La Voce  56 - anno XIX, luglio 2017 - in formato PDF - Formato Open Office - Formato Word

del (nuovo)Partito comunista italiano

Un articolo esemplare

Il movimento comunista che costruisce la seconda ondata della rivoluzione proletaria a confronto con i nostalgici della sinistra del vecchio movimento comunista dei paesi imperialisti che non ha instaurato il socialismo in nessun paese imperialista durante la prima ondata della rivoluzione proletaria sollevata dalla Rivoluzione d’Ottobre.

 

L’articolo pubblicato qui di seguito a questo, pagg. 54-59, è comparso il 20 giugno 2015, quindi tempestivamente subito dopo la pubblicazione dell’Enciclica Laudato si’ di papa Bergoglio, sul giornale online Senza Tregua, organo del FGC (Fronte della Gioventù Comunista), organizzazione giovanile del PC di Marco Rizzo, a sua volta uno dei frammenti in cui si è spezzata Rifondazione Comunista gettata da Fausto Bertinotti (con grande fortuna personale) nel tritacarne del secondo governo Prodi (2006-2008) con il risultato di annullarne i privilegi e i finanziamenti parlamentari e di disperdere il seguito che aveva tra gli operai.

Propongo la lettura dell’articolo ai compagni del (n)PCI, ai compagni del P.CARC e ai collaboratori e simpatizzanti dei due partiti. Infatti l’articolo mostra bene quello che ci unisce agli aderenti del PC di Marco Rizzo ma soprattutto quello che distingue esso (e altri partiti e gruppi derivati dalla disgregazione del vecchio PCI e che anch’essi si dichiarano comunisti) da entrambi i partiti della Carovana del (n)PCI.

Le idee che il Papa propaganda, la concezione del mondo che difende non è rivoluzionaria, anzi è reazionaria, dice l’autore dell’articolo di Senza Tregua. Cosa indubbia ed elemento di unità tra noi e gli aderenti al PC di Marco Rizzo.

Il consenso dichiarato alle idee del Papa da parte di molti esponenti della sinistra borghese e perfino da alcuni che si professano comunisti è la conferma della loro estraneità al marxismo e del loro abbrutimento intellettuale (o confusione mentale). Tesi anche questa indubbiamente vera, basta considerare il turbinio di analisi una più empirica e unilaterale dell’altra e di proposte una più velleitaria e passeggera dell’altra.

Quindi cosa fare? Qui sta la differenza tra noi e il PC di Marco Rizzo e organismi affini. Noi siamo promotori della rivoluzione socialista. Il suo passaggio attuale, il passo da compiere ora sulla sua strada, per avanzare nella rivoluzionamento del paese, è la costituzione del Governo di Blocco Popolare (GBP). Noi chiamiamo tutti gli elementi avanzati delle masse popolari a contribuire a creare le condizioni per la costituzione del GBP (costituzione di organizzazioni operaie e popolari, “occupare e uscire dalle aziende”, coalizzarsi, funzionare capillarmente e localmente da nuove autorità pubbliche e promuovere Amministrazioni Locali d’Emergenza fino rendere il paese ingovernabile ai vertici della Repubblica Pontificia) e in questo assegniamo un ruolo preciso a quella parte della sinistra borghese che collaborerà. Il PC di Marco Rizzo propone di professare le idee del movimento comunista, di propagandarle e di attendere la rivoluzione che prima o poi scoppierà, ovviamente nel frattempo partecipando alle lotte sindacali e rivendicative. Come i promotori e relatori del convegno “l’Ottobre sta arrivando” dello scorso 12 maggio a Napoli propongono di aspettare il prossimo collasso dello Stato borghese e intanto fare campagne di opinione pubblica su “3, 4, 5 temi che nella classe sollevano il consenso e rispondono alle esigenze materiali concrete” [in proposito vedi qui l’articolo Due linee a pag. 27].

Al Vaticano l’autore dell’articolo di Senza Tregua rimprovera di propagandare idee reazionarie, alla sinistra borghese e ai sedicenti comunisti di dichiarare la loro adesione a quelle idee invece che al marxismo.

Ma che ruolo ha la propaganda del Vaticano nella lotta politica in corso, nella lotta di classe che si svolge nel paese e che noi comunisti convogliamo nella rivoluzione socialista, verso l’instaurazione del socialismo? Che ruolo svolge il Vaticano nella lotta politica?

