Articolo dal sito di il Sole 24 Ore del 22 settembre 2012

 Oltre i costi della politica solo il silenzio

di Roberto Perotti

Il silenzio del governo sui costi e gli scandali della politica sta diventando assordante. Di fronte all'enormità di quanto viene alla luce in Lazio (e dopo simili vicende in altre parti d'Italia), l'annuncio che ci sono abbastanza soldi per evitare l'aumento di mezzo punto dell'Iva appare quasi comico. Il Laziogate rappresenta letteralmente milioni di voti regalati all'antipolitica. Eppure il governo non dice e non fa niente. Sarebbe un'occasione unica per mettere partiti, politici, e parassiti di ogni tipo con le spalle al muro. Se anche ne uscisse sconfitto in parlamento, Monti diventerebbe un eroe nazionale. Cosa ha da perdere dall'affrontare l'unica priorità su cui può ancora incidere in questi sei mesi che gli rimangono?

Veti incrpociati dei partiti? Vediamo chi ha il coraggio di uscire allo scoperto. Questioni di opportunità istituzionale? In tempi di guerra non c'è spazio per l'etichetta. Ostacoli procedurali? L'uomo è andato sulla Luna, sicuramente le procedure possono essere aggiustate. Altri problemi a cui dedicarsi? Sarebbe come discettare sul sesso degli angeli mentre Costantinopoli cade.

L' unico dubbio dovrebbe essere su come intervenire. Il dilemma è sempre lo stesso: per prevenrie abusi, è meglio imporre regole ferree; ma queste possono andare a discapito della discrezionalità a volte necessaria per operare bene. Le consulenze sono una fonte infinita di abusi e clientelismo, ma qualche consulenza è utile. Fortunatamente, la situazione attuale è così drammatica che questo dilemma non si pone: solo un intervento draconiano può funzionare, e pazienza se ci sarà qualche danno collaterale.

Ecco alcune proposte concrete, che seguono quelle del mio articolo su quetso giornale dell' 11 settembre.

Partiamo da due osservazioni. Primo: i finanziamenti ai partiti, soprattutto a livello regionale, possono prendere troppe forme per essere controllati efficacemente. Si pensava che il problema fossero gli stipendi e i vitalizi dei consiglieri regionali. Ma poi si è scoperto che, quando si tagliano gli stipendi, i consigli regionali rispondono aumentando il numero di cariche che ogni consogliere può assumere. La fantasia nel generare diarie e indennità di vario tipo è per certi aspetti ammirevole. E pochi avevano pensato ai fondi ai gruppi consiliari come una fonte di prebende infinite.

Secondo: è ora di smascherare la leggenda che il finanziamento pubblico ai partiti serva per mantenere vivi il contatto con la gente e quindi la democrazia. La migliore dimostrazione è proprio nell'ammirevole iniziativa del Pd laziale, che ha reso pubblico il bilancio del suo gruppo consiliare. Niente festini e regali, sembra. Ma 738mila euro in volantini e manifesti, che hanno contribuito soltanto ad abbruttire Roma, a fronte dei quali il Pd ha pagato solo 3mila euro di «sanatoria per multe affissioni». Poi tanti convegni inutili, decine di migliaia di euro per le solite «produzioni televisive» trasmesse da qualche Tv locale che nessuno guarda, e 622mila euro di compensi a collaboratori, non documentati individualmente. La democrazia sarebbe sopravvissuta benissimo anche senza queste spese.

Date queste premesse, ecco una proposta per rispondere alla giusta idignazione di questi giorni. Il numero totale di consiglieri e assessori regionali è fissato per legge, a livelli diciamo pari alla metà degli attuali per le maggiori regioni. La remunerazione complessiva di ogni consigliere o assessore regionale è uguale in tutta Italia, diciamo 5mila euro al mese. Niente indennità o diarie: il Lazio non è la Siberia, se un consigliere abita fuori Roma con un'ora di treno e pochi euro di biglietto raggiunge la capitale. Lo Stato paga un assistente per ogni consigliere regionale, anche qui con uno stipendio predefinito, più duemila euro all'anno per fotocopie e spese telefoniche e postali: nell'era dell'e-mail sono più che sufficienti. I gruppi consiliari non hanno diritto ad alcun finanziamento: le città italiane sono già piene di cartelli brutti e illegali, non è necessario finanziarne altri. Niente convegni per friggere l'aria, show televisivi, contributi a siti web o fondazioni, viaggi «di informazione» a spese del contribuente.

