I Comitati di Partito all’opera


Riflessioni di un rivoluzionario di professione

Lettera alla redazione

Cari compagni de La Voce,

dopo quasi un anno di lavoro da rivoluzionario di professione per la costruzione del nuovo partito comunista italiano voglio contribuire a chiarire quali sono i principali nodi di questa esperienza. Il mio vuole essere un contributo per facilitare il cammino a coloro che nel futuro faranno quel salto di qualità a cui io ho aderito con entusiasmo e che ora cerco di analizzare più scientificamente sulla base dell’esperienza pratica.

L’esperienza mi ha insegnato che ora non sono solo impegnato in un lavoro diverso da quello che facevo prima, ma sono sopratutto impegnato a trasformarmi. Trasformarsi non è una cosa semplice. Banalmente basta pensare al problema del fumo. Conosciamo gli effetti negativi del fumare, ma non sappiamo correggere il nostro comportamento. Io ho impresso una svolta drastica alla mia vita, ma il cambiamento e la trasformazione non sono come cambiare città o lavoro, riguardano ben più ampi settori della “personalità”. In realtà io sto acquisendo una nuova cultura, un nuovo stile di vita e questo è ben più che saper usare un computer o saper disegnare. Questa nuova cultura e questo nuovo stile di vita sono il nuovo “ambiente” che favorisce anche cose che nella società che noi conosciamo sono difficili da affrontare e risolvere. Praticamente si può smettere di fumare.

La nuova vita e le trasformazioni connesse non riguardano solo l’ambito delle proprie competenze professionali. Per lo più queste o sono il bagaglio dell’esperienza acquisita negli anni lavorando al servizio dei capitalisti, o sono conoscenze sviluppate nell’ambito dei propri interessi culturali o, come nel mio caso, nelle organizzazioni politiche legali dei comunisti. La condizione in cui mi trovo ora impone sostanzialmente una trasformazione che riguarda principalmente il capire cosa significa lavorare collettivamente e le conseguenze che lavorare collettivamente comporta in tutti gli altri ambiti, anche quelli più “personali”.

Il motore principale di questa trasformazione secondo la mia esperienza è la pratica della critica e dell’autocritica nel lavoro collettivo.

Naturalmente noi conosciamo forme di lavoro collettivo anche nella società capitalista, dove in effetti il lavoro si sviluppa sempre di più in forme collettive. Anzi il capitalismo nell’organizzare collettivamente il lavoro crea le basi materiali del futuro sviluppo della società socialista. Quindi prima di affrontare nei dettagli la funzione della critica e autocritica nella trasformazione, dobbiamo comprendere la differenza tra il “nostro” e il “loro” lavoro collettivo. Comprendere questo è iniziare a sviluppare la cultura comunista e quindi rendersi autonomi il più possibile dall’influsso della cultura borghese e porre le cose nella giusta priorità e importanza. Così facendo siamo in grado di distinguere il “nostro” lavoro collettivo da comunisti da quello imposto dalla società capitalista ai lavoratori. La differenza sostanziale sta nel fatto che ciò che noi comunisti vogliamo realizzare ha sia un beneficio diretto per noi stessi sia un beneficio per tutta la società. Gli obbiettivi che noi ci proponiamo sono quindi condivisi doppiamente: perché soddisfano sia l’aspetto interiore (quello che nella società borghese si chiama volgarmente “realizzarsi”) sia l’aspetto esteriore (la solidarietà verso tutti gli altri lavoratori). Nessuna forma di lavoro collettivo nell’attuale società riesce a soddisfare contemporaneamente queste due condizioni. Mi sembra che gli operai possono soddisfare l’aspetto interiore se hanno passione per la conoscenza e passione per il proprio lavoro, ma solo a condizione che siano indifferenti alla società. Infatti il lavoro al servizio dei padroni non contribuisce all’avanzamento della società. D’altra parte l’altruismo e la solidarietà nella società borghese non sono riconosciuti come forme di lavoro produttivo. Quando i lavoratori compiono lavori dettati dall’altruismo e dalla solidarietà, essi servono a rabberciare gratuitamente le crepe che nel sistema si aprono a ogni taglio alla spesa sociale, a ogni nuova guerra, a ogni perdita di diritti e imposizione di nuovi sacrifici. Ed essendo nella classe operaia la solidarietà un elemento che rafforza la lotta di classe, è chiaro che nella società borghese le due cose (passione per il proprio lavoro e solidarietà) devono rimanere distanti e separate e che la borghesia si adopera perché culturalmente questa divisione si acuisca.

Solo ora che abbiamo compreso il valore del lavoro collettivo nella prospettiva comunista, possiamo affrontare la questione della critica e autocritica sotto la giusta luce.

La critica è la forza scientifica che ci guida al miglioramento del nostro lavoro. Ci permette di raggiungere la forma più adeguata per gli obbiettivi che ci prefiggiamo. L’autocritica è il metodo cosciente della trasformazione. L’autocritica è il primo difficile e determinante passo della trasformazione. Se all’autocritica non segue la trasformazione, noi abbiamo fatto solo un atto formale invece che qualcosa di concreto e utile.