Il Vaticano non è solo una scuola di idee e un organo di propaganda di idee, un istituto depositario e propagatore di  idee, una scuola di pensiero, il centro promotore di una corrente d’opinioni. È principalmente il residuo di una delle due principali istituzioni del sistema feudale europeo, diventato dalla fine del secolo XIX uno dei pilastri del sistema imperialista mondiale [vedi cosa ne diceva già Gramsci, qui a pag. 69] e, dalla fine della seconda Guerra Mondiale, il governo occulto ma reale del nostro paese, l’istituzione che dirige il governo ufficiale cercando di non assumere la responsabilità delle azioni del governo, degli effetti della sua politica (e a causa della crisi in corso ci riesce sempre meno perché il suo ruolo diventa sempre più palese).

La condotta che il Vaticano ha inaugurato con l’elezione nel 2013 del gesuita Bergoglio alla sua massima carica (finora i Gesuiti avevano governato la Chiesa nell’ombra, per interposta persona e con molte mediazioni: secondo i principi del potere indiretto elaborati dal cardinal Roberto Bellarmino [1532-1621]), vuole essere la risposta alle difficoltà crescenti in cui si trova la Chiesa Cattolica Romana stretta nella tempesta dei contrasti crescenti tra i caporioni e i centri del sistema imperialista mondiale e dei contrasti crescenti tra ognuno di essi e le masse popolari; è uno degli indizi della crisi generale del sistema imperialista mondiale; è la risposta al malcontento crescente delle masse popolari che sempre meno danno il loro appoggio alla Chiesa Cattolica Romana (a differenza degli altri gruppi e Stati imperialisti, il potere della Chiesa non si basa direttamente su apparati di coercizione; per la sua dominazione la Chiesa ha bisogno dell’assenso delle masse, analogamente ai sindacati di regime che sono un apparato parastatale di direzione sui lavoratori ma hanno bisogno se non del consenso almeno dell’assenso dei lavoratori stessi).(1)

 

1. Il P.CARC nelle Tesi del suo III Congresso ha giustamente indicato che, stante il ruolo della Corte Pontificia nel nostro paese, noi comunisti dobbiamo “sistematicamente

a) denunciare il ruolo della Corte Pontificia e le sue implicazioni non solo nei “misteri e scandali” che costellano la storia del nostro paese, ma anche e soprattutto in tutto quello che rende difficile, miserabile e amara la vita delle masse popolari,

b) fare delle proprietà, delle risorse e dei mezzi di cui dispone la Chiesa il bersaglio delle rivendicazioni e delle mobilitazioni popolari per appropriarsi direttamente dei beni e servizi a cui la crisi blocca l’accesso,

c) far emergere con forza e chiarezza le responsabilità del Vaticano con la sua Chiesa nel marasma in cui si trova il nostro paese, per quello che esso fa e per quello che non fa pur avendo i mezzi per fare,

d) mettere a contribuzione ogni esponente della Chiesa cattolica per attuare la parola d’ordine “un lavoro utile e dignitoso per tutti”, non a fare carità, beneficenza ed elemosine (che concorrono a mantenere una parte della popolazione nella posizione di emarginati), ma a organizzare attività produttive e servizi: o faranno qualcosa di utile o finiranno smascherati e isolati”.

E i campi oggi “caldi” in cui i comunisti possono svolgere quest’azione sono numerosi: dal mettere alla prova gli esponenti della Chiesa nella lotta contro il lavoro festivo al farne un bersaglio della lotta per la difesa della sanità pubblica e per la casa e gli spazi sociali, alla denuncia delle risorse che ha succhiato e succhia in Alitalia

 

2. Sull’aristocrazia proletaria dei paesi imperialisti vedasi Coproco, I fatti e la testa, Giuseppe Maj Editore (ora Edizioni Rapporti Sociali) 1983, in particolare il capitolo L’aristocrazia proletaria dei paesi imperialisti e la rivoluzione comunista pagg. 110-114.