Lo Stato mette semplicemente a disposizione di ogni consoglio regionale un milione di euro per raccogliere la documentazione statistica o i pareri di esperti necessari per quella poca legiferazione che viene prodotta dalle regioni. Ogni fattura va messa in rete.

Se una regione vuole avere più consiglieri, più assessori, o pagarli di più, oppure vuole finanziare i gruppi consiliari e l'affissione di manifesti, se ne assume le responsabilità con un'addizionale regionale all' Irpef.

Ma tutto questo non è ancora sufficiente. Non dimentichiamo che il Laziogate è avvenuto in una regione con 10 miliardi di debiti per la sola sanità, accumulati mentre decine di politici e le loro famiglie si arricchivano con il business delle cliniche private e nonostante a Roma ancora si rischi di morire di sete dimenticati nelle corsie. Qualche anno fa si era previsto un percorso di rientro dal debito, con una sorta di commissariamento. Poi tutto è stato di fatto condonato. Fu un errore. È necessario prevedere una sorta di procedura fallimentare credibile per le Regioni: come nelle aziende pubbliche, senza lo spettro del fallimento non c'è responsabilità. La prospettiva di un fallimento della regione avrebbe anche indotto i cittadini a vigilare meglio sugli incredibili trucchi utilizzati dai consiglieri regionali per arricchire se stessi e il sottobosco politico che li circonda.

L' altra causa dell' enorme ondata di rabbia sono gli stipendi di molti dirigenti e manager pubblici. La motivazione per alti stipendi ai dirigenti della pubblica amministrazione è nota: attirare le competenze migliori, che altrimenti sarebbero preda degli stipendi più alti nel settore privato. Per sfatare questo mito, è interessante fare alcuni confronti internazionali. Il presidente della Consob guadagna 387mila euro; il presidente della Sec americana guadagna 152mila dollari, circa 120mila euro. Il primo presidente di Cassazione guadagna 294mila euro; il presidente della Corte costituzionale americana 223mila dollari (171mila euro). Il direttore dell'Fbi si lamentò scherzosamente nel 2001 che con uno stipendio di 141mila dollari (110mila euro) non riusciva a pagare il mutuo; il capo della polizia italiana guadagna 621mila euro. Tim Geithner, il ministro del Tesoro americano, guadagna 197mila dollari (151mila euro); il capo di gabinetto del ministero dell' Economia guadagna 537mila euro. Bob Bernanke, presidente dela Fed, guadagna 200mila dollari (154mila euro); Ignazio Visco, il governatore della Banca d'Italia, 757mila euro. Il capo dipartimento del ministero delle Politiche Agricole guadagna quanto il presidente degli Stati Uniti.

Dunque, a meno che non si voglia asserire che dirigenti pubblici, banchieri e giudici americani sono mediamente di qualità inferiore a quelli italiani, è chiaro che ai livelli attuali degli stipendi italiani l'argomento non tiene. Mary L. Shapiro, presidente della Sec americana, guadagnava dodici volte il suo stipendio attuale nel settore privato, eppure ha accettato la posizione alla Sec.

Ma lo scandalo non è solo qui, bensì anche nelle remunerazioni dei manager pubblici, non compresi nella lista pubblicata dal ministro Patroni Griffi. Sono tanti, ma è interessante notare che quattro dei primi sei posti sono occupati da dirigenti di Finmeccanica, azienda statale al centro di scandali di ogni tipo, con stipendi tra 1,6 milioni a 5,5 milioni di euro.

Tutte queste situazioni non sono più tollerabili. Ma in questo caso la soluzione è semplicissima: il governo dovrebbe stabilire un tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici ben inferiore a quella attuale, e includervi organi e aziende pubbliche che non rientrano nella lista di Patroni Griffi. Nessuno morirebbe di fame o dovrebbe rinunciare all'automobile o alle vacanze, e il funzionamento degli organi di cui fanno parte non ne risentirebbe.

Forse qualcuno se ne andrà, ma in Italia non manca il capitale umano per rimpiazzarli. La stragrande maggioranza però rimarrà, qualcuno per senso civico e altri perché sanno benissimo che la remunerazione cui possono aspirare nel settore privato (e intendo privato, non pubblico come Finmeccanica) è enormemente inferiore a quella che percepiscono ora. Ci saranno ricorsi: il Governo pubblichi la lista di chi ha fatto ricorso.

Ma su tutti questi fronti il Governo deve cominiciare a lanciare dei segnali; il suo silenzio e la sua inazione sono sempre più incomprensibili.