La Voce 63 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXI - novembre 2019

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Autunno Caldo e ruolo dei comunisti

 

Nel 1969, a 50 anni dal Biennio Rosso (1919-20), c’è stato un secondo “biennio rosso”, conosciuto come “movimento del ‘68 e Autunno Caldo”. Un movimento che è partito dalle lotte studentesche, ha rapidamente coinvolto il movimento operaio delle grandi fabbriche e si è protratto negli anni ‘70. Le parole d’ordine “operai e studenti uniti, vinceremo organizzati” e “vogliamo tutto e subito” hanno segnato il corso della lotta di classe degli anni ‘70. Un movimento che ha mostrato, per la terza volta nella storia del movimento comunista del nostro paese (dopo il Biennio Rosso e la Resistenza del 1943-45), che in un paese imperialista si possono presentare le condizioni per il passaggio dalla prima alla seconda fase della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (1) e messo bene in evidenza che perché il passaggio avvenga è determinante l’esistenza di un Partito comunista all’altezza del compito di mobilitare la classe operaia nella lotta per conquistare il potere e instaurare il socialismo.

L’esperienza dell’Autunno Caldo ha portato alla nascita dei Consigli di Fabbrica (CdF) come organismi operai che andavano oltre le rivendicazioni sindacali: contendevano al padrone la gestione della fabbrica ed estendevano la loro influenza e la loro direzione fuori dalla fabbrica. La ramificata presenza delle Brigate Rosse nelle grandi fabbriche degli anni successivi è stata la massima espressione del dualismo di potere esistente nelle fabbriche e nella società e ha dimostrato che per avanzare era indispensabile la direzione del Partito comunista. La situazione ha fatto emergere con forza che la capacità e la possibilità di sfruttare con successo le condizioni favorevoli che il corso delle cose presentava, dipendeva strettamente dalla qualità delle forze rivoluzionarie. La mancanza di un Partito comunista guidato dalla scienza dei comunisti (la scienza delle attività con le quali gli uomini fanno la storia: il marxismo-leninismo-maoismo) è stata il vero motivo della sconfitta del movimento di quegli “anni ruggenti”. L’incapacità della corrente di sinistra del movimento comunista, quella che combatteva la deriva revisionista del vecchio PCI e voleva fare la rivoluzione socialista (dai gruppi marxisti-leninisti alle Brigate Rosse), di lavorare con determinazione per dotarsi di un Partito comunista in grado di elaborare e attuare una sua strategia per fare la rivoluzione socialista in un paese imperialista (che per la natura delle cose deve assumere la forma di una guerra popolare rivoluzionaria), in grado di aggregare attorno a sé le forze rivoluzionarie che la diffusa resistenza spontanea al corso delle cose produceva, di rafforzare in ogni ambiente la tendenza verso il comunismo e di formare le avanguardie del proletariato a diventare dirigenti e promotori della rivoluzione socialista, ha portato il movimento degli anni ‘70 alla disfatta, determinando la debolezza del movimento comunista degli anni successivi, dalla quale stiamo con fatica risalendo.(2) La Carovana del (n)PCI, facendo il bilancio della prima ondata della rivoluzione proletaria che ha interessato buona parte del XX secolo (1917-1976), delle sue vittorie e delle sue sconfitte ha tratto gli insegnamenti che sono alla base dell’attuale rinascita del movimento comunista. Il bilancio del “movimento degli anni ‘70” e gli insegnamenti che abbiamo tratto per la ricostruzione del Partito comunista sono illustrati nel capitolo 2.1.3 I primi tentativi di ricostruire il partito comunista del nostro Manifesto Programma (MP) e in altri documenti del Partito.(3)

 

1. In proposito vedasi Manifesto Programma del (nuovo)Partito comunista italiano, cap. 3.3 (ERS marzo 2008, pagg. 203-204).

 

2. Per un bilancio più dettagliato della concatenazione degli eventi e dei ruoli dei vari attori rimando a Pippo Assan, Cristoforo Colombo (1988) reperibile in www.nuovopci.it/scritti/cristof/indlibr.htm

 

3. “Alla fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 in Italia come in altri paesi vi fu una grande stagione di lotte (il ‘68 e l’Autunno Caldo). La lotta per strappare alla borghesia nuove conquiste di civiltà e di benessere raggiunse il suo culmine e toccò il suo limite: per andare oltre doveva trasformarsi in lotta per la conquista del potere e l’instaurazione del socialismo. La lotta  contro il revisionismo moderno raggiunse un grande sviluppo in campo politico negli anni ‘70 quando dalle lotte rivendicative della classe operaia e delle masse popolari nacque un diffuso movimento di lotta armata, impersonato dalle Brigate Rosse. Esso raccoglieva e dava espressione politica alla necessità di conquistare il potere e di trasformare la società che le stesse lotte rivendicative alimentavano nella classe operaia e nelle masse popolari. Da qui il sostegno, l’adesione e il favore delle masse popolari nei confronti delle Brigate Rosse, testimoniati dal loro radicamento in fabbriche importanti (FIAT, Alfaromeo, Siemens, Pirelli, Petrolchimico, ecc.), ma più ancora dalle misure che la borghesia dovette adottare per contrastarne l’influenza e isolarle dalle masse e dalla persistenza della loro influenza anche dopo la loro sconfitta.

Con la loro iniziativa pratica le Brigate Rosse ruppero con la concezione della forma della rivoluzione socialista che aveva predominato tra i partiti comunisti dei paesi imperialisti nel corso della lunga situazione rivoluzionaria 1900-1945. A differenza del Partito comunista d’Italia (Nuova Unità), le Brigate Rosse iniziarono a fare i conti con gli errori e i limiti che avevano impedito ai partiti comunisti dei paesi imperialisti di condurre a conclusione vittoriosa la situazione rivoluzionaria generata dalla prima crisi generale del capitalismo. Da qui la ricchezza di insegnamenti che si possono ricavare dalla loro attività, in particolare a proposito delle leggi dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie (che è il compito principale della prima fase della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata) e del passaggio dalla prima alla seconda fase di questa (costruzione delle forze armate rivoluzionarie)” (dal Manifesto Programma del (nuovo)Partito comunista italiano, pag. 145-146).

 

È molto istruttivo ripercorrere l’esperienza dell’Autunno Caldo e dei CdF di allora in questa fase politica (crisi politica legata alla fase acuta e terminale della crisi generale del sistema capitalista, resistenza degli operai contro la chiusura di aziende, rinnovo del contratto dei metalmeccanici) perché fornisce preziosi elementi per la linea strategica e tattica che il (n)PCI ha definito per la rivoluzione socialista nel nostro Paese (Governo di Blocco Popolare, socialismo).

