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La Voce 47

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI

luglio 2014


Ivan Krastev

La protesta globale

[Per la presentazione dell’articolo che segue, vedi pagg. 61-63. Tra parentesi quadre nostre note redazionali]


Cosa sta succedendo?”, si chiedeva il filosofo radicale francese Alain Badiou due anni fa. “A cosa stiamo assistendo, testimoni per metà affascinati e per metà angosciati? Alla sopravvivenza a tutti i costi di un mondo esausto? A una salutare crisi di quel mondo? Alla sua fine? All’avvento di un mondo diverso?”

A suscitare tutte queste domande è stata la massiccia ondata di proteste che ha scosso il mondo sin dall’avvento della grande recessione. Gli ultimi cinque anni [2008 - 2013] hanno visto l’esplodere di proteste politiche in oltre settanta paesi: alcuni di questi, come l’Egitto e la Tunisia, erano autocrazie; altri, come India e Regno Unito, sono democrazie. Alcuni sono paesi prosperi, come Israele; altri, come la Bosnia e la Moldavia, sono poveri e depressi. Nella maggior parte di essi le disuguaglianze sono in crescita, ma in alcuni, come il Brasile, si stanno riducendo. Le proteste hanno investito paesi duramente colpiti dalla crisi economica globale – Grecia e Portogallo costituiscono gli esempi più lampanti – ma anche economie emergenti ad alto tasso di crescita, come Turchia e Russia, sostanzialmente risparmiate dalla recessione.

Le proteste sono esplose impreviste, spontanee e – è importante sottolinearlo – non violente. A tenerle insieme, un mix di inevitabilità e impossibilità. Tuttavia, il carattere pacifico delle manifestazioni non ha evitato scontri con la polizia e spargimento di sangue: abbiamo visto tutti le immagini dei manifestanti picchiati e uccisi al Cairo, a Istanbul e a Kiev. Piuttosto, implica che i manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito. Diversamente dagli estremisti italiani o tedeschi degli anni Settanta [riferimento alle Brigate Rosse e alla Rote Armee Fraktion: in sostanza Krastev passa sotto silenzio la prima ondata della rivoluzione proletaria], i contestatori attuali non credono nella violenza di classe come forza in grado di trasformare la società.

Il tratto distintivo delle proteste odierne è la loro dimensione: queste sono state eventi di massa, cui hanno preso parte centinaia di migliaia di persone. Israele ha visto la più ampia mobilitazione di base della sua storia; oltre due milioni di persone hanno manifestato in Spagna nel 2011; oltre un milione è sceso in strada in Brasile nel 2013. “Scusate il disagio, stiamo cambiando il mondo”, è stato lo slogan dei giovani ribelli. La strategia cambiava da paese a paese: alcuni manifestanti hanno scelto di occupare spazi pubblici reclamandoli come propri; altri hanno fatto ricorso allo strumento delle marce quotidiane per esprimere la loro rabbia. Sebbene alcune di queste manifestazioni siano state organizzate dai partiti d’opposizione e dai sindacati, com’era consuetudine in passato, il grosso delle proteste più spettacolari non vedeva partiti e sindacati tra gli organizzatori, ma tra i bersagli. Sono state queste manifestazioni prive di regia, di palchi e di arringhe dei politici che sono assurte a simbolo del movimento. Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti disuguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana.

Alla fine, alcune proteste sono riuscite nell’impresa di rovesciare governi e di bloccare determinate politiche. Altri movimenti sono stati sconfitti o hanno perso vigore. È interessante notare come, con il passare del tempo, risulta sempre più difficile stabilire quali proteste hanno avuto successo. Due anni dopo le oceaniche manifestazioni a Mosca, Putin resta al Cremlino e la Russia è ancora meno democratica di prima. In Egitto l’esercito è di nuovo al potere e molti di quelli che due anni fa reclamavano elezioni oggi lodano il “golpe popolare” dei generali. Negli Stati Uniti, Occupy Wall Street è scomparso così platealmente com’era emerso. In Grecia, la resistenza alle politiche di austerità si è indebolita. L’ondata di proteste in Bulgaria ha lasciato l’opinione pubblica più disperata e sfiduciata di prima, mentre l’Ucraina è alle prese con una guerra civile e la Crimea è stata annessa dalla Russia.

