienta verso altri oggetti. Avendo assolto un compito X, un talento A distorna con ciò l’attenzione del talento B dal compito già assolto e la orienta verso il problema Y. E quando ci domandano che cosa sarebbe accaduto se A fosse morto senza riuscire a risolvere il problema X, noi immaginiamo che il filo dello sviluppo intellettuale della società si sarebbe spezzato, dimenticando che, nel caso in cui morisse A, della soluzione di questo problema potrebbero incaricarsi B, C, o D, e che in tal modo il filo dello sviluppo intellettuale rimarrebbe intatto, nonostante la morte prematura di A.

Affinché una persona dotata di un certo talento possa acquistare grande influenza sul corso degli avvenimenti, occorre che vengano osservate due condizioni. Anzitutto, il suo talento deve renderlo più degli altri rispondente alle necessità sociali di un’epoca determinata: se Napoleone, invece del suo genio militare, avesse posseduto le doti musicali di Beethoven, certamente non sarebbe diventato imperatore; inoltre, il regime sociale esistente non deve ostacolare il cammino dell’uomo dotato di una particolarità necessaria e utile proprio in quel dato momento. Lo stesso Napoleone sarebbe morto come un generale poco conosciuto o col nome di colonnello Bonaparte, se il vecchio regime fosse esistito in Francia 75 anni di più60. Nel 1789 Davout, Desaix, Marmont, e MacDonald erano sottotenenti; Bernadotte era sergente maggiore; Hoche, Marceau, Lefebvre, Pichegru, Ney, Massèna, Murat, Soult, sottoufficiali; Angerau, maestro di scherma; Lannes, tintore; Gouvion-Saint-Cyr, attore; Jourdan, merciaio ambulante; Bessières, parrucchiere; Brune, tipografo; Jubert e Junot, studenti alla facoltà di legge; Klèber, architetto; Mortier, prima della rivoluzione, non aveva mai servito nell’esercito.

Se il vecchio regime avesse continuato a esistere fino ai nostri giorni, a nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente che alla fine del secolo scorso in Francia alcuni attori, tipografi, parrucchieri, tintori, avvocati, merciai ambulanti e maestri di scherma erano dei geni militari in potenza61.

Stendhal fa osservare che un uomo nato nello stesso anno di Tiziano, cioè nel 1477, sarebbe vissuto per quarant’anni con Raffaello e Leonardo da Vinci (il primo morì nel 1520 e il secondo nel 1519); avrebbe potuto passare lunghi anni insieme con Correggio (morto nel 1534) e con Michelangelo (vissuto fino al 1564); quando morì il Giorgione avrebbe avuto non più di 34 anni; avrebbe potuto fare la conoscenza di Tintoretto, di Bassano, del Veronese, di Giulio Romano e Andrea del Sarto; sarebbe stato, insomma, il contemporaneo di tutti i pittori più famosi, ad eccezione di coloro che appartenevano alla scuola bolognese, che apparvero un secolo dopo. Nello stesso modo si potrebbe dire che un uomo nato nello stesso anno di Wouwerman, avrebbe potuto conoscere personalmente quasi tutti i grandi pittori olandesi62. E che un coetaneo di Shakespeare sarebbe vissuto in una pleiade di eminenti drammaturghi63.

Già da tempo si era notato che gli uomini di talento appaiono sempre ovunque e allorché esistono condizioni sociali favorevoli al loro sviluppo. Ciò vuol dire che ogni talento che si sia manifestato, cioè ogni talento che sia divenuto una forza sociale, è il frutto dei rapporti sociali. Ma in tal caso si capisce perché gli uomini di talento possano, come abbiamo detto, cambiare solamente la fisionomia individuale e non l’orientamento generale degli avvenimenti. Essi esistono solo in virtù di questo orientamento; in sua assenza, non avrebbero mai varcato la soglia che divide la possibilità dalla realtà.

Si intende che i vari talenti non sono uguali. «Quando una nuova civiltà dà vita a un nuovo genere di arte – dice giustamente Taine – vi sono dieci uomini di talento che esprimono a metà l’idea pubblica attorno a uno o due uomini di genio che l’esprimono interamente». Se certe cause meccaniche o fisiologiche, non collegate con la linea generale dello sviluppo sociale, politico e spirituale dell’Italia, avessero provocato la morte di Raffaello, Michelangelo e Leonardo da Vinci, quando erano ancora bambini, l’arte italiana sarebbe meno perfetta, però la tendenza generale del suo sviluppo nell’epoca del Rinascimento sarebbe rimasta la stessa. Non sono stati Raffaello, Michelangelo o Leonardo da Vinci a creare questa tendenza: essi l’hanno solo espressa nel modo migliore. È vero che attorno a un uomo geniale sorge di solito tutta una scuola, e per giunta i discepoli cercano di assimilare fin nei minimi dettagli i procedimenti del maestro; e perciò la lacuna che sarebbe rimasta nell’arte italiana del Rinascimento a causa della morte prematura di Raffaello, Michelangelo e Leonardo da Vinci avrebbe esercitato grande influenza su molti particolari secondari della sua storia ulteriore. Ma neanche questa storia sarebbe cambiata nella sua essenza, a meno che non si fosse prodotto per cause di carattere generale qualche cambiamento sostanziale nel corso generale dello sviluppo intellettuale dell’Italia.

È noto però che le differenze quantitative si trasformano infine in qualitative. Ciò è vero dappertutto e quindi anche nella storia. Una data corrente artistica può non lasciare niente di notevole, se uno sfavorevole concorso di circostanze farà scomparire l’uno dopo l’altro vari uomini geniali che avrebbero potuto esprimerla. Sennonché, la morte prematura di tali uomini impedirà la manifestazione artistica della corrente data solo nel caso in cui essa non sia sufficientemente profonda per far sorgere nuovi uomini di talento. Ma, dato che la profondità di ogni corrente, nella letteratura come nell’arte, è determinata dall’importanza di essa per la classe o per lo strato sociale di cui esprime i gusti e dalla funzione sociale di questa classe o di questo stato, anche qui tutto dipende, in ultima istanza, dal corso dello sviluppo sociale e dal rapporto delle forze sociali.


VIII


Le particolarità personali dei dirigenti determinano quindi la fisionomia individuale degli avvenimenti storici, e l’elemento casuale, da noi indicato, esercita sempre una certa influenza sul corso di questi avvenimenti, il cui orientamento viene determinato, in ultima analisi, dalle cosiddette cause generali, cioè dallo sviluppo delle forze produttive e dai rapporti che esso determina tra gli uomini occupati nel processo economico-sociale di produzione. I fenomeni casuali e le particolarità individuali degli uomini famosi sono incomparabilmente più facili da percepire che non le cause generali, con le loro radici profonde. Il secolo decimottavo non stava molto a meditare su queste cause generali e spiegava la storia con gli atti consapevoli e le passioni dei personaggi storici. I filosofi di quel secolo affermavano che la storia può seguire vie completamente differenti, sotto l’influenza delle cause più insignificanti, per esempio, se nella testa di qualche governante comincia a fare il discolo un qualsiasi “atomo” (considerazione espressa più di una volta nel Système de la Nature64).

I difensori del nuovo orientamento della scienza storica si misero a dimostrare che la storia non avrebbe potuto seguire un corso differente da quello che veramente seguiva, nonostante tutti gli “atomi”. Cercando di far risaltare nel modo migliore l’azione delle cause generali, essi lasciavano da parte le particolarità individuali dei personaggi storici. Secondo loro quindi gli avvenimenti storici non sarebbero cambiati per effetto della sostituzione di una personalità con un’altra più o meno capace65. Se ammettiamo però una simile ipotesi, dobbiamo inevitabilmente dedurne che l’elemento individuale non ha nella storia importanza alcuna, e che in essa tutto si riduce all’azione di cause generali e di leggi generali del movimento storico. Tale estremismo non lasciava spazio alla parte di verità contenuta nel punto di vista contrario. Ma appunto perciò questo punto di vista contrario continuava a conservare un certo diritto all’esistenza. La collisione tra i due punti di vista assunse l’aspetto di un’antinomia, di cui la prima proposizione era costituita dalle leggi generali e l’altra dall’attività degli individui. In base alla seconda proposizione dell’antinomia, la storia appariva come una semplice concatenazione di casualità; in base alla prima proposizione, sembrava che persino i tratti individuali degli avvenimenti storici fossero determinati dall’azione di cause generali. Ma, se i tratti individuali degli avvenimenti vengono determinati dall’influenza delle cause generali e non dipendono dalle proprietà individuali dei personaggi storici, ne risulta che questi tratti sono determinati da ragioni generali e non possono essere mutati per quanto cambino questi personaggi. In tal modo la teoria viene ad assumere un carattere fatalistico.

