La Voce 49 - Indice

La Voce 49 del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVII marzo 2015

Le donne comuniste

Avere o non avere figli?

Lettera di una compagna del P.CARC alla redazione di La Voce

Cari compagni,

sono una compagna del P.CARC e rivoluzionaria di professione. Ho scelto di mettere al centro della mia vita la costruzione della rivoluzione socialista nel nostro paese. L’articolo Avere o non avere figli? pubblicato su La Voce 48 ha trattato l’argomento della maternità su cui io ho riflettuto a lungo e mi ha rafforzato nella conclusione a cui ero arrivata. Vorrei condividere le mie riflessioni con la redazione, stimolare sul tema altre compagne e rivoluzionarie di professione a prendere la loro decisione e dare il mio contributo in merito.

Nel Partito dei CARC l’anno scorso sono stata tra le promotrici della campagna sul Lavoro Donne. Nell’ambito di questa campagna abbiamo trattato anche la questione della maternità. Oggi mi rendo conto che l’abbiamo fatto con due limiti che fanno capo alla concezione della sinistra borghese e come tali hanno imbrigliato il nostro ragionamento.

- Abbiamo trattato la maternità solo (o principalmente) dal punto di vista dell’educazione dei figli secondo la concezione comunista del mondo (in proposito La Voce n. 42 novembre 2012 aveva pubblicato l’articolo di Sergio G. Concezione comunista ed educazione familiare).

- Non abbiamo posto chiaramente la distinzione tra le masse popolari e le comuniste (e rivoluzionarie di professione).

Oggi mi è chiara la deviazione di questa impostazione.

Non distinguere tra noi (comuniste e rivoluzionarie di professione) e le altre donne delle masse popolari ci ha portato a restare sostanzialmente ancora chiuse nell’orizzonte della sinistra borghese, che vorrebbe un mondo migliore ma ancora nell’ambito della società borghese e quindi non adotta la strada realistica indicata dal movimento comunista per costruire realmente un mondo migliore, il comunismo.

Quindi ci siamo poste il problema dell’educazione dei figli, ma non abbiamo posto la questione se avere figli è compatibile con quello che noi comuniste e rivoluzionarie di professione vogliamo fare della nostra vita.

Il mio scatto in avanti è consistito proprio nell’affrontare la mia maternità alla luce del mio progetto di vita, mettendo questo progetto di vita al centro, rendendolo l’asse principale attorno cui deve ruotare tutto il resto: dove vivere, che stile di vita adottare, come costruire una famiglia e quindi anche avere o non avere figli. La domanda a cui ho provato a rispondere è questa: “oggi, è principale che io sia una madre che educa un figlio con una concezione avanzata o una comunista che adotta scelte conseguenti ai propri compiti?”.

Ragionando in questo modo, all’inizio sono rimasta turbata. Pur senza farne una questione vitale, avevo sempre dato per scontato che avrei avuto figli. Poi mi sono chiesta perché lo avevo dato per scontato e sono giunta a queste conclusioni:

- perché per questo ero “programmata” dalla formazione che la Repubblica Pontificia dà alle donne. In Italia il Vaticano ha un ruolo di punta nell’oppressione delle donne, che sin da piccole sono abituate a concepirsi progressivamente come figlia, come moglie, come madre e a far coincidere, in un modo o nell’altro, la propria vita con questi ruoli. In particolare una donna deve procreare.

- perché ero convinta che fosse questo ciò che i miei genitori si aspettavano da me. Ragionando da figlia che soddisfa le aspettative dei genitori, è indicativo che io mi ponessi la questione in questi termini, guidata dal senso comune.

Ma io, comunista e rivoluzionaria di professione, ho deciso di dedicare la mia vita alla rivoluzione socialista. La scelta di essere madre dipende da me ed è legata alla mia vita, non alle aspettative dei miei genitori e al ruolo che la Repubblica Pontificia mi ha assegnato.

Questo ha significato per me fare della questione della maternità un campo di battaglia per rompere con la concezione della sinistra borghese e rafforzarmi come comunista.

In particolare penso che:

- una rivoluzionaria di professione non può progettare la propria vita (o aspetti di essa) secondo i principi e i criteri della società borghese. Secondo questi infatti avere un figlio (così come la casa di proprietà, ecc.), diventa il metro del benessere e della felicità di una coppia. Poco conta che la borghesia peggiora giorno dopo giorno le condizioni di vita per le famiglie delle classi popolari: basta pensare che sono sempre più numerose le coppie che non possono permettersi di avere figli perché non potrebbero mantenerli.

- mettere al centro il fattore culturale (l’educazione dei figli secondo la concezione comunista del mondo) e rendere questo un elemento di innovazione positiva per le rivoluzionarie di professione (noi rivoluzionarie educheremo i nostri figli con una concezione avanzata!) significa eludere il problema, scaricare addirittura sul figlio il peso di contraddizioni che noi, oggi, abbiamo difficoltà a sciogliere.

È un dato che la possibilità di fare un figlio è legata alle condizioni in cui si può crescerlo. Sicuramente contare sulla propria famiglia di origine, sul proprio collettivo, sul proprio compagno è un fattore che rassicura e riduce (ma non elimina) la barbarie delle condizioni di vita cui un figlio oggi è destinato a crescere. L’eliminazione dei servizi (asili nido, assistenza sanitaria, tutele e diritti) e del lavoro, sono dati atroci per le donne e per le famiglie delle classi oppresse.

La concezione borghese spinge anche noi a conciliare il ruolo di rivoluzionarie di professione con quello di madre. La concezione comunista ci insegna a pensare e pensare è la nostra arma.

Come rivoluzionarie di professione, abbiamo abbracciato una grande impresa. L’adesione al progetto della rivoluzione socialista è concreta: essa comporta disponibilità a spostarsi frequentemente, cambiare città o regione, fino alla repressione da parte della borghesia. Le esperienze del movimento comunista, sono molto chiare. Molte compagne (Rita Montagnana, Teresa Noce, Marina Sereni ad esempio) hanno avuto figli, ma in che condizioni li hanno cresciuti? Quanti strappi e lacerazioni ulteriori oltre a quelli generati dalla guerra, hanno dovuto subire, separandosene? Perché mettere al mondo un figlio, sapendo che crescerebbero in una società dove l’educazione dei figli è ancora familiare e individuale e il tempo che gli potrei dedicare sarebbe poco o che potrebbe essere cresciuto addirittura non da noi che lo abbiamo messo al mondo?

Chiarito tutto questo, mi sono resa conto che avere figli vuole dire probabilmente non potermi occupare di loro, “cosa per cui non mi sento pronta”.

Per questo penso che alla maternità, che di certo è una difficile impresa, si possa rinunciare, se si decide di intraprendere un’impresa più grande e che richiede anche più energie e dedizione. Fare la rivoluzione nel nostro paese, costruire le condizioni economiche, politiche e sociali per cui anche la maternità, la costruzione di una famiglia, saranno alla portata delle masse popolari (e non solo appannaggio della classe dominante).

Trovo che l’articolo di La Voce 48 inquadra la questione in modo avanzato e dà una risposta adeguata alle scelte che ho fatto per la mia vita. Credo che l’articolo e le riflessioni che io ho fatto possono aiutare altre compagne a prendere consapevolmente decisioni coerenti con la loro decisione di dedicare la propria vita a fare la rivoluzione socialista. Per questo vi mando questa nota. (…)