Sebbene sia stata in prima battuta l’antiquata televisione ad aver influenzato i movimenti di protesta, dimostranti e commentatori sono stati affascinati dal ruolo dei social media. È ormai noto che gli organizzatori hanno pianificato le proteste su Facebook, le hanno coordinate via Twitter, le hanno pubblicizzate via sms e raccontate al mondo su YouTube. I social network hanno reso possibili le manifestazioni; essi rappresentano la principale forza che sta cambiando radicalmente la politica democratica. I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia. L’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti.

Però, mentre gli scienziati sociali si sono preoccupati di studiare il modo in cui i social media hanno reso possibile la nuova ondata di proteste, una ben minore attenzione è stata prestata, sorprendentemente, al modo in cui questi strumenti hanno contribuito anche a incubare la frustrazione nei dimostranti. Uno studio dei social network russi dopo la rielezione di Putin [4 marzo 2012] ci fornirebbe un quadro inquietante della “forza distruttiva” di queste reti e della loro tendenza a volgere la sconfitta in catastrofe, alimentando le recriminazioni reciproche e le teorie della cospirazione. I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio 2014, nel momento esatto in cui la legislazione anti-dimostrazioni veniva approvata dal parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa.

 

COSA È LA NUOVA PROTESTA GLOBALE. Come inquadrare le proteste che hanno scosso il mondo? Segnalano forse un cambiamento radicale nel modo in cui la politica verrà praticata in futuro? Oppure sono solo un’esplosione spettacolare, ma a conti fatti insignificante, di rabbia popolare? “È la tecnologia, l’economia, la psicologia di massa o semplicemente lo spirito dei tempi ad aver causato questa rivolta globale?” Le proteste segnalano il nuovo potere del cittadino, oppure il declino dell’influenza politica della classe media e il suo crescente scontento verso la democrazia?

Nella sua fortunata trilogia di scritti di fantascienza Hunger Games, storia di una ragazza ribelle – Katniss Everdeen – che porta scompiglio e suscita una rivoluzione in un paese dove la rivoluzione era stata sconfitta 75 anni prima, Suzanne Collins cattura meglio di molte vacue teorie sociologiche il nuovo spirito di ribellione. Le proteste globali, come la rivoluzione di Katniss, sono riconducibili a una rivolta antipolitica nella sua essenza. Tale rivolta scaturisce dalla percezione di una profonda ingiustizia, è governata da un vasto immaginario e si radica in un innato senso di empatia e solidarietà. La celebrità in crisi di coscienza è forse il suo unico leader legittimo.

Non a caso Ksenja Sobchak, l’enfant terrible della buona società moscovita nota sostanzialmente per la sua stessa notorietà, è diventata uno dei simboli delle proteste russe. Si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale. In questo senso le proteste odierne sono un remake in 3D del Sessantotto, ma per altri aspetti sono profondamente diverse. Nel 1968, in tutto il mondo gli studenti rivoluzionari liberavano l’amore e sperimentavano droghe, ma erano anche determinati a capire come funzionava il “sistema”. Questa era la loro ossessione: nel descrivere l’occupazione della Columbia University, il poeta Stephen Spender era impressionato dalla “nervosa serietà rivoluzionaria dei ribelli”, i quali passavano intere nottate a leggere e discutere Marx, Mao e Marcuse.

Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva.

Nella maggior parte delle proteste i manifestanti non descrivono la politica come un insieme di questioni, ma come un modo di essere. La sollevazione ha avuto le connotazioni di una trance collettiva, di un’allucinazione di massa. I manifestanti esprimevano sentimenti apertamente anti-istituzionali e di grande diffidenza verso sia il mercato che lo Stato; si dicevano contrari alle disuguaglianze sociali, ma anche a qualsivoglia forma di redistribuzione del reddito: la condivisione è una decisione personale, non dev’essere imposta dall’alto. Molti di quanti sono scesi nelle strade erano pronti a condividere il cibo con il vicino, ma non volevano che il governo aumentasse le tasse alla classe media. Riflettendo sulla logica politica delle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici.

Nel complesso, le piazze hanno ignorato i partiti politici, diffidato della stampa, rifiutato di riconoscere una qualsiasi leadership e rigettato tutte le organizzazioni formali, affidandosi a internet e ad assemblee locali per dibattere e prendere decisioni. “Questa è una differenza culturale implicita, ma lampante tra la moderna protesta giovanile e quelle del passato”, ha notato il giornalista inglese Paul Mason. “Chiunque appaia anche lontanamente un politico di carriera, chiunque tenti di adoperare una qualche retorica o sposi un’ideologia è accolto con un disgusto viscerale.”

