La Voce 17 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno VI - luglio 2004

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La guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata

Comunicato del Comitato Ottobre rosso

del (nuovo) Partito comunista italiano - 25 febbraio 2004


La redazione di Teoria & Prassi (TP) con il numero 10 della rivista prosegue nel suo programma di attacco alla Commissione Preparatoria del Congresso del (nuovo) Partito comunista italiano (CP), dedicando alla cosa larga parte del suo spazio.(1) Insiste nel confondere le acque, sia mescolando la CP con altri organismi da lei ben distinti (i CARC, la Casa Editrice Rapporti Sociali) e facendo così un bel favore agli organismi della repressione che su queste confusioni basano tutta la propria strategia, sia nel contenuto degli articoli, dove si prendono verità, si fanno a pezzetti e poi si rimettono insieme con lo scopo di ingannare chi è disposto a lasciarsi rintronare da un'alta veste intellettuale accompagnata da "stalinismo" di origine controllata. Insomma, i redattori della rivista sono superficiali e disonesti. Hanno poco a cuore lo sviluppo della teoria rivoluzionaria attraverso il dibattito comune. La soddisfazione maligna con cui il Circolo Lenin di Catania commenta le difficoltà che ostacolano la Casa Editrice Rapporti Sociali nel portare avanti la pubblicazione delle Opere di Stalin esprime il livello di confronto a cui costoro riescono a giungere. È ovvio che sarebbe un successo per il movimento rivoluzionario italiano se qualcuno (non importa chi) riuscisse a portare a termine un'opera così grande, e se qualcuno ci prova già questo è titolo di merito. Se la cosa non va in porto a tutti manca qualcosa. Il Circolo, invece, pare che se la goda, come se si fosse in concorrenza, come se la logica che ci governa fosse quella del mercato.


1. Critica della "strategia universale" della guerra popolare prolungata, in Teoria & Prassi, n. 10, gennaio 2004, pagg. 32 - 43.


A parte questo, ciò che ci interessa e ci riguarda in questo numero di TP è l'articolo dove si tratta della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, che qui viene chiamata "guerra popolare prolungata". Questa guerra è la strada che "dobbiamo seguire noi comunisti dei paesi imperialisti per portare la classe operaia a instaurare la dittatura del proletariato, dare inizio alla fase socialista di trasformazione della società e contribuire alla seconda ondata della rivoluzione proletaria mondiale", come scriviamo nel numero 9 de La Voce. TP contesta questa affermazione. Premettono che i processi rivoluzionari hanno diverse forme di sviluppo a seconda dei diversi paesi, e che non esiste una formula universale per i paesi imperialisti, cioè non è detto che per il nostro paese la via da seguire debba essere per forza quella che passerà attraverso la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata. Tra le varie forme prevedono anche come possibile "per un futuro distante" una transizione pacifica dal capitalismo al socialismo. È come dire che tutto è possibile. L'idea che sia possibile una transizione pacifica dal capitalismo al socialismo è stata la principale bandiera del revisionismo dagli anni '50 ad oggi. L'ipotesi per come è posta da TP si differenzia da quella propagandata dai revisionisti solo perché quelli prevedevano tale transizione come attuale, e non come distante. Gli autori prevedendola come "distante" pretendono di differenziarsi dai revisionisti e perciò di qualificarsi come rivoluzionari, e prevedendola come possibile "dal punto di vista teorico" tranquillizzano gli ispettori della controrivoluzione preventiva, che hanno qui conferma del fatto di avere a che fare con intellettuali che si trastullano con tutte le ipotesi, ivi compresa quella che il passaggio rivoluzionario possa avvenire senza violenza.

La sostanza delle obiezioni alla strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, vediamo più oltre, sta nel fatto che oggi non esistono più le condizioni che la resero possibile, condizioni che si diedero in Cina nella prima metà del secolo scorso. Non esistono larghe masse di contadini poveri, che secondo gli autori sono necessarie allo sviluppo della guerra, e non esistono luoghi dove si possano installare "basi rosse". Dicono che la borghesia non lascerà certo che si costituisca nel suo seno un esercito rivoluzionario, e anzi ogni tentativo in tale senso sarà una buona occasione per la borghesia, un buon pretesto, per schiacciare oltre agli "aspiranti guerrieri" pure i rivoluzionari veri. Questo modo di ragionare dei redattori di TP è quello per cui alcuni ci danno solidarietà quando veniamo colpiti ma più o meno esplicitamente sostengono che ce la siamo voluta, il che è come dire che la borghesia reprime solo se provocata. Equivale a dire che il padrone ti licenzia solo se fai sciopero. Noi sosteniamo che l'azione repressiva della borghesia è necessaria alla sua sopravvivenza, e tanto più è dura quanto più avanza la crisi.