La cosa non sfuggì all’attenzione dei suoi avversari. Sainte-Beuve paragonò le concezioni storiche di Mignet a quelle di Bossuet. Per Bossuet la forza che genera gli avvenimenti storici viene dall’alto e gli avvenimenti sono espressione della volontà divina. Mignet ricerca questa forza nelle passioni umane, che si manifestano negli avvenimenti storici con tutto il rigore e l’inesorabilità delle forze della natura. Ma ambedue interpretano la storia come una catena di fenomeni tali che in nessun caso potrebbero essere diversi, ambedue sono dei fatalisti; in questo senso il filosofo si avvicina al sacerdote.

Questo rimprovero rimaneva fondato fin quando la dottrina della conformità dei fenomeni sociali a leggi determinate riduceva a zero l’influenza delle particolarità individuali dei personaggi storici illustri sugli avvenimenti. Questo rimprovero avrebbe dovuto produrre un’impressione tanto più forte in quanto che gli storici della nuova scuola, al pari degli storici e dei filosofi del secolo decimottavo, consideravano la natura umana come la fonte suprema da cui derivavano e a cui si sottomettevano tutte le cause generali del movimento storico. Poiché la rivoluzione francese aveva dimostrato che gli avvenimenti storici non sono determinati soltanto dalle azioni consapevoli degli uomini, Mignet, Guizot e altri studiosi della stessa tendenza misero in primo piano l’azione delle passioni, che spesso ripudiano ogni controllo della coscienza. Ora, se le passioni sono la causa determinante più in generale degli avvenimenti storici, perché non avrebbe ragione Sainte-Beuve quando afferma che la rivoluzione francese avrebbe potuto avere un risultato opposto a quello che ci è noto, se si fossero trovati degli uomini capaci di ispirare al popolo francese passioni opposte a quelle da cui era pervaso? Mignet avrebbe risposto: perché altre passioni non potevano dominare allora i francesi, date le proprietà stesse della natura umana. In un certo senso ciò sarebbe stato vero. Ma questa verità avrebbe avuto una spiccata sfumatura fatalistica, dato che essa sarebbe identica alla tesi secondo cui la storia degli umani è determinata anticipatamente in tutti i suoi dettagli dalle proprietà generali della natura umana. Il fatalismo sarebbe in questo caso il risultato della scomparsa dell’individuale nel generale. Del resto, esso è sempre il risultato di tale scomparsa. Si afferma che «Se tutti i fenomeni sociali hanno un carattere di necessità, la nostra attività non può avere nessuna importanza». Questa è una formulazione erronea di un’idea giusta. Si deve dire. Se tutto si realizza mediante il generale, in tal caso il singolare, compresi anche i miei sforzi, non ha nessuna importanza. Una tale conclusione è giusta, ma è usata erroneamente. Essa non ha alcun senso nella concezione materialistica moderna della storia, nella quale c’è posto anche per il singolare. Ma era tuttavia fondata quando veniva applicata alle concezioni degli storici francesi della Restaurazione.

Attualmente non si può più considerare la natura umana come la causa determinante più generale del movimento storico. Se essa è costante, allora non può spiegare il corso estremamente vario della storia, ma, se la natura umana cambia, è evidente che i suoi stessi cambiamenti vengono determinati dal movimento storico. Attualmente la causa generale più determinante del movimento storico dell’umanità consiste, come bisogna riconoscere, nello sviluppo delle forze produttive, da cui vengono determinati i cambiamenti successivi nei rapporti sociali degli uomini. Accanto a questa grande causa generale agiscono cause particolari, cioè l’ambiente storico in cui avviene lo sviluppo delle forze produttive di un dato popolo e che a sua volta, in ultima istanza, è stato creato dallo sviluppo di queste stesse forze presso altri popoli, cioè dalla stessa causa generale.

L’influenza delle cause particolari è infine integrata dall’azione delle cause singolari, cioè dalle particolarità personali degli uomini politici e da altre casualità, in forza delle quali gli avvenimenti assumono da ultimo la loro fisionomia individuale. Le cause singolari non possono produrre cambiamenti radicali nell’azione delle cause generali e particolari, che per giunta determinano l’orientamento e i limiti dell’influenza delle cause singolari. Ciò nonostante, è indubbio che la storia avrebbe assunto un’altra fisionomia, se le ragioni singolari che esercitarono la loro influenza su di essa fossero state sostituite da altre cause del genere.

Monod e Lamprecht si attengono tuttora al punto di vista della natura umana. Lamprecht più di una volta ha dichiarato categoricamente che, secondo la sua opinione, la psicologia sociale è la causa radicale dei fenomeni storici. Questo è un grave errore in virtù del quale il desiderio, in sé molto lodevole, di tener conto di tutto il complesso della vita sociale, non può che condurre a un eclettismo vuoto, benché gonfiato, o (nel caso più conseguente) a ragionamenti à la Kablits sulla importanza relativa dell’intelletto o del sentimento.

Ma torniamo al nostro tema. Il grande uomo è grande non perché le sue particolarità personali attribuiscano una fisionomia individuale ai grandi avvenimenti storici, ma perché è dotato di particolarità che fanno di lui l’individuo più capace di servire le grandi necessità sociali della sua epoca, sorte sotto l’influenza di cause generali e particolari. Carlyle, nella sua nota opera sugli eroi66, chiama i grandi uomini degli iniziatori (beginners). È un termine molto adatto. Un grande uomo è appunto un iniziatore, giacché vede più lontano degli altri e desidera più fortemente degli altri. Egli risolve i problemi scientifici derivati dal corso anteriore dello sviluppo intellettuale della società; indica le nuove necessità sociali create dallo sviluppo anteriore dei rapporti sociali; si assume l’iniziativa di soddisfare queste necessità. È un eroe. Un eroe non nel senso che può arrestare o cambiare il corso naturale delle cose, ma nel senso che la sua attività è un’espressione cosciente e libera di questo corso necessario e inconscio. Sta in ciò tutta la sua importanza e la sua forza. Però quest’importanza è colossale e questa forza tremenda.

Bismarck diceva che non possiamo fare la storia e che dobbiamo aspettare che essa venga fatta. Ma chi dunque fa la storia? L’uomo sociale, che è il suo unico fattore. L’uomo sociale stesso crea infatti i suoi rapporti, cioè i rapporti sociali. Ma se egli in un momento dato crea appunto tali e non altri rapporti, ciò non accade naturalmente senza ragione: ciò è determinato dallo stato delle forze produttive. Nessun grande uomo può imporre alla società rapporti che non corrispondano più allo stato di queste forze o che non gli corrispondano ancora. In questo senso egli non può veramente fare la storia, e in tal caso sarebbe inutile che si mettesse a spostare la lancetta dell’orologio: non avrebbe accelerato con ciò il corso del tempo né lo avrebbe fatto andare indietro. In ciò Lamprecht ha completamente ragione: persino quando si trovava all’apogeo della sua potenza, Bismarck non avrebbe potuto far tornare la Germania all’economia naturale.

I rapporti sociali hanno una loro logica: gli uomini, fino a che si troveranno in rapporti determinati, sentiranno, penseranno e agiranno in un dato modo e non altrimenti. Contro tale logica sarebbe inutile che si mettesse a lottare anche l’uomo politico: il corso naturale delle cose (cioè la stessa logica dei rapporti sociali) ridurrebbe a niente tutti i suoi sforzi. Ma, se io so in che senso cambiano i rapporti sociali in virtù di determinati mutamenti nel processo sociale ed economico, so pure in che senso cambierà la psicologia sociale, di conseguenza ho la possibilità di influire su di essa. Influire sulla psicologia sociale vuol dire influire sugli avvenimenti storici. Quindi, in un certo senso, posso fare la storia e non devo aspettare che essa sia fatta.