 

Quanto alla sinistra borghese, anch’essa l’autore dell’articolo la considera unicamente dal punto di vista delle idee. Ma se fosse solo questo, potremmo anche disinteressarcene: di matti ce ne sono tanti e alcuni predicano agli angoli delle strade. In realtà nel nostro paese (e in gran parte degli altri paesi imperialisti) la sinistra borghese è un insieme di individui e organismi che ha un ruolo importante nella lotta politica. La prima ondata della rivoluzione proletaria, per lo svolgimento che ha avuto in campo politico (rinuncia dei partiti comunisti a proseguire la rivoluzione socialista, rassegnazione delle masse popolari al sistema capitalista in cambio però di importanti concessioni in termini di civiltà e di benessere) e per le trasformazioni che ha indotto nella struttura della società (crescita dell’aristocrazia proletaria: dirigenti piccoli e medi, giornalisti, imbonitori, professionisti, intellettuali, addetti ad attività scolastiche e universitarie, amministratori locali, ecc.), ha accresciuto la sua consistenza numerica e il suo ruolo nella società civile in ogni paese imperialista.(2) La crisi generale del sistema imperialista mette la sinistra borghese di fronte a un bivio, la stringe in una morsa. Essa non ha futuro, la sua crescita è finita. Con la fine del capitalismo dal volto umano è iniziata non solo l’eliminazio ne delle conquiste di civiltà e di benessere delle masse popolari, ma anche il declino della sinistra borghese. La linea che noi pratichiamo le assegna un ruolo in questa fase transitoria, da qui all’instaurazione del socialismo. Fungere da subito da Comitato di Salvezza Nazionale (CSN) usando risorse e influenza per appoggiare la costituzione delle organizzazioni operaie e popolari; in un secondo tempo contribuire alla costituzione del Governo di Blocco Popolare. Quella parte della sinistra borghese che non aderirà a questi nuovi ruoli che le assegniamo nel nostro piano di guerra popolare rivoluzionaria, finirà nella mobilitazione reazionaria. Questa morsa costringerà una parte della sinistra borghese ad aderire alla nostra linea, anche se oggi la grande maggioranza di essa non ci pensa neanche. Le amministrazioni arancioni e anti-Larghe Intese, il M5S, lo sviluppo di ONG, ecc. sono sintomi che volente o nolente questa morsa agisce e la nostra linea prende piede. Non è la coscienza degli esponenti della sinistra borghese che le fa fare la strada che sta facendo, è la forza delle cose che favorisce la linea che noi professiamo e pratichiamo.

Questa è lotta politica. A fronte di questo, l’autore dell’articolo di Senza Tregua rimprovera alla sinistra borghese solo o principalmente di aderire alle idee del Papa. A conferma che nell’ambiente del PC di Marco Rizzo essere comunisti significa professare idee, propagandare idee, magari presentarsi alle elezioni per fare un po’ di propaganda e forse conquistare qualche consigliere comunale e ... aspettare che la rivoluzione socialista scoppi. Il mondo è alle idee e alla speranza.

Quanto poi agli elementi particolari di analisi della situazione materiale (non quindi delle idee) contenuti nell’articolo di Senza Tregua, vale la pena di fare alcune precisazioni, per non avallare panzane e pregiudizi presso i nostri lettori.

1. L’autore dell’articolo giustamente dice che alla fine del secolo XIX la Chiesa Cattolica Romana si è schierata a fianco della borghesia europea, ha collaborato alla sua opera di colonizzazione del mondo ed è scesa in guerra contro il movimento operaio, ma aggiunge che per la Chiesa è stata un’impresa “anche piuttosto riuscita”. Significa che l’autore dimentica la prima ondata della rivoluzione proletaria, il movimento di liberazione nazionale dei paesi oppressi e tutto quello che ha fatto evolvere il mondo nel secolo XX. Conferma l’atteggiamento celebrativo che nell’ambiente del PC di Marco Rizzo vige verso il passato e l’incomprensione delle sue lezioni risultante dalla mancanza di un bilancio. Quanto poi alla Chiesa Cattolica Romana e al Vaticano, l’autore nasconde che il loro ruolo politico in Europa si è enormemente ridotto, anche se il Vaticano non ha ancora fatto la fine dell’Impero austro-ungarico, dell’Impero germanico e dell’Impero zarista.

