La Voce 67 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXIII - marzo 2021

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Consolidamento e rafforzamento del (nuovo)PCI

Un errore di dialettica

“La dialettica materialista è in se stessa una scienza (una scienza filosofica): è il punto di partenza di tutte le scienze ed è anche un metodo. Anche la nostra pratica rivoluzionaria è una scienza, una scienza sociale o politica. Se non comprendiamo la dialettica, condurremo malamente i nostri affari; gli errori commessi nel corso della rivoluzione, sono errori di dialettica. Se comprenderemo la dialettica, ne ricaveremo grandi benefici: se indagheremo accuratamente sui movimenti condotti felicemente in porto, constateremo che essi hanno seguito le leggi della dialettica. Quindi tutti i compagni rivoluzionari, e in particolare i dirigenti, devono studiare la dialettica”.

Mao Tse-tung Materialismo dialettico (estate 1937), in Opere di Mao Tse-tung vol. 5 pag. 158

 

Nel lavoro di costruzione della rivoluzione riscontriamo spesso mancanza di risultati anche quando operiamo senza risparmio né interruzione nel corso di anni o magari di decenni. Quando non diamo la responsabilità dell’insuccesso alla forza del nemico o alle masse popolari che non ci ascolterebbero, diamo la responsabilità a noi stessi. Questo sembra meglio, sembra capacità di autocritica ma non lo è e non serve se, come accade, imputiamo l’insuccesso a un difetto di personalità nostro, a una nostra debolezza strutturale che ci porteremmo avanti da sempre e finché siamo in vita, per cui non ci sarebbe niente da fare e della povertà di risultato della nostra azione bisognerebbe accontentarsi facendo tesoro delle nostre buone intenzioni che, se non hanno effetto nel mondo, almeno in noi persistono. In realtà gli insuccessi derivano da errori che noi facciamo nel corso della rivoluzione e che sono errori di dialettica, errori sul piano morale e intellettuale.

Sul piano morale il riconoscersi incapace e inferiore ad altri compagni (che invece capaci sarebbero) pare prova d’umiltà. A ben guardare, cioè a guardare la realtà secondo il materialismo dialettico, si rovescia nel suo opposto e cioè in superbia, che si manifesta anche con il fastidio a fronte di chi ci critica come se non si rendesse conto di questa nostra caratteristica negativa e presunta insuperabile e quasi nostra “proprietà privata”, cosa da rivendicare, magari, come condizione di arretratezza dovuta ad amare esperienze di vita e di sofferenza che noi esponiamo derivate dallo sfruttamento e dalla resistenza contro di esso, come fossero ferite di cui gloriarsi, come faceva Wilhelm Weitling, dirigente della Lega dei Giusti nel film Il giovane Marx (Raoul Peck, 2017).

Se sul piano morale uno giustifica il suo insuccesso dicendo “questo io non lo posso fare”, sul piano intellettuale lo giustifica dicendo “questo non si può fare”. L’errore di dialettica qui consiste nel fissarsi sulla contraddizione tra oggetto e soggetto, cioè tra realtà oggettiva e coscienza soggettiva, tra sé e il mondo, e nel non comprendere che anche l’oggetto e anche il soggetto sono contraddittori.