Monod suppone che gli avvenimenti e le personalità veramente importanti nella storia sono importanti solamente come segni e simboli dello sviluppo delle istituzioni e delle condizioni economiche. Questa è un’idea giusta, sebbene sia espressa in modo molto inesatto, ma appunto perché è un’idea giusta è infondato contrapporre l’attività dei grandi uomini al lento movimento di queste condizioni e istituzioni. La modificazione più o meno lenta delle condizioni economiche pone periodicamente la società di fronte alla necessità di trasformare più o meno rapidamente le proprie istituzioni. Questa trasformazione non avviene mai spontaneamente, esige sempre l’intervento degli uomini di fronte a cui sorgono in tal modo grandi problemi sociali. Grandi uomini si chiamano appunto coloro che più degli altri contribuiscono alla soluzione di questi problemi. Ma risolvere un problema non significa solamente essere un segno o un simbolo del fatto che è stato risolto.

Ci sembra che Monod abbia istituito la sua opposizione soprattutto perché gli è piaciuta la simpatica paroletta lento. Questa paroletta piace a molti evoluzionisti moderni. Psicologicamente la predilezione è comprensibile: sorge necessariamente nell’ambiente ben intenzionato della moderazione e della puntualità. Ma logicamente non resiste alla critica, come ha già dimostrato Hegel.

E non solo per gli iniziatori, non solo per i grandi uomini si apre un vasto campo di azione. Esso è aperto a tutti coloro che hanno occhi per vedere, orecchie per sentire e cuore per amare il prossimo. Il concetto di grande è relativo. In senso morale è grande chiunque, come dice l’espressione evangelica, sacrifica la propria vita per il prossimo.


APPENDICI



Cinque questioni sulla direzione

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano,n. 61 marzo 2019


In questo articolo trattiamo cinque questioni inerenti alla direzione, utili per la formazione dei quadri del Partito. Lo facciamo usando estratti di lettere inviate dal Centro a membri e candidati del Partito e a compagni della Carovana del (nuovo)PCI: ciò permetterà di vedere un altro pezzo del lavoro in corso per il consolidamento e rafforzamento del (nuovo)PCI.

La prima questione attiene all’uso del materialismo dialettico per analizzare la realtà e trasformarla, ossia per vedere, in questo caso, i passi che un compagno compie e sta compiendo nel suo processo di trasformazione e rafforzarli e, anche, per imparare a ragionare tenendo conto di cosa costituisce, fase per fase, l’aspetto principale per la sua trasformazione e non mettere sullo stesso piano principale e secondario.

La seconda questione attiene all’orientamento da seguire per far superare ai quadri lo scetticismo rispetto alla nostra linea. Ci stiamo rendendo conto, infatti, che solo chi “mette le mani in pasta” comprende effettivamente le possibilità di sviluppo che ci sono per la nostra opera.

La terza questione attiene all’importanza che il dirigente impari anche dai diretti, che li conosca a fondo, che tiri fuori il meglio da loro e che costruisca collettivi (squadre) per potenziare il lavoro.

La quarta questione attiene alla concezione anarcoide della direzione che c’è in alcuni dei nostri quadri in formazione. Essa poggia sulla non comprensione del ruolo dirigente che i comunisti devono svolgere nella rivoluzione socialista e porta a non distinguere il dirigente comunista dal dirigente della sinistra borghese e, dunque, a confondere l’assunzione di nuovi compiti con l’arrivismo.

La quinta questione attiene alla concezione errata che si presenta spesso nelle nostre fila a proposito dell’essere pratici e, nel caso specifico, dell’essere pratici nella direzione.


1. Vedere e orientare il processo

«Positivi i passi che hai compiuto con il tuo compagno: studio collettivo e applicazione del criterio “in ogni campo chi è più avanti insegna a chi è più indietro, chi è più indietro si impegna ad avanzare”. Ho letto alcuni suoi resoconti: nel trattare le questioni inerenti allo stile di vita e la sua gestione del rapporto di coppia di alcuni compagni che dirige, vi è un piglio e una concretezza nuovi e sono portato a pensare che queste evoluzioni sono l’effetto anche dell’intervento che stai facendo su di lui.

Un criterio che devi usare nella coppia ma più in generale nel rapporto con i compagni per verificare le loro evoluzioni, è vedere non solo il campo specifico su cui tu li vuoi far avanzare (ad es. nei rapporti di coppia) ma il complesso della loro attività. In diverse occasioni, infatti, accade che un compagno prima di fare il passo in avanti sul versante su cui tu lo vuoi far avanzare, fa passi in avanti in altri campi, grazie all’intervento che stai facendo su di lui; questi passi in avanti il dirigente deve vederli per avere una visione del processo in atto nel compagno (e non cadere nell’errore di vedere “tutto fermo”) e per usarli come leva per fargli fare passi in avanti anche sul versante su cui lui vuole far avanzare il compagno (far leva sulle posizioni conquistate e dirigere il compagno applicando la concatenazione).

Dato che ci sono, colgo l’occasione per farti un appunto su un’altra questione, sempre attinente alla cura e formazione degli uomini e delle donne. Se vedi che il compagno del tuo CdP è “troppo preso” dai nuovi compiti che il Partito gli ha assegnato, invia tu gli aggiornamenti che lui doveva inviare al Centro: stante i nuovi compiti del compagno, non bisogna “opprimerlo” con quello che non riesce ancora a fare; bisogna essere elastici, a meno che si tratti di aspetti fondamentali che deve assolutamente rettificare ora perché incidono troppo negativamente sulla sua azione.

In sintesi, devi analizzare bene la situazione (senza farti dirigere dalla stizza e dallo stomaco) e capire quali sono aspetti principali da trattare e su cui dare battaglia subito e quali invece non lo sono, almeno in questa fase, e trovare di conseguenza soluzioni creative (in questo caso con una tua mobilitazione). Gli aspetti che oggi sono secondari li riprenderai più avanti con lui. Questo è un criterio di direzione importante.»


2. La migliore cura contro lo scetticismo nei quadri

«Tessere, tessere, tessere e, ancora, tessere la rete del nuovo potere! Non date ascolto a chi descrive come nera la situazione: è fuori strada. Non date ascolto a chi piagnucola perché siamo in pochi: non vede le potenzialità che abbiamo per crescere. La verità è che la situazione è favorevole allo sviluppo dell’attività sia del (nuovo)PCI che del P.CARC, compagni.

Solo chi si cimenta in quest’opera con slancio e creatività, chi mette le mani in pasta comprende le potenzialità che ci sono per la crescita della Carovana del (nuovo)PCI, vede gli appigli e le possibilità di sviluppo. Così come solo chi si cimenta nella cura dei compagni, capisce le possibilità che ci sono nella trasformazione degli uomini e delle donne.

Spingere i compagni a sperimentare la linea nella pratica, a “mettersi alla scuola” dell’intervento nella lotta di classe: questa è la migliore cura per lo scetticismo dentro la Carovana del (nuovo)PCI, in particolare per quanto riguarda i quadri. Infatti chi sta alla finestra, chi non si attiva per attuare la nostra linea, chi non mette le mani in pasta o lo fa burocraticamente, senza slancio e interesse, senza impegno, senza usare l’intelligenza, vede solo mare piatto.»