2. L’autore dell’articolo dice che la Chiesa Cattolica è forte, che Bergoglio svolge un’attività efficace e in definitiva l’impressione che resta al lettore crediamo sia questa, una Chiesa in espansione. In realtà dice anche che la Chiesa è disperata (la predicazione di Bergoglio sarebbe un “grido di disperazione”) e che i fedeli nei paesi imperialisti sono sempre meno e meno numerose le “vocazioni” a far parte del suo clero, cosa però che sarebbe compensata dall’afflusso di clero dalle neocolonie che invece un tempo assorbivano missionari e missionarie dai paesi imperialisti. Ora sfidiamo chiunque a dimostrare che la Chiesa di Roma negli ultimi decenni si è rafforzata. La Chiesa Cattolica Romana è costretta dal malcontento crescente delle masse popolari a farsi eco di esso e a denunciare i mali del mondo. Cosa di cui noi comunisti possiamo giovarci, a condizione che non ci mettiamo al seguito di Bergoglio ma anzi conserviamo tutta la nostra autonomia ideologica e progettuale e la rafforziamo. Le idee sono una forza materiale quando sono guida delle masse all’azione, ma anche le masse si nutrono di cibo non di parole. Le parole di Bergoglio possono frenare o accelerare l’avanzata della rivoluzione socialista: dipende dall’attività che svolgiamo noi comunisti.

3. L’autore dell’articolo attribuisce il declino della Chiesa al passaggio dall’agricoltura all’industria. Vero che le apparizioni delle madonne e i miracoli non avvengono nelle acciaierie e nei supermercati, ma non avvengono neanche nelle piantagioni OGM delle multinazionali che accaparrano terra in ogni angolo del mondo. In realtà non è il cambiamento del contenuto del processo produttivo che nella mente e nel cuore degli uomini porta alla morte della religione, su cui si basano il seguito della Chiesa e l’assenso alle sue prevaricazioni (crimini di pedofilia compresi) e alle sue rapine. È il  passaggio da un modo di produzione tradizionale e statico (dai cambiamenti molto lenti e dai salti e sconvolgimenti rari), al modo di produzione capitalista che per sua natura è dinamico (per dettagli vedasi il Manifesto del partito comunista 1848, cap. I) e implica la trasformazione continua del mondo da parte degli uomini con il connesso sviluppo delle scienze naturali e sociali e della ricerca scientifica e tecnologica.

4. Infine l’autore afferma che “le origini della crisi attuale” starebbero “nei rapporti di classe e nella divisione del lavoro” (corsivo mio). Solo lui sa cosa c’entri con la crisi attuale la divisione del lavoro. La divisione tecnica del lavoro (la ripartizione dell’attività produttiva in mestieri differenti) è un fenomeno che compare nella storia dell’umanità ben prima dell’economia mercantile, perfino prima della divisione in classi ed è un fenomeno che non è affatto destinato a scomparire. Quanto poi alla divisione sociale (cioè tra classi) del lavoro, essa è un aspetto particolare dei rapporti di classe. Aggiungerla come cosa a se stante, crea solo confusione.

Ma queste quattro e altre licenze dell’autore nell’analisi della situazione sono una questione del tutto secondaria rispetto alla concezione del ruolo e della natura del partito comunista e della rivoluzione socialista che l’articolo mette in luce.

Rosa L.

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Perché la dottrina di Papa Francesco non ha nulla di rivoluzionario

Redazione di Senza Tregua 20 giugno 2015 - http://www.senzatregua.it/perche-la-dottrina-di-papa-francesco-non-e-un-rivoluzionaria/

[con una nota della redazione di La Voce tra parentesi quadre]

La critica del Papa non parte dalla natura dei rapporti sociali. Non condanna il capitale in quanto tale, ma i suoi eccessi. Non vede nei rapporti di classe e nella divisione del lavoro le origini della crisi attuale, della disuguaglianza e dello sfruttamento, ma individua questa origine nel “peccato” ossia nella rottura della “armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato”: distrutta, secondo l’analisi del Papa, “per avere noi preteso di prendere il posto di Dio”. E non a caso la soluzione prospettata non è quella del rovesciamento dello stato di cose presente, del combattere l’ingiustizia sul terreno materiale dei rapporti economici che la determinano, ma nel “ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo” che è il “modo migliore per ricollegare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore”.