 Dato che la crisi si acuisce e sgretola gli universi di pensieri e sentimenti che sono stati di riferimento negli ultimi 75 anni, dalla fine della guerra a oggi, e in definitiva sgretola le concezioni che sono state prodotte nel corso dello sviluppo della specie umana nel corso dei millenni, crescono le domande sul “senso della vita” e fioriscono studi sulla filosofia, da cui ci si aspettano risposte al riguardo, anche a sinistra e tra coloro che si stanno dando da fare per ricostruire o rafforzare il movimento comunista. L’attenzione di parecchi punta su due particolari passaggi della storia della filosofia, quello del passaggio dalle elaborazioni di Immanuel Kant (Königsberg, 1724 – 1824) a quelle di Georg W.F. Hegel (Stuttgart, 1770 – Berlino, 1831) e quello del passaggio dalla filosofia di Hegel al materialismo dialettico, quello che inizia con Marx ed Engels e che poi sarà sviluppato da Lenin e da Mao Tse-tung. Quanto al primo passaggio, è Kant che nella storia della filosofia si ferma a considerare come contraddizione solo quella tra coscienza soggettiva e realtà oggettiva, e qui si ferma l’ideologia borghese. Da qui in poi tutti coloro che si appoggeranno a Kant o predicheranno un “ritorno a Kant” saranno dalla parte della reazione. Sarà reazionario Eduard Bernstein (Berlino, 1850 – 1932) dirigente socialdemocratico tedesco e capofila dei primi revisionisti. Tali saranno i neokantiani che saranno bersaglio delle durissime critiche di Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo, scritto nel 1908 mentre era in esilio tra Ginevra e Londra. Kant stesso sarà bersaglio della critica di Lenin che tra il 1914 e il 1916 è sempre in esilio a Berna, dove passa le giornate alla biblioteca, e studia, tra le altre cose, la Scienza della logica di Hegel. Sottolinea il passo dove Hegel indica l’incomprensione della contraddittorietà della realtà oggettiva da parte di Kant come “la solita tenerezza per le cose, che bada solo a che esse non si contraddicano.”(1) Lenin scrive al riguardo: “Deliziosa ironia! La “tenerezza” per la natura e la storia è (nei filistei) l’aspirazione a depurarle delle contraddizioni e della lotta...”.(2)

 

1. Hegel, Scienza della logica, Ed. Laterza, Bari, 1988, vol. II, pag. 472.

 

2. Lenin, Quaderni filosofici, Ed. Riuniti, Roma, 1971, pag. 126.

  

La “tenerezza” seppellisce la contraddizione nella coscienza soggettiva che immagina di doversi fare carico da sola di tutti i mali del mondo e per sempre. L’intellettualità borghese di sinistra che questa concezione propaganda a piene mani come se fosse la missione della sua vita, si vanta di reggere nella propria coscienza questa “croce” morale della contraddizione, cioè di “volere cambiare il mondo e sapere che non si può”. Sul piano intellettuale la forma principale del suo carattere appunto borghese sta nel negare la contraddizione oggettiva tra carattere collettivo e proprietà privata delle forze produttive, cioè la contraddizione che consiste nel fatto che la ricchezza ormai è prodotta da molti ma rimane proprietà di uno, contraddizione che è radice prima della crisi che stiamo sperimentando, che matura ormai da un secolo e mezzo e ora esige assolutamente soluzione.

Se gli intellettuali borghesi possono permettersi questa “croce” e anzi sono pagati per farlo perché diffondono disfattismo e desolazione tra le masse popolari, altrettanto non possono fare le masse popolari stesse, che non possono né devono vivere senza una prospettiva di progresso e meno che mai possono farlo i comunisti, che di questo progresso sono la punta. Un proletario che crede alle sirene degli intellettuali borghesi muore o perde la salute mentale, e un comunista non conclude nulla di buono. È sciatto nella forma e sbagliato nel contenuto, perché non vede il vasto mondo che ha di fronte (la classe operaia nel territorio dove interviene, in primis) come una “foresta lussureggiante” (La concezione comunista del mondo e il Governo di Blocco Popolare, in VO 51, novembre 2015).

Con il giudizio che vede la contraddizione solo tra “noi” e “gli altri” e non le contraddizioni in noi e le contraddizioni negli altri non si fa un passo avanti in politica. È fonte di tutta una serie di pensieri e sentimenti sbagliati e diffusi ben oltre l’ambito politico. Infatti chi pensa in questo modo non può che considerare giusto o sbagliato se stesso oppure l’altro, visto che né in se stesso né nell’altro vede contraddizioni. La fonte di rabbia e depressione, due sentimenti assai diffusi in questi tempi di crisi acuta, chiaramente sta in questo modo di pensare. Rabbia è l’idea che noi siamo giusti e gli altri sono sbagliati, con gli altri che si dividono in due categorie: le masse popolari che non ci capiscono perché sarebbero, a nostro giudizio, stupide (o “per natura” egoiste, ignoranti, reazionarie, ecc.) e il nemico di classe (i padroni, i politici loro servi, i sindacalisti traditori, gli intellettuali venduti, i preti, ecc.) che è “cattivo”, cioè intelligente a differenza delle masse popolari che egli incanta e quindi consapevolmente dedito a fare del male all’umanità. Depressione è il sentimento che fa il paio con la rabbia e che consiste nell’idea che così stanno le cose e non c’è niente da fare, e corrisponde perfettamente alla logica secondo cui ogni cosa è quella che è e tale resta, proprio perché non ha contraddizioni, non ha cioè, insieme agli aspetti negativi, aspetti positivi sui quali possiamo intervenire per mutare il suo stato. Questo modo di pensare corrisponde bene alla concezione clericale del mondo, secondo la quale ciò che può mutare la nostra condizione in questa “valle di lacrime” è solo la morte con il passaggio a un altro mondo. Questo modo di pensare corrisponde bene alla concezione borghese del mondo, secondo la quale se qualcosa ha da cambiare è solo il profitto del singolo capitalista, che ha da crescere, il che richiede che la società resti quella che è perché solo così questo è possibile, e secondo la quale è assolutamente negata la possibilità che la società si trasformi in senso rivoluzionario, perché questo negherebbe ogni possibilità di profitto ai capitalisti. Questo modo di pensare corrisponde bene alla concezione della sinistra borghese, dove tutti si sentono migliori degli altri perché sarebbero “di sinistra”, o magari rivoluzionari, o magari comunisti, comunque più intelligenti o più coraggiosi e in ogni caso buoni, e reputano gli altri stupidi o vili o cattivi. Questo modo di pensare nelle nostre file non deve avere spazio.