3. Imparare anche dai diretti, tirare fuori il meglio da loro, costruire collettivi (squadre)

«La cosa più importante che ho imparato in questi anni nella cura, formazione e direzione degli uomini e delle donne è questa: quanto più hai fiducia nei compagni che dirigi, li curi dal punto di vista politico e anche personale (perché i compagni bisogna conoscerli a fondo, ragionarci anche fuori dalle riunioni, sostenerli e aiutarli non solo rispetto all’attività politica, ecc. e creare un profondo legame di fiducia – non cadere nell’errore di pensare che è una perdita di tempo ragionare e conoscere a fondo un compagno: se non lo farai, non riuscirai a capire sul serio con chi hai a che fare e a fargli tirare fuori il meglio) e ti impegni ad imparare anche dalla sperimentazione che loro fanno sul campo, tanto più gli farai tirare fuori nuove potenzialità e, a cascata, se essi sono dei quadri a loro volta faranno emergere nuovi compagni, che cureranno, formeranno, mobiliteranno. I dirigenti, a tutti i livelli, devono concepirsi per molti versi come “allenatori” di una squadra e non “giocatori solisti” (per quanto brillanti, determinati, ecc.). Questo è un concetto fondamentale. Costruire “squadre” (collettivi) è molto importante: le squadre sono infatti di gran lunga superiori ai singoli individui e sono anche garanzia di continuità della nostra opera


4. Sulla concezione anarcoide della direzione nei quadri in formazione

«Stante il ruolo di direzione che ti appresti a svolgere nella Carovana del (nuovo)PCI, ritengo opportuno dedicare una certa attenzione ad alcuni aspetti da correggere della tua concezione della direzione e dell’essere dirigente. Entro nel merito quindi di alcuni aspetti ideologici che abbiamo iniziato a trattare già nel corso dell’ultimo anno ma che richiedono ancora un “pezzo di strada” per essere superati.

L’essenza della direzione è “portare altri a fare cose che spontaneamente (da soli) non farebbero”. A questo aspetto fondamentale della direzione ne sono connessi diversi altri (la crescita dei compagni diretti, lo sviluppo della loro capacità di orientarsi da soli, ecc.), ma questo è l’aspetto fondamentale (l’aspetto dirigente). È bene averlo chiaro, per comprendere adeguatamente tutto quello che ne discende e anche per trasformare aspetti della propria concezione, mentalità e anche personalità che sono in contraddizione con questo concetto così importante per chi si cimenta, appunto, a dirigere.

Dirigere significa quindi guidare e, nel nostro caso specifico, significa guidare le classi oppresse a fare delle cose (liberarsi dalla borghesia e instaurare il socialismo, procedendo poi nella transizione verso il comunismo) che da sole non sono in grado di fare, stante il modo con cui sono “plasmate” sul piano intellettuale e morale dalla classe dominante. Al massimo possono “sognare” questa liberazione (ma con “contorni indefiniti e confusi”), “protestare” o “imprecare”.

Oggi guidiamo i compagni del partito, i collaboratori e simpatizzanti, le organizzazioni operaie e popolari da noi generate e quelle su cui riusciamo a svolgere un’azione di orientamento direttamente (linea di massa) o indirettamente (sistema di leve), gli esponenti della seconda gamba (con tutte le manovre del caso).

Sulla direzione e sull’essere dirigente tu hai ancora le idee confuse (anche se, ovviamente, hai fatto dei passi in avanti rispetto a 4-5 anni fa, quando eri un vero e proprio “anarchico con la bandiera rossa nel cuore”, mi verrebbe da dire!).

Tu riduci sostanzialmente: 1. “all’arrivismo” il proporsi per svolgere nuovi compiti, 2. “alla volontà di apparire” (di “avere prestigio personale”, ecc.) l’assunzione di nuovi compiti, 3. a “far male”, a “passare sopra al prossimo”, ecc. il dirigere e altro ancora. Certo, l’esposizione da parte tua di queste posizioni non è così “netta” (evidentemente neanche a te questa visione “torna tanto”, anche perché stride con l’esperienza che da 4-5 anni stai facendo nella Carovana del (nuovo)PCI e con quanto stai via via imparando sulla direzione), però la sostanza è questa.

La questione di fondo è che hai (anche se non ne sei pienamente cosciente) una concezione della direzione

- metafisica: ragioni come se esistesse una sorta di “natura della direzione” valida per sempre, indipendente dalle classi e dalla lotta di classe, dunque una visione della direzione avulsa dalla lotta di classe e dalla lotta per rovesciare una classe (dominante), scardinare il suo potere e instaurare un nuovo potere. Non distingui, per intenderci, la direzione esercitata dalla classe dominante per opprimere e quella esercitata dall’avanguardia comunista (il partito) che dirige le classi oppresse nella lotta per liberarsi dall’oppressore, un po’ come i pacifisti che non distinguono la guerra coloniale o inter-imperialista dalla guerra rivoluzionaria o gli anarchici che non distinguono lo Stato borghese dallo Stato in mano al partito e alla classe operaia, la dittatura del proletariato

- e, connesso al punto precedente, da classe oppressa: “la direzione è cosa brutta, perché chi dirige opprime e schiaccia gli altri”.

Questi sono strascichi della tua concezione anarcoide. In fondo se si potesse fare a meno della direzione, se si potesse essere tutti liberi e uguali, senza dirigenti e diretti, senza gerarchie, senza istanze, senza centralismo democratico, senza direttive, senza lotta tra le due linee, ecc. tu saresti molto più contento. Per te tutti questi aspetti sono un “boccone amaro” da ingoiare, la “dura realtà”, il “male necessario”, con cui stai, via via, “imparando a convivere”: devi ancora forzarti, in una certa misura, per accettare questi aspetti (che sono il derivato della divisione in classi della società).

Bada bene, metto le cose in modo chiaro e netto perché così il processo della tua trasformazione e crescita sarà più rapido. Tratto con te queste cose perché sono certo che ci rifletterai su seriamente e che avanzerai, tappa dopo tappa e con il sostegno del collettivo e del partito.

Proseguo. Oltre ai due punti su indicati (visione metafisica della direzione e visione da classe oppressa), bisogna aggiungerne un terzo: tu non distingui concretamente quanto avviene nei partiti della sinistra borghese e quanto avviene nella Carovana del (nuovo)PCI. Mi spiego.

Nella Carovana del (nuovo)PCI assumersi nuovi compiti implica, di fatto, sottoporsi ad un processo di trasformazione più profondo e radicale rispetto a quando si svolgono compiti di livello inferiore (“più si sale, più il gioco si fa duro”: la trasformazione richiesta diventa più profonda, i compiti diventano infatti più difficili, le scelte di vita più radicali, ecc.). Questa è una cosa che non si vede o si vede poco quando si milita a livello di strutture locali e di base della Carovana del (nuovo)PCI (CdP territoriali per il (nuovo)PCI e sezioni per il P.CARC, per fare un esempio): è una cosa che si comprende bene e appieno solo vivendola (solo “passandoci”). Ora che ti cimenterai a svolgere compiti di direzione, la capirai o comunque la capirai meglio e più concretamente.

Questo processo è uno dei punti che distingue nettamente l’assunzione di compiti di direzione nella Carovana del (nuovo)PCI dalla “scalata sociale” che si fa nei partiti della sinistra borghese quando si diventa dirigenti federali o nazionali oppure eletti in un grande Comune, alla Regione, in Parlamento o nell’Europarlamento.

La “scalata sociale” nei partiti della sinistra borghese non implica nessuna trasformazione (se non magari di diventare ancora più opportunista e cinico), perché sostanzialmente la “scalata” consiste nell’inserimento nei piani più o meno alti del regime vigente, “sistemandosi”.

L’assunzione di compiti di direzione nella Carovana del (nuovo)PCI significa, invece, assumersi compiti maggiori nella lotta per abbattere questo regime. Sono due ruoli sociali opposti, con opposte implicazioni.

Certo a volte possono esserci concezioni e atteggiamenti ad es. nei nostri rivoluzionari di professione simili a quelli del funzionario della sinistra borghese, ma sono concezioni e atteggiamenti che lasciano il tempo che trovano: o vengono superati con la trasformazione o porteranno il compagno a non tenere il passo e a mollare, a retrocedere. Ad esempio, abbiamo visto in più casi che nei rivoluzionari di professione il “vivacchiare” (nel doppio senso: 1. fare poco e con spirito burocratico oppure 2. fare molto ma senza evolversi intellettualmente e moralmente, senza trasformarsi) o viene corretto o ad un certo punto il compagno in questione fa un passo indietro perché non riesce a “stare al passo”, ecc. ed “entra in crisi”.

Come dicevo su, il dirigente della sinistra borghese e il dirigente della Carovana svolgono due ruoli sociali diversi, con opposte implicazioni. Quella che ho appena descritto è una di queste implicazioni.