La Chiesa in sostanza fa il suo mestiere, e lo fa piuttosto bene, senza tradire le premesse del suo pensiero e rifugiandosi in ultima istanza nella teologia e nella visione del mondo che è propria del cattolicesimo. Il nostro problema infatti non è la Chiesa ma la mancanza di un’autonoma visione del mondo delle classi subalterne, che in questo modo finiscono per essere intimamente attratte dalla nuova dottrina sociale della Chiesa. E poiché il pensiero della Chiesa si è affinato in duemila anni di storia, vanta una capacità e una forza intellettuale, filosofica e politica enorme. Quanto più manca nell’intellettualità progressista la capacità di essere portatrice di un punto di vista autonomo, strutturalmente connesso con la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne, tanto più queste saranno influenzate dal pensiero, in ultima analisi reazionario, della Chiesa cattolica. Il modo in cui segretari di partiti di sinistra, che in alcuni casi si definiscono impropriamente ancora comunisti, intellettuali progressisti ed esponenti della sinistra hanno accolto le parole del Papa è il segno tangibile della capitolazione teorica, ideale e politica a cui assistiamo. E lo è prima di tutto per il rifiuto esasperato nell’utilizzo delle categorie proprie del materialismo storico, che da tempo quella sinistra rifiuta.

Un marxista non può provare attrazione per l’Enciclica del Papa, non per un rituale gioco delle parti, una riedizione di Peppone e Don Camillo, ma perché le categorie e le premesse dell’analisi della Chiesa, e di conseguenza le sue conclusioni, sono esattamente agli antipodi di una concezione materialista della storia. Se una certa sinistra si ritrova nelle parole e nei modi del nuovo pontefice è perché ha costantemente scambiato la lotta di classe con l’assistenzialismo cattolico, il proletariato con “i poveri del mondo”, il capitale con “la finanza che uccide l’economia reale”, la socializzazione dei mezzi di produzione con una politica di redistribuzione. Ma non è il Papa ad essersi spostato sulle nostre posizioni, siete voi che siete diventati dei bravi cattolici! La dottrina sociale della Chiesa è vecchia di duecento anni [vedasi Felicité de La Mennais (1782-1854) e le varie forme di socialismo reazionario di cui nel cap. III del Manifesto del partito comunista del 1848, ndr], tanto quanto l’organizzazione del movimento operaio, di cui – è bene ricordarlo – è stata una risposta, anche piuttosto riuscita. Nessuna novità dunque. La straordinaria capacità di Papa Francesco oggi è di riuscire ad aggiornare in un momento di crisi economica, sociale, politica questa visione, renderla mediatica, e soprattutto rivolta universalmente ai popoli con una grande attenzione al “sud del mondo” e alle masse dell’Europa in preda alla crisi.

La spiegazione “teologica” della crisi parte allora da questo concetto di “peccato” come rottura d’armonia tra Dio e l’uomo e vede nel riconoscimento del limite umano di fronte a Dio la sua antitesi e soluzione. Dietro l’apparenza progressista dell’Enciclica del Papa vi è la ricetta, intimamente e naturalmente reazionaria, della Chiesa che punta prima di tutto l’indice contro “la pretesa dell’uomo di essere dominatore”, relegandolo quindi al suo ruolo di parte del creato e soggetto all’autorità e alla volontà superiore. Quale uomo progressista potrebbe accettare questa visione? Tutta l’Enciclica è pervasa delle categorie assolute (l’uomo, il lavoro, l’ambiente), priva di una concezione storica e dunque dei rapporti sociali che contraddistinguono ciascuna fase della storia e che trasformano le categorie di uomo, lavoro, ambiente, assoluto in null’altro che pure idee inesistenti. Affermare che “l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi” non vuol dire nulla, se non si analizza quale essere umano, le sue caratteristiche, in relazione ai rapporti sociali che si esprimono. Intravedere in fondo la responsabilità in questo processo nell’emancipazione dell’uomo dal dominio divino, altro non è che non volersi porre la questione dei rapporti di classe. Non sono gli interessi dell’uomo, ma, se vogliamo porla su questo terreno, gli interessi degli uomini dominanti, ossia di coloro che detengono i mezzi di produzione che impongono alla società le proprie leggi. E contro di ciò non siamo certo d’accordo sull’idea che “basta un uomo buono perché ci sia speranza”. Al contrario è nel processo di emancipazione delle masse sociali che subiscono lo sfruttamento che è possibile la soluzione del problema.