 Noi vediamo questo modo di pensare nelle nostre file in più casi. Ad esempio, lo vediamo nel modo in cui uno scrive un documento. Vediamo nel documento elencate le malefatte del nemico di classe accompagnate da una serie di considerazioni inconcludenti sui soggetti con cui siamo in relazione diretta sul piano personale e politico, inconcludenti o perché pianificano per loro cose che costoro non possono fare, almeno nell’immediato e non senza una serie di passaggi (così come non possiamo pretendere di fare il tetto a una casa se non abbiamo fatto fondamenta, mura e piani), oppure perché semplicemente concludono che quei soggetti tali sono e tali restano e quindi è inutile averci a che fare. Ragionassimo al modo in cui ragiona chi scrive così, dovremmo concludere che lui stesso è irrecuperabile. Invece, nel suo caso, dobbiamo pensare diversamente da quello che lui fa e comprendere e fargli comprendere che questo suo modo di pensare gli viene dal fatto che lui stesso, che si reputa rivoluzionario, pensa in modo reazionario e perciò è un modo di pensare che va tolto. Mostriamogli alcuni dettagli.

Poniamo che questo compagno debba fare un documento dove riporta una serie di informazioni per altri compagni su un determinato ambito, su una fabbrica, su un settore lavorativo, su un territorio (una città, una regione, ecc.). Questo compagno, oltre ai commenti sopra detti sul nemico odioso e sulle masse ottuse, scriverà il documento in modo sciatto e superficiale, come chi sa che non importa essere precisi e spiegare ogni cosa. Per lui il mondo, abbiamo visto, si divide in due campi tra loro incomunicabili e nel campo suo immagina che gli altri compagni pensino come lui e sappiano ciò che lui sa, per cui in sé ha l’idea che in fondo i resoconti servono a poco. Così, ad esempio, se deve parlare di un soggetto che si chiama Salvatore Esposito lo chiama una volta Salvatore, una volta Esposito, una volta SE e una volta magari Sasà, se con tale soprannome il tipo è noto nel giro. Questa varietà di termini anziché arricchire il testo e renderlo simile alla lingua parlata confonde moltissimo le idee a chi non è del giro, e quindi ai principali interlocutori del documento, perché chi è del giro già sa quello di cui si sta parlando e non ha bisogno di informazioni ulteriori. Lo stesso autore infatti non mette molta passione nello scrivere, perché presume come lettori soggetti ai quali quello che scrive è già noto e quindi svolge il suo lavoro senza passione, solo perché è un lavoro previsto dal partito e che il partito gli ha dato incarico di fare. Condisce il documento con espressioni tolte dal linguaggio parlato e non si cura della lingua italiana, delle sue regole, della punteggiatura. Magari pensa, così facendo, di “ravvivare” il documento. Non è animato dalla passione di informare chi legge, di fargli capire bene quello di cui lui sta parlando perché sa che il lettore, comprendendo bene la cosa saprà combattere meglio la battaglia nella guerra che conduciamo contro il nemico di classe. Non è animato dalla passione di capire lui stesso cosa sta dicendo, di imparare, e quindi quando si trova per le mani una sigla che indica un’organizzazione o un istituto di cui sta parlando, non va a vedere cosa la sigla significa e poi chi dirige quella organizzazione, quale è la sua storia, ecc. Dà per scontato che tutti sappiano cosa quella sigla significa. Abbiamo anche compagni che riportano in un loro scritto una sigla da un documento scritto da un dirigente senza nemmeno sapere che cos’è e dandola per buona e risaputa (da tutti anche se non da lui) perché l’ha scritta un dirigente. L’errore di dialettica è quello sopra detto. Il documento è scritto per noi, per lo strettissimo giro di chi è addetto ai lavori in corso. Non è pensato per gli altri, nemmeno per dirigenti di livello superiore che non sperimentano direttamente quella esperienza particolare e quindi non necessariamente sanno che un SE è un Salvatore Esposito, o chi è Salvatore, chi è Esposito, e se per caso i due sono la stessa persona.