In alternativa alla strategia di darsi un'organizzazione militare, TP dice che si tratta di "sviluppare la coscienza di classe degli operai, educare e organizzare le ampie masse lavoratrici, accumulare le forze in un lungo periodo di lotta", ecc., dirigendo organizzazioni di massa, sindacati, denunciando le infamie della borghesia dai seggi parlamentari fino al momento in cui si darà occasione di insorgere, cioè quando si determinerà la situazione rivoluzionaria. Dato che molti dei redattori di TP sono militanti del movimento rivoluzionario da quaranta e più anni è obbligo da parte loro spiegare come mai nei decenni che vanno dagli anni '60 ad oggi di questo sviluppo che ritengono necessario nulla è avvenuto, e anzi è avvenuto il contrario. Se le tesi che sostengono oggi sono le stesse da loro sostenute nel tempo, senza variazioni sostanziali, senza passaggi autocritici, devono spiegare come mai attorno ad esse non si sono aggregate le grandi masse popolari, e anzi sono fatte proprie da un numerò di persone minimo.

TP dice quindi che le condizioni sono mutate, e che l'Italia del 2000 non è la Cina della prima metà del Novecento. L'obiezione vale poco. A noi che abbiamo posto la necessità di combinare l'azione illegale a quella legale richiamandoci all'esempio del partito di Lenin, molti obiettano che l'Italia dei giorni nostri non è la Russia del primo Novecento, la condizione che è presa ad esempio da TP. Il movimento rivoluzionario ha leggi che si riscontrano in fenomeni diversi. Prendere a pretesto la variazione dei fenomeni per negare la validità delle leggi è come dire che se oggi gli aerei volano la legge di gravità non esiste più.

TP dice che la borghesia non consentirà mai la costituzione nel suo seno di un esercito rivoluzionario. La borghesia non consentirà mai, diciamo noi, la costituzione di un partito rivoluzionario né a TP né a noi né a nessun altro. Noi siamo oggetto dell'azione repressiva più continuata dal dopoguerra ad oggi perché la borghesia ci ritiene capaci di ricostruire il partito, non per altro. TP crede che il partito si potrà costituire tranquillamente, che si potranno accumulare tranquillamente le forze in modo da essere pronti per la situazione fatidica? Se tutto questo è possibile ripetiamo la domanda: come mai loro non hanno accumulato nulla nei molti decenni che abbiamo alle spalle? Noi diciamo che non si è accumulato nulla perché la sinistra del movimento comunista, di cui sia noi che TP siamo stati e siamo parte, non ha saputo fare fronte alla deriva revisionista. La debolezza del movimento comunista si supera con l'autocritica. TP ha autocritiche da fare?