La critica e l’autocritica non sono una novità. Anche nella società borghese esse sono praticate, ma esse fuori dal contesto del lavoro collettivo dei comunisti sono una cosa diversa che si pone addirittura agli antipodi rispetto a quella che noi comunisti dobbiamo praticare. Nella società borghese l’autocritica la fa anche il Papa quando chiede perdono per le colpe del passato; la fanno ogni ora i politici di professione e gli imbonitori di folle quando denunciano i mali di cui soffrono le masse. Però avrete certamente notato che dopo le autocritiche non avviene realmente alcun utile cambiamento. In un film sovietico (Un grande cittadino del 1939 del regista Emler) si narra la vicenda di una fabbrica, in cui le maestranze sono divise tra comunisti e i rimasugli della borghesia prerivoluzionaria. L’ingegnere (di cultura borghese), di fronte al cattivo andamento della produzione, fa autocritica per salvarsi le chiappe, ma il dirigente comunista gli impone di far seguire all’autocritica dei fatti conseguenti. L’ingegnere si rifiuta di mettere in pratica ciò che la sua stessa autocritica imporrebbe poiché egli ha una visione borghese di questo strumento per cui esso in realtà non si propone come atto per la trasformazione, ma serve a colpire indirettamente i propri detrattori. Come oggi fanno i putrefatti politici italiani, ammettono di aver rubato e tramato contro i lavoratori, ma non dicono perché e come nel futuro si comporteranno diversamente e comunque la colpa era dei comunisti che li costringevano a quegli atti. Per quanto riguarda la critica, nella società borghese essa è sempre associata a scontri tra classi o frazioni di classi contrapposte, cioè a un contrasto di interessi. Dato che non hanno interessi comuni, le due parti non hanno alcun motivo di segnalare l’una all’altra le cose che non vanno per permettere un miglioramento. Anzi generalmente hanno lo scopo esattamente contrario alla critica dei comunisti. Hanno lo scopo di distruggere, perfino con menzogne, gli avversari.

La critica che i comunisti praticano ha sempre un duplice scopo personale e collettivo. Ogni correzione al lavoro specifico ha una ricaduta positiva nell’ambito collettivo. È naturale per chi è immerso nella cultura borghese vedere solo l’aspetto personale della critica. È naturale per chi subisce la critica interpretarla come effetto delle proprie personali carenze o limiti. Nella mia esperienza è invece naturale comprendere che i propri limiti hanno effetto sul lavoro collettivo. Quindi il loro superamento è principalmente rivolto a realizzare una diversa condizione del collettivo e il collettivo vede i limiti come problema del collettivo e non dell’individuo. Se una critica è mossa da ragioni che non hanno a che fare con il lavoro collettivo, essa danneggia il lavoro del collettivo.

Quello che in sintesi voglio spiegare, ed è peculiare di questa mia esperienza, è che obiettivi, vita, personalità e lavoro sono tutte cose strettamente legate. Quando descrivo la trasformazione come se fosse conseguenza meccanica della critica e dell’autocritica, in realtà ometto di descrivere la profonda relazione che si sviluppa tra tutti questi aspetti.

Trasformarsi in seguito al processo di critica e autocritica riguarda aspetti intimi e collettivi, quindi non è un processo semplice. Però dietro la complessità di questa esperienza, del lavoro professionale per la ricostruzione del partito, deve brillare vigorosa la pratica e i suoi risultati. Seguendo un continuo processo di critica e autocritica ci si trasforma inevitabilmente. Ci sono dei fattori che fanno la parte di catalizzatore di questo processo (cioè lo spingono in avanti vigorosamente): sono la condivisione degli obbiettivi e la consapevolezza che ogni secondo del nostro lavoro tende sempre con maggiore efficacia alla trasformazione della società verso il comunismo.

Ho fissato il bilancio della mia esperienza su un solo punto, ma è quello che abbraccia il problema centrale del costituire un’organizzazione rivoluzionaria dei comunisti. Non si tratta, come ho già detto, solo di cambiare lavoro, ma sopratutto si tratta di trasformare la nostra cultura e nostri sentimenti alla luce e in funzione di quanto si riesce ad applicare della visione del mondo che i comunisti hanno acquisito e sviluppato lungo tutta la loro storia. Vedere il positivo che esiste in ogni cosa e svilupparlo fino a rendere ciò che è negativo secondario e quindi progredire.

Buon lavoro, compagni!

Adriano D. Milano, 17 maggio `03




Manchette

I dettagli cambiano da paese a paese, da “riformatore” a “riformatore”. Ma la sostanza della “riforma” delle pensioni è in ogni paese dell’Unione Europea la stessa: riduzione delle pensioni.

Con la riforma del “mercato dei lavoratori” i capitalisti vogliono annullare gli elementari diritti di civiltà che i lavoratori, diretti dai comunisti, hanno strappato durante la prima ondata della rivoluzione proletaria.