Quando tu parli di direzione e assunzione di compiti di direzione nella Carovana del (nuovo)PCI, tutto questo ragionamento manca: ma non per dimenticanza, ma perché non lo hai ancora veramente assimilato. Per farlo hai bisogno di fare esperienza pratica. Ora con i nuovi compiti, farai un’esperienza pratica che ti porterà, per tappe, ad acquisire un approccio più concreto, profondo e maturo anche rispetto alla questione della direzione e avanzerai nell’assimilazione di quanto ti ho scritto fin qui.

Se tra sei mesi rileggerai questa mia lettera, vedrai che la comprenderai molto di più, la comprenderai “più concretamente”, sarà per te “materia viva”.

L’esperienza che farai ti servirà anche per rafforzarti caratterialmente, per “farti le ossa”, per essere “più risoluto”, deciso e operativo. Nella guerra popolare rivoluzionaria per dirigere ci vuole gente decisa e “con il pelo sullo stomaco” e non persone insicure, titubanti, timorose, ecc. che “vogliono questo ma anche quello”, che vorrebbero il socialismo ma non vorrebbero rischiare, che vorrebbero diventare comunisti ma non vorrebbero ferire la mamma o il papà o il “buon senso” dell’ambiente di provenienza, che vorrebbero dirigere ma non urtare nessuno, che ragionano con “si dovrebbe fare, io avevo pensato di fare, sarebbe auspicabile fare” anziché analizzare, decidere ed effettivamente fare, ecc.

Un’ultima questione: nella riflessione sulla direzione, su te stesso e sulla tua esperienza, ometti che qualche anno fa ti sei proposto per ricoprire un ruolo di direzione, pur cosciente che la tua candidatura era in contrapposizione con quella di un altro compagno (quel compito o lo svolgevi tu o lo svolgeva lui, sostanzialmente). Come mai trascuri questa esperienza, quando parli della tua esperienza politica, pur dicendo che sei uno che non si propone per non apparire arrivista?

In quel caso non hai avuto particolari “remore” o “problemi di sorta” a proporti e a illustrare per bene la tua candidatura.

Hai sbagliato a proporti? Sei stato arrivista?

No, certo che no: hai fatto bene a proporti! Dico di più: avresti fatto un errore grande come una casa a non farlo e a non sostenere con forza la tua candidatura!

Sbagli, invece, ad omettere del tutto quella vicenda nella tua lettera. Come mai l’hai omessa? Non mi dire che non era in tema! La vivi forse come una “macchia sul vestito immacolato”? Hai dei sensi di colpa verso l’altro compagno, che ci rimase male?

L’errore in quella vicenda non fu proporti (tra i due eri quello che più adatto per svolgere quel compito): l’errore fu non curare poi l’altro compagno e lasciarlo di fatto “marcire nel suo brodo” (bada bene: fu un errore collettivo e non solo tuo! Anche io commisi grandi errori di superficialità e di scarsa incisività nella gestione di quella situazione e nella cura del compagno).

Quello che voglio dirti e che voglio tu capisca è che nella guerra popolare rivoluzionaria i reparti (tanto più quelli di élite) non si compongono solo “su chiamata”, ma anche raccogliendo volontari (anche nelle Brigate Internazionali di Spagna si partiva “volontari”!), la cui domanda viene vagliata da chi di dovere.

Anche io mi sono candidato per rafforzare il Centro del (nuovo)PCI: sono forse arrivista? Arrivista verso cosa? Avrei dovuto aspettare “la chiamata” per partire? E perché? Ero convinto (da molti anni) che fosse necessario partire per rafforzare la costruzione del (nuovo)PCI (e rafforzare dunque la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata) e mi sono proposto.

Tutta la questione della direzione, del dirigere, dell’essere dirigenti, del proporsi come dirigenti, ecc. in definitiva va affrontata in questo modo: anziché farci menate, dobbiamo porci sempre di più come artefici, protagonisti, costruttori della storia, come coloro che “scrivono la storia” e indirizzano il corso delle cose (ovviamente tenendo conto delle leggi oggettive) e non come spettatori, opinionisti, critici, ecc. della storia fatta dagli altri (dalla classe dominante).

Questa è l’angolazione giusta per sciogliere la questione e inquadrare nel giusto modo l’essenza di quello che dobbiamo diventare, che dobbiamo essere e che diventeremo!»


5. Cosa significa essere pratici per i comunisti

«Tu concepisci ancora la pratica anche per noi comunisti come fare un lavoro fisico, mentre la pratica per noi comunisti consiste non nel far andare le mani o i piedi, ma nel formare comunisti, mobilitare e dirigere uomini e donne nella lotta di classe. Questa è la nostra pratica. La nostra pratica consiste nel trasformare la società capitalista nella società comunista, quindi nel dirigere le masse popolari a farlo (spingere in avanti la lotta di classe), acquisire a questo fine una comprensione superiore delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe (le idee sono strumenti indispensabili per la nostra pratica).

Tu intendi per pratica i lavori fisici, quello che hai fatto in campagna o in produzione, le tante attività che noi chiamiamo “attività correnti” comprese quelle con cui la borghesia cerca di distrarre i proletari dalla lotta di classe.

Noi diciamo che mettersi a coltivare la terra per avere “prodotti genuini” o lanciarsi in un’attività sfiancante per cercare di creare un’attività produttiva a “chilometro zero” o dedicarsi per anni a costruire una casa, non è un’attività pratica dei comunisti, ma distrazione dall’attività pratica propria dei comunisti.

Quando parliamo di unità teoria – pratica, intendiamo unità delle idee che alimentiamo nei comunisti e che elaboriamo dall’esperienza della lotta di classe, con la pratica che i comunisti svolgono nella lotta di classe, per spingerla avanti. Le idee sono uno strumento per l’azione.

Questo è il viatico per il nuovo tratto della strada. È un lavoro che risponde a necessità pratiche e immediate del lavoro della Carovana del (nuovo)PCI e che, se lo fai bene, avrà un effetto benefico sulla tua Riforma Intellettuale e Morale e sull’azione che svolgi.»



Combattere lo scetticismo nelle nostre file!

Per dirigere un compagno bisogna imparare a conoscerlo.

La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 62, luglio 2019


I dirigenti devono imparare a conoscere i compagni, dedicare tempo ed energie a farlo, vedere le loro potenzialità e farli crescere. È sbagliato sia limitarsi alla critica dei loro errori, limiti e difetti o delle storture frutto della decadenza della borghesia e dell’esaurimento della prima ondata, sia limitarsi a dare indicazioni di lavoro e curare poco la loro trasformazione!


Cari compagni,

molti compagni hanno studiato l’articolo “Cinque questioni sulla direzione”67e alcuni lo hanno usato anche per letture collettive. Le cinque questioni poste nell'articolo sono molto utili per riflettere sul percorso di Riforma Intellettuale e Morale (RIM) di ognuno di noi e sul percorso di rafforzamento della Carovana del (nuovo)PCI.

La maggior parte dei compagni con cui ho ragionato dell’articolo individuano nella seconda delle cinque la questione che più li riguarda e che frena lo sviluppo del lavoro dei loro collettivi. La riporto, per favorire il ragionamento: «Solo chi si cimenta con slancio e creatività in quest’opera [nell’attività esterna, in particolare nell’intervento sulla classe operaia e i lavoratori delle aziende pubbliche, n.d.r.], chi mette le mani in pasta comprende le potenzialità che ci sono per la crescita della Carovana del (nuovo)PCI, vede gli appigli e le possibilità di sviluppo. Così come solo chi si cimenta nella cura dei compagni, capisce le possibilità che ci sono nella trasformazione degli uomini e delle donne. Spingere i compagni a sperimentare la linea nella pratica, a ‘mettersi alla scuola’ dell’intervento nella lotta di classe: questa è la migliore cura per lo scetticismo dentro la Carovana del (nuovo)PCI, in particolare per quanto riguarda i quadri. Infatti chi sta alla finestra, chi non si attiva per attuare la nostra linea, chi non mette le mani in pasta o lo fa burocraticamente, senza slancio e interesse, senza impegno, senza usare l’intelligenza, vede solo mare piatto».

Voglio dare un contributo per approfondire la questione dello scetticismo nelle nostre file.

Sono tre i modi con cui esso si manifesta:

1. lo scetticismo sulla possibilità di fare la rivoluzione socialista e instaurare il socialismo,

2. lo scetticismo sulla trasformazione dei diretti in comunisti di nuovo tipo,

3. lo scetticismo sulla propria capacità di trasformare i diretti.