Da quell’esperienza i lavoratori avanzati e i comunisti possono ricavare insegnamenti utili per condurre le battaglie in corso nei diversi fronti (politico, sindacale, culturale e sociale). È un’esperienza ricca di spunti

- per i delegati e gli operai che devono far fronte agli attacchi dei padroni e della borghesia (ex ILVA, FCA, Whirlpool e altre decine di aziende);

- per i comunisti che devono contrastare la sfiducia esistente tra gli operai sulla loro forza, che devono spingere gli operai avanzati delle aziende capitaliste (e i lavoratori avanzati delle aziende pubbliche) a organizzarsi per difendere il loro posto di lavoro e i loro diritti prevenendo l’iniziativa del padrone, a estendere l’influenza dei loro organismi sul resto delle masse popolari fuori dalle aziende, a coordinarsi con gli organismi che in altre aziende e località svolgono la stessa funzione, ad assumere il ruolo di nuove autorità pubbliche che dirigono la resistenza delle masse popolari e contendono il terreno alle autorità borghesi e ai capitalisti e contemporaneamente infiltrano e indeboliscono il sistema politico borghese fino a diventare abbastanza forti da costituire il governo del paese e creare una propria pubblica amministrazione. Questa è a grandi linee la forma che dobbiamo dare alla rivoluzione socialista perché arrivi a instaurare il socialismo.

Dobbiamo usare l’esperienza di quegli anni, per tanti versi gloriosa e ancora viva tra i lavoratori, per rafforzare in ogni operaio e in ogni proletario la comprensione e la convinzione che è possibile uscire dal marasma in cui la borghesia ci ha portati, che è possibile organizzarsi per farla finita con il sistema di potere e di gestione della società imposto dalla borghesia, che è possibile instaurare il socialismo, ma a certe condizioni.

 

Come si è arrivati al ‘68-‘69: i segnali premonitori

Il materialismo dialettico (M-D) insegna che “nel movimento di ogni cosa si combinano e si succedono evoluzioni graduali (accumulazione quantitativa di trasformazioni minori, di trasformazioni delle sue componenti) e salti qualitativi (trasformazione) che ne cambiano la natura”.

L’applicazione del M-D permette di capire, collegare, mettere in ordine e ricostruire il percorso che ha portato al ‘68 e all’Autunno Caldo, di collegare e vedere le connessioni di una serie di fenomeni che all’osservatore superficiale sembrano staccati e isolati (che la borghesia, la sinistra borghese e gli eclettici presentano come separati). Una serie di eventi della seconda metà degli anni ‘60 anticipavano la successiva “esplosione” della lotta di classe:

- la fase di ripresa ed espansione del sistema capitalista, avvenuta a seguito delle immani distruzioni della Seconda  guerra mondiale, produceva grandi profitti per i capitalisti (il famoso “boom economico” degli anni ‘60) a costo di grandi sacrifici per i lavoratori (sfruttamento senza regole dei lavoratori, migrazione di massa di proletari dal Sud al Nord del paese). Grazie alla linea revisionista intrapresa dal PCI e alla linea collaborazionista della CGIL il potere dei padroni e degli altri capitalisti era incontrastato dentro e fuori le fabbriche. La situazione aveva determinato un fermento nelle fabbriche e nella società. Il regime in fabbrica era basato su un rapporto sostanzialmente autoritario e in generale c’erano una rigida disciplina e ritmi pesanti che venivano imposti dai padroni, con il tacito consenso dei sindacati. Nonostante la ripresa delle mobilitazioni sindacali dell’inizio degli anni ‘60, le condizioni concrete per i lavoratori non erano mutate di molto rispetto agli anni ‘50;

- verso la fine degli anni ‘60 iniziano i primi segnali della nuova crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale: alcuni settori entrano in crisi, gli affari non vanno più tanto bene e i padroni ricorrono ai soliti strumenti per far fronte al calo dei profitti: licenziamenti, aumento dei ritmi, ristrutturazioni, ridimensionamento e chiusura di aziende;

- gli avvenimenti mondiali di quegli anni (la guerra in Vietnam, l’assassinio di Che Guevara, l’uccisione di Malcolm X e Martin L. King, il colpo di Stato in Grecia, l’invasione dei territori della Palestina da parte dei sionisti) hanno avuto una forte ripercussione sulla coscienza di studenti e operai;

- gli anni ‘60 sono stati anche gli anni in cui prese vigore la lotta spontanea, istintiva e diffusa contro la linea revisionista del PCI promossa da Togliatti. Una lotta che fece un salto di qualità verso la metà degli anni ‘60, con la battaglia lanciata a livello internazionale da Mao Tse-tung e dal Partito comunista cinese contro il revisionismo moderno di Krusciov e Togliatti (Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi del PCC è del dicembre 1962) e con l’impulso che arrivava dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria in corso in Cina (1966-76). In quegli anni a sinistra del PCI si formano i primi gruppi del movimento marxista-leninista, il gruppo di il manifesto e gruppi “operaisti” creati da esponenti italiani della Scuola di Francoforte.(4)

 

4. Sulle concezioni e limiti del movimento marxista-leninista e degli altri gruppi rimando a MP (pag. 144- 149) e ad altri scritti della Carovana.

 

 

Partono le prime lotte spontanee

Gli scioperi e le manifestazioni del ‘68-‘69 non furono quindi un’esplosione improvvisa di collera. Già nel 1967 e nei

primi mesi del ‘68 c’erano state lotte rivendicative con scioperi in diverse fabbriche (Fiat, Olivetti, Innocenti, Falck, Italsider, Dalmine, Zoppas, Indesit, Petrolchimico di Marghera, per citare le più importanti). Le questioni per cui gli operai lottano vanno dai salari ai ritmi, agli organici, ai lavori nocivi, alla mensa. Bisogna tener conto che venivano da una stagione di accordi al ribasso (contratti degli anni ‘61-‘63), che avevano fatto perdere fiducia nel sindacato. Al centro della lotta viene messo l’egualitarismo (aumenti uguali per tutti, diritti sindacali per tutti, elezione dal basso dei rappresentati sindacali). Era una rivendicazione difficile da far passare nella cultura sindacale dell’epoca impersonata dal PCI revisionista e dalla CGIL collaborazionista. L’egualitarismo era concepito per rompere il sistema disciplinare e premiale nelle mani dei padroni, per togliere ai cosiddetti “capi e capetti” le varie forme di ricatto e divisione e per scardinare l’esile potere esercitato dalle Commissioni Interne (strutture sindacali elette su designazione dei sindacati).