La questione militare si può affrontare solo dopo che si è risposto a queste domande, altrimenti si fa solo confusione. L'articolo di TP mette nella stessa pentola forze diverse, quelle facenti capo alle varie organizzazioni combattenti dagli anni Settanta ad oggi, quelle di cui noi siamo parte, quelle riferite all'organizzazione Proletari Comunisti (ex Rossoperaio), forze molto differenti tra loro e unite solo per il fatto che prendono in considerazione la necessità che un Partito abbia una struttura militare. La confusione serve probabilmente per attaccare noi che siamo il bersaglio privilegiato di TP. Non è comunque un modo serio per affrontare una questione seria come quella dell'azione militare del partito e della guerra rivoluzionaria. Noi diciamo che non è un partito adeguato ai tempi quello che non si attrezza da subito per la guerra rivoluzionaria, che non si dota fin da subito di capacità di difesa rispetto alla controrivoluzione preventiva. La clandestinità e la programmazione di mezzi di difesa sono una necessità evidente se solo si pensa a cosa significa ricostruire il partito nel Meridione italiano, dove dalla fine della guerra ad oggi c'è chi ha perso la vita solo per avere votato PCI . Non si tratta di "basi rosse" o di ripetizioni meccaniche dell'eredità che il movimento rivoluzionario ci ha lasciato, si tratta di porre all'ordine del giorno un patrimonio che pure il movimento comunista a cui TP si richiama aveva elaborato, un movimento comunista che aveva sviluppato ad alti livelli la pratica dell'attività clandestina, che affrontò la guerra di Spagna in modo scientifico perché a Mosca i comunisti avevano studiato oltre alle scienze politiche e sociali, oltre al materialismo dialettico, anche la scienza militare. Quei comunisti trassero poi dalla guerra di Spagna lezioni preziosissime, senza le quali il PCI non avrebbe affatto avuto il ruolo che ebbe nella direzione della Resistenza. La storia ci insegna che dopo il primo successo insurrezionale ogni organizzazione comunista ha badato bene ad organizzarsi militarmente, consapevole che la borghesia dopo quella prima insurrezione avrebbe badato bene ad impedirne altre. Questo è sintetizzato nella strategia della guerra popolare di lunga durata, il percorso su cui ci incamminiamo. È un percorso in cui i principi basilari non sono che ci devono essere masse enormi di contadini poveri, né aree in cui stabilire basi rosse. Il principio basilare è che nella costruzione del partito e nella sua azione sono necessari l'aspetto politico e quello militare, e che l'aspetto politico è quello principale, cioè è il partito che guida l'esercito. La maggior preoccupazione della borghesia è arrestare la ricostruzione del partito, problema che riguarda tutti, compresa TP. La borghesia non consente la ricostruzione del partito. Chi riesce nella ricostruzione del partito, riesce anche nella costruzione dell'apparato di difesa e attacco del partito, perché sia l'aspetto politico che quello militare, nei rispettivi ruoli, sono essenziali. Questi sono gli argomenti da discutere e questo è il livello in cui vanno trattati, oltre alla polemica sterile e alla ripetizione di quello che già è stato detto.

Potremmo entrare nei particolari, e spiegare che la strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è quella adatta alla situazione rivoluzionaria in sviluppo, e che questa situazione rivoluzionaria a sua volta si genera con il progredire della crisi economica per sovrapproduzione di capitale. Sono tutte categorie queste che TP critica da sempre con molta insistenza: per TP non esiste crisi di sovrapproduzione di capitale, non esiste situazione rivoluzionaria in sviluppo e di conseguenza non esiste guerra di lunga durata possibile. Sulla crisi e sulla situazione rivoluzionaria ognuno si può confrontare con TP e continuare a confrontarsi, se il confronto non si riduce alla semplice esposizione di tesi contrapposte. Sulla guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, però, le cose stanno diversamente. In questo campo TP non può intervenire in modo utile, non perché non sappia, ma perché non è libera di farlo. Sul tema della guerra, dell'uso organizzato della violenza al livello più alto, non si può intervenire pubblicamente e dire quello che si vuole. Dato che gli organi della controrivoluzione preventiva controllano in modo professionale e con grande dispendio di mezzi i vari movimenti delle FSRS e il dibattito tra le varie forze, il dibattito non è libero. Si è liberi solo di dire cose che sono gradite alla borghesia, o cose che lasciano il tempo che trovano, o banalità. Si può dire che la guerra popolare rivoluzionaria non è possibile. Non si può dire il contrario, perché se si dice il contrario e se si agisce di conseguenza la repressione scatta immediatamente, come è ovvio. Il dibattito quindi è falso, o meglio sarebbe falso, se non ci fosse la libertà di cui gode chi lavora per la ricostruzione del partito adottando come discriminante la clandestinità. Senza questa libertà non si può rispondere alle tesi di TP, e questa è la questione di fondo, al di là dei particolari. La verità è una questione pratica, e la pratica della clandestinità è quella che consente di parlare liberamente di violenza e di guerra. TP, dal canto suo, sull'argomento può dire solo ciò che le è permesso di dire.

Tornando alla comunicazione con cui il Circolo Lenin di Catania commenta le difficoltà di portare avanti la pubblicazione delle Opere di Stalin, invitiamo i compagni ad avere uno stile da comunisti. Non corrisponde a questo stile la serie di insulti pieni di astio rivolti con tono da comari al nostro dirigente, Giuseppe Maj, nemmeno nominato, tra l'altro. Cogliamo l'occasione per esprimere la nostra stima a questo dirigente e al compagno Czeppel, e a loro, e a tutti coloro che sono stati colpiti dall'ondata repressiva partita il 23 giugno 2004 e a tutti coloro che sono stati colpiti dalle successive operazioni, tutta la nostra solidarietà.

Viva il (nuovo)Partito comunista italiano.