Ma di questo ovviamente non c’è traccia. E non vale neanche, come fatto da alcuni, il legame alla Teologia della Liberazione, che è stata la massima espressione di impegno sociale e politico delle Chiese latinoamericane. Francesco che ben conosce quell’esperienza ne utilizza il linguaggio, alcuni argomenti, specialmente nella denuncia di alcune situazioni, ma ne evita sempre con accuratezza le conclusioni, che nella Teologia della Liberazione erano proprio l’impegno diretto delle Chiese locali nella liberazione dei popoli, anche attraverso il sostegno esplicito, e in molti casi la partecipazione diretta, alla lotta armata. È quest’assenza di qualsiasi riferimento all’emancipazione delle classi oppresse, come presa di coscienza ed atto rivoluzionario, a contribuire a rendere la Chiesa di Papa Francesco una Chiesa sempre reazionaria, tanto quanto lo è stata in questi duecento anni. Ciò che lo rende più pericoloso è che quanto più si utilizzano argomenti radicali, quanto più si denunciano ingiustizie e diseguaglianze, quanto più si identifica nelle masse come riferimento, senza tuttavia prospettare alcun atto liberatorio – se non la passività e l’attesa divina – tanto più si diventa pericolosi e in definitiva reazionari.

Non è un caso che Papa Francesco attacchi in questa Enciclica la scienza, e in tutta una serie di situazioni la metta allo stesso livello della finanza. Forse in molti non si saranno soffermati sulla potenza dell’attacco rivolto innanzitutto al “metodo scientifico” ed in particolare alla sua “sperimentazione”, la quale secondo il Papa “è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione” con “il paradigma tecnocratico” ad essere divenuto “dominante”. Mai come su questo punto nell’Enciclica si cerca di dire cose diverse, livellare varie letture, ma questa sfiducia emerge a fondo. E non emerge solo – in questo caso giustamente – in termini di dialettica con chi detiene la proprietà anche dei mezzi scientifici, come elemento particolare di una più generale proprietà dei mezzi di produzione, e usa la scienza per il proprio fine di profitto. Emerge verso la scienza come metodo, al punto di vederla un tutt’uno con la finanza e i gruppi di potere. L’accusa alla scienza e alla tecnica è di non riconoscere “i grandi princìpi etici” con la conseguenza che “la tecnica separata dall’etica difficilmente sarà capace di limitare il proprio potere”.

Ma le cose stanno in modo diverso. La liberazione della scienza dal dominio del capitale passa per l’emancipazione  dell’umanità dal dominio del capitale. Nulla più. Non certo nel rifiuto dell’umanità del metodo scientifico in considerazione degli attuali rapporti sociali. Fino a quando la scienza sarà soggetta al dominio del capitale, gli interessi principali che essa porterà avanti saranno quelli del capitale, anche trasformando la scienza e la tecnica in strumento di oppressione delle masse. Ma non vi è un errore di fondo nello strumento. L’emancipazione delle classi oppresse passa per l’impadronirsi di tutti gli elementi della società che oggi sono soggetti al dominio del capitale. La scienza e la tecnica la cui funzione non è neutra per i rapporti di classe che hanno alle spalle, diverranno così strumento di emancipazione ulteriore delle classi oppresse. Ma che ne sarà allora della religione? Normale dunque che il Papa faccia il suo lavoro. Come sempre il problema sono quelli che gli vanno dietro.

La religione è la più alta forma di dominio ideologico presente in una società agricola, caratterizzata da rapporti di proprietà terriera dominanti. Mano a mano che a questo tipo di rapporti si sostituiscono quelli borghesi, ossia quando alla società agricola subentra quella industriale, la religione perde progressivamente la sua funzione. Il ruolo che essa ancora riveste in questa fase è un ruolo in esaurimento, legato per lo più agli spostamenti dalle campagne verso le città, al mantenimento di visioni e riti legati alle tradizioni popolari che permangono nelle classi subalterne, in via transitoria. Con il dominio dell’industria sull’agricoltura, della città sulla campagna, mano a mano questa influenza si perde. È un processo che si compie nel giro di poche generazioni, e che vede subentrare progressivamente la cultura del consumo, che la nuova fase del capitalismo monopolistico, del dominio dei grandi gruppi impone come religione moderna. Non è forse un caso che nei paesi a capitalismo avanzato il numero dei credenti sia in costante diminuzione? Che il ruolo della religione diminuisca nella vita sociale, insieme con il numero delle “vocazioni”?