I manifestanti sono individui esasperati. Amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto comune. Diffidando delle istituzioni, non sono interessati a prendere il potere; sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo. Descrivono il loro attivismo politico quasi in termini religiosi, sottolineando la rivoluzione dell’anima e il cambiamento mentale ispirati dalla loro esperienza di piazza. È una rivoluzione a cui ognuno è tentato di prendere parte, spinto dall’indignazione e guidato dalla speranza. Estrema destra ed estrema sinistra vi si sentono entrambe a proprio agio; dopo tutto, è una rivoluzione di brava gente contro governanti cattivi. È l’autentica rivolta del 99%: per la prima volta dal 1848 (l’ultima delle rivoluzioni premarxiste) non ci si solleva contro il governo, ma contro l’essere governati. È lo spirito libertario che tiene insieme le manifestazioni contro il regime autoritario in Egitto con Occupy Wall Street [USA, settembre - novembre 2011].

Ai manifestanti non importa chi vinca le elezioni o chi guidi il governo, perché ogni qualvolta la gente sentirà i propri interessi minacciati, scenderà di nuovo in strada. L’“uomo silenzioso” di piazza Taksim a Istanbul [le proteste in Turchia sono durate da maggio 2013 ad aprile 2014], rimasto in piedi senza muoversi e parlare per otto ore, è un simbolo della nuova generazione della protesta: resta lì a vigilare che le cose non tornino come prima. Il suo messaggio a chi detiene il potere è che non tornerà più a casa. Le proteste di massa prendono di mira la politica rappresentativa, non solo i rappresentanti in carica al momento. Le persone non credono più che i politici – chiunque essi siano – possano rappresentare i loro interessi e ideali. Il successo della rivoluzione risiede nella disponibilità della gente a tornare in piazza ogniqualvolta sia necessario e a qualunque costo.

Ma possiamo confidare nel fatto che la gente manifesterà in massa quando l’interesse pubblico fosse violato? È possibile che la prossima volta le dimostrazioni falliscano per mancanza di manifestanti? La strategia della protesta permanente è più promettente del sogno, un tempo diffuso, della rivoluzione permanente?

 

LA DEMOCRAZIA DEL RIFIUTO. Nelle sue corrispondenze per La Vanguardia sulla “rivoluzione dell’anima” degli indignados, il reporter Andy Robinson ha osservato che “l’iconica piazza centrale di Madrid, Puerta del Sol, ha visto uno strano incontro tra Medioevo ed epoca digitale”. Non solo perché gli indignados spagnoli reclamavano protezione in virtù di un decreto che consente ai pastori di accamparsi con le loro greggi sulle antiche vie della transumanza, ma anche perché le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali. A quel tempo le persone non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito; manifestavano per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male.

Nel suo notevole libro Controdemocrazia, il filosofo politico francese Pierre Rosanvallon coglie al meglio la natura sia pre che post-politica delle nuove forme di attivismo civico. Rosanvallon ha preconizzato l’emergere di proteste prive di leader come strumento per trasformare la democrazia nel XXI secolo. Secondo il filosofo, la democrazia non può essere altro che un metodo per organizzare la sfiducia in un mare di diffidenza. “La sfiducia sta al sentimento profondo della libertà come la gelosia sta all’amore”, sosteneva il freddo Robespierre oltre due secoli fa. Per Rosanvallon è chiaro che passo dopo passo la “democrazia positiva delle elezioni e delle istituzioni legali si troverà assediata dalla sovranità negativa della società civile.” La sovranità popolare si affermerà come potere di rifiutare: non aspettiamoci leader politici con visioni di lungo periodo o movimenti politici capaci di ispirare progetti collettivi. Non aspettiamoci partiti politici in grado di catturare l’immaginario dei cittadini e assicurarsi la lealtà dei loro seguaci. La democrazia del futuro apparirà molto diversa: la gente salirà alla ribalta solo per rifiutare determinate politiche o cacciare singoli personaggi politici. I conflitti sociali determinanti che daranno forma allo spazio politico saranno quelli tra cittadini ed élite, non tra destra e sinistra. La nuova democrazia sarà una democrazia del rifiuto.