Per combattere efficacemente lo scetticismo bisogna capire quale dei tre è l’aspetto principale nel compagno su cui interveniamo. Per il primo mi basta dire che la cura sta nell'uso del materialismo dialettico per conoscere la realtà: la nostra attività è proficua e feconda di risultati nella misura in cui perseguiamo obiettivi conformi alle leggi di sviluppo proprie del mondo che vogliamo trasformare, nella misura in cui conosciamo quelle leggi e ce ne avvaliamo per dirigere la nostra azione. Mi dilungo invece sul secondo e terzo punto.

Ogni individuo è una realtà unitaria e contraddittoria in sviluppo, creata dalla sua storia: si sviluppa per sue contraddizioni interne e per condizioni esterne. La trasformazione di un compagno in comunista è uno dei suoi possibili sviluppi. Avviene sulla base di presupposti esistenti in lui e secondo sue caratteristiche specifiche frutto della sua storia e della sua concezione, mentalità e personalità. Inoltre per la trasformazione in comunista sono essenziali la mobilitazione e l’impegno dell’interessato. Quindi il ruolo del dirigente è secondario e superfluo? No, non lo è. Se è vero che la base della sua trasformazione è nel diretto, è vero anche che il dirigente ne è la condizione. Il dirigente promuove la trasformazione del diretto. Per chiarire il concetto uso le parole di Mao: «A una temperatura adatta un uovo si trasforma in un pulcino, ma non c'è temperatura che possa trasformare una pietra in un pulcino, perché le basi dell'uovo e della pietra sono diverse»68.

La comprensione delle caratteristiche del compagno da parte del dirigente è fondamentale per promuovere la sua trasformazione. Ogni compagno è diverso dall’altro: il dirigente riesce a “tirare fuori” il meglio da lui, a fargli sprigionare energie, risorse e capacità tanto più quanto più adeguatamente tiene conto delle caratteristiche del compagno. Molti degli errori che ancora commettiamo nella cura e formazione dei compagni sono errori nella comprensione del compagno su cui interveniamo, delle sue caratteristiche, della sua concezione, mentalità e personalità69.

Per la cura e formazione dei compagni bisogna capire “la loro lingua”, entrare nel “loro mondo” e incominciare a “navigare” con loro, partendo da come sono e facendoli evolvere, fino a renderli autonomi ideologicamente e capaci di dirigersi (orientarsi) da soli. È un’operazione di alto livello, che richiede scienza, elasticità mentale e anche una certa sensibilità, nel senso di comprensione della persona e capacità di entrarci in dialettica.

Per dirigere e formare un compagno, bisogna conoscere a fondo la sua storia personale oltre che politica, conoscere le esperienze che lo hanno fatto crescere e quelle che lo hanno segnato. In particolare sono molto utili quelle negative, per capire il compagno: come si è plasmato, come ha reagito, i segni che si porta dietro, le sue relazioni con gli altri e in particolare quelle con i genitori, con i familiari, con l’altro sesso e con i figli. Conoscere le fragilità della persona permette di comprendere come essa è: spesso, infatti, tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, modi di essere sono reazioni a sue fragilità (ad esempio chi si sminuisce perché genitori o insegnanti lo hanno fatto sentire stupido; si maschera per apparire sicuro; teme il giudizio perché lo hanno sempre paragonato a qualcun altro “migliore di lui”; evita sistematicamente determinate situazioni; si infogna sistematicamente in determinate situazioni; ecc.).

Dirigiamo una persona tanto meglio quanto più a fondo la conosciamo. Questo però non significa che prima bisogna conoscerla e solo dopo dirigerla: è solo dirigendola che riusciamo a conoscerla nel senso che a noi interessa, per trasformarla. Significa che il dirigente deve avere una grande attenzione (è una cosa che si sviluppa con il tempo e con l’esperienza, non è una cosa innata) e pazienza per capire chi dirige. Oggi al nostro interno questo lavoro è spesso visto, erroneamente, come una “palla”, un qualcosa che “distoglie tempo dal lavoro esterno”, ecc. Questo è un approccio negativo che porta il dirigente a non essere creativo, d’iniziativa nella cura e formazione e inoltre porta a vedere principalmente il negativo nei compagni.

Bisogna ribaltare l’approccio: partire dal fatto che sono gli uomini che attuano la linea e gli uomini vanno curati e formati, spinti in avanti, stimolati, incoraggiati. La cura del fronte interno è condizione fondamentale per lo sviluppo del lavoro esterno. È un’operazione complessa conoscere una persona, richiede i suoi tempi e non avviene di colpo, ma è fondamentale.

Tanto più il dirigente si porrà in quest’ottica, tanto più farà un buon lavoro e la sua sfiducia (lo scetticismo) nei diretti e nella loro trasformazione diminuirà. La sfiducia nasce infatti da un modo di analizzare le persone e di intervenire su di esse che non corrisponde sufficientemente alla realtà: analisi errate, parziali (unilaterali), frettolose, burocratiche, inficiate dal “come dovrebbe essere” idealmente un compagno e non da come realmente è, con i suoi aspetti positivi e negativi, e su questa base spingerlo in avanti.

Il dirigente fa un intervento tanto migliore sul diretto quanto più si pone nell’ottica di imparare dall’esperienza che sta facendo e anche dal diretto. È molto difficile che un dirigente vada lontano nella trasformazione di un compagno se non coglie (comprende) cosa lui impara dal diretto (si impara da ogni diretto, a prescindere dal fatto se il diretto ne sia o meno consapevole).

In sintesi, il dirigente per molti versi è come l’insegnante di una scuola o l’allenatore di una squadra: deve capire la classe o la squadra, i punti forti e i punti deboli, e tirare fuori il meglio da essa. L’insegnante o l’allenatore che maledice la classe o la squadra, anziché farla evolvere, è lui che è fuori strada. Se non si corregge (e in questo sono importanti anche l’intervento del suo collettivo di appartenenza e dei suoi dirigenti, ma anche le critiche dei diretti), alla lunga non potrà che “vedere tutto nero” e perdere fiducia nella nostra causa: essa infatti è affidata a quegli uomini che fanno la storia consapevolmente.

Avanti nella costruzione del (nuovo)PCI!

Prospero G.








Edizioni Rapporti Sociali

Collana La prima ondata della rivoluzione proletaria e i primi paesi socialisti



Mao Tse−tung, Opere

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25 volumi 6672 pp. | 13,00 ogni volume | 300,00 euro raccolta completa | 1994


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Scritti, discorsi e lettere, documenti dell’Internazionale comunista e del PCUS 1901−1923

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Note

1 Vedi: Comunicato CC 30/2014 del 3 ottobre 2014, articoli di La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 30, novembre 2008; n. 33, novembre 2009; n. 35, luglio 2010; n. 56, luglio 2017 e altri.

2 G.V. Plekhanov (1856-1918), La funzione della personalità nella storia, Editori Riuniti. Plekhanov è stato il primo marxista che ha trattato in esteso del ruolo della personalità nella storia (“il movimento storico dell’umanità come un processo basato su leggi determinate”; “il carattere dell’individuo è un ‘fattore’ dello sviluppo sociale solamente dove, quando e in quanto lo permettono i rapporti sociali”; è il contesto storico che crea l’affermazione dei personaggi alla Napoleone, non sono questi personaggi a creare la Storia; ecc.) contro le concezioni soggettiviste (sono i personaggi a fare la storia) e fataliste della storia.