Nel 1967 persino alcune settori delle “aristocrazie operaie” (come venivano definiti gli operai altamente specializzati e i tecnici) dell’Olivetti e della Snam si mobilitano contro la gestione delle burocrazie sindacali, mettendo in discussione l’organizzazione sociale del lavoro e l’uso che veniva fatto delle macchine nel processo di sfruttamento degli operai. In pochi mesi si scatenarono scioperi spontanei in centinaia di aziende: questo aprì una contraddizione profonda tra gli operai che spingevano e i vertici sindacali che “frenavano” sentendosi vincolati agli accordi firmati nel ‘62 con la  Confindustria, che sostanzialmente erano degli accordi di contenimento salariale.

Nessuno nel movimento operaio e nel sindacato, neanche tra gli “operaisti”, immaginava neppure lontanamente che tipo di esplosione sociale andava preparandosi sotto la superficie.(5)

Il 7 marzo del ‘68 la CGIL, sotto la pressione operaia, convocò da sola, senza CISL e UIL, uno sciopero generale per la difesa delle pensioni: il successo fu totale, molto al di là delle più rosee aspettative.

I sindacati di regime si videro imporre dal basso l’apertura di una vertenza nazionale per l’abolizione delle “gabbie salariali” (salari diversificati per regioni, con una forte differenza tra Nord e Sud del paese).

Le lotte operaie iniziarono in settori che avevano sempre avuto un ruolo marginale nello scontro di classe. Tra questi i tessili, uno dei primi settori a subire gli effetti della crisi economica.

 

5. Nel ‘67 gran parte delle riviste lanciate sull’onda delle mobilitazioni operaie del ‘60-’63 da esponenti italiani della Scuola di Francoforte entrarono in crisi e chiusero i battenti (Classe Operaia di Mario Tronti chiuse nell’estate del ‘67, Quaderni Rossi di Raniero Panzieri aveva chiuso nel 1966) a dimostrazione di quanto questi “intellettuali del movimento operaio” erano pessimisti sulle possibilità di una ripresa della conflittualità nelle fabbriche.

 

 

La lotta delle operaie della Marzotto

Un pesante processo di ristrutturazione nell’industria tessile provocò intense lotte operaie di cui certamente la più significativa fu quella delle lavoratrici (gran parte della manodopera era femminile) e dei lavoratori della Marzotto di Valdagno (Vicenza) nella primavera del 1968.

Valdagno era la classica città-fabbrica, costruita dalla famiglia Marzotto nel 1836. Basandosi sui valori della Chiesa cattolica e una buona dose di paternalismo, i Marzotto dominavano la vita della città. I lavoratori fino ad allora erano fortemente convinti che i loro interessi fossero strettamente legati a quelli del padrone e della comunità.

Ma quando l’azienda, come avvenne in altre fabbriche, aumentò i ritmi di lavoro, riducendo allo stesso tempo i salari (i premi del cottimo diventarono sempre meno accessibili) e dichiarando 400 licenziamenti, l’ira degli operai esplose con una radicalità senza precedenti. I sindacati erano sempre stati deboli alla Marzotto, ma questo non impedì ai lavoratori di rispondere con azioni spontanee agli attacchi del padrone.

Le operaie e i loro compagni il 19 aprile conclusero la manifestazione (alla quale erano presenti 4.000 lavoratori) abbattendo la statua di Gaetano Marzotto situata nella piazza principale.

Rapidamente e con irruenza i lavoratori compresero, “aiutati” anche dai manganelli dei poliziotti, quanto era stato impossibile per loro comprendere nell’arco di generazioni: cioè che i loro interessi erano radicalmente opposti a quelli del padrone. La lotta di Valdagno assunse un valore simbolico perché determinò la fine di un’epoca segnata dall’interclassismo, per aprirne un’altra in cui i lavoratori misero al di sopra di ogni cosa i propri interessi di classe.

Il segnale partito dalle operaie della Marzotto si propagò rapidamente. Si stava preparando la più grande mobilitazione operaia dal dopoguerra, con lotte che si articolarono nelle forme più varie con l’obiettivo preciso di colpire il padrone nel modo più duro con il minimo danno per i lavoratori: si diffusero a macchia d’olio i cortei interni, gli scioperi a “singhiozzo” (più scioperi brevi durante la giornata), a “gatto selvaggio” (scioperi improvvisi), a “scacchiera” (scioperi alternati per reparti), forme di controllo operaio sui ritmi di lavoro e in certi casi anche di sabotaggio.

 

Dalle lotte spontanee all’organizzazione: la nascita del Comitato Unitario di Base alla Pirelli Bicocca

Le lotte del movimento studentesco del ‘68 erano state alimentate per varie vie dal movimento comunista internazionale: i grandi successi dell’URSS e dei primi paesi socialisti, la costituzione della Repubblica Popolare Cinese e la denuncia internazionale del PCC contro il revisionismo moderno, l’eroica lotta del popolo del Vietnam e le lotte di  liberazione nazionale, le vittorie a Cuba e in Algeria, la Rivoluzione Culturale Proletaria del popolo cinese lanciata da Mao Tse-tung nel 1966. A partire dal luglio ‘60 (Genova, Reggio Emilia, Avola) il regime DC aveva dato segni di cedimento. La DC aveva fatto ricorso al PSI (centro-sinistra) e il 25 aprile 1965 aveva per la prima volta partecipato a Milano (con Andreotti) alle grande celebrazione della Resistenza promossa ogni anno dal PCI. Nel corso delle lotte studentesche si erano formate importanti organizzazioni: Avanguardia Operaia, Potere Operaio e Lotta Continua. Queste assieme ai gruppi marxisti-leninisti costituitisi alcuni anni prima sull’onda della denuncia del revisionismo moderno condotta internazionalmente dal PCC, univano la lotta degli studenti con la lotta degli operai nelle fabbriche al grido di “studenti e operai uniti nella lotta”. Le rivendicazioni operaie assunsero un forte connotato egualitario, un rifiuto netto di ogni forma di collaborazione con il padrone e una “forte richiesta di socialismo” che veniva praticato nelle fabbriche con il controllo operaio sulla produzione, esercitato attraverso gli strumenti di democrazia operaia di cui la classe operaia seppe dotarsi a partire dai consigli dei delegati e dall’assemblea, con la partecipazione attiva degli studenti alle mobilitazioni degli operai.