Se Rosanvallon ha ragione, le proteste di Mosca, Sofia, Istanbul, São Paulo e Kiev configurano il nuovo volto della politica democratica. Ma non chiedete ai dimostranti cosa vogliono: essi sanno solo ciò che non vogliono. La loro etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto in blocco del capitalismo globale che ha connotato il movimento Occupy Wall Street; oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. Ma il principio è lo stesso: abdicazione a qualsiasi scelta, l’attivismo politico è confinato unicamente al rifiuto. Le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network.

Nella nuova era democratica la politica elettorale non domina più la scena: le elezioni perdono il loro legame con il futuro. “Il domani non arriva mai – è lo stesso fottuto giorno, amico”, canta la statunitense Janis Joplin. Oggi le elezioni sono un giudizio sul passato, non una scommessa sul lungo termine. L’elettore odierno svolge essenzialmente lo stesso ruolo del leggendario Pavel Pichugin, il celebre buttafuori dei più esclusivi night club russi che ha il potere supremo di stabilire chi far entrare e chi no; ma non ha alcuna voce in capitolo sul tipo di musica suonata nel club.

Le proteste di massa in qualche modo svolgono lo stesso ruolo storicamente proprio delle insurrezioni: attestare che il popolo sovrano esiste e che è arrabbiato. Esse fungono da surrogato delle elezioni nella misura in cui creano una rappresentanza alternativa del popolo. Tuttavia, per svolgere il loro ruolo simbolico le proteste devono rispondere a determinati criteri: essere di massa e spontanee, ovvero non organizzate da un partito politico; mettere insieme persone che in condizioni normali non farebbero gruppo; rinunciare del tutto – per incapacità o disinteresse – a formare partiti o a formulare alternative politiche; parlare in termini morali, non politici. In sintesi: devono essere come i movimenti di protesta cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.

Nel 2011, la rivista Adbusters pubblicò l’ormai noto poster raffigurante una ballerina che danzava sull’iconico toro della borsa di New York, facendo appello a occupare Wall Street. In cima al poster campeggiava la scritta: “Qual è la nostra unica richiesta?”. In una democrazia senza rappresentanza, ogni movimento politico ha diritto a una unica richiesta: può essere molto concreta, come ridurre il prezzo del biglietto dell’autobus a São Paulo oppure bloccare il progetto di ricostruzione della stazione di Stoccarda. In questi casi, c’è una concreta probabilità che la richiesta venga accolta. Ma la rivendicazione può anche essere grandiosa, come abolire il capitalismo, e allora essa risulta fine a se stessa. Il punto è che per avere successo, la protesta dev’essere o estremamente concreta, o puramente simbolica. La via di mezzo – il vasto, caotico spazio della politica reale – è assente.

Per molti aspetti, le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governano nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti. Si scagliano contro le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma non offrono alcuna alternativa (nemmeno la propensione ad appoggiare alternative non democratiche). Questa nuova ondata di proteste è priva di leader non perché i social media abbiano reso possibili rivoluzioni acefale (ci consta che nell’antica Roma internet non esistesse), ma perché l’ambizione di mettere in discussione ogni forma di rappresentanza è sfociata nel rigetto dei leader politici in quanto tali. La spiccata inclinazione alla non violenza è anch’essa frutto del timore della gerarchia e della rappresentanza: e infatti, non appena le proteste sono diventate violente, a trarne vantaggio sono stati gruppi paramilitari organizzati. In Ucraina, ad esempio, è stato il tentativo del governo di reprimere con la violenza le manifestazioni a portare alla ribalta formazioni reazionarie come Pravyj Sektor o le Forze di autodifesa di Majdan. Il successo della lotta armata è la tomba della rivoluzione senza leader: la lotta, al pari del voto, fa sciogliere queste nuove proteste come neve al sole.

Le grandi proteste, a differenza delle elezioni, giungono inaspettate. È il loro carattere anti-istituzionale a renderle ciò che sono. Sono degli arnesi inservibili per governare, ma costituiscono un notevole strumento di controllo sul governo. Il tipo di controllo esercitato, tuttavia, è molto diverso da quello insito nelle elezioni.