3 I tratti di personalità si formano a partire dall’esperienza che l’individuo compie in ognuna delle fasi della sua evoluzione, a partire dalla prima infanzia, dall’educazione ricevuta nell’ambiente familiare e nelle sue relazioni sociali. Gramsci descrive bene come le concezioni del mondo borghese e clericale influenzano anche le famiglie dei comunisti e come queste concezioni si annidano e si consolidano nel “senso comune”, nel “buon senso”, ma che grazie al movimento comunista e al Partito possiamo forgiare una nuova personalità adeguata a trasformare il mondo. Il testo Concezione comunista ed educazione familiare, pubblicato su La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 42, novembre 2012, è utile anche per aiutare ogni compagno a capire come i metodi educativi indicati nell’articolo hanno influito sul tipo di educazione familiare ricevuta e sull’influenza che questa ha avuto nella formazione della sua concezione, mentalità e personalità. Questa comprensione deve essere utilizzata ai fini dell’educazione che noi comunisti facciamo e promuoviamo nei confronti delle nuove generazioni. Un’educazione, che come dice Makarenko, «cerca di vincere tutto ciò che è meschino, volgare e animalesco, per educare nell’uomo quanto è veramente umano, per dare ai giovani il maggior numero di cognizioni possibile, per sviluppare la coscienza critica, fin dalla più tenera età. Il fanciullo deve ancora diventare uomo nel vero senso di questa parola, deve ancora formare la propria personalità».

4 Vedi Le tre trappole, in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 54, novembre 2016.

5 Vedi Note sul senso della vita e la ‘ragione di vivere’ e Perché vivo, che senso ha la mia vita? Che senso dai alla tua vita?, in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 52, marzo 2016. Nei paesi imperialisti il “mal di vivere” non è una questione individuale, ma un fenomeno sociale: riguarda decine di milioni di membri delle classi oppresse (in particolare giovani), anche se si manifesta in modi specifici in ogni individuo particolare e concreto. La borghesia da una parte ha emancipato l’individuo dalla dipendenza primitiva, quasi animale dal gruppo in cui è nato o è collocato dal sistema dei rapporti sociali, ma dall’altra nella fase della sua decadenza, da quando il suo sistema sociale è storicamente superato, nella sua resistenza al comunismo avanzante distrugge in un numero crescente di individui il senso della propria esistenza: l’insicurezza e l’instabilità psicologica di tanti individui ne sono una manifestazione. Con la partecipazione consapevole e organizzata alla rivoluzione socialista, una persona trova nelle relazioni che instaura (praticamente con i membri del Partito e con altri, idealmente con il resto dell’umanità vicina e lontana) il senso della sua vita e via via trascinerà anche altri nella nostra opera (la rivoluzione socialista) che dà all’esistenza individuale il senso che la restaurazione del dominio della borghesia sul mondo distrugge su scala crescente: la borghesia ha portato l’umanità in una situazione in cui la possibilità di assicurare a tutti quanto serve per vivere dignitosamente da una parte elimina il fattore principale che da sempre ha dato senso anche alla vita del singolo individuo e dall’altra provoca esuberi, fame, obesità, inquinamento, ecc. Quindi oggi il senso della vita di ogni individuo consiste nel far fronte a questi problemi, cioè nel partecipare alla lotta di classe, alla lotta per instaurare il socialismo.

6 Acquisire una personalità dirigente è un problema che si pone in maniera diversa per quei compagni che vengono dalla borghesia e dalle masse popolari non proletarie che vivono in condizioni agiate. Questi compagni, data la loro estrazione di classe, sono educati a dirigere e comandare gli altri e in una certa misura esprimono spontaneamente una personalità dirigente. Tuttavia è una personalità dirigente inadeguata per il loro ruolo di dirigenti comunisti. Il ruolo dirigente di un comunista contempla sia il comando e la direzione degli altri (in questo è per molti aspetti simile alla direzione borghese) sia l’azione tesa ad educare, formare e organizzare gli altri (una direzione che mira dunque ad elevare gli altri e ad eliminare il divario che esiste tra dirigente e diretto: entrambi sono funzionali e partecipano alla comune lotta per il socialismo).

7 Vedi Dirigere e condurre la CAT alla luce del materialismo dialettico, in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano n. 46, marzo 2014.

8 Pavlov Ivan Petrovič (1849-1936). Fisiologo e medico russo direttore dell’Istituto di Medicina Sperimentale dal 1891 al 1936. Ha avuto una grande influenza su tutta la psicologia e psichiatria sovietiche, con applicazioni anche nel campo dell’educazione. Si occupò anche di teoria della personalità, giungendo a definire una tipologia in quattro tipi (sanguigno, collerico, flemmatico e melanconico) che riprendeva, dandole dignità scientifica (cioè basandola su esperienza e verifica), l’antica tipologia ippocratica. Con i suoi studi degli stimoli condizionati (riflessologia) ha dato, per la prima volta, una dimostrazione oggettiva (e verificata sperimentalmente) della modificazione del comportamento sulla base delle contingenze ambientali.

9 CAT: critica, autocritica e trasformazione, in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 28, marzo 2008.

10 Josif Kablits (1848-1893), scrittore liberale russo.

11 Colui che Plekhanov ironicamente definisce “stimato sociologo” è Nikolaj Michailovskij (1842-1904), importante sociologo russo di tendenza soggettivistica e tra i fondatori del movimento populista.

12 Dottrina di carattere etico-religioso che propugnava un atteggiamento mistico-contemplativo verso la vita, la passività e la totale subordinazione alla “volontà divina”.

13 Joseph Priestley (1733-1804), celebre chimico e filosofo inglese, inviso alle autorità per le sue idee religiose anticonformiste e il materialismo, che lo portarono ad appoggiare entusiasticamente la rivoluzione francese.

14 Richard Price (1723-1791), filosofo inglese.

15 Tale unione del materialismo con il dogmatismo religioso avrebbe sorpreso molto il francese del XVIII secolo. Però in Inghilterra non meraviglia nessuno. Lo stesso Priestley era molto religioso. Paese che vai, gente che trovi. La setta cristiana qui ricordata negava il libero arbitrio e asseriva che il comportamento morale dell’uomo è dettato sempre dalla necessità. [nota di Plekhanov]

16 Gustave Lanson (1857-1934), critico letterario e storico francese.

17 È noto che, secondo la dottrina di Calvino, tutte le azioni degli uomini sono predestinate da Dio. Secondo questa stessa dottrina, Dio sceglie alcuni suoi servitori per la liberazione dei popoli ingiustamente oppressi. Così fu Mosè, liberatore del popolo ebreo. Tutto indica che anche Cromwell si considerava un simile strumento di Dio; egli chiamava sempre, e certamente con sincera convinzione, i suoi atti un’espressione della volontà divina. Tutte queste azioni gli si presentavano già in anticipo con il colore della necessità. Ciò non solo non gli impediva di aspirare a una vittoria dopo l’altra, ma infondeva a questa sua aspirazione una forza indomabile. [nota di Plekhanov]

18“Qui mi trovo e non posso altrimenti”.

19 Rudolf Stammler (1856-1938), giurista e filosofo tedesco di tendenza neokantiana.

20 «Sarebbe come se l’ago magnetico provasse a piacere a rivolgersi verso il nord perché crederebbe di volgersi, indipendentemente da qualsiasi altra causa, non accorgendosi dei movimenti insensibili della materia magnetica» Leibniz, Théodicée, Lausanne, 1760, p. 598.

21 Vissarion Belinskij (1811-1848), filosofo e critico letterario russo, lontano parente di Plekhanov, oppositore dell’autocrazia zarista, vicino alle idee della sinistra hegeliana (tendenza democratico-rivoluzionaria).

22 Con l’espressione “Amleti di tutti i distretti” Plekhanov allude al racconto di Ivan Turghenev

Un Amleto nel distretto di Scigry”.

23 Citiamo ancora un esempio da cui risulta con chiarezza che forza di sentimento abbiano gli esseri umani di tal fatta. La duchessa di Ferrara, Renata (figlia di Luigi XII), dice in una lettera indirizzata a Calvino, suo maestro: «No, non ho dimenticato ciò che mi avete scritto. Che Davide nutriva un odio mortale per i nemici di Dio, e io stessa non intendo affatto contravvenire né derogare in niente a ciò; ché, se sapessi che il re mio padre e la regina mia madre e il defunto mio signor marito e tutti i miei figli sono riprovati da Dio, li odierei a morte e vorrei che finissero all’inferno», ecc. Di che terribile e irresistibile energia erano capaci di dar prova persone animate da tali sentimenti! Eppure, queste persone negavano il libero arbitrio. [Nota di Plekhanov]

24 Georg Simmel (1858 – 1918), filosofo e sociologo tedesco, di orientamento neokantiano.

25 Nome convenzionale con cui in Russia venivano chiamati i seguaci di Marx per evitare la censura.

26«La necessità diventa libertà non perché scompare ma perché si manifesta la sua identità per il momento ancora soltanto interna», Hegel, Wissenschaft der Logik, [La Scienza della Logica] Nurnberg, 1816, II, p.281.