Alla Pirelli Bicocca di Milano il ‘68 era stato preceduto da un lungo periodo di divisioni sindacali, la CISL e la UIL avevano un carattere particolarmente filopadronale. Il contratto del 1966 era stato firmato da UIL e CISL ma non dalla CGIL. La prima manifestazione unitaria dalla fine della Resistenza si tenne nel 1967 in occasione del contratto aziendale. Nonostante l’aumento della produzione c’era una forte diminuzione dell’organico con un costante ricambio della manodopera, i ritmi erano forsennati e crescevano infortuni e malattie legate a intossicazione da sostanze chimiche. Negli anni immediatamente precedenti c’era stato un leggero aumento dei minimi salariali (non paragonabile alla crescita della produttività), ma questi aumenti erano sempre più legati al risultato, agli straordinari e alla produttività (con un largo uso del cottimo e dei premi di produzione). I lavoratori esasperati reagirono con slancio ed entusiasmo quando vennero chiamati alla lotta da CGIL-CISL-UIL unite: vedevano con fiducia il fatto che si fosse ritrovata l’unità sindacale. I vertici sindacali avevano fatto di tutto per evitare gli scioperi e le loro richieste erano molto modeste (moderati aumenti salariali, piccolissima riduzione d’orario, ritocchi sulla condizione normativa degli operai), ma l’atteggiamento padronale alla scadenza del contratto fu di chiusura totale.

Lo sciopero ebbe una risposta di massa e questo spaventò le direzioni sindacali che, invece di organizzare un calendario di nuove e più energiche mobilitazioni, “sospesero” l’agitazione.

CISL e UIL decisero che la trattativa andava chiusa senza continuare la lotta e nell’incontro tra le parti nel febbraio del ‘68 si dichiararono disposte a rinunciare anche a parte delle rivendicazioni unitarie. La CGIL in un primo momento si dissociò, ma non abbandonò il tavolo delle trattative finendo col firmare l’accordo. La reazione operaia fu rabbiosa, al punto che decine di iscritti alla CISL, indignati dalla capitolazione dei dirigenti, strapparono le tessere del sindacato.

Poche ore prima della firma un gruppo di lavoratori denunciò con un volantino il fatto che i sindacati si apprestavano a firmare una piattaforma al ribasso, chiedendo maggior democrazia sindacale e che tutto venisse deciso in assemblea dai lavoratori. Gli autori del volantino (di cui solo una parte erano iscritti al PCI e alla CGIL) vennero sottoposti a un’aggressione senza precedenti da parte della burocrazia sindacale, con calunnie e pressioni di ogni tipo.

Ma a metà marzo ‘68 il gruppo era ancora in piedi (a conferma del fatto che nella lotta è fondamentale la presenza di un gruppo anche piccolo di lavoratori decisi a vincere) e si presentò a tutti i lavoratori con un volantino firmato Comitato Unitario di Base (CUB). Nel volantino si spiegava che il Comitato voleva essere un organismo ampio e unitario che comprendesse lavoratori di varie tendenze convergenti attorno all’obiettivo “di un rilancio deciso della lotta di classe in fabbrica, della direzione democratica di base delle lotte, dello stimolo in direzione di altre fabbriche affinché anche altrove sorgessero comitati unitari”. Nel volantino si precisava che: “Da quanto detto ed essendo questi i lineamenti politici del Comitato unitario di base è evidente che noi non vogliamo assolutamente formare un nuovo sindacato o  scavalcare i sindacati esistenti. Vogliamo invece costruire un organismo che possa e sappia legare insieme la rivendicazione e la lotta, l’aspetto economico e quello politico, che sappia insomma costruire intorno a sé una rete organizzativa permanente per la contestazione continua dello sfruttamento”.(6)

 

6. Le rivendicazioni principali del CUB, illustrate nel volantino, erano:
- superare i limiti del contratto gomma con la lotta
- no al blocco dei salari, alla politica dei redditi che limitava l’aumento salariale al di sotto dell’inflazione e non teneva conto dell’enorme aumento della produttività
- no all’aumento dei ritmi
- no al “preambolo contrattuale” firmato dai sindacati che non prevedeva la possibilità di mobilitazione se non alle scadenze triennali del rinnovo del Contratto nazionale
- no alla mancanza di democrazia sindacale, no alle Commissioni Interne che erano subordinate al sindacato e non sottoposte al controllo dei lavoratori
- ripresa delle mobilitazioni dal basso
- un premio di produzione pari al 25% della paga più la contingenza
- aumento del salario annuo con la parificazione delle mensilità tra operai e impiegati
- abolizione delle condizioni nocive di lavoro: la salute non va contrattata nè monetizzata
- aumento degli organici
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
- sabato festivo.

 

Nel settembre del ‘68 il CUB promosse la ripresa delle lotte. A seguito delle pressioni dei lavoratori, la CGIL intervenne prendendosene la paternità, mentre CISL e UIL si tennero fuori.

La direzione della CGIL, se da una parte recepì la pressione operaia, dall’altra attuò delle manovre per far naufragare le mobilitazioni: prima rinviando il più possibile gli scioperi, poi tentando di limitare le richieste a obiettivi prettamente salariali (lasciando da parte la riduzione d’orario).

Il padrone preoccupato della crescita impetuosa delle lotte di reparto tentò l’arma della repressione. A inizio ottobre nel reparto decisivo, l’8655, vennero tagliati i tempi di produzione. Il reparto entrò in sciopero immediatamente, il padrone replicò con la serrata in 5 reparti. Scattò lo sciopero in fabbrica e il 3 ottobre si fermò tutto. L’adesione fu del 100%.

Il CUB con un volantino, il 6 ottobre, fece appello a continuare la lotta e a non interromperla durante le trattative.

I sindacati invece decisero di interrompere le lotte durante le trattative e i sindacalisti della CGIL, il 9 ottobre alla sera, si presentarono davanti alla fabbrica per convincere gli operai a non scioperare. Gli operai del turno di notte entrarono in fabbrica ma non andarono a lavorare: fecero un corteo interno e alle 4 di mattino uscirono dalla fabbrica per picchettarla. Di fronte alla contrarietà della propria base, la CGIL alle 5 del mattino fu costretta a proclamare da sola lo sciopero di fabbrica.

Le lotte proseguirono fino a quando il padrone non fu costretto a cedere, almeno parzialmente.