A questo ovviamente fa da contraltare il ruolo che ancora la Chiesa riveste nei paesi in via di sviluppo, specialmente nel Centro e Sud America, in alcune aree dell’Africa e dell’Asia. La “svolta” terzomondista della Chiesa di Roma, che da alcuni decenni appare ormai evidente, e che con Papa Francesco trova il suo culmine, nasce da un vero e proprio cambiamento geografico ed economico della base sociale della Chiesa. La novità non è quindi la dottrina sociale della Chiesa, e neanche il suo aggiornamento con l’inclusione della questione ambientale, quanto comprendere il ruolo che la Chiesa intende esercitare e lo sguardo privilegiato che oggi tenta di intercettare maggiormente le popolazioni dei paesi “del Sud del mondo”, nei quali iniziano a verificarsi quegli stessi processi di crescita capitalistica che erodono il potere della Chiesa. Il suo è quindi innanzitutto un grido di disperazione. Combattendo il socialismo la Chiesa ha fatto l’ultimo suo regalo al capitalismo. Ora deve farlo ancora, specialmente nel continente che più di tutti vive rivoluzioni e sconvolgimenti politici in senso progressista: il Sudamerica. Ma così facendo a chi consegna il mondo se non a quel capitalismo neoliberista che a parole dice di avversare?

Senza dubbio nell’Enciclica del Papa emerge una critica al ruolo della finanze e al sistema di potere dei grandi gruppi monopolistici. Si tratta però di una critica del tutto insufficiente, che conferma il giudizio favorevole della Chiesa alla proprietà privata e all’economia di mercato. Una critica spuntata quindi, come quella di gran parte della sinistra radicale, che limitando la critica alla finanza, non spiega perché ad un certo grado di sviluppo del capitalismo la fusione di capitale bancario e produttivo renda il capitale finanziario dominante. La critica allora si limita alla nota affermazione secondo cui “la finanza soffoca l’economia reale”. Di conseguenza “perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario”. Sottolineo “perché vi sia una libertà economica”, così come “è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale”. Una difesa del principio del libero mercato, della concorrenza, ma nella misura di un tessuto imprenditoriale diffuso, di un ritorno ad una fase superata del capitalismo. La teoria è fallace perché è il libero mercato che genera la concentrazione monopolistica, sono le leggi del libero commercio che favoriscono la centralizzazione della produzione, sono le leggi capitalistiche che trasformano le banche da prestatori di denaro in proprietari ultimi del valore prodotto dalle imprese. È “l’economia reale” che tanto si difende  che genera la finanza, che ricorre ad essa per sfuggire alla caduta dei margini di profitto. Se non si attacca alla radice la proprietà privata dei mezzi di produzione, si urla contro la febbre ma non contro la malattia che la produce. Ma per la Chiesa questo sarebbe troppo. D’altronde, alcuni passi citati dalla Bibbia dicono: il ricco e il povero hanno uguale dignità, perché “il Signore ha creato l’uno e l’altro” (Proverbi 22,2), “egli ha creato il piccolo e il grande” (Sapienza 6,7), e “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Matteo 5,45). Il ricco e il povero sono categorie eterne e immodificabili che come tali ci saranno sempre per la Chiesa perché le ha create il signore. Ma chi fa propria l’analisi materialista della storia sa che queste categorie non sono nulla, che al contrario è la lotta di classe a evidenziare la differenza tra sfruttatori e sfruttati, che questa differenza va ricercata nella proprietà dei mezzi di produzione e nei rapporti sociali che ne scaturiscono e che questo quadro è storicamente tutt’altro che immutabile. Se la sinistra perde questa visione e sostituisce il proletariato ai poveri del mondo, sposa la dottrina della Chiesa. E quindi in definitiva il problema si risolve nella sfera morale dell’eccessivo arricchimento e non nel carattere dell’arricchimento. È questo che si imputa alla finanza, in un’ottica prettamente etica e moralista, la stessa della sinistra radicale. “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero” (Levitico 19,9-10). Insomma non ingozzatevi con tanta voracità: lasciate almeno le briciole! È questo che la Chiesa vi chiede. Questo è il limite del buon cristiano. Purtroppo è diventato l’orizzonte anche di qualche sedicente comunista.