27 Lo stesso vecchio Hegel dice stupendamente altrove: «La libertà non è altro che l’affermazione di se stesso.» [Filosofia della religione].

28 Nikolaj Kareev (1850-1931), storico russo.

29 La rivista in questione era intitolata Rassegna scientifica.

30 Piccolo impiegato protagonista del racconto Il cappotto di Nikolaj Gogol (1809-1852).

31 Quantità trascurabile, inezia.

32 Nella tendenza alla sintesi ci ha preceduto lo stesso Kareev ma, purtroppo, egli si è limitato a prender coscienza della verità secondo cui l’uomo è fatto di anima e corpo.

33 Karl Lamprecht (1856 – 1915), storico tedesco di orientamento psico-sociologico, la sua Storia del popolo tedesco in 19 volumi fu pubblicata tra il 1891 e il 1909.

34 Henry Joly (1839 – 1925), psicologo francese.

35 Ferdinand Lassalle (1825 – 1864), teorico e dirigente del movimento operaio tedesco.

36 Gabriel Monod (1844 – 1912), storico francese, direttore della Revue historique.

37 Henri Pirenne (1862 - 1935), storico belga, autore di Storia del Belgio e Città del Medioevo.

38 Gabriel Bonnot de Mably (1709 - 1785), storico francese, comunista utopista.

39 Augustin Thierry (1795 - 1856), storico francese, per un periodo collaboratore del socialista utopista Saint-Simon.

40 Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1732 - 1799), brillante drammaturgo francese, noto autore del Barbiere di Siviglia e del Matrimonio di Figaro.

41 Plekhanov si riferisce al passo di René de Chateaubriand (1768-1848) in cui si dice che, quando si separi la verità morale dalle azioni umane e dalla verità politica, non vi è più ragione di preferire la libertà alla schiavitù, l’ordine all’anarchia.

42 “Il più forte assorbe il più debole, e questo è giusto”.

43 In un articolo, consacrato alla terza edizione della Storia della rivoluzione francese di Mignet, Sainte-Beuve ha così caratterizzato la posizione di questo storico nei riguardi delle personalità: «Di fronte alle vaste e profonde emozioni popolari che doveva descrivere, allo spettacolo di impotenza e di nullità, cui venivano ridotti i geni più sublimi, le virtù più sante, quando le masse si sollevano, egli è stato assalito da un sentimento di pietà per gli individui, non vedendo in essi, considerati isolatamente, altro che debolezza, e non ha riconosciuto loro la capacità di un’azione efficace se non nella loro unione con la moltitudine».

44 Charles Augustin de Saint Beuve (1804 - 1869), scrittore, critico letterario e storico francese.

45 Rivista filosofica e letteraria edita a Parigi dal 1824 al 1832 alla quale collaborò Sainte-Beuve.

46 Combattuta tra il 1740 e il 1748.

47 Combattuta tra il 1756 e il 1763.

48 Svoltasi tra il 1740 e il 1748. Contro l’Austria combatterono la Prussia, la Spagna, la Francia e altri Stati.

49 Il generale Alexander Suvorov (1730 – 1800), che comandò l’esercito russo nella campagna contro la Turchia (1787-1792) e nella campagna d’Italia (1799-1800).

50 Henri Martin (1810 - 1883), storico e scrittore francese, autore di una Histoire de France in 16 volumi.

51 Histoire de France, IV ed., v. XV, pp. 520-521. Lo storico liberale Henry Martin (1810-1833) oppone qui le orde persiane del V secolo a.C. agli eserciti del maresciallo francese Henri Turenne e del re di Svezia Gustavo II Adolfo al tempo della guerra dei trent’anni (1618.1648). [Nota di Plekhanov]

52 Johann Wilhelm Archenholz (1741-1812), storico tedesco.

53“In ogni finito c’è un elemento di casualità”.

54 Partito della grande borghesia nella rivoluzione borghese francese della fine del XVIII secolo.

55 Reazione termidoriana, seguita alla rivolta controrivoluzionaria del 27 giugno (9 termidoro) 1794, che pose fine alla dittatura della piccola borghesia e portò al patibolo il suo capo, Robespierre. Termidoro, florile, messidoro, brumaio ecc., sono nomi dei mesi del Calendario repubblicano introdotto dalla Convenzione del 1793.

56 La battaglia di Arcole (Italia) in cui si scontrarono le forze francesi ed austriache, si svolse il 15-17 novembre del 1796.

57 Ossia il 9 novembre 1799, quando Napoleone rovesciò il Direttorio e costituì il Consolato.

58 Emmanuel Joseph Sieyès (1748 - 1836) abate, tra i protagonisti della rivoluzione francese di cui seppe abilmente attraversare le varie fasi. Fu presidente del Direttorio e in tale veste principale artefice del colpo di stato del 18 brumaio.

59La vita in Francia sotto il primo Impero, a cura del visconte de Broc, Parigi 1895, pp. 35-36 e segg.

60 Può darsi che allora Napoleone sarebbe partito per la Russia dove aveva intenzione di recarsi pochi anni prima della rivoluzione. Là probabilmente si sarebbe distinto nei combattimenti contro i turchi o i montanari del Caucaso, ma nessuno avrebbe allora pensato che questo povero ma capace ufficiale, in circostanze favorevoli, potesse diventare padrone del mondo. [nota di Plekhanov]

61 Sotto Luigi XV un solo rappresentante del terzo stato, Chevert, poté arrivare fino al grado di tenente generale. Sotto Luigi XVI la carriera militare per la gente di questo stato era ancora più ostacolata. [nota di Plekhanov]

62 Nel 1608 nacquero Terborch, Brouwer e Rembrand; nel 1610 Adrien van Ostade, Both e Ferdinand Bol; nel 1613 van der Helst e Gerard Dou; nel 1615 Metsu; nel 1620 Wouwerman; nel 1621 Weenix, Everdingen e Pijnacker; nel 1624 Berghem; nel 1625 Paul Potter e Jan Steen; nel 1630 Ruysdael, nel 1637 van der Heyden; nel 1638 Hobbema; nel 1639 Adrian van der Velde. Plekhanov ha ricavato questi dati (talora inesatti) da Eugène Fromentin, Les maitres d’autrefois, Parigi, 1896, p. 174. Si noti che Terborch nacque nel 1617, Brouwer e Rembrandt nel 1606, Both nel 1608, Bol nel 1616, Metsu nel 1629, Wouwerman nel 1619, Berghem nel 1620, Ruisdael nel 1628 e Van de Velde nel 1636.

63«Shakespeare, Beaumont, Fletcher, Jonson, Webster, Massinger, Ford, Middleton, Heywood che apparvero insieme oppure uno dopo l’atro, rappresentano una generazione nuova e favorite, che si sviluppò rigogliosamente sul terreno fertilizzato degli sforzi della generazione precedente.» Taine, Histoire de la littérature anglaise, Paris, 1863, I, p.468. [Nota di Plekhanov].

64 L’opera più importante del filosofo materialista francese Paul Henri D’Holbach (1723-1789).

65 Così dicevano quando ragionavano sulla conformità dei fenomeni storici e leggi determinate. Quando però alcuni di essi si limitavano a descrivere tali fenomeni, finivano spesso per attribuire all’elemento personale un’importanza persino esagerata. Qui non ci interessano comunque le loro narrazioni, ma i loro ragionamenti. [nota di Plekhanov]

66 Il filosofo scozzese Thomas Carlyle (1795-1881), nel 1841 pubblicò On Heroes, Hero-worship and the Heroic in History.

67La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 61, marzo 2019.

68 Mao Tse-tung, Sulla contraddizione, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 5, p. 186.

69 Sul tema è utile lo studio dei seguenti articoli: Concezione del mondo, mentalità e personalità in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 35, luglio 2010; Concezione, mentalità e personalità in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 39, novembre 2011; Perché a volte restiamo sorpresi dagli sviluppi che avvengono nella trasformazione dei compagni? in La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano, n. 47, luglio 2014.