Molti militanti del PCI erano attivi nel CUB: in una prima fase non c’erano solo gli studenti e gli operai che avrebbero dato vita all’organizzazione Avanguardia Operaia.

La nascita del CUB è stato l’inizio di una nuova riorganizzazione dal basso degli operai. Ai CUB spesso si affiancavano i Gruppi di studio, che univano operai e studenti. Ad un potere fortemente verticalizzato come quello della fabbrica, si contrappose un altro potere più allargato e duro, capace di suscitare tensioni, generare conflitti in forme e misure del tutto inedite. In questo quadro i gruppi a sinistra del PCI, i cosiddetti gruppi extraparlamentari, finirono col porsi in una posizione frontalmente avversa a quella di CGIL, CISL e UIL.

In quei mesi ci fu un vero passaggio che sconvolse i comportamenti di tutti, operai prima, impiegati e tecnici poi.


Le prime lotte dirette da operai e studenti

Nell’estate del ‘68 l’assemblea operai-studenti che firmava i propri volantini con la sigla di Potere Operaio diresse il movimento di lotta dei lavoratori alla Montedison di Porto Marghera (Venezia). I dirigenti della lotta erano in grande maggioranza operai specializzati, con una certa tradizione sindacale alle spalle. La mobilitazione operaia cominciò il 23 giugno del ‘68 quando si fece il primo sciopero per ottenere il premio di produzione, a cui parteciparono tutte le  fabbriche del gruppo. In quell’occasione ci fu l’incontro tra gli studenti e gli operai, che si trovarono insieme a fare i picchetti.

Il 27 giugno ci fu un secondo sciopero con assemblea nella quale si decise di proclamare il blocco della produzione a giorni alternati dal 2 all’8 luglio. Ma il sindacato dopo un incontro con le rappresentanze studentesche (1° luglio) e la riunione dei direttivi sindacali congiunti, decise di ritirare gli scioperi alternati. Quando nelle assemblee venne comunicata questa decisione la reazione fu dura e si verificarono incidenti fra operai e sindacalisti.

Il 3 luglio gli attivisti operai si ritrovarono per discutere la situazione alla facoltà occupata di Architettura a Venezia e lì decisero di scioperare ugualmente il 5. La Camera del Lavoro di Mestre venne assediata dagli operai. Gli operai imposero il controllo assembleare della lotta e il nuovo calendario dell’agitazione. Nei giorni successivi i dirigenti sindacali tentarono di provocare la rottura della solidarietà sindacale con provocazioni contro i capi operai.

Il 18 luglio si svolse la prima colossale manifestazione operaia a Venezia dal dopoguerra, con il blocco del cavalcavia di Mestre.

Il 25 luglio i picchetti di massa furono molto duri, così come lo sciopero. Il padrone avviò una trattativa con la Commissione Interna per “garantire i servizi minimi”, i cosiddetti “indispensabili” che vennero concessi in numero ridotto.

Ma il 29 luglio ci fu nuovamente un blocco totale della fabbrica senza alcuna garanzia sugli “indispensabili” che alla fine non vennero concessi. Il 31 luglio, nuovo blocco totale della produzione.

Il 1° agosto il padrone decise la serrata provocando lo sciopero in tutte le altre fabbriche con manifestazione a Mestre e blocco del cavalcavia e della stazione ferroviaria.

Il giorno dopo iniziò a Roma la trattativa fra sindacati, governo e padroni dove si raggiunse un accordo che solo parzialmente andava incontro alle richieste operaie.

La serrata al Petrolchimico si concluse nel primo pomeriggio. Alle 17 i primi gruppi di operai entrarono in fabbrica.

L’accordo sindacale deluse gli operai ma l’assemblea non lo respinse. Dopo 13 scioperi in 40 giorni e senza una direzione sindacale adeguata non c’erano più le condizioni per continuare la mobilitazione, che comunque riprenderà con più forza dopo qualche mese.

 

La svolta alla Fiat e la nascita di Lotta Continua

Alla Fiat negli anni del boom economico le condizioni di lavoro erano andate peggiorando notevolmente con l’intensificazione dei ritmi di lavoro. Il sindacato in fabbrica era molto debole: negli anni ‘50 Valletta aveva condotto una feroce repressione contro gli operai aderenti al PCI e alla CGIL. A Mirafiori, con oltre 50 mila lavoratori occupati, c’era una Commissione Interna che poteva contare solo su 18 attivisti. Il tasso di sindacalizzazione era molto basso soprattutto tra i giovani, che a migliaia entravano nella fabbrica ogni anno, in gran parte immigrati dal Sud dell’Italia. Ma nel luglio 1962 vi era stata la rivolta di piazza Statuto: gli operai avevano per più giorni assediato la sede della UILM con feroci scontri con la polizia.

La lotta parte nell’aprile del ‘69 dal reparto Ausiliarie, un reparto in cui il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato da una scissione da sinistra del PSI) aveva una certa forza. La piattaforma chiedeva passaggio di categoria, aumenti salariali ed elezione dei delegati di reparto.

Già in alcune fabbriche del torinese (Castor, Singer, Ignis, ecc.) erano stati firmati degli accordi che si proponevano di regolamentare il lavoro sulle linee e i cottimi. Nei fatti in quegli accordi, che si erano realizzati in primo luogo nell’industria leggera (industrie di elettrodomestici), nacque il “capocottimo” (come era stato definito nell’accordo alla Singer), figura che presto si sarebbe diffusa in molte fabbriche e che ebbe un ruolo centrale nell’Autunno Caldo.

 Il delegato di reparto infatti, da “controllore operaio” del cottimo si trasformerà, sull’onda delle mobilitazioni, nel rappresentante sindacale degli operai (nel senso più autentico della parola). Attraverso questa figura i lavoratori assumeranno il controllo sulle vertenze sottraendole alla Commissione Interna, entità ormai screditata e distante dalle esigenze dei lavoratori.

Gli scioperi dalle Ausiliarie si estesero alla fine di maggio alle Presse, ai Carrellisti, alla Carrozzeria, al Montaggio. Il 30 maggio l’intera produzione era bloccata.(7) Si diffuse un clima di ribellione generale: ogni reparto sviluppava per proprio conto una piattaforma e scendeva in lotta senza nessun tipo di filtro sindacale. Proprio per questo il sindacato era estremamente allarmato, quanto la direzione dell’azienda. Nei mesi di giugno e luglio ‘69 la direzione delle lotte era in mano all’assemblea operai-studenti che metteva sui propri volantini l’intestazione “la lotta continua”, che in seguito divenne solo Lotta Continua.