Nel processo elettorale il controllo sui politici consiste nel decidere a scadenze regolari se essi rappresentano o meno gli elettori, se hanno tenuto fede o meno alle loro promesse. Nella politica antagonista, invece, la nozione di controllo si incentra sulla manipolazione delle élite, per impedire loro di trarre beneficio dal potere che detengono. Ed è la spontaneità delle proteste che rende difficile ai politici pilotarle. Gli obiettivi e la composizione sociale delle proteste variano a seconda dei contesti; in comune hanno il fatto di risultare gli unici comportamenti politici efficaci in Stati di fatto dominati dagli interessi costituiti. Nel caso della Bulgaria, della Turchia o di molti altri paesi investiti dalla protesta, chi domina il potere esecutivo ha in mano anche quello giudiziario: la classica separazione dei poteri è assente e le proteste di massa restano l’unica opzione efficace per resistere alla stretta dell’apparato istituzionale e aprire una crepa nelle élite. In questo senso, l’ascesa della politica antagonista è un esito naturale della svolta oligarchica prodottasi nella politica democratica.

 

LO “STRESS TEST” DEMOCRATICO. Queste proteste hanno trasformato la politica democratica. Rappresentano una sorta di “stress test” democratico: di fatto, è la capacità di gestire le proteste, più che quella di vincere le elezioni, a distinguere i governi democratici da quelli autoritari.

Negli Stati Uniti o in Spagna, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. Oggi osserviamo che i governi democratici sono capaci di disinnescare pacificamente i movimenti di protesta, mentre quelli non democratici (anche se eletti) provano a schiacciarli con la forza. Il giorno successivo allo scoppio delle proteste in Turchia e Ucraina, nessuno ha definito democratici questi paesi.

A colpire maggiormente in questa ondata di manifestazioni, non sono le pur notevoli similitudini tra i movimenti di protesta sparsi per il mondo, bensì la risposta quasi identica da parte di governi che noi percepiamo come sostanzialmente diversi. In paesi come la Russia, la Turchia e l’Ucraina è stato come se le risposte seguissero un copione comune. Se le proteste erano organizzate, venivano sbrigativamente liquidate come “non spontanee”. Le teorie della cospirazione, per quanto assurde, erano così simili da apparire studiate a tavolino. In Turchia, Erdogan ha ascritto le proteste alla lobby dei tassi d’interesse; in Russia, Putin le ha presentate come un complotto ordito da agenti stranieri orchestrati dall’ambasciata americana; il governo Yanukovich ha accusato i nazionalisti estremisti e alcuni oligarchi manipolati dall’Occidente. In tutti questi paesi, le organizzazioni non governative straniere o finanziate da stranieri sono state indicate come i principali responsabili – a cominciare da George Soros, l’uomo nero dietro ogni complotto.

La polizia ha avuto sostanzialmente mano libera. Il messaggio dei governi in questione non era “abbiate fiducia in noi” – sapevano bene di essere poco o per nulla credibili – ma “non fidatevi di nessuno”. Questa strategia ha avuto successo in Russia, ha funzionato parzialmente in Turchia e si è rivelata un boomerang in Ucraina. Le proteste hanno avuto lo stesso ruolo dei test balistici svolti dalla polizia per risolvere i delitti: è proprio nel rispondere alle manifestazioni che i governi devono provare le loro credenziali democratiche (oggi è piuttosto difficile chiamare i governi a rendere conto della creazione di posti di lavoro, ma non lo è inchiodarli alle loro responsabilità per la perdita di vite umane). È il loro comportamento di fronte ai disordini che determina la loro legittimità. L’Ucraina offre l’esempio lampante di un presidente eletto dal popolo che perde la propria legittimità a causa della sua strategia di soffocare le proteste.

Le manifestazioni sono più efficaci delle elezioni anche nel creare spaccature all’interno delle élite, sia nazionali che internazionali. A livello nazionale, le proteste di massa dividono immediatamente la classe dirigente in due campi: i favorevoli al dialogo con i manifestanti e i sostenitori della repressione. Ma le proteste rompono anche la solidarietà tra élite a livello internazionale: è il caso, in particolare, dell’Unione Europea.

Le proteste inoltre affermano il ruolo dell’opinione pubblica proprio nel momento in cui questa è impossibilitata a compiere grandi scelte politiche. Esse dimostrano che le cose possono cambiare. Anche quando non avanzano rivendicazioni concrete, le manifestazioni attestano la possibilità del cambiamento e così facendo svolgono la funzione un tempo propria delle elezioni: lasciano aperto uno spiraglio sul futuro. Chi ha occupato le piazze si è sentito forte: una sensazione assente nella cabina elettorale.