Sempre lo stesso errore di dialettica è quello per cui un compagno considera ogni critica un attacco. Infatti chi pensa a sé e a ciò che è altro da sé come due enti compatti e in sostanza incomunicabili e impermeabili, in sé non vede contraddizione tra negativo e positivo, e quindi se qualcuno trova in lui qualcosa di negativo o pensa di essere totalmente negativo o che l’altro si sbaglia totalmente, oppure un momento pensa una cosa e quello dopo l’altra. Se questo tipo di relazione si ripete, la relazione alla fine si esaurisce o si rompe.

 L’errore va tolto per iniziare la trasformazione del compagno e insieme la sua capacità di trasformare la realtà, e prima di tutto la realtà sua prossima, la cerchia di compagni e simpatizzanti, le sue stesse sue relazioni personali e familiari. Questo errore infatti porta anche alla distruzione delle relazioni familiari: è tipica la relazione di coppia in cui due si scannano accusandosi a vicenda di questo e quel difetto o sbaglio nel corso della vita in comune, ognuno chiuso in sé e affannato fino all’isteria o alla violenza nel dichiarare la propria ragione assoluta e l’altrui torto assoluto, come se il loro problema fosse solo loro e non fosse legato a tutto ciò che li circonda e determinato da quello, come è chiaro oggi in questa situazione di crisi generale in cui le relazioni sentimentali e familiari si spezzano o nemmeno si costituiscono e in cui la natalità è precipitata a livelli inferiori a quelli dei tempi di guerra. Sul piano dell’azione politica liberarsi da questo errore significa comprendere che possiamo trasformare gli altri e noi stessi e che soprattutto abbiamo bisogno di dirigenti capaci di trasformare gli altri e se stessi (contemporaneamente) e in ciò mettere intelligenza e amore, senza i quali non si “rischiara la via” né si “accende la fiamma”, non c’è conquista della mente e del cuore delle masse popolari.

La conquista del cuore e della mente delle masse popolari è elemento essenziale della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. La guerra di classe che ci oppone al nemico è lotta armata solo in parte e in certe fasi. Dobbiamo avere ben presenti che, soprattutto nei paesi imperialisti, ciò che abbiamo da conquistare è terreno di pensieri e sentimenti e che curando questi, coltivando la certezza di vincere e la fiducia nel futuro, formeremo soldati capaci di affrontare ogni battaglia e in generale qualsiasi atrocità che il nemico adotta nella guerra civile. Questo dobbiamo fare prima di tutto in noi stessi. Abbiamo avuto una vita difficile e aspra? Abbiamo formato una personalità cinica e cupa? Abbiamo coltivato sentimenti di astio e rancore lungo decenni? Ebbene? Un prete o uno psicanalista direbbero che “siamo fatti così” e quindi dobbiamo imparare a sopportarci e farci sopportare come siamo, cercando di non fare troppo danno a noi e a chi ci sta appresso. Noi invece dobbiamo costruire l’uomo nuovo e l’uomo nuovo siamo noi. Cominciamo quindi a erodere tutto quanto accumulato per l’oppressione di classe nella nostra vita e nella storia della nostra classe, passo dopo passo, con disciplina, pazienza e fiducia e con il partito e trasmettiamo alle masse popolari la nostra scienza e i nostri migliori sentimenti, ché questo è ciò che ci chiedono e che qualifica noi come comunisti.

Maria P.