Anche la retorica sullo sviluppo e la svolta della decrescita non appare convincente, per la stessa ragione dell’utilizzo di queste categorie assolute e prive di ancoraggio alla realtà. Progresso non vuol dire sviluppo capitalistico infinito che, è bene ricordarlo, è orientato innanzitutto alla produzione di plusvalore, indipendentemente da cosa materialmente produca. Il progresso non è un qualcosa che si compie da sé, senza una lotta, senza un’azione emancipatrice. La dialettica tra sviluppo e progresso non può quindi che dipendere dai rapporti sociali di produzione, e non essere vista e considerata in senso astratto. Nel mondo c’è bisogno di produrre ciò che è necessario a soddisfare le esigenze della popolazione mondiale, non quello che è necessario alla riproduzione e all’accrescimento del capitale. Nel mondo di oggi al contrario si sovraproducono capitale e merci strettamente necessarie alla riproduzione del capitale, mentre si sottoproducono le merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni di una parte maggioritaria, e sfruttata, della popolazione. La “cultura dello scarto” contro cui giustamente il Papa si scaglia, è nulla però se non si considera il ruolo della merce e la sua funzione nel capitalismo, da cui deriva strutturalmente la necessità del consumo e le distorsioni sociali che ne derivano. Stesse considerazioni valgono sul lavoro. “Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe se stessa”. Qui il Papa tocca la questione dell’aumento dell’impiego di macchinari in relazione ai posti di lavoro. Ma anche in questo caso l’antistorico ritorno prospettato elude il centro della questione. Non è il macchinario in sé, ma la funzione storica del macchinario, anch’essa legata ai rapporti di produzione. Nel capitalismo la macchina diventa uno strumento nelle mani del capitale. Ma in sé non è la macchina il problema. La macchina liberata dal dominio del capitale è strumento di emancipazione per l’uomo, è riduzione del carico, della pesantezza e dell’orario di lavoro. Anche qui lo sviluppo da solo è lo sviluppo della tecnica, lasciato ai rapporti sociali esistenti è inevitabilmente mezzo che si converte a livello immediato in strumento di oppressione. Ma l’emancipazione, come atto liberatorio, non torna indietro, si compie sul terreno posto in ragione dello sviluppo storico. Stesso discorso vale sul tema dell’ecologia, strutturalmente connesso con quello sociale, e anche sul tema della guerra, dove ogni impostazione etica, morale e assoluta, lascia nella realtà il passo alla concretezza degli interessi imperialistici.

In conclusione, senza nulla voler obiettare alla Chiesa che fa il suo ruolo come sempre e senza voler pretendere che le categorie del materialismo storico siano fatte proprie da un pensiero il cui carattere teologico è strutturalmente connesso con la natura stessa di una confessione religiosa, la questione va allora posta nei confronti dell’intellettualità di ”sinistra” e “progressista”. E forse il punto è proprio quello smarrimento dell’ideale “progressista” che si manifesta nella ri duzione meccanica ad una duplice scelta: da un lato la semplice identificazione del progresso con lo sviluppo economico capitalistico, visione acritica e antidialettica, che tende di fatto a trasformare gli intellettuali progressisti, privi di qualsiasi ottica di classe, nei migliori servi del dominio del capitale. Dall’altra la consapevolezza di tale condizione, unita al sistematico e viscerale rifiuto del materialismo storico, porta al recupero di visioni idealistiche e a scadere in posizioni che, sebbene addolcite e imbellite, finiscono per essere intimamente reazionarie. Il materialismo storico, come noto, rifiuta entrambe queste riduzioni. All’origine di tutto questo vi è anche, ma come derivato e non come causa, quel concetto che il Papa pone come “bisogno di costruire leadership che indichino strade”. L’intellettualità progressista che ha esaurito il suo ruolo nel rifiuto del marxismo, cerca oggi questa guida in qualsiasi cosa appaia resistere sotto qualsiasi titolo e aspetto al dominio economico, politico e culturale del capitale.

Ma non sarà impantanandosi in nuove o vecchie paludi idealistiche e teologiche che le masse troveranno la via per la loro emancipazione. Chi pensa che la religione possa essere un alleato in questo processo sbaglia di grosso. La Chiesa oggi grida di fronte alla cultura del consumo che ne travolge l’influenza, costringendola a mutare la propria funzione: cerca anch’essa di resistere. Il suo è un grido di dolore e disperazione rispetto alla nuova religione, quella del consumo che ben presto travolgerà anche i paesi in via di sviluppo, lasciando alla religione lo stesso ruolo che oggi hanno gli aristocratici e i reduci di guerra. La sua critica al neoliberismo è intimamente e convintamente reazionaria, e dalla reazione le classi oppresse non hanno nulla da sperare sul terreno della loro emancipazione.

Redazione di Senza Tregua