 

7. Quello che segue è il testo di uno storico volantino fatto dai delegati di squadra delle Ausiliare della FIAT Mirafiori a fine maggio ‘69.

“Compagni della Fiat, delegati operai!

Un grande enorme fatto sta accadendo in questi giorni. La forza della Fiat è stata scossa dalla lotta operaia, le leggi di ferro della produzione sono state sconvolte dalla forza operaia che in questi giorni s’è liberata attraverso gli scioperi, le assemblee interne, la nomina dei delegati di squadra, le discussioni che si accendono ovunque dentro la fabbrica, i cortei che abbiamo fatto nelle officine.

La forza e il potere che ci siamo conquistati in questi giorni devono ora diventare stabili. Non dobbiamo più tornare indietro, il nostro modo di lavorare da ora in avanti deve essere diverso. Per questo dobbiamo essere uniti.

In tutte le squadre, in tutti i reparti, dobbiamo fare assemblee e nominare i delegati per usare la forza dello sciopero e dell’unità per modificare completamente le nostre condizioni di lavoro esercitando il controllo operaio.

È necessario unire i delegati operai in un potente e unitario movimento dei delegati operai con l’obiettivo dell’esercizio permanente del controllo operaio sulle condizioni di lavoro. Gli operai della Fiat sanno che la loro vittoria è possibile se vincono tutti gli operai: se in tutte le fabbriche i lavoratori affermano il controllo operaio attraverso le assemblee e i delegati.

L’assemblea

L’assemblea è lo strumento attraverso cui gli operai, uniti per squadra, per reparto, per officina, discutono e decidono gli obiettivi da raggiungere, i modi per raggiungerli e per affermare il loro potere e il controllo sul lavoro.

Riteniamo inaccettabile qualsiasi forma di regolamentazione e di limitazione dell’assemblea, che deve potersi riunire tutte le volte che il collettivo operaio ne ha necessità.

L’assemblea nomina il delegato e può revocarlo in qualsiasi momento. Ogni iniziativa del delegato è l’espressione della volontà e della decisione dell’assemblea.

Il delegato operaio Il delegato operaio è l’operaio più cosciente del gruppo in cui lavora, che gode della fiducia di tutti i suoi compagni di lavoro. Non è né proposto né nominato da nessuna organizzazione esterna alla fabbrica, ma è esclusivamente l’espressione della volontà dell’assemblea. Quindi è responsabile solo nei confronti degli operai e di nessun altro.

Egli deve poter trattare con tutta la gerarchia di fabbrica, dal caporeparto fino al capo del personale. Il suo compito non deve essere quello di trasmettere alla Commissione Interna i problemi, ma di trattarli fino in fondo.

La sua funzione inoltre non deve essere limitata a controllare un solo aspetto della condizione di lavoro: il delegato operaio deve potere trattare col padrone di tutti i problemi che il collettivo operaio ha.

Il collettivo operaio si impegna a difendere il suo delegato dagli spostamenti. E chiaro infatti che la Fiat non ci dà i delegati: bisogna farseli, fare in modo che funzionino e difenderli.

È necessario infine organizzare tutti i delegati operai in un potente ed unitario movimento dei delegati operai, che abbia come obiettivo permanente il controllo operaio sulle condizioni di lavoro e sulla produzione.

Questo obiettivo si realizza immediatamente con il rallentamento dei ritmi di lavoro e la diminuzione della produzione in tutte le officine.

Cinque punti del controllo operaio sulle condizioni di lavoro.

1) Ogni spostamento, ogni provvedimento preso a carico di un operaio è sospeso se c’è il no del delegato.

2) Ogni imposizione di turni o di ore straordinarie può essere sospesa dal delegato, il quale rimette ogni decisione all’assemblea degli operai.

3) Ogni iniziativa della direzione sugli aumenti di merito, sulle categorie, sulle paghe di posto, può essere sospesa dal delegato che richiederà la decisione dell’assemblea degli operai.

4) L’assemblea degli operai e solo essa deve decidere il grado di disagio e di nocività del lavoro ed avanzare proposte, attraverso il delegato, per diminuire il disagio con il rallentamento dei ritmi, l’aumento degli organici e dei sostituti, l’incremento delle pause o le modifiche tecniche dell’ambiente di lavoro.

5) L’assemblea, attraverso i delegati, deve esercitare il controllo sul cottimo.

Ogni proposta da parte della direzione circa un mutamento tecnologico e organizzativo può essere sospesa dal delegato e portata davanti all’assemblea degli operai, la quale stabilisce se tale mutamento tecnologico sacrifica o meno gli interessi degli operai e decide di conseguenza...

Compagni operai, i delegati operai eletti alle Officine Ausiliarie propongono di riunire un consiglio di delegati operai della Fiat per discutere questi 5 punti, per concordare un’azione unitaria e forte dentro e fuori dalla fabbrica”.

 

 Lotta Continua fu capace di mettere insieme centinaia di lavoratori e di studenti che per diversi mesi organizzavano tutti i giorni presidi davanti ai cancelli e assemblee a fine turno in cui si discuteva sul da farsi e direttamente mettevano in pratica nella fabbrica le decisioni, senza nessun tipo di mediazione sindacale. Data questa situazione il 12 giugno l’azienda firmò con il sindacato l’accordo che riconosceva la figura dei delegati di reparto.

Il 3 luglio CGIL-CISL-UIL convocarono uno sciopero generale sul problema della casa (caro-affitti). L’assemblea operai-studenti approfittando dello sciopero organizzò nel pomeriggio un corteo esterno alla fabbrica. Questo fu il primo corteo operaio che veniva organizzato al di fuori delle sigle sindacali. Lo sciopero ebbe un gran successo: nelle prime ore del pomeriggio al concentramento c’erano tre-quattromila lavoratori insieme a una rappresentanza significativa di studenti. Ma il corteo non ebbe modo neanche di partire perché subì violente cariche da parte della polizia. Invece di disperdersi i manifestanti risposero con una fitta sassaiola e il corteo tentò di ricostruirsi. Informate dell’accaduto giunsero migliaia di persone dai quartieri operai della zona. Gli scontri con la polizia proseguirono fino a tarda notte. La giornata del 3 luglio passerà alla storia come la rivolta di corso Traiano.