La principale conseguenza dell’attuale ondata di manifestazioni è l’averne reso popolare la pratica. Un sondaggio compiuto in Russia a un anno dalla sconfitta del movimento di protesta lo dimostra chiaramente: sebbene la mobilitazione politica si sia sostanzialmente esaurita a Mosca e in altre città fulcro della protesta, il numero di quanti non hanno preso parte alle manifestazioni (e in alcuni casi le hanno osteggiate), ma si dichiarano pronti a scendere in piazza laddove i loro interessi fossero minacciati, è raddoppiato. In Bulgaria, l’ondata di protesta ha determinato un calo di fiducia in tutte le istituzioni pubbliche, mentre la fiducia nella democrazia è aumentata. Ciò detto, le proteste lasciano l’iniziativa politica nelle mani delle stesse élite contro le quali si scagliano: sta a queste distillare selettivamente il messaggio della piazza e trarne le conseguenze, elaborando una risposta alla crisi.

 

IL SIGNIFICATO DELLE PROTESTE. Qual è, allora, il significato ultimo delle proteste? Stiamo assistendo – per parafrasare Alain Badiou – alla continuazione, a tutti i costi, di un mondo esausto? A una salutare crisi di quel mondo? Alla sua fine? All’avvento di un mondo diverso?

Malgrado le innumerevoli dimostrazioni di coraggio civico e di idealismo politico, nonostante i video ispiratori e le immaginifiche espressioni di controcultura alternativa, le proteste non sono la risposta alla politica del “non c’è alternativa”. Sono però una potente manifestazione di resistenza alla subordinazione della politica al mercato (anche quando i manifestanti non sono contro il mercato). In ultima analisi, le proteste attestano la resilienza della politica, ma segnalano anche il declino della riforma della politica. L’affievolimento della politica di strada è un effetto collaterale di questa nuova generazione di mobilitazioni. In un attivismo così individualistico e simbolico non c’è spazio per i riformisti alla Hirschman [Albert Otto Hirschman: Berlino 1915 - USA 2012], né per quelli che scrivono lettere aperte al potere chiedendo riforme graduali. Le proteste attuali hanno più a che fare col disimpegno che con la richiesta di ascolto. Esse non lanciano nuovi attori politici, né ricostruiscono la fiducia nei governi; piuttosto, fanno della sfiducia nelle istituzioni una regola di condotta.

Numerosi commentatori vedono in queste proteste una sorta di “rivoluzione non governativa”. In un certo senso hanno ragione: molti degli attivisti sono membri di ong e la loro insistenza sul controllo e sulla trasparenza rispecchia la cultura del terzo settore. Ma l’avvento della nuova era di protesta può segnare anche il declino delle ong, che rischiano paradossalmente di uscirne come i principali perdenti. Il messaggio anti-istituzionale delle proteste spinge infatti le giovani generazioni verso un attivismo centrato su internet e li disincentiva a pensare in termini organizzativi. Inoltre, dato che molti governi diffidano della natura spontanea delle proteste e sono alla continua ricerca dei presunti burattinai, le organizzazioni non-governative sono un facile capro espiatorio. Non stupisce dunque che le manifestazioni abbiano spinto molti governi a varare norme anti-ong.

In quel classico del giallo che è Le tre bare di John Dickson Carr, il detective Fell, nell’indagare su alcuni oscuri omicidi, apprende una lezione importante: nei delitti misteriosi, così come nei numeri di magia, la base della maggior parte dei trucchi è semplice. “O si guarda qualcosa che non si vede, o si giura di aver visto qualcosa che non c’è”. Il metodo del detective Fell funziona bene per svelare il mistero dell’ondata di proteste. Queste non hanno segnato il ritorno della rivoluzione: le proteste, come le elezioni, servono piuttosto a tenere il più lontano possibile la rivoluzione e le sue promesse di un futuro radicalmente diverso. Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario: le rivoluzioni necessitano di un’ideologia e l’attuale ondata di proteste non è riuscita a offrire una visione alternativa del futuro. Niente ideologia, niente rivoluzione.

In conclusione, il termine di paragone più calzante per questa esplosione di energia politica cui stiamo assistendo sono le rivoluzioni del 1848. Oggi come allora, siamo a un punto di svolta. Ma il mondo non riesce a svoltare.