 

L’Autunno Caldo e il contratto dei metalmeccanici

Nell’autunno del ‘69, quando ebbe inizio la lotta per il rinnovo contrattuale (che coinvolgeva non solo i metalmeccanici, ma un totale di 7 milioni di lavoratori), il sindacato era ormai costretto ad accogliere tutte le spinte che venivano dalla base operaia. Inizialmente la piattaforma contrattuale preparata dalle confederazioni sindacali nella proposta di aumenti salariali non contemplava un criterio egualitario che invece era fortemente richiesto dagli operai. Ma quando nella consultazione operaia del luglio del ‘69, preparatoria alla stesura della piattaforma, la linea egualitaria ebbe un sostegno plebiscitario da parte degli operai, il sindacato la introdusse nella proposta di contratto.

La piattaforma, approvata da 300 mila lavoratori, prevedeva tra le altre cose: aumenti salariali consistenti uguali per tutti, riduzione dell’orario a 40 ore settimanali e aumento dei giorni di ferie, parità normativa operai-impiegati, diritti sindacali in fabbrica (riconoscimento dei delegati con un monteore a disposizione, assemblea retribuita, diritto dei delegati di rivedere i provvedimenti disciplinari).

I CdF avevano ormai preso in mano la vertenza. Nelle Confederazioni sindacali si era aperto uno scontro tra un’area conservatrice, non disponibile a riconoscere i delegati, e un’area di “rinnovatori”, sensibili alle pressioni che provenivano dal basso e orientati a compiere una svolta che prevedesse un riconoscimento dei CdF, affidando loro il diritto di gestire le relazioni con i padroni a livello aziendale. Al congresso della CGIL del giugno ‘69 vinsero questi ultimi. I sindacati si riservavano però il diritto di gestire le trattative di carattere generale, opponendosi strenuamente ad ogni tentativo di coordinamento dei CdF a livello territoriale e nazionale. Però per non perdere il controllo della situazione i vertici si adeguavano, non solo permettendo alle lotte di svilupparsi, ma in certi casi contribuendo a far avanzare il livello rivendicativo delle situazioni più arretrate. Uno dei casi più eclatanti di svolta a 180 gradi della linea del sindacato fu quello della FIM-CISL, particolarmente a Milano e Torino con Tiboni alla testa, che scavalcò a sinistra la CGIL, accogliendo nelle sue file operai e delegati di Lotta Continua, Avanguardia Operaia e mettendosi in prima fila nella lotta per il contratto.

Dopo numerosi scioperi generali e la mobilitazione di milioni di lavoratori vennero firmati 81 contratti di lavoro (di cui 46 nell’industria e 30 nei servizi) dal carattere molto avanzato. La borghesia, e in particolar modo il governo, terrorizzati dall’idea di perdere tutto, fecero concessioni rilevanti. Quello dei metalmeccanici fu l’ultimo, venne firmato il 21 dicembre del ‘69 e prevedeva:

- un aumento salariale di 65 lire l’ora uguali per tutti gli operai (il salario mensile dei più era dell’ordine delle 100.000 lire, quindi un aumento del 10%)

 - nuovi diritti sindacali sul controllo del processo produttivo

- il riconoscimento definitivo del delegato di reparto e dell’assemblea dei delegati

- la riduzione d’orario a 40 ore settimanali

- limitazioni all’uso dello straordinario

- parità del trattamento infortunistico e di malattia tra operai e impiegati

- un giorno di ferie in più

- diritto di assemblea nelle fabbriche con più di 15 dipendenti (10 ore retribuite all’anno)

- 8 ore di permesso retribuite al mese per i delegati.

I movimentisti di Lotta Continua, Potere Operaio e altri gruppi lo definirono un contratto bidone, ma i lavoratori non la pensavano così. Non a caso quando venne presentato al voto nelle fabbriche ricevette un sostegno quasi unanime. L’errore delle forze movimentiste permise al sindacato di uscire dall’Autunno Caldo molto rafforzato. Dopo la firma dei contratti un decreto governativo amnistiò tutti i lavoratori che erano stati denunciati nel corso del ‘69 per reati politici (circa 15 mila), il 20 maggio del ‘70 sull’onda delle mobilitazioni operaie la Camera approverà lo Statuto dei Lavoratori e nel ‘72 i CdF diventarono gli organismi di base del sindacato unitario (le Commissione Interne vennero abolite). I tre sindacati metalmeccanici, sotto la spinta della base, si fusero in un unico sindacato, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM) e lo stesso avevano già fatto i chimici.

 

I padroni hanno paura e ricorrono alla “strategia del tensione”

Le violenze della polizia e l’ampiezza incontrollabile delle manifestazioni operaie avevano scosso governo e borghesia e costretto il sindacato e il PCI a tentare di cavalcare il dissenso operaio proponendo, tra l’altro, il disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico e la delega ai sindaci del compito di garantire l’ordine pubblico. Posizione questa che aveva creato forte inquietudine nel sistema di potere dei vertici della Repubblica Pontificia e nei suoi apparati di sicurezza, che diedero il via alle operazioni di quella che sarà poi chiamata “strategia della tensione”.

La borghesia aveva affinato il suo sistema di controrivoluzione preventiva per far fronte alla mobilitazione diffusa degli operai che “vogliono prendere tutto”. La strage del 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana, preceduta da azioni come la bomba inesplosa rinvenuta il 30 agosto 1968 al sesto piano dei magazzini Rinascente di Milano, diventò il simbolo della “strategia della tensione” che accompagnerà tutti gli anni ‘70. Le responsabilità dei fascisti e dell’apparato dello Stato furono quasi subito note e accertate (anche se nessuno dei responsabili ha ancora pagato). La borghesia e i suoi apparati però avevano immediatamente additato come responsabili gli anarchici e gli estremisti di sinistra in generale. Per seminare panico e terrore il 16 dicembre avevano gettato dalla finestra della Questura di Milano l’anarchico Giuseppe Pinelli e propagandato il fatto come suicidio, quindi come ammissione di responsabilità nella strage di piazza Fontana. In questo clima di “emergenza”, il governo, i padroni e i sindacati il 21 dicembre firmarono il contratto dei metalmeccanici. Da quel momento il livello dello scontro di classe si innalzerà in tutto il paese.

 

Conclusioni

Abbiamo detto che l’esperienza dell’Autunno Caldo è istruttiva sotto diversi aspetti per quelli che si pongono l’obiettivo di fare la rivoluzione socialista nel nostro paese. A conclusione ne evidenziamo alcuni.

1. La centralità della classe operaia: la lotta della classe operaia influenza e cambia tutta la società. Diversi settori delle masse popolari, anche delle classi intermedie tra proletariato e borghesia, sono state influenzate e trasformate da quegli eventi:

- gli insegnanti che sono chiamati in causa con le “150 ore”, una conquista che ha permesso a migliaia di operaie e  operai di completare la scuola dell’obbligo e di continuare una formazione politico-culturale iniziata in fabbrica,

- le università che vengono stravolte nella gestione del potere interno e chiamate a occuparsi dei problemi delle fabbriche e degli operai,

- i medici, coinvolti nelle vertenze sulla nocività e nella sostituzione dei medici aziendali: diversi di loro sacrificheranno le ambizioni di carriera e le prospettive economiche per diventare medici al servizio degli operai, dentro e fuori l’istituzione ospedaliera,

- i magistrati, in particolare del lavoro: diversi di loro diventeranno i “pretori d’assalto”, in prima fila nella denuncia di avvelenamenti, inquinamento, infortuni,

- gli avvocati che si mettono al servizio dei lavoratori sulla base dei diritti riconosciuti dallo Statuto dei Lavoratori: in quegli anni si formerà una nuova generazione di avvocati militanti che nelle aule dei tribunali assumeranno la difesa degli operai e dei detenuti politici,

- giornalisti, scrittori e attori (come Dario Fo e Franca Rame) che si metteranno al servizio della classe operaia e delle sue lotte.

L’onda lunga partita dalle fabbriche aveva investito tutta la società.

2. La lotta di classe non si sviluppa mai in modo graduale, ma per fasi: esplosione di lotte alternate a periodi di riflusso. Dopo ogni sconfitta la lotta riparte su basi nuove. Alla sconfitta della classe operaia del periodo 1945-48 e agli arretramenti degli anni ‘50, interrotti dall’esplosione della lotta proletaria dei primi anni ‘60 (rivolta di Genova contro Tambroni e l’ingresso dei fascisti del MSI nella maggioranza governativa, rivolta di piazza Statuto a Torino), seguì una fase di arretramenti per il prevalere della linea revisionista del PCI, che preparò la nuova esplosione della lotta di classe che raggiunse il punto più alto nell’Autunno Caldo.

3. Milioni di operai in quegli anni passarono per la prima volta dalla disorganizzazione e dal disinteresse, ad organizzarsi nella struttura più elementare e accessibile per loro: i sindacati e i partiti operai tradizionali. Migliaia di attivisti tra i più avanzati uscirono tra il ‘66 e il ‘68 dal PCI, dal PSIUP e dai sindacati convinti del carattere riformista, non rivoluzionario di queste organizzazioni e alla ricerca di una nuova via per fare la rivoluzione socialista. Milioni di lavoratori, di giovani e di donne, che prima di allora non si erano mai occupati di questioni politiche e sindacali, hanno iniziato a partecipare a scioperi e manifestazioni e a interessarsi di come andava il mondo.

4. I comunisti devono sempre e comunque legarsi alle masse e lavorare nei sindacati di massa della classe operaia per condurre la propria politica rivoluzionaria. Il Partito comunista deve usare le lotte rivendicative per far fare una scuola pratica di comunismo alle masse, deve condurre operazione tattiche e usare ogni appiglio per rafforzare la lotta che la classe operaia conduce e indirizzarla alla conquista del potere. Indipendentemente dall’organizzazione del lavoro, dal ruolo dei dirigenti sindacali, dalla precarizzazione delle loro condizioni, i lavoratori presto o tardi trovano il canale per esprimere la propria conflittualità e l’antagonismo tra la loro classe e la borghesia.

5. Nei momenti più alti della lotta di classe, ogni qualvolta si sviluppa un movimento di massa, si formano organismi di democrazia operaia per portare avanti le lotte. I Consigli (soviet in lingua russa) di Fabbrica hanno assunto un ruolo decisivo nell’Autunno Caldo. Il CdF nasce con l’obiettivo di rappresentare nella maniera più diretta tutti i lavoratori e le masse popolari e le loro istanze ed è l’unico organismo che nell’esperienza storica ha dimostrato di avere la capacità di rappresentare in modo immediato l’organizzazione dal basso necessaria per costruire il nuovo potere.

I CdF dei primi anni ‘70 (come i Soviet in Russia) sono stati organismi che hanno rappresentato il dualismo di potere esistente nella società. In assenza di un Partito comunista che organizza il settore più avanzato dei lavoratori e attraverso di essi orienta tutto il movimento delle masse verso la rivoluzione socialista e la conquista del potere, inevitabilmente prevarrà (in tempi più o meno lunghi) la demoralizzazione, il movimento rifluirà e gli organismi operai (come erano i CdF) si trasformeranno in organi attraverso cui si fanno strada le posizioni riformiste e di sudditanza alla classe  dominante.

6. I lavoratori nella lotta contro l’oppressione capitalista e per il socialismo devono dotarsi del Partito comunista adeguato per natura e forma ai compiti della fase. Questa è la questione principale e decisiva che emerge anche dall’esperienza del ricco movimento degli anni ‘70. Le avanguardie di quel movimento dovevano dedicare le loro migliori energie a questo obiettivo: non averlo fatto li ho portati a isolarsi dalle masse e alla disfatta.

 

La lezione che abbiamo tirato dal bilancio della prima ondata della rivoluzione proletaria e anche dell’esito dell’Autunno Caldo di 50 anni fa è che senza un loro centro dirigente, la classe operaia e le masse popolari non sono una forza politica. Il centro dirigente è il Partito comunista adeguato a condurre la classe operaia a conquistare il potere e a instaurare il socialismo. Per questo chiamiamo gli operai avanzati a diventare comunisti: questa è la via per occuparsi al meglio dei problemi dell’azienda in cui sono inseriti, per uscire dall’azienda (occuparsi delle sorti del paese) e fare della classe operaia la nuova classe dirigente del paese! Per questo quelli che aspirano a diventare comunisti devono costituire ovunque, in ogni azienda capitalista, in ogni azienda pubblica, in ogni zona d’abitazione Comitati di Partito (CdP) clandestini.

I Comitati di Partito devono fare di ogni lotta rivendicativa e di ogni protesta una scuola di comunismo, devono approfittarne per far sorgere organizzazioni operaie in ogni azienda capitalista e organizzazioni popolari in ogni azienda pubblica e in ogni zona d’abitazione, per orientarle a coordinarsi tra loro fino a costituire il Governo di Blocco Popolare, farlo ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia e marciare verso l’instaurazione del socialismo.

Armando R.